A chi legge

Il nostro italico Omero, con la sua tromba sempre d'oro, in tal maniera esclama dove va dipingendo a finissimi colori d'armonioso suono le bellezze d'Olimpia.

O se fosse costei stata a Crotone

quando Zeusi l'immagine far volse,

che pur dovea nel tempio di Giunone,

e tante belle nude insieme accolse;

e che per una farne in perfezione

da chi una parte, e da chi un'altra tolse,

non avea da torre altra, che costei,

che tutte le bellezze erano in lei.

Mi fo lecito di prendere ad impresto dal grande Ariosto questo bel fatto di Zeusi, e n'applico a mio vantaggio l'esempio. Zeusi per ben dipingere una dèa a quelli di Crotone diffidò dell'arte, e s'ingegnò di raccorre il più bello della bellezza femminile dalla verità della natura. Io dovendo disegnare una tragedia a Venezia, ho diffidato della natura, e mi sono ingegnato di raccogliere il più fino della tragica finezza della finzione dell'arte. Zeusi per vedere la naturale avvenenza onde potere imitarla con laude, radunò le più perfette vergini della Grecia. Io de la Grecia ho tolto le più perfette tragedie per vedervi l'artificiosa beltà, e potere imitarla con vostro diletto. Ed eccone il come.

Tra le molte favole, che insegna il gran maestro in poesia, si ritrova la favola doppia, cioè a dire con doppio ravvolgimento. In uno passano i tristi dalla felicità alla miseria. Nell'altro i buoni vanno dalla miseria alla felicità. Questa maniera di favole suol riuscire grata al teatro, perché feconda l'inclinazione della maggior parte, che brama di vedere al fine i peggiori puniti, ed i migliori felici. Che se in ogni paese suole riuscir cara questa giustizia, quanto più deve esser accetta a Venezia, che oltre alla dolcezza dell'indole, ha nell'animo tanta equità d'opinioni, e di desideri? Certamente un simil piacere è un panegirico muto di chi lo sente. E chi di Venezia così giudica, le dà modestamente quella gloria, che merita di perfetta giustizia nella volontà, e d'ottimo gusto nell'intelletto.

Dovendo dunque entrar nell'impegno di lavorare una tal favola, mi sono subito proposto per modello l'antica Elettra, e trovandola trattata da Sofocle, da Euripide, e da Eschilo, i tre lumi della tragica sapienza, mi son tolto a seguire l'artificio di Zeusi. Presa in mano la penna per disegnare il mio quadro, ho messo l'occhio in quelle tre Elettra, e di lui poss'io anche dire.

Da chi una parte, e da chi un'altra tolse.

Ogni mente erudita, nel leggere l'Argomento, si sarà ben tosto avveduta, che il mio Mitridate è il greco Oreste; che Stratonica è la fiera Clitemnestra; che Farnace, è l'adultero Egisto. In Nicomede avrà ben ravvisato il colono miceneo, ed in Laodice, l'argiva Elettra. Io pure non lo nascondo a chi da sé no 'l sapesse, anzi v'aggiungo, che l'Ecuba d'Euripide, oltre le giovani Elettra, se ben vecchia, ed afflitta, è venuta nel numero delle belle da me raccolte, per formare, non al tempio una dèa, ma al teatro un poema. Perché nasconderlo? Zeusi ha più lode dalla sua artificiosa diligenza, che dalla sua meravigliosa pittura. La sua modestia ingegnosa ancor dura per sua gloria. La sua Giunone è già perduta, e forse per sua fortuna... chi sa se la perfezione dell'opera abbia eguagliato la perfezion del pensiero? Io dunque nasconderlo? E perché? Non era fattura di Zeusi la sua Giunone, se ben questa, e quella parte era di quella, o di questa donzella?

Ognuno già mi intende. Lo studio di fissarmi negli esemplari perfetti, per far tesoro nella mia mente delle altrui perfezioni, è un effetto della dovuta diffidenza nel dubitare del mio ingegno, e d'uno stimolo d'impaziente vaghezza d'offerirvi un'opera degna di voi. Il palesare una tal diligenza, è un indizio, ch'io poco altro spero, oltre all'aggradimento del mio buon volere, e questo per difetto del merito mio, non della vostra giustizia. Perché ho seguìto Zeusi nella proporzion dell'esempio, non per questo intendo d'essere il Zeusi della poesia, come egli è quello della pittura. Molto meno mi lusingo nel credere d'aver fatta una Giunone tra le tragedie, com'egli fece tra le tele una dèa, per avere cercato tra molti, in aiuto della naturale perfezione dell'arte, com'egli, per aiutar l'arte, ha ricercato tra molte le perfezioni della natura. Se fossi preso da una tale presunzione, meriterei, ben lo confesso, non d'essere mandato in Pindo per la corona; ma d'essere spedito in antichità per il rimedio.

Conchiudo per tanto, con quello stesso poeta, che m'ha dato il principio, anche il fine del mio proemio.

Quel, ch'io vi debbo posso di parole

pagar in parte, e d'opera d'inchiostro.

Né che poco vi dia da imputar sono,

che quanto io posso dar, tutto vi dono.

Dedica a sua eccellenza il signor Adamo Enrico di Stanau Argomento A chi legge
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