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Scena prima |
Giardino d'Esperia. Esce la Discordia dall'Inferno, entra nel giardino, si lamenta di non esser chiamata alle nozze di Teti, risolve di vendicarsene, rapisce il pomo d'oro, e poi volando si parte. Discordia. |
Q
<- Discordia
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Qual già mai dentro al seno,
di sdegno, e di veleno,
tormentoso flagello il cor mi spezza!
Io, che gl'imperi a debellar avvezza,
sovra scettri, e corone,
trionfante passeggio,
vilipesa, e schernita alfin mi veggio.
Già che Teti incostante,
tutta (o forza d'amor!) d'amor s'accende,
et or che fatta di nemica, amante,
fra dolci amplessi a ben amare apprende:
col suo vago Peleo colma d'ardore,
in nodo marital la stringe Amore.
Et oggi appunto è il giorno,
che con mio grave, e doloroso affanno,
colà di Pelio in sulle cime ombrose,
a celebrare andranno,
i bramati imenei,
del ciel, del mare, e della terra, i dèi.
Io sola resto (o crude stelle!) io sola,
con sentenza severa,
esclusa fuor della divina schiera.
Il ciel, la terra, e 'l mare,
par che 'l poter dell'opre mie paventi,
e pur non sempre appare,
ch'a suscitare i mali,
abbia i pensieri intenti.
Quante volte si vede,
sorger dagl'odii ancor, benché mortali,
vero amor, vera fede?
E acciò prodotta sia,
per iterata via,
la generazion, son pur ogn'ora,
discordi i cieli, e gl'elementi ancora!
Ma che tardo infelice,
a vendicar tutti gl'oltraggi miei?
La Discordia son io, tutto mi lice.
De' perversi imenei,
già corre il giorno, e già vicina è l'ora,
no no, non più dimora,
che s'io sanar presumo,
dell'ingiuria il dolor, col mio lamento,
zappo l'aria, aro il mar, semino al vento.
A che dunque s'aspetta?
Vendetta omai, vendetta!
Questo, a cui do di piglio,
aureo pomo, e vermiglio,
che di scrittura omai
sedizïosa adorno,
sarà possente a vendicar lo scorno.
Andronne, andronne anch'io,
e a dispetto del cielo,
fra quelle piante ascosa,
attenderò sdegnosa,
tempo opportuno a sì mirabil opra,
che in un momento istesso,
le nozze volgerà tutte sossopra.
Armar la destra, e 'l core,
vo' di mortal furore;
e con rigido sdegno,
fin che l'alta vendetta,
non sia nel cor di tutti i numi impressa,
odiar non sol: ma lacerar me stessa.
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| Discordia ->
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Scena seconda |
Sommità del monte Pelio. Ragiona Silvio dell'incostanza amorosa, riconosce il luogo degl'amorosi godimenti con Eurilla; la vede, e si ritira per ascoltarla. Silvio. |
Q
Silvio
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1
Il desio d'un core amante,
nasce sempre in un baleno:
ma in un punto ancor vien meno,
se l'ardor non è costante.
2
Par che pianga, e che sospiri,
nel mirar beltà che splende:
ma se lungi il piè distende,
cessan tutti i suoi martiri.
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Ma quivi appunto è il loco,
ove Eurilla gentile,
alteramente umile,
arse anch'ella all'ardor del mio bel foco.
Amor, tu che in un punto
m'avventasti. Ma taci; eccola appunto.
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| Silvio ->
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Scena terza |
Esprime Eurilla, che non vi sia maggior contento, che l'esser innamorato. Silvio le si fa incontro, la richiede del tempo nel qual debba consolar le sue pene, e le conferma la sua costanza. Eurilla, Silvio. |
<- Eurilla
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EURILLA
1
Chi d'amor gli strali sprezza,
donne mie gioir non può;
se dian pianto oppur dolcezza,
dica sol chi gli provò.
O fortunato ardore!
Le ferite d'amor dan vita al core.
2
Gode sol chi vive amante,
altro ben quaggiù non v'è;
sia leggero, o sia costante,
chi non ama è stolto a fé.
Amor tutto è dolcezza;
non ha senso colui, ch'amor non prezza.
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| <- Silvio
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SILVIO
1
Quando mai dentro al tuo seno,
ove alloggian mille amori,
avran pace i miei dolori,
de' conforti al bel sereno?
2
Loderò gli astri, e la sorte,
s'io potrò fra i tuoi sospiri,
coi tormenti, e coi martiri,
far beata ancor la morte.
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Scena quarta |
Eurilla assicura Silvio della sua corrispondenza in Amore, e lo consola colla speranza. Lucano, ascoltati i ragionamenti loro, rimprovera ad Eurilla la rotta fede. Eurilla gli conferma le sue promesse. Silvio se ne lamenta, e vien consolato da Eurilla, che scoprendosi innamorata di ambedue, dichiara il modo col qual debbono egualmente amarla. Lucano, e Silvio si lamentano della sentenza d'Eurilla. Lucano ricorre all'inganno: ma accorgendosi, esser dai dèi più inferiori, apparecchiato il convito, per le nozze di Teti, separatamente si partono. Eurilla, Silvio, Lucano. |
<- Lucano
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EURILLA |
Quell'acceso desio,
che ti distrugge il core, e 'l sen t'infiamma,
con disusata fiamma,
distrugge anco il cor mio.
Tu sol sarai dell'alma mia sostegno;
sia che in breve il tuo legno,
che nel mar del desio languisce assorto,
giunga d'Amore a ristorarsi in porto.
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LUCANO |
Ohimè, sogno, o vaneggio?
Eurilla è questa; o crudo amor, che veggio!
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SILVIO |
O speranza felice!
O mio destin beato!
No no, troppo infelice!
Che di sperar, non di goder m'è dato;
poiché sperando entro sì dubbia sorte,
ogni momento alla speranza è morte.
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LUCANO |
Questa è quella mercede,
che si deve a un'amante?
Questa dunque è la fede,
che tante volte m'hai promessa, e tante?
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EURILLA |
Lascia, deh lascia omai,
adorato Lucan, l'ire e 'l furore.
Ciò che con lingua amante,
ti promisi, e giurai,
sarà sempre costante,
a mantenerlo il core.
Tutte le stelle in testimonio io chiamo;
ho promesso d'amarti, e pure io t'amo.
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SILVIO |
Eurilla anima mia,
se tu adori Lucan, di me che fia?
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EURILLA |
Taci, taci mio bene,
che tu per prova il sai,
s'io per te vivo, e per te moro in pene.
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LUCANO |
Strano eccesso d'Amore!
Come potrà giammai
amar Lucan, se dona ad altri il core?
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EURILLA |
Amo te mio Lucano;
adoro te mio Silvio.
Per te provo i martiri,
per te spargo i sospiri.
Così languendo, e l'uno, e l'altro adoro,
et adorando innamorata io moro.
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SILVIO |
Un amoroso ardore,
quando ad amar l'alma sospinge, o chiama;
compagnia non ammette in quel che s'ama.
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EURILLA |
Nobilissima gara,
sempre sarà nelle vostr'alme ascosa:
ma non vi sia penosa,
che gareggiando a ben oprar s'impara.
Così nei vostri petti,
gareggiando il desio;
fatto più saggio, e più fedele amante,
ciascun sarà nell'amor mio costante.
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LUCANO |
Ahi che gara amorosa,
benché diletto apporte
ha per guida la morte.
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SILVIO |
Chi può soffrir, che goda
altri, nel sen della sua donna accolto,
o non è amante, o se pur ama, è stolto.
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EURILLA |
Chi a posseder senza timor s'avvezza,
ciò che possede, o poco stima, o sprezza.
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LUCANO |
Ahi che la gelosia,
che da soverchio Amore,
nasce nel sen di chi sospira amante,
con flagello incessante,
rode il sen, punge l'alma, e sferza il core.
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EURILLA |
Amante invan s'appella,
chi non soggiace a quel che vuole, e brama
una beltà che s'ama.
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Se tu m'ami, o Lucano,
se tu, Silvio, m'adori,
con impero sovrano,
vincitrice son io de' vostri cori.
Sempre a dar legge al vinto,
è il vincitore accinto.
Voi che già vinti siete,
prender legge in amor da me dovete.
Io son d'entrambi amante:
m'ami ciascuno, e sia,
et in amare, ed in penar costante,
né a speranza maggiore,
dia nel suo cor ricetto
però che un solo Amore,
non m'arderà giammai, nel cor, nel petto.
Nunzia sia di piacere, o pur di doglia,
vostro desir sia in bando,
dove appar la mia voglia:
così appunto vogl'io, così comando.
| S
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SILVIO |
Ahi legge troppo fera!
Ahi sentenza severa!
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LUCANO |
O dolore! O tormento!
Impallidire, inorridir mi sento.
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SILVIO |
Un doloroso affanno,
omai dell'alma ogni potenza assale.
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LUCANO |
Dove ragion non vale,
abbia forza l'inganno.
Ascolta anima mia.
Folle sei, se tu credi,
che sol di tua bellezza,
il tuo bel Silvio innamorato sia:
par che t'adori, ed altra donna apprezza.
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EURILLA |
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SILVIO |
O ciel che miro!
In questo breve giro,
preparate vegg'io mense celesti.
Che prodigi son questi!
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EURILLA E LUCANO |
Ahi, che tanto splendore,
m'abbaglia i lumi, e mi confonde il core.
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SILVIO |
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EURILLA |
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SILVIO E LUCANO |
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EURILLA, SILVIO E LUCANO |
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Scena quinta |
Discende la Discordia, e discorre, che non vi sia la più dolce cosa, che la vendetta. Accorgendosi, che comparsi i dèi, già siedono alla mensa: si nasconde per gittarvi sopra il pomo. Discordia. |
<- Discordia
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Dolce cosa è la vendetta.
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1
Pur ch'al fin s'abbatta, e opprima,
chi sospinge a giusto sdegno,
costi pur la vita, e 'l regno,
il suo prezzo non si stima.
Più d'ogn'altra il core alletta:
dolce cosa è la vendetta.
2
Corre sempre, e non si vede;
fiamme avventa, e par che dorma;
in più guise si trasforma;
né giammai paventa, o cede.
Più d'ogn'altra il cor alletta:
dolce cosa è la vendetta.
| (♦)
(♦)
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Ma la schiera divina,
con allegrezza immensa,
già s'asside alla mensa.
Io starò qui vicina,
fra questi mirti ascosa;
e attenderò sdegnosa,
a volger in contrasto,
l'alta solennità di sì bel pasto.
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Scena sesta |
I dèi più inferiori, apparecchiato che hanno le mense, cantano, sotto figura d'allegoria, in lode de' serenissimi sposi. La Discordia gitta il pomo, e poi si parte. Giunone, Pallade, e Venere vengono a contesa, per l'acquisto del pomo; ricorrono alla sentenza di Giove, ed egli rimette la causa al giudicio di Paride. Scende una nuvola dal cielo, nella quale entrano le dèe, e per comandamento di Giove, guidate per aria da Mercurio, se ne vanno nella Frigia a ritrovarlo. Col ballo che poi segue fra gl'altri dèi, che restano, finisce il prim'atto. Coro de' dèi più inferiori, Giove, Apollo, Mercurio, Giunone, Pallade, Venere, che cantano; Discordia nascosta. Tutti gl'altri dèi, e dèe, che non cantano. |
<- Giove, Apollo, Mercurio, Giunone, Pallade, Venere, Sposi, dei inferiori
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CORO
O fortunato, o memorabil giorno!
Ch'alteramente è adorno,
d'imenei sì festosi.
Vivan gl'amati sposi,
insin ch'alluma ogn'emisfero il sole:
e generosa prole,
esca dal sen fecondo,
a far più bello, e più felice il mondo.
Sia senza fin beato,
questo nobil soggiorno,
o fortunato, o memorabil giorno!
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GIUNONE |
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PALLADE |
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GIUNONE |
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PALLADE |
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VENERE |
Fermate, oh là, pian piano:
anch'io la mano stesi,
e pria d'ogn'altra...
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GIUNONE E PALLADE |
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VENERE, GIUNONE E PALLADE |
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GIOVE |
Che litigi? che risse?
che tumulti son questi,
o belle dèe celesti?
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GIUNONE |
Questo è un dono del fato,
ch'a me più ch'ad ogn'altra oggi vien dato.
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PALLADE |
Se pur non fia, che la ragion s'opprima;
a me sola conviensi,
poi ch'a prender il dono io fui la prima.
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APOLLO |
O bellissimo dono!
Dono più che celeste! e quai vi sono,
sulla scorza lucente, caratteri scolpiti?
La scrittura che v'è, così favella:
«Diasi questo bel dono a la più bella.»
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VENERE |
Vana sarà d'altrui la violenza;
guerreggia in mio favor l'alta sentenza.
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GIUNONE |
Ceder le mie ragioni, ah non poss'io;
poiché son bella, al par d'ogn'altra, anch'io.
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PALLADE |
A ceder in beltà
non fu, nemmen sarà, Pallade avvezza;
disprezzar non poss'io la mia bellezza.
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GIUNONE, PALLADE E VENERE |
Padre, o padre tonante!
Davanti al tuo gran trono,
con devoto sembiante,
supplice chiedo il meritato dono.
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GIOVE |
La passïon, che vi commuove, e fere,
sulle guance dipinta,
fa, che ragion distinta
non possa dar, delle bellezze altere.
Egualmente vagheggio
le bellezze, che sono in voi raccolte:
ma non può questo pomo esser di molte.
S'io do 'l vanto a una figlia, ecco poi l'ira
dell'altra figlia, e della moglie insieme;
e s'applaudo alla moglie, ecco s'adira,
e l'una, e l'altra, e si lamenta, e geme.
Amo di par ciascuna, e 'l dolce affetto,
ogni mio senso a passïone ha mosso;
giudice idoneo esser tra voi non posso.
Dove il Gargaro altier s'estolle in Ida,
vive pastor tra boschi in Frigia nato,
che di prudenza ornato,
sol decider tra voi può la disfida.
Dal nostro sangue anch'ei deriva, e nasce;
ma sin dentro le fasce,
l'ingiusta madre a discacciarlo attese,
per l'orror che de' sogni allor si prese.
Sembra pastore, ed è signor sovrano,
figlio di Priamo imperator troiano.
Paride è questi, il cui sublime ingegno,
lo rende al par degl'alti dèi celesti
delle vostre bellezze arbitro degno.
Itene dunque là; colui, che porta
l'ambasciate del ciel, vi sarà scorta.
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MERCURIO |
Per ubbidir l'universo regge,
farò d'un cenno inviolabil legge.
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GIUNONE |
Col cor contento, e lieto
al tuo voler, m'acqueto.
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PALLADE |
Ad ubbidir m'accingo;
e in questa nube gravida, e volante,
al felice viaggio il piè sospingo.
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VENERE |
Io di speme costante,
già circondato ho il core,
e senza alcun timore,
dal gran giudice eletto,
con la vittoria anco il trionfo aspetto.
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GIUNONE, PALLADE, VENERE |
Or or si vedrà,
chi di vera bellezza il pregio avrà.
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GIOVE |
Già che placate sono,
le risse del bel dono,
ciascun senza intervallo,
prenda 'l suo spazio, e s'incominci il ballo.
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Ballo di Dèi, e Dèe. | |
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