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Scena prima |
Bosco sopra il lito di Sparta, con mare in lontananza. Arriva Paride al lito di Sparta, discende dalla nave, e comandato a' compagni, che aspettino la sua ritornata, entra nel bosco. Paride. |
Q
(nessuno)
<- Paride, troiani
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Questo lido selvaggio,
in cui di fere orme confuse io miro,
di sì lungo viaggio,
sarà opportuno a terminare il giro.
Fermisi pur la nave,
e infra quest'ombre ascoso,
ciascun di voi si prenda
dolce riposo, e 'l mio ritorno attenda.
Eccomi giunto alfine,
a quel bramato, e riverito lido,
in cui godere, in cui rapir degg'io,
d'un idolo terreno,
le bellezze divine.
In te dunque confido,
dolce madre d'Amore,
proteggi il furto mio,
col tuo grato favore.
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| troiani ->
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Scena seconda |
Paride, sentendo il corno, e la voce di un cacciatore, che gli s'avvicina, si ferma, e finge di dormire. Melindo cacciatore arriva, e canta sopra il diletto della caccia, ed essendo carico di prede si riavvia verso la città: suona il corno, e Paride finge di svegliarsi, lamentandosi che gli venga interrotto il riposo. Melindo gli s'accosta, e gli domanda chi sia. Paride dice, esser Dorindo musico, natio di Tarso, città della Cilicia, partito per andare alla corte del re di Cipro: ma che assalita la nave da una fiera tempesta, salvatosi nuotando, sia finalmente pervenuto a quel lito, e mentre si rammarica, Melindo lo consola, e lo conduce alla corte per presentarlo ad Elena. Paride, Melindo. |
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MELINDO |
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PARIDE |
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MELINDO |
Ho trovato la traccia,
alla caccia, alla caccia.
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PARIDE |
Oh fortunata sorte!
E qual benigna stella,
per introdurmi in corte,
mi porge a un tratto occasïon sì bella?
Mi voglio a lui scoprire.
No no celar mi voglio.
Fingerò di dormire,
e di provar dormendo,
improvviso cordoglio.
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MELINDO |
Té Finisso té té.
Oh che sicura traccia;
alla caccia, alla caccia.
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PARIDE |
Già s'avvicina. Eccolo appunto. Amore
reggi la lingua, e 'l core,
d'un tuo servo devoto,
col tuo possente, e insuperabil moto.
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| <- Melindo
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MELINDO
1
Sudo, anelo, e impallidisco,
quando a caccia me ne vo;
ma in cacciar tanto gioisco,
ch'altro ben non curo no.
Questa in gioie il core allaccia;
chi desia di gioir corra alla caccia.
2
Prova sol veri contenti,
chi a cacciar tal or se n' va;
ma ben degno è di tormenti,
chi diletto in ciò non ha,
sol la caccia il mio cor ama;
stolto è colui, che di cacciar non brama.
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Ma tempo è già ch'io volga,
ver la città, per dritto calle il piede,
ch'omai bastanti prede,
queste che grave noia,
agl'uomini mi fanno,
per la bella regina oggi saranno.
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PARIDE |
Chi mi turba il riposo? oh cieli! oh dio!
Sì infelice son io,
che di quïete invece,
dal mio perverso, e inesorabil fato,
non altra posa omai,
che sospirar, che lacrime m'è dato.
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MELINDO |
E chi sei tu, che in mezzo ai boschi alberghi?
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PARIDE |
Garzon son io, che d'altro amico, e vago,
che di pascer armenti, o fender solchi,
degl'ignari bifolchi,
sdegnando il vil costume,
patria cangiai sol per provar se sia,
prescritto ai giorni miei,
sotto straniero ciel, sorte più pia.
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MELINDO |
Gentil garzon, che tal mi sembri al volto,
in cui bellezza, e nobiltà riluce;
deh se brami ch'in cielo,
con influssi felici,
a' tuoi giusti desiri,
benignamente amica sorte arrida,
pria ch'il bel piede ad altra parte affretti,
noioso a te non sia,
narrar con brevi detti,
le tue fortune, e come
qui tu giungesti, e la tua patria, e 'l nome.
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PARIDE |
Dorindo è il nome mio:
ne' fruttiferi campi,
di Cilicia nacqu'io,
là dove al ciel s'innalza,
famosa, e altera, e torreggiante, e bella,
città, che Tarso in que' confin s'appella.
Quivi musico spirto,
regnando entro 'l mio petto,
la dolc'arte del canto,
negl'anni miei più fanciulleschi appresi:
ma poi con l'uso intanto,
crescendo il senno, e con l'età lo stile,
quasi prendendo a vile,
che sola Tarso il mio bel canto udisse,
la musa mia prefisse,
di passarsene in Cipro,
e in compagnia della canora schiera,
fermare il piè, là dove il rege impera.
Così me n' corsi impetuoso al lido,
sol dal desio sospinto;
e sovra un legno a navigare accinto,
posai le membra; e già nel mare infido,
sciolto le vele avea,
e con placido vento,
entro la dolce calma,
iva solcando il liquefatto argento.
Quand'ecco (ahi dura sorte!) in un istante,
là nel mar di Pamfilia,
Cinzia le corna infra le nubi asconde,
e tra lucido, e oscuro,
il suo splendor confonde;
freme il mare, stride il vento,
e con empio spavento,
Euro cruccioso, e fero,
tutto sconvolge il procelloso impero.
Di lampi, e di saette,
tutt'era armato a nostri danni il cielo,
e già scorrea per tutto,
entro l'ondoso flutto,
il carco pino abbandonato, e scosso,
e con orribil sdegno,
del tempestoso regno,
restar nell'onde, e subissate, e sparte,
arbori, e vele, ancore, antenne, e sarte.
Io già d'aita, e di speranza privo,
dall'infelice legno,
nel mar trattomi a nuoto, in braccio a morte,
cercai l'ultima sorte,
e in breve giro, io non saprei dir come,
pallido, e stanco, e semivivo appena,
giunsi col piede a calpestar l'arena.
Lungi dall'ermo lido,
ratto n' andai col cor tremante in seno,
e su nel ciel sereno,
la rugiadosa aurora,
con flagelli di rose,
luminosa sferzava,
i suoi corsieri a volo,
quand'io misero, e solo,
tanta dal ciel benigna sorte ottenni,
che in questi boschi a riposar me n' venni.
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MELINDO |
Strano evento mi narri,
degno d'aita, e di pietate invero.
Garzon leggiadro, e altero,
non ti porga il girar di quella dea,
che l'instabil suo piè fonda sul vento,
o timore, o spavento.
Gira la rota, e quei ch'è al fondo oppresso,
in un momento istesso,
trionfando s'innalza, e in un sol giro,
si congiunge col duol la gioia, e 'l canto,
e si rivolge in doppio riso il pianto.
Ciò che si tocca, e mira,
tutto è instabil fra noi; fermezza alcuna
non v'ha sotto la luna.
O del viver uman misera usanza!
Ciò che regna quaggiù tutto è incostanza.
Disperar non ti déi, se 'l tuo destino,
qui ti sospinse; alto saper divino,
solo è quel che ne guida, e regge, e move,
e dal tronco natio,
cader foglia non puote,
se non l'ordina il ciel con leggi immote.
E se di Cipro in sulle rive amene,
non posasti le piante;
queste di Sparta innamorate arene,
vaghe del tuo sembiante
daranno a te ricetto.
Fortunata città vedrai non lunge,
ov'Elena la bella,
in maestoso aspetto,
sembra qualor la sua beltà disserra,
colmo di raggi un altro sole in terra.
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PARIDE |
Ah s'io già mai potessi,
del palazzo real la nobil soglia,
premer col piede, e riverir con l'alma;
trovar pietosa calma,
quest'asprissima doglia,
che 'l cor mi spetra oggi potrebbe ancora.
Ma lasso! E in me pur sorge,
dolce speranza? E che sperar poss'io?
Se colà non mi scorge,
quel destin così rio,
che fra i tormenti a lacrimar m'induce,
stelle, ditemi voi, chi fia mio duce?
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MELINDO |
Meco ne vieni, e ti consola omai;
e quando in regia stanza oggi sarai,
con la bella regina oggi sarai,
narra le tue sventure,
dinanzi al suo bel volto,
che ben fia dal suo ciglio,
pietosamente il tuo dolor raccolto.
Poich'è gloria infinita,
di magnanimo cor, di regio petto,
porger pietoso all'altrui danno aita,
e dar propizio alla virtù ricetto.
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PARIDE |
Vanne ti seguo, e 'l ciel fia quello intanto,
che con benigno aspetto,
giri per te sereno,
e guiderdoni il tuo cortese affetto;
che di pietà gl'uffici,
con scultura di luce,
per man de' numi istessi,
fra i bei lumi del ciel splendono impressi.
O me infelice, o me contento appieno!
Poiché dal ciel m'è dato,
di mirar il sereno,
di quell'idolo amato,
di quell'idol, ch'adora oggi 'l cor mio,
di quell'idolo altero,
per cui languir, per cui morir degg'io.
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Scena terza |
Stanze di Elena. Elena esprime la dolcezza, e la forza d'Amore; Argenia l'amarezza, e la vanità. Elena apprezza le fiamme; Argenia le disprezza, l'una stabilisce di viver amando, e l'altra di fuggire Amore. Elena, Argenia. |
Q
Elena, Argenia
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ELENA |
1 a
Non conosce, e non sa,
ciò che sia gioia, e diletto,
chi provato non ha,
fiamma d'amor, ch'incenerisca il petto.
1 b
Sì dolce è l'ardore,
ch'il seno m'accende,
che questo mio core,
languir per Amore,
a gioco si prende.
2 b
Lo stral che m'impiaga,
con forza possente,
fa l'alma sì vaga,
ch'adora la piaga,
e doglia non sente.
1 a
Non conosce, e non sa,
ciò che sia gioia, e diletto,
chi provato non ha
fiamma d'amor, ch'incenerisca il petto.
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| |
|
Già che tutto è dolcezza
il trionfante Amore,
con eterna fermezza,
sull'altar del mio sen gli sacro il core.
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ARGENIA |
Amor tutto è dolcezza?
Ah, che t'inganni, o bella,
non ha tanta amarezza,
l'assenzio, il tosco, e 'l fiele,
quanta ha in sé l'infedele,
amor tiranno, e crudo,
d'ogni pietà più che di veste ignudo.
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ELENA |
Amor pietoso arciero,
dolcemente saetta,
e saettando alletta,
né petto v'è che chiuda,
alma sì fera, e cruda,
sia in ciel, sia in mare, o negl'abissi, o in terra,
che non provi d'amor la dolce guerra.
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ARGENIA |
Ho core anch'io nel seno,
eppure amor non sento;
né piacer, né tormento,
mi porge il suo veleno.
Anzi del cieco dio
mi burlo, e prendo a gioco,
l'arco, lo strale, e la faretra, e'l foco.
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ELENA |
Sciocca sei se non prezzi,
il faretrato nume;
poich'egli ha per costume,
ferire ogn'alma, e vendicar l'offese.
Proverai ben tu ancor, tu che le sprezzi,
le saette d'amor; vinta, e trafitta,
al poter de' suoi strali ogn'alma cede;
d'amor la forza ogn'altra forza eccede.
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ARGENIA |
Languir d'amor ferita,
già non tem'io sin ch'avrò spirto, e vita.
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ELENA |
E qual schermo farai
se l'amoroso strale un dì ti punge?
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ARGENIA |
Questo non sarà mai,
ch'io fuggirò l'infido.
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ELENA |
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ARGENIA |
Oh di questo mi rido.
Bambino è amor; né può seguir chi fugge,
e se ben l'ali ha seco,
volar non sa poich'è fanciullo, e cieco.
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ELENA |
Vola pur troppo, ed ogni core infiamma:
e chi fra noi mortali,
può fuggir la sua fiamma,
s'anco ai numi immortali,
con mano accesa armi di foco avventa?
Chi fia ch'amor non senta?
Se di lacrime amare,
danno eterno tributo,
al nume suo, Giove, Nettuno, e Pluto.
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ELENA
Sì sì seguasi Amore,
che dolcemente impiaga:
quando ferisce un core,
con poco amaro molto dolce appaga.
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Insieme
ARGENIA
Sì sì fuggasi Amore,
che amaramente impiaga:
quando ferisce un core,
con poco dolce molto amaro appaga.
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Scena quarta |
Melindo presenta Paride ad Elena. Amore disceso dal cielo, saetta, e l'una, e l'altro, e poi si nasconde. S'innamorano nell'istesso punto. Elena se ne maraviglia, e domanda a Paride chi egli sia. Paride richiede altro tempo, ed altro luogo per iscoprirsi. Lodano la musica, e Paride canta. Elena, sentendosi vieppiù innamorata, invita Paride a fermarsi, e star nella sua corte. Elena, Argenia, Paride, Melindo. |
<- Paride, Melindo
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MELINDO |
Bellissima regina,
guari non è, che nel cacciar le fere,
trovai nel bosco assiso,
questo nobil garzon, che qui t'inchina.
| <- Amore
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ELENA E PARIDE |
Core ohimè ch'improvviso
di celeste splendor lampo t'assale?
O bellezza immortale!
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ARGENIA |
Gentil mi sembra e credo,
ch'alloggi in sì bel viso...
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ELENA |
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ARGENIA |
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ELENA |
...entro ai beati ardori...
l'anima sforza a incenerir le piume?
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ARGENIA |
che l'architetto eterno,
non accoppia già mai,
con sembianza di cielo alma d'inferno.
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ELENA |
Dimmi garzon chi sei? donde ne vieni?
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PARIDE |
Le mie sventure in picciol fascio.
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ELENA |
Ahi lassa!
Morir mi sento.
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PARIDE |
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ELENA |
Se 'l ciel non mi soccorre.
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PARIDE |
...già non poss'io; di ritrovar fia d'uopo,
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ELENA |
Questo che mi tormenta...
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PARIDE |
...comodo il tempo ed opportuno il loco...
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ELENA |
...è pur d'Amore il foco.
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PARIDE |
...che in brevi note accolti,
fia che tu sola i miei cordogli ascolti.
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MELINDO |
Fa' che cantando spieghi,
amorosetti accenti;
poiché suo nobil vanto,
è scior la voce al canto.
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ELENA |
Quanto il cantar m'alletti,
esprimer non'l poss'io; quando tal ora,
armonïosi detti,
spiega voce canora,
innamorata e sola,
sull'armonico ciel l'alma se n' vola.
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PARIDE |
Chi di musica umana,
con perfetta misura,
temprati ha i sensi, ancora
gradisce ed ama, un'armonia canora.
Il desiar contento,
il musico e 'l concento,
è sol di regio core,
nobil diletto, e naturale usanza;
poiché l'alto motore,
con divina distanza,
nel magnanimo sen di re sublime,
le note umane, e più perfette imprime.
Ben è ver, che sovente,
fra le corti si trova,
che di contraria stampa,
s'avvien ch'altri posseda,
o circolati, o lineati i sensi,
suol con empio pensiero,
mentre l'ignaro cor d'invidia ammanta,
schernire il canto, ed odiar chi canta.
Bellissima regina,
già che il canto t'alletta,
cantar dunque vogl'io.
Tu con dolce pietà ver me rivolta,
il rauco stile, e l'umil canto ascolta.
Bench'io da cruda sorte,
agitato, e schernito abbia nel petto,
più di languir, che di cantar soggetto.
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1
Occhi bei, per cui sospiro,
in voi miro,
il tenor della mia sorte,
e quel lampo,
onde avvampo,
sol può darmi, e vita e morte.
2
Al girar de' vostri rai,
sol provai,
nel mio cor l'ardente fiamma,
e 'l tormento,
ch'ora sento,
mi distrugge a dramma a dramma.
3
Sol provare al suo dolore,
può 'l mio core,
un soave, e lieto scampo,
se in quei giri,
fia ch'io miri,
di pietade un dolce lampo.
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ELENA |
Le vostre sfere, o cieli,
entro gl'eterni giri,
han sì dolce armonia?
Ed io son viva o morta?
Amor di me che fia?
Vivo, e respiro, e pur morir mi sento:
provo dolce contento,
e pur l'anima langue,
ferita sono, e pur non veggio il sangue.
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ARGENIA |
O che soave canto!
Per soverchia dolcezza,
intenerito il core,
già corre agl'occhi a liquefarsi in pianto.
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ELENA |
Degni di lode invero,
sono i tuoi dolci, e misurati accenti.
Chiedi pur ciò che vuoi,
nulla fia che si neghi ai desir tuoi.
Fermati, e s'a te piace,
qui posa il piede, e al tuo dolor dà pace:
che tra delizie accolto,
a tuo piacer godrai,
entro questi soggiorni,
felici l'ore, e fortunati giorni.
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Scena quinta |
Cortile. Lupino staffiero cerca di Serina damigella di corte, di cui loda la bellezza. Ma non contento di lodare, o le chiome, o gl'occhi, o la bocca, si ferma sopra le lodi del naso. Lupino. |
Q
Lupino
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| |
|
Per trovare la mia bella
immagine adorata,
quella spietata, quella,
che 'l mio languir non crede,
volgo, e rivolgo innamorato il piede.
Dovunque il passo muovo,
di questa corte io trovo
tutte le dame, e graziose, e belle;
ma Serina però non è tra quelle.
Te sola amo, ed adoro,
o Serina cor mio,
e di lodar la tua beltà desio.
Ma per lodarti appieno,
qual parte deggio in te lodar? la bocca?
La bocca no, che con parole altere,
mi rampogna, e mi scaccia.
Gl'occhi? o le chiome ond'io mi trovo avvinto?
Gl'occhi non già, però che dardi avventano,
le chiome no, perch'il mio cor tormentano.
Voglio parte lodar, che bella sia,
ma che rigor non abbia: in questo caso
diasi ogni lode, ed ogni pregio al naso.
Porta il naso ogni vanto,
perch'ogni volto adorna;
e se pur bella è la nemica mia,
solo il naso è cagion, che bella sia.
Poich'il naso è cagione,
che Serina sia bella,
vò con dolce favella,
cantar in lode sua questa canzone.
Cessate il sussurrar tumidi venti,
ed ascoltate i miei nasuti accenti.
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|
1
Degno sei di lode invero,
naso bel naso gentile;
per lodarti ogn'altro stile,
a te volgo il mio pensiero:
che se in mezzo del volto esposto sei,
più bel d'ogn'altro membro esser tu déi.
2
Solo il naso orna l'amante,
né di lui mi burlo, o rido;
e l'aspetto ha del Cupido,
quando il naso ha del gigante.
Gode ciascun nell'amoroso ardore,
senz'occhi sì, non senza naso Amore.
3
Se non ho leggiadro viso,
ho bel naso almeno anch'io;
e a me piace tanto il mio,
quanto il suo piacque a Narciso.
E tal qual è il mio naso, o quadro, o tondo,
io no'l darei per tutto l'or del mondo.
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Scena sesta |
Ancrocco spazzator di corte, palesa a Lupino d'esser innamorato. S'accordano di cantar insieme: ma non potendo Ancrocco, per esser scilinguato, pareggiare il canto di Lupino, Lupino sdegnato si parte. Ancrocco ripiglia il canto, e scilinguatamente esprime i propri amori. Ancrocco, Lupino. |
<- Ancrocco
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ANCROCCO |
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LUPINO |
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ANCROCCO |
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LUPINO |
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ANCROCCO |
Co, co, cor mio per te,
mille sospiri scocco.
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LUPINO |
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ANCROCCO |
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LUPINO |
Paleso all'aure, e ai venti,
gl'amorosi tormenti.
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ANCROCCO |
Piango d'Amore anch'io,
e vò con gran diletto,
a chia, chia, a chiamar l'idolo mio.
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LUPINO |
Provi tu ancor nel petto,
un amoroso affetto?
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ANCROCCO |
Ahi che purtroppo io mi distruggo, e moro,
per una be, be, be, bella ch'adoro.
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LUPINO |
S'io languisco infra le pene,
lodo il ciel lodo la sorte;
pur ch'io goda il caro bene,
non pavento, o laccio, o morte.
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ANCROCCO |
Per dar tregua a' miei tormenti,
vo' ca, ca, cantar anch'io,
e formar soavi accenti,
col cu, cupido desio.
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LUPINO E ANCROCCO |
Cantiam dunque uniti insieme.
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LUPINO |
Ma sai? Con questo patto,
fa la cadenza a un tratto.
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ANCROCCO |
Canta pur tu con arte,
né ti curar della mia pa, pa, parte.
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LUPINO
Cantian dunque uniti insieme,
per sanare i nostri affanni.
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Insieme
ANCROCCO
Cantian dunque uniti insieme,
per sanare no, no, no,
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ANCROCCO |
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LUPINO |
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ANCROCCO |
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LUPINO |
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ANCROCCO |
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LUPINO |
S'affoga, o dio!
Per sanare i nostri affanni.
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ANCROCCO |
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LUPINO |
Canta co' tuoi mal'anni,
o scilinguato, o sciocco;
s'io canto più con te dimmi un allocco.
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| Lupino ->
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ANCROCCO |
O sfortunato Ancrocco!
Ma che? Purtroppo è il canto mio soave,
fugge Lupin perché 'l paraggio pave.
Fuggi pur, fuggi a volo,
ch'a tuo dispetto io vo' ca, cantar solo.
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| |
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1
Quando Lilla mi consola,
io la chia, chiamo mio vanto;
lei mi ba, bagna col pianto,
e dal seno il cor m'invola.
2
S'a scherzar talor s'avvezza,
col mi ca, ca, cauto ardore,
fa che ti, timido il core,
sia in goder tanta bellezza.
3
Se disserra a' miei sospiri,
del bel sen la po, po, porta,
me, me, mente ha così accorta,
che conosce i miei martiri.
4
S'io mi struggo a dramma, a dramma,
lei si mo, move a dolore;
e poi ri, ristora il core,
nel desio che punge, e infiamma.
5
Nel provar sì gran dolcezza,
m'esce tu, turbato pianto;
poi si smo, si smove tanto
il mio cor, ch'alfin si spezza.
6
Son però dolci i martiri,
e soavi anco i tormenti,
godo sol veri contenti,
quand'io fo, formo i sospiri.
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Scena settima |
Stanze remote d'Elena. Elena, ritiratasi nelle più remote stanze, esplica le fiamme che prova per Paride, da lei creduto Dorindo, e riprende le proprie affezioni, ch'obbligate al godimento de' più sublimi amori, corrano ad inchinare un così basso oggetto. Elena. |
Q
Elena
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Lassa! e qual fiamma entro il mio petto ascondo:
ardo misera amante,
e per vago sembiante,
le guance, e 'l sen d'amaro pianto inondo.
Ardo, ahi sorte infelice!
E qual conforto a tante pene, e tante,
sperare o dio mi lice!
Ahi ch'a donna real troppo disdice,
chieder a garzoncello,
d'umili nascimenti,
amorosa pietade a' suoi tormenti.
Amo, e fuggo d'amare: aspro flagello
di ragione, e d'Amore,
mi punge l'alma in un sol punto, e 'l core,
ma lassa, è schermo frale
ragion, benché possente,
contra 'l poter d'un amoroso strale;
e invan resiste il mio pensier dolente,
ch'abbatte la ragion, vince il desio,
l'alta necessità dell'ardor mio.
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Scena ottava |
Paride passa nelle stanze d'Elena, ed è da lei ripreso: ma discopertosi principe, ed innamorato, chiede perdono dell'ardimento, e refrigerio all'ardore. Elena vinta da sì potente assalto, gittatasi sopra il letto, fa delle proprie braccia amorosa catena al collo di Paride; e mentre si danno ai baci, Amore serra le cortine, ed esce dalla stanza. Paride, Elena. |
<- Paride
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PARIDE |
Ecco la bella ahi dolce sorte!
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ELENA |
O stelle!
Eccolo appunto, e chi ti fe' sì ardito,
di penetrar col piede,
dove a servo stampare orme non lice?
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PARIDE |
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ELENA |
O me infelice!
Amor fu dunque?
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PARIDE |
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ELENA |
O tiranna beltade,
che con aspra pietade,
m'arde, m'agghiaccia, e mi rapisce il core.
Dunque cotanto ardisce,
vil garzoncello?
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PARIDE |
Ahi sorte!
Provo nei tuoi rigori,
immortalmente entro 'l mio cor la morte.
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ELENA |
Indiscreto villano,
fuggi quanto più puoi,
se provar tu non vuoi,
l'ira di questa mano.
Ah no, resta pur resta
dolcissimo ben mio.
Perdona a quel dolor, che l'alma accora,
se t'offese la lingua, il cor t'adora.
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PARIDE |
Fuggir da te degg'io?
Fugga piuttosto l'alma,
da questo, cor da questo petto mio.
O bellissimo sole,
perdona omai, perdona,
con pietoso sembiante,
all'ardir, all'ardor d'un'alma amante.
Non son, non son qual credi,
sfortunato garzone:
ma nato anch'io felice
a posseder gli scettri, e le corone,
nella magion altera,
di quel gran re, che tutta l'Asia impera.
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ELENA |
Cieli ch'ascolto? ohimè son morta. Amore,
e quai guerre possenti,
di fiamme e di tormenti,
susciti nel mio core?
Ma qual benigna stella,
ti costrinse a lasciar patria sì bella?
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PARIDE |
Dalla fama sospinto,
di tue bellezze rare,
o regina vezzosa,
con dolce fiamma ascosa,
lasciato il patrio regno,
sovra volante regno,
solcai veloce, e sconosciuto il mare;
e giunto il core a vagheggiarti appena,
divenne a te davante,
di tue bellezze innamorato amante.
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ELENA |
Soavissima bocca,
che coi leggiadri accenti,
fiamme, e dardi in un punto avventa, e scocca.
O fortunati ardori!
Dunque è ver che per me languisci, e mori?
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PARIDE |
Ahi ch'al girar delle tue luci altere,
con immenso piacere,
Amore accende entro il mio petto il foco;
e mentre io vengo meno,
per soverchia dolcezza,
negl'incendi del seno,
resta fra i lacci, e moribondo il core,
trofeo di morte, e prigionier d'Amore.
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ELENA |
Chi fia che non t'adori,
idolo del cor mio?
Vinta o cieli son io.
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PARIDE |
Su su core, desio,
passioni, e potenze
di quest'anima amante,
fra tante gioie, e tante,
beate omai beate
gl'amorosi tormenti;
versate omai versate
lacrime di dolcezza,
e con dolce tributo,
di pianti, e di sospiri,
correte a vagheggiar tanta bellezza.
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ELENA |
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PARIDE |
Amor, che i dardi scocca.
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ELENA |
Ti chiuderò la bocca,
cor mio, con questi baci.
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Scena nona |
Amore esplica la sua possanza, e poi volando si parte. Amore. |
<- Amore
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1
La mia forza onnipotente,
vince ogn'ira ogni furore;
la mia fiamma ogn'or cocente,
arde ogn'alma ed ogni core.
Onde ragione,
invan s'oppone,
al poter di questo strale:
contro a forza d'amor schermo non vale.
2
Chi non ama, e non adora,
non può mai sentir diletto,
vive in pene, e si scolora,
chi non prova amor nel petto.
E la mia fiamma,
qualora infiamma,
fa soave anche il dolore,
e se sforza a morir dà vita al core.
| S
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| Amore ->
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CORO
Felicissimi amanti,
godete pur godete,
or ch'il frutto cogliete.
Fra tante gioie, di sospiri, e pianti:
e per trofeo degl'amorosi amplessi,
in su que' labbri amati,
restino i baci eternamente impressi.
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Scena decima |
Giardino con logge. Argenia canta sopra la vanità degl'amanti. Argenia. |
Q
Argenia
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1
Folli amanti a che vi giova,
tanto amor, tanta costanza?
Se né fede, né speranza,
in beltà giammai si trova.
2
Troppo amara è la dolcezza,
di chi spera, e vive amante,
s'in un candido sembiante,
incostante è la bellezza.
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Scena undicesima |
Draspo giardiniere discopre ad Argenia le sue fiamme, e dopo esser da lei beffato, ambedue separatamente si partono. Draspo, Argenia. |
<- Draspo
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DRASPO |
Pur ti ritrovo alfin, quanto girai,
per mirar lo splendore,
de' tuoi lucenti rai,
te 'l dica solo il mio nemico Amore.
Ohimè come son stanco!
Lascia ch'il debil fianco,
un sol momento io posi,
e poi sciogliam la lingua,
in accenti amorosi.
Argenia, ove ne vai?
Ferma, fermati omai.
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ARGENIA |
Lascia, lascia ch'io parta,
indiscreto villano.
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DRASPO |
Fermati, ohimè, pian piano:
io villano indiscreto?
E quando mai con villania t'offesi?
Mira come son bello,
e sì bel com'io sono,
tutto mi sacro a te mio core, e dono.
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ARGENIA |
Errai, non sei villano,
poiché mi sembri al viso,
un bel pastor d'Anfriso.
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DRASPO |
Di Ciprigna, d'Astrea,
di Giunon, dell'Aurora,
son io più bello, e più leggiadro ancora.
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ARGENIA |
Anzi all'abito, ai membri,
se mirar deggio a tua beltà divina,
in tutto mi rassembri,
(non Latona dirò) la dea latrina.
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DRASPO |
Infinita bellezza,
nel mio volto gentil natura impresse,
e pure a poco a poco
per te d'amor tutta si strugge al foco.
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ARGENIA |
Degno sei di pietade, e a dirti il vero,
(non lo prender a sdegno)
il tuo foco d'amor merita un legno.
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DRASPO |
De' gravi incendi miei,
la dolc'esca tu sei;
e se merito un legno all'ardor mio,
te sola meritar dunque degg'io.
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ARGENIA |
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DRASPO |
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ARGENIA |
Ammorza pure o stolto,
il tuo cocente ardore,
perché ho donato ad altro amante il core.
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DRASPO |
Ahi ch'il dolor m'ancide.
Così dunque infedel sommergi in Lete,
le tue promesse infide?
Così dunque crudel dispergi all'aura,
i preghi miei devoti? ah ben s'avvede,
il mio tradito, e moribondo core,
che nel regno d'Amore,
femminil giuramento,
è più legger ch'arida fronde al vento.
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ARGENIA |
Che promesse? che preghi?
Dunque cotanto ardisce,
un villan giardiniero,
che vuol far con le dame il cavaliero?
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DRASPO |
Nel bel regno d'Amore,
son cavaliere anch'io;
e all'umil sangue mio,
non sia che l'esser tuo giammai prevaglia,
ch'ogni disuguaglianza Amore agguaglia.
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ARGENIA |
Che vuoi da me? che brami?
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DRASPO |
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ARGENIA |
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DRASPO |
Ah crudo core!
Così ti prendi il mio dolore a gioco?
Dunque perch'io languisco,
de' tuoi begl'occhi al luminoso ardore,
e perch'io son del tuo bel volto amante,
tu sei nell'amor mio così incostante?
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ARGENIA |
Incostante non sono,
benché leggera io sia;
poiché la leggerezza in nobil petto,
è naturale usanza, e non difetto.
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DRASPO |
Donna gentil quando non ha costanza,
in crudeltade ogn'empio mostro avanza.
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ARGENIA |
Donna a gioire avvezza,
s'incostante non è non ha bellezza.
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DRASPO |
Donna leggiadra, e amante,
tanto adorata è più, quanto è costante.
Ed è vaga donzella,
quanto costante più, tanto più bella.
Costante esser tu déi,
poiché sì bella, e sì leggiadra sei.
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ARGENIA |
Anzi se bella io sono,
incostante esser deggio,
poiché incostante ogni bellezza io veggio,
e su nel ciel l'imperatrici stelle,
sono incostanti sol perché son belle.
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DRASPO |
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ARGENIA |
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DRASPO |
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ARGENIA |
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DRASPO |
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ARGENIA |
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DRASPO |
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ARGENIA |
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DRASPO |
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ARGENIA |
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Scena dodicesima |
Piazza del tempio di Venere. Paride arriva all'isola di Citera, ed aspetta Elena fuori del tempio di Venere. Esce Elena dal tempio, e Paride la rapisce. Con un abbattimento di Troiani, e Greci, dove i Greci, cedendo alla forza de' Troiani, dopo un'ostinata battaglia, prendono finalmente la carica, finisce l'Atto Quarto. Paride che canta, Elena, Troiani, e Greci che non cantano. |
Q
Paride, troiani
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PARIDE |
Fortunato mio cor, che fai? che pensi?
Già che son fatti omai,
i tuoi piaceri, e i tuoi diletti immensi?
Come dunque potrai,
non esser lieto infra delizie tante,
or che la bella amante,
col core ardito, e forte,
s'invola al suo consorte,
e per dar lieta al viver tuo sostegno,
abbandona (o piacer!) la patria, e 'l regno.
Godi godi sì sì: son quei contenti,
che dan forza al desio,
amorosi trofei dell'ardor mio.
Già nel tempio m'aspetta,
l'amorosa diletta,
ch'a sì lungo viaggio,
per impetrar devota,
propizio il vento, e luminoso il sole,
di quella dea, che qui s'onora, e cole,
con pietosa dimora,
supplice, e umile il simulacro adora.
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1
Dolcissime pene,
soavi tormenti,
godete contenti,
l'amato mio bene.
2
Nudrite l'ardore,
con teneri affetti;
fra gioie, e diletti,
beate il mio core.
| (♦)
(♦)
S
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| <- Elena, greci
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Ma se in mirar non erro,
ecco appunto il mio bene, ecco il mio core;
anzi del ciel d'Amore,
ecco il sol luminoso,
che con orme devote,
del bel tempio famoso,
la foglia altera in sull'uscir percote.
Su miei fidi, alla grand'opra intenti,
ritiriamci in disparte;
e per furar la bella,
con superbi ardimenti,
s'usi ogni forza, ogn'arte.
Rapirla a Greci opra sol giusta sia:
convien, che s'Esiona a Teucri han tolta,
la vendetta d'un furto, un furto sia.
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| Paride, Elena ->
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Abbattimento di Troiani e Greci. | |
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