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Scena prima |
Fiumara nelle campagne di Troia. Enone esprime i tormenti, e la gelosia che prova per la lontananza del suo carissimo Paride; e si consola colla speranza. Enone. |
Q
Enone
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Chi fia che mi console,
lungi dall'idol mio,
lungi dal mio bel sole,
dal mio ben, dal mio cor, dalla mia vita?
Ahi crudel dipartita!
Enone sconsolata,
tradita abbandonata,
e pur è ver che spiri,
fra sì gravi martiri?
Mori mori infelice,
esci omai di tormento; o se non puoi
morir fra tante pene,
accusa il tuo destino,
quel perverso destin che ti sostiene,
lungi da que' bei lumi,
lungi da quel bel volto,
lungi da quel bel seno;
poiché senza il sereno,
di quel sen, di quel volto, e di que' lumi,
forz'è ch'infra i cordogli,
mortalmente vivendo il cor consumi.
Piango, sospiro, e gemo;
m'adiro, ardisco, e temo,
e mentre il nome invoco,
dell'idolo ch'adoro,
fatta gelosa amante,
di gelosia mi moro.
Temo ch'ad ora, ad ora,
ponga (ahi lassa!) in oblio,
la mia fé, l'amor mio.
Pavento anco a tutt'ore,
ch'a più gradita, e desiata amante,
doni quella mercede,
che per legge d'amore,
si deve alla mia fede.
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1
Chi non sa che cosa sia,
d'un amante il rio dolore,
provi al core
lontananza, e gelosia.
2
L'una invan si sprezza, o fugge,
che confonde ogni sereno,
l'altra in seno
l'alma sempre, e 'l cor distrugge.
3
L'una è un mal ch'ogni altro avanza;
l'altra è un duol ch'ogn'altro eccede;
ma la fede
può dar vita, e la speranza.
| S
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Così la fede ch'entro il mio petto alberga,
cinta ogn'ora d'intorno,
di speranze immortali,
addolcisce pietosa,
quell'immenso tormento,
ch'in mezzo al core io sento,
acciò languida al fin non possa l'alma,
fuggir dal seno, e abbandonar la salma.
E qualor col pensiero,
l'animato mio sol vagheggio, e miro,
miro ancor ne' begl'occhi,
in quegl'occhi amorosi,
veri alberghi di luce,
quella pietà ch'a impallidir m'induce.
Onde sorge sovente,
dal centro del mio core, ov'ha ricetto,
aura dolce di speme,
ch'uscita poi dal petto,
in compagnia de' miei sospiri ardenti,
sussurra ogn'or questi amorosi accenti.
Taci timida amante, e 'l rio dolore
disgombra omai dal seno;
e al tuo geloso, e moribondo core,
con vivace sereno,
porgi dolce conforto,
pria che resti languendo,
nel vasto mar de' suoi martiri assorto:
ch'il tuo leggiadro, e sospirato amante,
serba in un con la fé, l'ardor costante.
Così nel mio tormento,
spero (ahi lassa!) e pavento;
e l'afflitto mio core,
or dal dolore or dal conforto oppresso,
vive, more, e rinasce, a un tempo istesso.
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1 a
O felici le pene, ch'io sento,
s'il mio bene costante sarà,
e s'ognor del mio grave tormento,
avrà dolce, e verace pietà.
2 a
Fortunata sarà la mia sorte,
e soave lo stral ch'impiagò;
s'il mio sol pria di giunger a morte,
rimirar solo un giorno potrò.
1 b
Quella fede,
che mi diede,
l'idol mio sì mi consola;
che s'al core,
ho dolore,
la speranza ognor l'invola.
2 b
Sì m'alletta,
e diletta,
lo sperar con dolce usanza;
che s'io pero,
non dispero,
poiché verde è la speranza.
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Scena seconda |
Oronte messaggero di Paride, camminando inverso Troia, per dare, annunzio a Priamo della rapina d'Elena, e dell'arrivo d'ambedue, s'incontra in Enone, da cui gli viene insegnata la strada. Enone, discorrendo con Oronte, intende il ritorno di Paride, e si rallegra: ma soggiungendo Oronte, che arriverà con Elena, cangia in uno stante l'allegrezza in cordoglio. Oronte seguita con ogni prestezza il suo viaggio; ed ella ansiosa d'intender più distintamente il successo, gli va dietro per raggiungerlo. Oronte, Enone. |
<- Oronte
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ORONTE |
Ninfa cortese, e bella,
il ciel sempre ti sia,
ne' tuoi giusti desir custode, e duce;
con leggiadra favella,
additami la via,
ch'alla città conduce.
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ENONE |
Movi pur senza tema i passi tuoi;
altra via non si trova, errar non puoi.
Ma chi sei tu ch'affretti,
o gentil peregrino,
sì anelante il cammino?
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ORONTE |
Di Paride son io fido messaggio.
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ENONE |
Dov'è Paride? o dio! forse è in viaggio?
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ORONTE |
Di Grecia egli ritorna,
nelle guerre d'amor già trionfante,
e giungerà in brev'ora,
a far dolce dimora,
con la sua bella, e sospirata amante.
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ENONE |
O me felice! Amore,
sana omai le mie pene,
già che torna il mio bene,
a consolarmi il core.
E di me che ti disse?
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ORONTE |
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ENONE |
Ohimè che fia,
Enone sventurata?
Che parli tu d'amante, o pur d'amata?
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ORONTE |
Tu non m'intendi ancora? Egli m'invia,
a dar felice annunzio,
della dolce rapina.
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ENONE |
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ORONTE |
Rapì dal lido greco,
di Menelao la sposa,
quella donna in beltà così famosa.
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ENONE |
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ORONTE |
Ma qui tempo non ho da far soggiorno.
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ENONE |
O maledetto giorno!
Fermati ancora.
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ORONTE |
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ENONE |
Sfortunato ardor mio!
Ma in qual fiero martir mi lasci involta?
Sospendi il passo, o messaggero, ascolta.
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Scena terza |
Strada remota della città, con arbori, e rovine. Ergauro servo di Medoro, mentre porta il vino al padrone, venutogli sete, tenta d'aprir la cassetta, in cui sono rinchiuse l'ampolle; e non potendola aprire si sdegna. Apertala finalmente, assaggia il vino, e trovatolo esser dolce, ne beve a poco a poco tanto, che alla fine s'inebria. Ergauro. |
Q
Ergauro
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Il mio signor, che tanto
è nel parlar cortese;
ma nel farmi le spese,
mercé del mio destino,
va sì pesato, e parco,
di portargli un buon vino,
mi diede l'usato incarco.
Come, oh come è pesante,
questa nobil cassetta!
E quante ampolle, e quante,
dentro il gravido sen rinchiude, e serra?
Oh che grave fatica! omai la sete,
mi comincia a far guerra.
S'alfin l'aprissi, e che sarebbe? Ardire,
che potrammi avvenire?
No no però, no no,
aprire io non la vo',
che se 'l padron s'avvede,
mi darà col bastone aspra mercede.
Egli è però sì avaro,
ed ha sì gran cervello,
che per farmi un licor lucido, e chiaro,
ad or, ad or la mia bevanda adacqua,
e a guisa d'asinello,
vuol che s'io porto il vin beva poi l'acqua.
Insomma aprir la voglio. Ecco la chiave.
Oh che spirto soave,
mi punge il naso! e che? c'è forse il mastro,
in questa chiave, e rugginosa, e antica,
che con tanta fatica,
ancor non posso investigar l'incastro?
T'aprirò se credessi,
gittarti in mille pezzi,
né mi curo un quattrin se ben ti spezzi.
Ohimè s'è storta! iniquo ciel che fai?
ti voglio aprir co' denti,
che sì che t'aprirai?
Ti volgerò sossopra
ma sarà inutil opra,
poiché il licor si spanderà per tutto.
Non sia però mai vero,
ch'io ti debba portare a labbro asciutto.
Voglio provar pian piano;
mi riesce il pensiero.
Vo' veder se la chiave,
insino al fondo arriva.
Già già si volge; eccola aperta, evviva!
Quattro, e quattr'otto. Oh che color vivace!
Padron sia con tua pace,
io vo' succhiarne alquanto.
Ma non vo' trarne tanto
che mi debba scoprir; sol col cinabro,
della mia bocca asciutta,
andrò lambendo dell'ampolla il labbro.
Oh come è dolce! io ti berrei pur tutta!
ancora un sorso! ancora! o come scende,
senza fatica alcuna!
Così lieta fortuna
ancor non ebbi mai.
Padrone, e che dirai?
Dirai che t'ho tradito?
Di' pur ciò che tu vuoi,
non curo i gridi tuoi.
Mi farai col bastone,
sudar forse il dativo?
M'hai battuto altre volte, e pur son vivo.
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1
Soavissimo licore,
che mi dai sì gran diletto,
deh riscalda anco il mio petto,
col tuo dolce, e grato ardore.
La tua forza è sì gradita,
ch'ai piaceri ogn'alma invita.
2
Oh che gioie, oh che conforti,
porgi al core, e all'alma amante!
Il cervel sia pure errante,
pur ch'il sen t'accolga, e porti.
Col vigor che in te si serra,
si pon fine ad ogni guerra.
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Ma quai prodigi io miro?
A mezzo delle stelle?
Ohimè quest'è un sospiro.
Mira come son belle!
Ah, ah, ah, ah son tanti,
innamorati amanti.
Ma già pien di furore,
vorrei cozzar col cielo. Iniquo Amore,
ancor mi sei tiranno?
Non sento l'affanno, non temo l'inganno,
Amore da poco, tuo foco è per te.
Io son quel mostro, il quale
tutto 'l dì corre a volo,
dall'uno all'altro polo.
Ohimè dolente, ohimè;
mi par di venir meno;
sì sì mi sento male;
no no mi passa or ora,
vo' che m'accolga in seno,
la mia bella Lisetta.
Aspetta pur cruda tiranna, aspetta.
La bella rubella, che snella se n' va,
diletto perfetto, nel petto mi dà.
S'io miro, sospiro, deliro così,
ch'al dardo d'un guardo, tutt'ardo sì sì.
Ma in pene la spene mantiene mia fé;
ch'amante prestante costante sempr'è.
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Scena quarta |
Libreria. Medoro precettore de' paggi, ammaestra Irseno, ed Ermillo. Eglino, invece d'apprender la lezione, contemplano le figure favolose d'Esopo. Accorgendosene Medoro, gli riprende: ma rispondendo eglino, che per esser nobili, non gli sia necessario lo studiare, deridendolo si partono. Medoro, Irseno, Ermillo. |
Q
Medoro, Irseno, Ermillo
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MEDORO |
V'ho insino ad or mostrato,
con verace favella,
ch'ogni entità s'appella,
misura, o misurato.
Omai sarà mia cura,
il dichiararvi ciò che sia misura.
Ella è certa entità,
che chiaramente addita,
l'altrui perfezione, o quantità.
Norma, e regola ancora,
suol chiamarsi talora.
Regola della vita,
norma delle scienze,
come s'appelli vi dirò: ma pria,
vo' dimostrar che triplice ancor fia.
Così voglion le leggi.
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ERMILLO |
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MEDORO |
De' più dotti maestri.
E tu che leggi?
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ERMILLO |
Leggiamo uniti insieme,
le favole d'Esopo.
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MEDORO |
E che sì ch'il cervello or or vi scopo,
infingardi che siete.
Così dunque apprendete,
e l'arti, e le scienze,
che con tante sentenze,
ad or ad or vi scopro?
Ah ch'invano per voi la mente adopro.
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IRSENO |
Io ti rinunzio ogni scienza, ogn'arte;
prendi pur la mia parte.
Studiare, a che mi giova,
se nobile son io?
Tu ch'ignobile sei,
studiar déi, studia pur, maestro a dio.
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| Irseno, Ermillo ->
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Scena quinta |
Medoro, dolendosi d'esser schernito, discorre sopra la virtù, e sopra la nobiltà. Medoro. |
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Studiare a che mi giova
se nobile son io!
Oh generosa prova! o cieli! o dio!
Dunque fra noi dovrà,
chi sol di nobiltà,
fatto è dal cielo erede,
sprezzar colui, che la virtù possede?
Troppo, ahi troppo s'inganna!
Ché nobiltà verace,
è sol d'un'alma una virtù vivace.
E l'intelletto appanna,
chi a creder ciò s'avvezza;
nobil non è chi la virtù disprezza.
Ché magnanimo core,
con generoso ardore,
magnanimi pensieri ancor nutrisce;
e all'altezza del sangue
la nobiltà della virtute unisce.
Onde chi vive, e spira,
e a nobiltate aspira,
coprasi pur della virtù col manto;
ché chi se n' va d'ogni virtude ignudo,
ignudo ancor di nobiltate ha il vanto.
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1
Fra mortali assai più degna,
è virtù che nobiltà;
se ben l'una impera, e regna,
e sta l'altra in povertà,
glorïosa virtude, oh quanto vale!
Che non ha pregio al suo gran merto uguale.
2
Sempre vive, e mai non pere,
questa nobil deità;
gl'anni ancide, e 'l tempo fere,
cinta ognor d'eternità.
Contra l'oblio fa riportar vittoria,
che se povera è d'or, ricca è di gloria.
3
Nobiltà vien da natura,
ma virtute è don del ciel;
l'una resta ignuda, e oscura,
l'altra veste immortal vel.
Ceda a virtù la nobiltà la palma;
l'una regna nel cor l'altra nell'alma.
4
L'alma sol dal ciel deriva,
e natura il sangue dà;
la virtù con l'alma è viva,
e col sangue nobiltà.
Ceda, se l'una vive, e l'altro langue,
natura al cielo, e ceda l'alma al sangue.
5
Nobiltà gradita, e bella,
con virtù solo esser può;
ma virtù qual chiara stella,
nobiltà non cura no.
L'una sorge fra l'or, cade in brev'ore;
l'altra povera nasce, e mai non more.
6
Or se langue, ed è sì frale,
nobiltà nobil non è;
ma virtù poich'è immortale,
esser nobile sol dé.
O sia d'oscuro, o chiaro sangue erede,
nobile è sol chi la virtù possede.
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Scena sesta |
Portico con giardino in lontananza. Enone, non avendo potuto raggiungere il messaggero, perviene anch'ella alla corte, per ritrovarlo. Enone. |
Q
Enone
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Dove misera dove,
Enone abbandonata,
volgi fra questi alberghi il passo errante?
Ferma ferma le piante,
che quivi forse potrai,
dal fido messaggero,
d'ogni successo investigare il vero.
Come possibil sia,
ch'il tuo Paride amato,
il tuo nume adorato,
il tuo core, il tuo bene, il tuo diletto,
dia già nel seno ad altri amor ricetto?
Creder ciò non poss'io,
e pur mi disse il messaggero, (o dio!)
che con voglia amorosa,
corse a rapir di Menelao la sposa.
Ma se fia che tradita,
il tuo crudele amante,
abbia omai quella fede,
che tante volte ei t'ha promesso, e tante;
ritorna pur ritorna,
con sì acerba mercede,
a lacrimar dentro una selva oscura,
del tuo misero ardor l'empia sventura.
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Scena settima |
Irseno, ed Ermillo vedono Enone, ed invaghitisi della sua bellezza, procurano di rapirla: ma venuti a contesa sopra l'elezione del luogo, in cui debbano condurla, Enone gli esce dalle mani. Venuti finalmente all'armi, Ermillo resta ferito, e sentendosi vicino al morire, si duole della sua sventura, non sapendo da chi ricever conforto. Irseno, Ermillo, Enone. |
<- Irseno, Ermillo
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ERMILLO |
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IRSENO |
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ERMILLO, IRSENO |
Amore,
e chi sarà costei?
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IRSENO |
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ERMILLO |
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IRSENO, ERMILLO |
O dèi!
Sento infiammarmi il core.
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ENONE |
Da' miei rustici alberghi,
in questi regi chiostri,
fatto ho indarno il viaggio,
s'io non trovo il messaggio.
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IRSENO |
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ERMILLO |
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IRSENO |
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ERMILLO |
Ma che sarà di noi,
se 'l re s'accorge?
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ENONE |
E dove,
volgerò più per ritrovarlo il piede?
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ERMILLO |
Pensiam, pensiamo alfine;
poiché se n' corre a ritrovar gl'affanni,
chi dagli inganni i suoi contenti spera.
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IRSENO |
Chi con audacia altera,
disprezza le ruine,
degno è di lode ognora.
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ERMILLO |
Oh che bellezza estrema!
Amoroso desio vince ogni tema:
farò senza dimora,
anch'io ciò che tu vuoi.
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ENONE |
Che volete da me? chi siete voi?
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IRSENO |
Bellissima donzella,
il tuo leggiadro, e luminoso sguardo,
solo è cagion, ch'io mi distruggo, ed ardo;
poiché nel ciel del tuo bel volto assiso,
arcier di paradiso,
fra sì rare bellezze,
sta sempre intento a fulminar dolcezze.
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ENONE |
Troppo affanno a lodarmi inver ti prendi;
attendi pure a' tuoi pensieri attendi,
né ti curar di me;
bella o brutta ch'io sia, non son per te.
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IRSENO |
Tu mi scacci, io t'adoro: idolo amato,
mi fan gli sdegni tuoi lieto, e beato.
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ENONE |
Nascono i pensieri miei,
da un cor puro, e modesto.
Lascia, lasciami, oh là; ch'ardire è questo?
Insolente che sei?
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IRSENO |
Risponderti sdegnoso a me non tocca,
lo stral che m'apre il cor, chiude la bocca.
Vieni vieni ben mio.
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ENONE |
Che forza è questa? Ohimè.
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ERMILLO |
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IRSENO |
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ERMILLO |
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IRSENO |
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ERMILLO |
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IRSENO |
Prender cura di ciò tu non ti déi.
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ERMILLO |
E perché no? vo' che ne venga or ora,
non dove a te: ma dove a me sol piace.
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ENONE |
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IRSENO |
Ancora,
hai tanto ardir codardo?
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ERMILLO |
Un codardo sei tu, villano indegno.
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IRSENO |
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ERMILLO |
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ENONE |
Ma non sarà già tardo,
il mio piede a fuggire.
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IRSENO |
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ERMILLO |
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IRSENO |
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ERMILLO |
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IRSENO |
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ERMILLO |
Pungi pur ch'io t'aspetto.
Non posso più son morto:
tu m'hai ferito, o traditore a torto.
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1 a
Già trafitto ho il mesto seno,
chi soccorso, o ciel mi dà?
Già languisco, e vengo meno,
già il mio cuore a morir va.
2 a
Questa misera mia vita,
sostenersi ohimè non può.
S'io non ho concorso, e aita,
infelice, e che farò?
| S
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| Enone, Irseno ->
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Scena ottava |
Ergauro, avendo col dormire discacciata l'ebbrezza, con un'ampolla di vino in mano, esprime il suo contento. Ascolta i lamenti d'Ermillo, e mosso da compassione, lo consola col vino. Ermillo beve, e riavuto alquanto gli spiriti vitali, appoggiatosi al braccio d'Ergauro, si parte. Ergauro, Ermillo. |
<- Ergauro
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ERGAURO
1
Quei bei luciferi,
che mi confondono,
raggi fiammiferi,
nel cor m'ascondono.
2
Fan sì piacevole,
quel duol ch'esanima,
che lacrimevole,
non è mai l'anima.
3
Sian sempre stabili,
quei rai ch'accendono,
che variabili,
più non risplendono.
4
Mia fé non varia,
come volubile,
ma è volontaria,
e indissolubile.
5
Già mai non termina,
poich'è invincibile,
fede che germina,
sempr'è infallibile.
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ERMILLO |
3 a
Spargo gl'ultimi sospiri,
dico già l'ultimo ohimè;
ma gl'acerbi miei martiri,
chi conforti (o dio!) non v'è.
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ERGAURO |
Sento una voce querula, e dolente
né so dir dove sia:
miro, ascolto, mi volgo, e non si sente.
Sarà la fantasia
ch'incostante vaneggia,
alterata dal sonno,
e da un umor già stracco,
di quel licor, che tanto piace a Bacco.
Ma non m'inganno, o sventurato Ermillo!
Ohimè, par che sia morto.
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ERMILLO |
E chi già mai per sollevarmi alquanto,
e m'agita, e mi crolla?
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ERGAURO |
Gli porgerò conforto,
con quest'ultima ampolla.
Brindesi Ermillo.
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ERMILLO |
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ERGAURO |
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ERMILLO |
| |
ERGAURO |
Con altrettanto vino,
vo' che rimetti entro le vene il sangue.
Bevi.
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ERMILLO |
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ERGAURO |
Bevi ch'è dolce.
Bevi ti dico, bevi.
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ERMILLO |
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ERGAURO |
O che buon vino! ascolta!
Ferma Ermillo, che fai? tutta in un fiato?
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ERMILLO |
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ERGAURO |
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ERMILLO |
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ERGAURO |
Sì sì: ma ve' con questo patto espresso,
fa' forza anco a te stesso,
perché vacillo anch'io.
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ERMILLO |
Oh che grave dolore! oh cieli! oh dio!
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Scena nona |
Stanze di Priamo. Priamo ricevuto l'avviso del ritorno di Paride, e della rapina d'Elena, ne dà informazione ad Ecuba, e ripieni d'allegrezza vanno a dar gl'ordini necessari, acciò sieno preparate le nozze. Priamo, Ecuba. |
Q
Priamo, Ecuba
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ECUBA |
Qual soave allegrezza,
il tuo pensiero accoglie,
poiché colme di gioia, e di dolcezza,
scopro omai le tue voglie?
Fammi degna, o mio sire,
di goder teco ogni minuta parte,
di quel ch'il cielo al tuo gioir comparte.
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PRIAMO |
Oh me felice, oh me contento a pieno!
Per l'immensa allegrezza,
ebbro di gioia il cor trabocca in seno.
Felicissimo giorno! oh giorno altero,
in cui d'onore, e di splendor s'accresce,
il nostro invitto, e glorïoso impero.
Paride nostro, oh figlio amato, e degno!
colà nel greco regno,
per vendicar di mia sorella il torto,
rapito ha già dal porto,
con risoluta mano,
dell'infido spartano,
la riverita, ed adorata sposa.
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ECUBA |
Oh vittoria immortale, e glorïosa!
Oh caro e dolce figlio!
figlio prudente, e saggio,
che con tanto periglio,
d'Esiona infelice,
vendicato ha l'oltraggio!
E giungerà in brev'ora,
a far con noi dimora?
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PRIAMO |
In questo punto istesso,
con immenso diletto,
il caro figlio, e la sua bella aspetto.
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ECUBA |
Felice amata, e fortunato amante,
venite pur venite,
ad avvivar di questi lumi i rai.
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PRIAMO |
Con ordine incessante,
si preparino omai,
gl'imenei gloriosi,
a sì felici, e fortunati sposi;
acciò sia questo giorno,
sol di letizia, e di trionfo adorno.
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PRIAMO E ECUBA |
Resti pur la noia ascosa,
i disdegni omai sian spenti,
con vittoria sì festosa,
godan sol gioie, e contenti,
le nostr'alme, e i nostri cori:
apra il cielo i suoi splendori,
a bear sì lieto dì;
allegrezza sì sì.
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Scena decima |
Anticamera di Ecuba. Filinda damigella si rallegra d'esser innamorata, e loda la dolcezza d'amore. Filinda. |
Q
Filinda
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|
1
Deh soffri o mio cor costante,
quel duol che languir ti fa;
poich'è trofeo d'un amante,
penare per gran beltà.
2
Amore fa poi gioire,
un'alma che serba fé
che s'egli ben sa ferire,
sa porger ancor mercé.
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Scena undicesima |
Enone, per non esser più molestata da' paggi, vestitasi da ragazzo, va cercando il messaggero; Filinda ingannata dall'abito se n'innamora, discorrono insieme, ed Enone, fingendo d'esser persuasa, promette d'amarla. Enone, Filinda. |
<- Enone
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ENONE |
Cieli, e dove son io?
Che ancor non posso investigare il vero,
di ciò ch'il messaggero,
disse dell'idol mio.
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FILINDA |
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ENONE |
Ma non avrò più tema,
sotto queste virili, e finti spoglie,
che i garzoni di corte,
m'usino oltraggio. E pure
fra tante mie sventure,
nell'uscirgli di mano,
mi favorì la sorte.
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FILINDA |
Vagheggio in quel bel volto,
in picciol giro il paradiso accolto.
Oh bell'idolo mio!
Già nel regno d'Amor per te son io,
senza trovar difesa,
vinta, e trafitta, incatenata, e presa.
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ENONE |
Fra i dubbiosi pensier, mi par ch'il core,
nunzio sia di dolore.
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FILINDA |
Amore egli mi sembra;
poiché tutto è bellezza,
poiché tutto è dolcezza.
Ma come è dunque Amor, s'ale non veggio?
Benda non ha? strali non porta? ahi lassa!
Ed è ver ch'io vaneggio?
A gl' atti, ai moti, alle parole, ai guardi,
ahi ch'è purtroppo Amore.
Arco ha nel ciglio, e ne' begl'occhi ha strali,
la benda ha nel mio petto,
che con dolce rigore,
mi stringe l'alma, e m'incatena il core;
l'ale ha dato al mio seno,
acciò del suo bel volto al vago sole,
innamorato il mio desir se n' vole.
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ENONE |
Lassa! che far degg'io?
Enone, e che risolvi?
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FILINDA |
Vo' farmi ardita, e discoprir l'ardore:
no, ch'ho vergogna.
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ENONE |
Amore,
Amor tu sei cagion del mio languire!
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FILINDA |
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ENONE |
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FILINDA |
Che vergogna non è chieder mercede.
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ENONE |
Perfidissimo amante?
Così col tuo sembiante,
porgi all'aspro mio duol conforto, e pace?
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FILINDA |
Ma s'ei d'Amor la face...
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ENONE |
Qual mai di neve algente...
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FILINDA |
...orgoglioso non sente...
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ENONE |
...nudrisci alma nel core, e cor nel seno?
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FILINDA |
...fia che si sdegni appieno.
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ENONE |
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FILINDA |
No no, ch'io non l'offendo, anzi trofeo,
fia di sì bel sembiante,
languir, morire a que' begl'occhi avante.
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ENONE |
In mezzo alle sventure...
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FILINDA |
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ENONE |
...e tu crudel destino...
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FILINDA |
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ENONE |
...perché serbarmi in vita?
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FILINDA |
...d'appressarmi non son cotanto ardita.
No no non più timore,
senz'occhi è sì, non senza lingua Amore.
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ENONE |
Ahi dolore! ahi tormento!
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FILINDA |
Ahi lassa! e ancor pavento?
Alma di gioia vaga,
se desia di sanar mostri la piaga.
Qual mai di duol funesta nube ingombra,
il celeste splendor del tuo bel volto?
Hai forse Amore entro il tuo seno accolto?
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ENONE |
Purtroppo ha nel mio petto,
Amor seggio, e ricetto.
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FILINDA |
Qual deità celeste,
già mai t'accese il seno?
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ENONE |
Può solo alma costante,
la ferita scoprir, ma non l'amante.
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FILINDA |
Chi di trovar desia,
medicina ed aita,
scopra insieme, e l'amante, e la ferita.
Io te solo adoro,
io che d'acuto strale,
ferito il cor mi sento,
io che per te mi moro,
a te dolce contento,
per trovar refrigerio al cor che geme,
scopro l'amante, e la ferita insieme.
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ENONE |
Ohimè ch'ascolto! Ecco quest'altra. Ahi lassa!
D'esser sicura invan presumo, e spero,
sotto mentite spoglie,
dagl'oltraggi d'amor vano, e leggero;
poiché l'esser (m'aveggio)
femmina è mal: ma l'esser maschio è peggio.
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FILINDA |
Ohimè par che si sdegni!
Alma di questo core,
non ti sdegnar s'io t'amo.
Questo amoroso ardore,
ond'io tutta mi struggo, avvampo, ed ardo,
nasce sol (dolce ben) dal tuo bel guardo.
S'io t'amo, e s'io t'adoro,
vita dell'alma mia,
colpa di me non sia,
ma sol de' tuoi begl'occhi,
de' tuoi begl'occhi, ond'io son vinta, e accesa;
di que' begl'occhi (ahi lassa)
che con lampi di foco,
ebber sì pronta a danno mio l'offesa.
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ENONE |
Come ferita sei,
(oh che strana follia!) dagl'occhi miei?
Omicida già mai non fia il mio guardo,
che per ferir donzella io non ho dardo.
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FILINDA |
Dardi al mio core avventa,
con disusata forza,
Amor ch'armato entro quei lumi alloggia.
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ENONE |
Chiedi ad Amor pietà, s'Amor t'accora;
colui che ti piagò, ti sani ancora.
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FILINDA |
Puoi tu sol risanar l'aspra mia piaga.
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ENONE |
Gentil fanciulla, e vaga,
soddisfar io non posso al tuo desio,
se ciò che brami tu, lo bramo anch'io.
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FILINDA |
Perché appagar tu non mi puoi? Se brami
ciò che tanto desio, dunque tu m'ami;
però ch'altro non voglio (oh me beata!)
ch'esser da te dolce mio core amata.
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ENONE |
Tu languisci io languisco:
egual destino accoppia,
la tua con la mia voglia,
né consolar si può doglia con doglia.
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FILINDA |
Narrami il tuo dolore,
idolo del cor mio.
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ENONE |
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FILINDA |
Palesato martir fassi men grave;
né trovar al suo duol pace soave,
può chi tacito adora;
chi nasconde il suo mal degno è che mora.
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ENONE |
Costei pur mi tormenta, e non m'intende;
ed io qui spiego ai venti,
metaforici detti, e oscuri accenti.
Di fallace speranza,
vo' che si pasca il core,
e acciò da me si parta,
finger d'amar con simulato ardore.
Già che in corte mi trovo,
uopo mi sia di cortigiana usanza;
poiché con opre, e con parole accorte,
la simulazion sta sempre in corte.
Io t'amo o bella, ed ho nel cor scolpita,
la tua vaga beltà dolce mia vita.
Ma per breve dimora,
consenti almen pietosa,
ch'omai me n' vada a riposare il fianco;
che da un lungo cammino,
tutto mi trovo addolorato, e stanco.
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FILINDA |
Se stanco hai pur di riposar desio,
riposa entro 'l mio grembo,
anima del cor mio.
Dunque tu m'ami?
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ENONE |
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FILINDA |
Mentre in sì dolci, e dilettosi accenti,
ver me la lingua sciogli,
da soverchia dolcezza,
entro 'l mio cor trafitta,
o dell'anima mia dolce ristoro,
io vengo meno, impallidisco, e moro.
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ENONE |
Moro anch'io se ti miro, e sol desio,
entro un candido sen morire anch'io.
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FILINDA
Entro l'acceso ardore,
ben mio moriam d'Amore,
con fortunata sorte,
che nel regno d'amor vita è la morte.
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Insieme
ENONE
Entro l'acceso ardore,
cor mio moriam d'Amore,
con fortunata sorte,
che nel regno d'amor vita è la morte.
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Scena dodicesima |
Piazza col palazzo reale in prospetto. Ermillo perdona ad Irseno; il qual con Ergauro procura di vedergli la ferita: ma non trovandosi in Ermillo altra ferita, che l'impressione, Irseno se ne rallegra, e con essolui si parte. Ergauro resta attonito, e stupefatto della sciocchezza d'Ermillo, ed avendo inteso avvicinarsi il tempo delle nozze di Paride, con Elena, stabilisce di porger anche egli allegrezza a sé stesso. Ermillo, Irseno, Ergauro. |
Q
Ermillo, Irseno, Ergauro
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ERMILLO |
Deh non far più ch'io senta,
di tue preghiere il suono:
o ch'io viva, o ch'io mora, io ti perdono.
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IRSENO |
È un effetto il perdono,
di piacevole ingegno,
e magnanimo cor mostra, e palesa,
colui ch'è pronto a perdonar l'offesa.
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ERGAURO |
Scorger or or potremo,
se questa tua ferita,
sia leggera, o mortale.
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ERMILLO |
Ohimè soccorso, aita,
novo dolor m'assale.
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ERGAURO |
Stendi, stendi le braccia.
Sostienlo tu fin ch'io gli scingo il petto
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IRSENO |
Discaccia pur, discaccia
ogni tema di morte, ogni sospetto.
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ERGAURO |
Ma dov'è il sangue? o sciocco!
Credi d'esser ferito, e non sei tocco.
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IRSENO |
Fortunato son io,
se ciò fia ver.
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ERMILLO |
T'inganni,
che purtroppo ferito è il petto mio.
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ERGAURO |
Come ferito è il petto
se pertugio non hai nemmen sui panni?
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ERMILLO |
Dunque è ver ch'io deliro?
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IRSENO |
La tua ferita Ermillo,
fu timor, non effetto.
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ERMILLO |
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IRSENO |
Andiamne, e nel tuo core,
raffrena omai d'ogni timore il moto.
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ERGAURO |
Ed io pien di stupore,
muto rimango in un sol punto, e immoto.
O sciocchezza infinita,
d'un animo leggero!
o stupore! o portento! ed è pur vero,
ch'improvviso timore il sangue agghiaccia,
e abbandonato il core,
dal suo nativo ardore,
timido poi l'impressioni abbraccia.
Ma già che per mirar nozze sì belle,
già fugate le stelle,
con armonia gioconda,
lieto si mostra il ciel, la terra, e l'onda.
Col vin dolce, e delicato,
alla mia Lisetta appresso,
esser voglio anch'io beato.
Poiché il bere,
è un piacere,
che mi sta nel core impresso.
E con dolce contento,
fra l'ardor degli amori, e quel del fiasco,
mille volte in un dì moro, e rinasco.
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| Ermillo, Irseno, Ergauro ->
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Scena tredicesima |
Arriva Paride, ed Elena in Troia, Enone gli vede, e si rammarica. Paride, Elena, Enone. |
<- Enone
<- Paride, Elena
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| |
PARIDE |
Queste mura beate,
saran di tua beltà degno ricetto.
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ELENA |
Altra stanza il mio petto,
non desia che 'l tuo core,
per viver lieta entro al beato ardore.
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PARIDE |
Ahi che 'l mio cor da questo petto uscio,
sol per viver in te dolce cor mio.
| |
ENONE |
Cieli che veggio? Amor che miro? ahi sorte?
Oh speranze infelici,
nel mar d'amor, fra le tempeste absorte?
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PARIDE |
Anima del mio cor, sei forse stanca,
di sì lungo viaggio?
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ELENA |
Stanca non son, che de' tuoi lumi il raggio,
entro al mio petto ogni vigor rinfranca.
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ENONE |
Questa fia la cagione,
per cui tradimmi il traditor fellone.
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PARIDE |
Andianne dunque, andiamo,
a ricever omai,
da' miei gran genitori,
i meritati onori.
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| Paride, Elena ->
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Scena quattordicesima |
Enone si duole amaramente d'essere stata abbandonata da Paride, e dopo una lamentevole esagerazione si parte; risoluta di morire, per non viver in continuo tormento. Enone. |
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| |
|
Ma perché non uccido,
il traditore infido?
Mora l'empio. No no viva pur viva,
il disleale indegno,
serbisi pur lo sdegno,
alma che saggia a vendicarsi aspetta,
fa con danno maggior poi la vendetta.
Perfidissimo amante,
d'ogni mostro infernal mostro più fero;
fu questo il guiderdone,
della mia fé, dell'amor mio sincero?
Dopo ch'arsi costante,
al soave splendor del tuo bel volto,
dopo ch'ebbi raccolto,
per te nel seno un vasto mar d'affanni,
con bugiarde promesse, e veri inganni,
senza prender pietà de' miei tormenti,
(oh traditor crudele!)
abbandonarmi, e scior le vele ai venti?
Ah che furon bugiardi i tuoi sospiri:
ah che non fu mai vero,
che scintilla d'Amore,
per me t'ardesse, e incenerisse il core:
ah che non fosti amante, o se pur fosti,
fosti sol per tradir chi t'era amante,
vario in amar; ma in variar costante.
E mostrasti (infedele) all'ardor mio,
lusinghiera pietà, verace orgoglio,
e costanza di vetro, e cor di scoglio.
Che farò sfortunata? ah più non fia,
che m'inganni, o m'alletti,
aura dolce di speme,
d'impietosir colui ch'al mio dolore,
armò di ghiaccio, e di diamante il core.
Che 'l disleale infido,
di mille morti reo,
già che la data fede
e me dolente abbandonar poteo,
dée con eterno riso,
dolcemente gioir delle mie pene,
or che gode d'amor l'ore serene,
in amoroso impaccio,
già fatto amante ad altra donna in braccio.
Che farò dunque? ahi lassa!
Vivrò sol per languire?
Languirò forse intanto,
per viver sempre in pianto?
A morire! a morire!
Abbandonata, e priva,
di conforto, e d'aita,
più non curo la vita,
più non fia ver ch'io viva.
| |
| |
|
1
Già che a morte amor mi chiama,
morirò lieta, e costante;
e potrò fatt'ombra errante,
agitar chi mi disama.
2
Forse ancor chi mi tradisce,
proverà tormento eterno,
e faralli un crudo inferno,
quel bel cielo, in cui gioisce.
| |
| |
|
Mori dunque infelice!
Sazia pur col morir l'empia tua sorte!
Mori misera amante!
Porgi omai con la morte,
un tenebroso oblio,
a anti affanni, a tante pene, e tante!
Mora, mora il cor mio!
Poiché s'indarno ogn'altra aita io chiamo,
per uscir di cordoglio,
altro piacer che 'l mio morir non bramo:
e in sì misero stato,
a questo core amante,
privo d'ogni speranza,
per iscampo al morir sol morte avanza.
Così da' miei tormenti,
fia ch'ogni ninfa apprenda,
a non creder già mai ch'avvampi ed arda,
innamorato il core,
qualor lingua bugiarda,
con lusinghieri accenti,
scopre fiamma d'Amore:
poiché talor si trova,
che d'alma infida, ed alle frodi avvezza,
ciò che prega la lingua il cor disprezza.
E chi presume, e spera,
in giovanil beltade,
trovar costanza, e fedeltà sincera,
spende indarno l'etade;
invan spera, invan prega, invan s'affanna,
chi si fida in altrui, sé stesso inganna.
| |
| |
| | |
|
|
Scena quindicesima |
Sala reale. Priamo, ed Ecuba, accompagnati da tutti gl'altri Principi, Principesse troiane, lodano la bellezza d'Elena, ed ella si dedica ad amendue per figliuola. Esprime la perdita fatta del suo regno per seguir Paride; e Priamo, promettendole maggior imperio, la concede a Paride in moglie. Col ballo, che poi segue di Principi e Principesse, finisce il quinto atto, e tutta l'opera insieme. Priamo, Ecuba, Paride, Elena, tutti gli altri Principi, e Principesse che non cantano. |
Q
Priamo, Ecuba, principi, principesse, Elena, Paride
|
| |
ECUBA |
E qual lingua già mai,
lodar potrebbe a pieno,
il celeste sereno,
de' tuoi lucenti rai?
Le tue bellezze rare,
al par del sol son luminose, e chiare.
| |
PRIAMO |
Tanta beltà non vuole,
lode caduca, e frale.
Taccia lingua mortale;
che per lodare un sole,
forz'è che sempre innamorate, e belle,
sulla cetra del ciel cantin le stelle.
| |
ELENA |
Qual io sia, vostra sono;
e figlia, e serva a voi mi sacro, e dono.
| |
PRIAMO
Come figlia t'abbraccio,
e come padre intenerito il core,
nel dolce affetto io mi distruggo, e sfaccio.
|
Insieme
ECUBA
Come figlia t'abbraccio,
e come madre intenerito il core,
nel dolce affetto io mi distruggo, e sfaccio.
|
| |
| |
PARIDE |
Padre, questa, è colei, per cui mi moro,
questa, è quella beltà, che tanto adoro.
| |
ELENA |
Padre, questo è colui, ch'è la mia vita;
e per seguir sì prezïoso pegno,
il consorte lasciai, la patria, e 'l regno.
| |
PRIAMO |
Figlia, o figlia gradita,
deh consolati omai:
se la Grecia lasciasti,
ora in Frigia potrai,
posseder fortunata,
con più sublime, e più felice sorte,
regno, patria, e consorte.
E tu figlio adorato,
or ch'imeneo l'anime vostre accoppia,
con accesa facella;
segui il voler del fato,
prendi pur la tua bella,
e la sua man con la tua mano addoppia.
Quell'immensa bellezza,
ch'i tuoi sospiri innamorata accoglie,
con intera fermezza,
e 'l cor ti dié, ti sia concessa in moglie.
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| |
PARIDE |
Gioisca quest'alma.
Con dolce diletto,
e goda il mio petto,
d'Amore la palma.
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ELENA |
Nel dolce contento,
ch'Amore m'addita,
sia pure infinita,
la gioia ch'io sento.
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PARIDE E ELENA |
Sian teneri i pianti,
sian dolci i sospiri,
e i nostri desiri,
sian sempre costanti.
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PRIAMO E ECUBA
Se fia dolce l'ardore,
d'un incessante Amore,
il vostro cor saprallo
al canto, al suono, all'allegrezza, al ballo.
|
Insieme
PARIDE E ELENA
Se fia dolce l'ardore,
d'un incessante Amore,
il nostro cor saprallo
al canto, al suono, all'allegrezza, al ballo.
|
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| |
Ballo di Principi, e Principesse. | |
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