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Scena prima |
Villaggio su le foci del fiume Amiso con capanne di bifolchi, illuminate dalla luna nell'ora verso l'alba. Laodice con pochi Famigli, che traggono dall'ovile un picciol gregge. Essa viene con un vaso in mano da attinger acqua nel fiume. |
Q
Laodice, famigli
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LAODICE |
Meco uscite anche voi,
(non so s'io debba dir servi, o compagni)
e voi pur me seguite al prato, al fiume,
quadrupedi vassalli
di regina bifolca.
Rustico regno mio,
mio popolo lanuto,
d'un crudele destin scherno, o rifiuto.
Invitan voi già i campi, e voi le valli.
Me chiama già l'aurora,
me figlia oppressa, e me avvilita moglie,
a servil cure, e familiari stenti,
e in van m'appello al tribunal dei venti.
E perché? Perché accuso un'empia madre
che affin di alzare al soglio
l'adultero cugin, di sua man toglie,
onore, regno, vita al mio buon padre?
Perché l'unico erede
io confidai fanciullo al re d'Egitto?
Perché già fatto adulto,
e sovente invitato al mio soccorso,
spaventa in fin sul trono un gran rimorso?
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Sì un adultero è nel soglio
del mio padre già tradito,
la mia madre lo tradì.
Sì vendetta un dì ne voglio
dal fratel per me fuggito,
e non viene mai quel dì.
| famigli ->
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Scena seconda |
Laodice, Nicomede. |
<- Nicomede
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NICOMEDE |
Principessa, e consorte
altri uffici dimanda il vicin giorno.
Il re ti vuole in corte.
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LAODICE |
Così lacera, e incolta, o Nicomede
dirai, ch'io vada, ove la corte è in festa?
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NICOMEDE |
Rimproveri così chi n'è cagione.
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LAODICE |
Del padre mio la morte il re festeggia.
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NICOMEDE |
Festeggia il dì, ch'ei cinse d'oro il crine.
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LAODICE |
E del paterno eccidio il giorno è appunto:
soffrirà ogn'anno il mio dolore inulto
l'atroce, orrendo insulto?
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NICOMEDE |
Gran soffrire è vendetta,
se luogo, e tempo il gran soffrir n'aspetta.
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LAODICE |
Il mio germano attendo, e mai non giunge.
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NICOMEDE |
Dopo tre lustri un giorno ancora attendi.
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LAODICE |
Più, che attende il desio, più fiero punge.
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NICOMEDE |
Ma non scrive, e promette, e venir giura?
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LAODICE |
Giura, promette, scrive, e tarda ancora.
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NICOMEDE |
Solo il tempo lavora una grand'opra.
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LAODICE |
Il tempo fa, che un gran pensier si scopra.
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NICOMEDE |
Gran pensier mal traluce in vita oscura.
Di lui non déi temer, di me sei certa,
e te, nascosa in sorte umil di serva,
a la comun salute il ciel conserva.
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LAODICE |
La pia ragion di stato,
egualmente temendo, e darmi morte,
e dal mio fianco generosa prole,
pensò obbligarmi a le viltà del solco,
legandomi in un giogo ad un bifolco.
Ma dove i miei tiranni
pene credean recarmi, affanni, e torti,
ho consigli, ed aiuti, ed ho conforti.
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NICOMEDE |
Servo son di Laodice,
e a lei marito sol fin ch'è infelice.
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LAODICE |
Con le ricchezze i bei splendor del sangue
ti rubò la fortuna;
ma la virtù vetusta in te non langue.
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NICOMEDE |
Onor, dover, pietà, ragion, rispetto
mi gridano nel core,
che indegno i' son del marital tuo letto.
E ben tu sai perché, tu sai ben come
di tuo sposo anche porto il nome.
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LAODICE |
Lo so, e saprallo al suo felice arrivo,
se pur quel dì mai sorge, il pio fratello
saprà, che tu gli usurpator superbi
con pure nozze inganni,
e intatta al mio destin tu mi riserbi.
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NICOMEDE |
Se ricerca mercede,
è traffico l'amor, mercé la fede.
Pensa al german, dissimula, e confida.
A la corte, e nel rischio io ti son guida.
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LAODICE |
Ricercano un momento
le domestiche cure;
e poscia seguirò con piè non lento
il compagno fedel di mie sciagure.
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Tra i perigli, i timori, e le morti,
tu sol mi conforti
compagno fedel.
È ben caro chi assiste infelici;
sol prova gli amici
la sorte crudel.
| Laodice ->
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Scena terza |
Nicomede. |
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Quanto le pene tue sento, o Laodice!
Che dirà Mitridate,
se un giorno il ciel lo manda in nostro aiuto
a vedere quel sangue,
che fin da Xerse, e Dario in lui discende,
vilipeso dal re con le mie nozze?
Questa sua ingiuria a lui si occulta ancora,
e con ragion si occulta.
Trafitto gli avria il sen la rea novella
con l'onta assai; ma col timor non meno,
che la tradita principessa fosse
tanto di cor, quanto d'onor caduta.
Tale avviso rompea le ordite fila
né a villano cognato un re prudente,
né a sorella avvilita,
più confidati avrebbe arcani, e vita.
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Sento al core chi mi dice:
presto forse un dì felice
ti farà
trionfar con la costanza.
Così il misero adulato,
mentre più gli è avverso il fato
tutta dà
la sua fede a la speranza.
| Nicomede ->
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Scena quarta |
Eupatore, Antigono, che vengono dal mare con un palischelmo. |
<- Eupatore, Antigono, seguaci
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EUPATORE |
Scendete, o miei custodi;
e voi vegliate su le forti navi.
Di morte è reo, se sia straniero ardito,
che entrarvi tenti, o egizio uscirne al lito.
Al fin diletta sposa,
calco quel suolo pur, che bramai tanto!
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ANTIGONO |
Al tuo piacere applaudo infin col pianto.
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EUPATORE |
S'io bene intendo quella muta scorta,
che in questa imago ci mandò Laodice,
ecco il bel fiume Amiso.
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ANTIGONO |
E Sinope lontana, ecco, torreggia.
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EUPATORE |
O de' miei Mitridati antica reggia,
con la persona, e più col cor t'inchina
l'esule Mitridate, e ti predice
e gloria, e pace, e libertà vicina.
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ANTIGONO |
Su, scacciamo i tiranni,
con quei, che ha Tolomeo disposti inganni.
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EUPATORE |
Sì mentiamo. Tu il sesso, ed ambo il nome:
Antigono tu sei, no Issicratea.
Non del talamo più fida consorte,
ma de l'ufficio mio fido compagno.
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ANTIGONO |
Per te già sono avvezza
d'usar vestiti virili, e brevi chiome.
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EUPATORE |
Eupatore son io non Mitridate,
ed ambedue da Menfi
spinti noi siamo ambasciator di pace
a Stratonica in Ponto, e al re Farnace.
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ANTIGONO |
Sotto il volto d'amici,
ignoti avran gli usurpatori in corte
i maggiori nimici.
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EUPATORE |
Ne la reggia, non sol, ma fin nel core
penetrarò così de i due regnanti,
e nel pensier de' popoli, e de' grandi,
finché il lieto momento
di por fine al disegno il ciel ne mandi.
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ANTIGONO |
Ahi! Mi sgomenta il prossimo periglio.
Se sotto il velo mai d'ospite amico,
ravvisa un re tiranno il re nimico!
O la madre crudel l'offeso figlio!
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EUPATORE |
Straniero in patria sono.
Sì tenero mandommi
al principe, che innalza
tra le eccelse piramidi sua stanza
la provida sorella,
che tradirmi non può nota sembianza,
o di gesto, o di volto, o di favella.
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ANTIGONO |
Ahimè! un Argo è il sospetto;
la natura, il rimorso,
che non diranno a iniqua madre in petto?
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EUPATORE |
E ognuno acciecherò se fosse un Argo.
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ANTIGONO |
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EUPATORE |
Come ogn'altro re si accieca
sempre adulando il suo maggior desio.
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ANTIGONO |
Non han desio maggior, che del tuo sangue.
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EUPATORE |
Ed il mio sangue appunto,
per più tenermi occulto,
ed in credito ancor di tal ministro,
che giovi al loro soglio,
ai miei persecutori offrire io voglio.
L'arte mia sarà questa.
Di Mitridate, il lor temuto erede,
io, che son desso, io lor darò la testa.
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ANTIGONO |
Tu la tua testa? O ciel cessa l'augurio!
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EUPATORE |
Orsù, più non si tardi.
Tu mi precedi, e siti, e passi attenta
nota al favor de la ancor dubbia luce.
Più che il valor, l'amor a noi sia duce.
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ANTIGONO
O mai se n' vada il piè
dove lo guida amor.
Va sempre ben la fé
dove comanda il cor.
| Antigono ->
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Scena quinta |
Eupatore. |
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D'Antigono, o miei fidi,
parte con lento piè seguite i passi,
parte mi attenda, e i campi osservi, e i lidi.
Qui alcun rustico almen guidasse il caso,
da cui destro potessi
di Laodice ritrar cauta novella.
Chi sa s'è a giogo maritale unita,
o in solitaria vita;
se viva, o morta è chiusa in cieca tomba,
o in libertà negletta
spera dal caro infante, ora mai giunto
a la età del valor, la sua vendetta.
Ma che? Il cercar di lei può mover ombra
di ciò, che più tener ci giova ascoso.
Secreto, che a cercarsi è mal sicuro,
è come il frutto acerbo,
che tocca al tempo sol farlo maturo.
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Se il trono dimando
al cielo, al mio brando,
con quella, che adoro
sol bramo regnar.
Piacere di soglio
mi alletta; ma voglio
trionfo d'alloro
trionfo d'amar.
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Scena sesta |
La sala reale nella reggia di Sinope, ornata in festa per la solennità annovale in cui si celebra l'esaltazione al trono dei due tiranni. Laodice, Stratonica. |
Q
Laodice, Stratonica
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STRATONICA |
Da te ogn'ora udirò madre, e regina,
rimproveri, o minacce?
Da le miserie tue le nostre pompe
mira stolta infelice,
e impara ad inchinar l'alta cervice.
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LAODICE |
Sono d'immenso duol questi i conforti.
Così per or ti pago
ignominie, rapine, inganni, e torti.
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STRATONICA |
Sveller potrei la temeraria lingua;
ma ancora vuò mentir tanta baldanza
con benigna costanza.
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LAODICE |
Con astuta pietà tiranno esperto
giustificar s'ingegna altri misfatti.
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STRATONICA |
Tu sola aggravi le mie colpe, e sola
i sudditi, gli amici, il figlio, il cielo
contro la genitrice, e assordi, e inviti.
E come tutti i malcontenti arditi,
rubel temerità nomini zelo.
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LAODICE |
Al re marito, onore, vita, regno
togliesti in grazia del cugin Farnace.
Tante malvagità portarò io in pace?
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STRATONICA |
Menti per farmi rea. Quel dì che offesi
il padre tuo, la vita mia difesi.
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LAODICE |
Quasi, che non sia noto a l'Asia, al mondo
che il tuo misfatto, o dèi, fu indegno innesto,
d'odio, e di fellonia,
d'adulterio, e d'incesto.
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STRATONICA |
Ministra degli dèi fu questa mano,
e se ministra par d'ingiusta morte,
san gli dèi, ch'io prevenni il re consorte.
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LAODICE |
Mentre glorie coglieva in campo armato
il forte genitor, furon gli dèi,
che fecer forza a te, perché ricetto
tu dassi al reo cugin nel regio letto?
Sì, per comando dei celesti numi,
il vincitor marito a te stringesti
teneramente al sen nel suo ritorno,
e pria del novo giorno,
perché Minerva te 'l commise, o Marte,
nel tuo grembo lo vidi, ahi vista! esangue
e lorda la tua man del caro sangue.
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STRATONICA
Quante furie ha il crudo Averno
vibrin fiamme entro a quel petto,
spirin gelo, odio, velen.
Con le Erinni venga Aletto,
e diventi un doppio inferno
l'empia mente, e l'empio sen.
| S
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LAODICE |
Mal si risponde al ver con onte, e grida.
Tema le furie pur chi è parricida.
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STRATONICA |
Se le furie non temi
la madre temerai. Chi vilipende
le viscere onde uscì, più non è figlia,
e chi le infama poi, non ama il padre.
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LAODICE |
Ciò che il tuo seno infama,
e il caro genitore in parte offende,
mi duol più che non credi, e in dirlo sento
di vergogna, e d'orror fiero tormento.
Che se il mio labro è un impudico, un empio,
de l'opre pie, che narra, è questo il frutto,
frutto quest'è del buon materno esempio.
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STRATONICA |
Se ardita, e iniqua sei, la colpa è mia?
Questa de l'altre accuse addita il vero.
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LAODICE |
Son colpe tue le ferità de l'opre,
e sono mie vendette
quante il mio labro ferità ne scopre.
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STRATONICA |
A questo scettro giuro, a questa vita,
più non andrà l'audacia tua impunita.
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LAODICE
Se il tuo sdegno e la mia sorte
vuol ch'io mora, io morirò.
Con l'invidia di mia morte
l'onta almen vendicherò:
penar sì
purch'altri peni;
svena sì
purch'altri sveni;
ma ch'io lasci d'esser forte;
ma ch'io tema, o questo no.
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Scena settima |
Farnace, Stratonica, Laodice. |
<- Farnace
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FARNACE |
Dove, dove, o Laodice?
A chieder forse dai nocchier del faro
nove di Mitridate?
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LAODICE |
Col sale altier de' soliti dileggi,
inasprisci, o crudel, le piaghe mie?
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FARNACE |
L'alterezza correggi,
ch'è tempo omai, d'inutili vendette.
Alla mia sofferenza è troppo acerba
la miseria superba.
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STRATONICA |
Deh l'ira tua non turbi il comun gaudio
mio re, lascia costei
al suo dolor; che in van move contesa
chi non ha forze d'agguagliar l'offesa.
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LAODICE |
Non è mai senza forza un giusto sdegno.
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FARNACE |
Raddoppia l'allegrezza, o mia regina,
non sol la corte, e il popolo fedele
son pronti ad onorar le gioie nostre,
ma solcan questo mar niliache vele.
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STRATONICA |
È Tolomeo, lo giurerei, che manda
regi messi a compir la lega ordita.
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FARNACE |
Del lieto dì le pompe,
sì lieto avviso ad affrettar ne invita.
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L'allegrezza, chi ben l'intende,
è una breve felicità.
Più felice è quel che più stende
del suo gaudio la brevità.
| (♦)
(♦)
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Scena ottava |
Farnace, Stratonica, Laodice, Nicomede, Pelopida, con tutta la Corte, Grandi del regno, e Popolo. |
<- Nicomede, Pelopida, corte, grandi del regno, popolo
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PELOPIDA |
O supremi imperanti
di quanto mondo bagna il nereo Eusino,
nel giorno trionfal, che i cieli amici
voi fecero monarchi, e noi felici,
i popoli soggetti
offron su la mia lingua, al regal trono,
tutti i gaudi in tributo, e i cori in dono.
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NICOMEDE |
Con semplice schiettezza,
applaude nel mio labro a' suoi regnanti,
la rustica allegrezza.
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FARNACE |
Oggi, più che giammai, giulivo accetto
da' sudditi miei fidi
tributi, e doni d'umiltà, e d'affetto.
In cambio a voi prosperità predico
d'eterna sicurtà, d'interna pace.
Con empietà sagace,
minaccia Mitridate, infin dal Nilo,
il padrigno, e la madre,
e il parricidio chiama amor del padre.
De la romana lupa
a chi nota non è l'ingorda fame
d'ingoiar tutti i re, con tutti i regni?
Pur chiama libertà gli ampi disegni;
in questo dì vi giuro
de l'emulo vicin, del rubel figlio
il doppio cesserà vostro periglio.
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STRATONICA |
Né aperta forza no, né cieche trame
teme più questa reggia,
s'Africa, ed Asia unisce un pio legame.
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NICOMEDE
Bella gloria d'un gran re
comparir Giove fecondo,
e vedersi un mezzo mondo
supplicante sotto il piè.
Ma a la fin s'io ben vi penso
l'uomo in trono e che cos'è
lo fa re l'altrui consenso
Giove il fa la comun fé.
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