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Scena prima |
Eufemiano, Adrasto. Eufemiano, senator romano e padre di S. Alessio, incontratosi con Adrasto cavaliere romano, nuovamente venuto dalla guerra, si rallegra del suo ritorno; ed entrando a discorrere dei casi di Alessio, piglia occasione di raccontargli la partenza di lui seguita molti anni prima; e mentre si querela di tale avversità, è con particolare affetto compatito e consolato da Adrasto. |
Eufemiano, Adrasto
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EUFEMIANO |
Dopo tanti anni al fine
pur tu ritorni, Adrasto,
e nel patrio confine
riponi il piè
con generoso fasto.
Di mille palme e di trionfi altero
felice al fin tu riedi,
onde festoso
oggi il mio cor t'accoglie;
così 'l ciel sia propizio
alle tue voglie.
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ADRASTO |
Questi segni d'affetto e questi voti
merita l'amor mio; quindi è ch'io provo
nel rivederti il mio gioir maggiore.
Ma pur insieme in me si turba il petto
poiché teco non trovo,
per mio destin crudele,
Alessio tuo diletto
tra miei fidi compagni il più fedele.
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EUFEMIANO |
Acerba rimembranza.
Il ciel non vuole
ch'io consoli i miei danni
sul tramontar degli anni
con l'amata mia prole.
Così le mie sventure io piango
e solo io chieggio a tutte l'ore
che se termin al duolo
altro non è prescritto
dia la morte rimedio al mio dolore.
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ADRASTO |
A generoso core
Eufemiano invitto,
tra le miserie il suo valor non manca,
anzi più forza apprende
tra l'umane vicende.
E s'è pur ver che nelle doglie estreme
aura dolce di speme
le lagrime rasciuga
e il cor rinfranca
non mai prenda conforto
la sollecita mente,
ché di speranza a te novelle io porto.
All'or ch'in oriente
nobil vaghezza d'armi il piè ritenne
di rincontrar m'avvenne
i servi tuoi fedeli,
che, non lasciando in ciò consiglio ad arte,
sollecitati cercare
ove si celi
il tuo smarrito figlio
in ogni parte.
Intesi poscia
(e non sia vano il grido)
che da lontano lido
a rimirar la Palestina inteso
di santo zelo acceso
era là giunto un pellegrin devoto,
a cui largo sue grazie
il cielo infonde.
Et era forse quegli Alessio ignoto?
Partito ei di repente,
il seguiro i tuoi messi
certo sperando, ov'egli a lor s'appressi
che ben tosto in quei liti
come sì caro al cielo,
il ver m'additi. Ma non più udito,
e molto strano in vero
fu d'Alessio il pensiero.
Né comprender si può
qual cura, o voglia,
a lontano sentiero
il richiamar dalla paterna soglia.
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EUFEMIANO |
E così appunto Adrasto,
il suo partir inopinato e nuovo
fu sol per mio martire.
Altra cagion del suo partir non trovo.
Era la notte, ahi notte a me fatale,
in cui sperai ch'ei rimanesse avvinto
con nodo maritale.
Quando egli (ah figlio)
a dipartirsi accinto,
senza punto curar la data fede,
occulto trasse in altra parte il piede.
Né tra quell'ombre, al suo fuggir feconde,
discoprir lo potea
la face d'Imeneo.
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ADRASTO |
Gran meraviglia in vero
ch'oggi pur non si sappia ov'ei s'asconde.
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EUFEMIANO |
E tra cotanti, ch'io già spedii d'intorno,
sollecitando il piede
con prodiga mercede,
altri fece ritorno,
togliendomi ogni speme
del desiato avviso,
senz'Alessio tornare altri non volle.
Così non m'è concesso
per volger d'anni,
o per girar di stelle,
del mio figlio più certe udir novelle.
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ADRASTO |
O disperato affanno.
La fama che sovente
non che le voci e l'opre,
anco i pensier discopre,
in questo suolo al fin
tace a tuo danno,
o degno di pietà, padre dolente.
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EUFEMIANO |
Lasso, da indi in poi la notte e 'l giorno
risuonò l'Aventino ai miei dolori.
E nel partire e nel tornar del sole
la perduta mia prole
chiamai con voci languide e tremanti.
Il Tebro udì, pietoso de' miei pianti.
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ADRASTO |
Il non sapersi
in quale fortuna
Alessio or viva
accresce il male.
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EUFEMIANO |
Ah sapessi pur io, sapessi al meno,
qual duro sasso accoglie
entro al gelido seno
le sospirate spoglie!
Colà n'andrei, colà morrei felice.
Ma già sperar cotanto a me non lice.
Vuole il ciel ch'io sospiri in ogni loco
e sfoghi in ogni loco i miei lamenti,
stimando che sia poco s'è prescritta
una tomba a' miei tormenti.
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ADRASTO |
Il ciel pietoso
i tuoi dolor consoli,
ché ben merta pietade
in tormento sì grave
la tua canuta etade,
dio ti darà conforto.
E spero ben ch'in breve
ei n'aprirà delle miserie il porto.
| Eufemiano, Adrasto ->
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Scena seconda |
S. Alessio. |
<- Sant'Alessio
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Contemplando S. Alessio la vanità degli uomini e la caducità delle cose mondane desidera di esser libero dalla carcere del mondo e perciò ricorre a dio con l'orazione: | |
SANT'ALESSIO |
Sopra salde colonne erger, che vale
eccelse mura alle caduche spoglie,
se poca terra al fine in se n'accoglie?
O desir cieco, o vanità mortale,
o dal senso ingannati
e dal diletto
lusingati desiri,
io per me trovo
sotto alle patrie scale
angusto sì,
ma placido ricetto.
Qui soggiornando i sensi,
a contemplar sovente il pensier muovo
del cielo i regni immensi.
E spero ben,
che questa ov'io mi copro
sarà scala al fattor,
s'io ben l'adopro.
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[Arietta ad una voce] | N
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Se l'ore volano,
e seco involano
ciò ch'altri ha qui,
chi l'ali a me darà
tanto ch'all'altro polo
io prenda il volo,
e mi riposi là?
| S
(♦)
(♦)
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[Sinfonia] | N
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Segue s. Alessio (Arietta ad una voce) | |
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Nel mondo instabile,
altro durabile
ch'il duol non è.
Chi l'ali a me darà
tanto ch'all'altro polo
io prenda il volo,
e mi riposi là?
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Ritornello come sopra | |
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Quei rai che splendono
qui l'alme offendono;
né serban fé.
Chi l'ali a me darà,
tanto ch'all'altro polo
io prenda il volo,
e mi riposi là?
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Ritornello come sopra | |
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Scena terza |
S. Alessio, Marzio, Curzio. |
<- Marzio, Curzio
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Marzio e Curzio, paggi d'Eufemiano, col vedere S. Alessio, stimato da loro un forestiero mendico e per carità alloggiato in quel palazzo, non lasciano di schernirlo ascoltati da S. Alessio con umiltà e sofferenza. | |
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[Arietta a due voci] | N
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CURZIO E MARZIO
Poca voglia di far bene,
viver lieto, andar a spasso,
fresco e grasso mi mantiene.
La fatica m'è nemica.
E mentr'io vivo così,
è per me fest'ogni dì.
Di ri di ri di ri...
Vada il mondo come vuole.
Lascio andar, né mi molesto.
Tutt'il resto son parole.
Pazzo è bene da catene
chi fastidio mai si dà
per saper quel che sarà.
Di ri, di ri, ecc.
| S
(♦)
(♦)
|
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CURZIO |
Ma colà mesto e solitario io vedo
quel pellegrin, mendico,
ch'in questo albergo il mio signor mantiene;
e per quanto io vi credo,
per nostro gusto il tiene,
ch'ei quasi è mentecatto:
onora chi l'offende,
né s'altri lo disprezza
a sdegno il prende.
Però qualunque volta in lui m'abbatto
or con opre il dileggio
or con parole.
E quasi folle al par di lui divento,
perché ben dir si suole
ch'un matto ne fa cento.
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MARZIO |
Deh, qual mordace cura
t'offende, e per qual duolo
porti la fronte oscura,
onde qui te ne stai tacito e solo?
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SANT'ALESSIO |
Che altro far poss'io, vile e dimesso?
Io che son della terra inutil pondo,
di mille colpe impresso;
poi ch'altro non so far
fuggo e m'ascondo.
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CURZIO |
Non trattiam di fuggire,
ché quella fuga sol gloria richiede
che si fa con la voce e non col piede.
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MARZIO |
Se vuoi mostrarti intrepido e sicuro,
odi che far dovresti.
Già si tocca, si tocca tamburo.
Andiam a pigliar soldo, agili e presti.
E con la piuma alteri,
tosto fatti guerrieri,
passeggiarem con maestade il campo.
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SANT'ALESSIO |
A che cercar in terra
di nuove guerre inciampo
se la vita mortale
anch'essa è guerra?
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CURZIO |
Discorsi cotant'alti
io per me non intendo.
Ma molto ben comprendo
che da nemici assalti,
tu sei stato chiarito
però fuggì l'invito.
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MARZIO |
Costui, per dirne il vero,
alle parole, all'abito, al sembiante,
mi sembra un soldato,
che, già deposto il minacciar primiero
ritorni svaligiato.
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CURZIO |
Se vuoi parer valente altro bisogna.
Ma tu gloria non curi o gran vergogna!
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CURZIO E MARZIO |
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MARZIO |
In vero io te 'l confesso:
quand'io ti sono appresso,
sempre voglia mi viene
darti la turba, in fede mia, ma taccio.
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CURZIO |
Tu che sei sì codardo
con sollecito piè,
con umil guardo,
di qui sgombra e t'invola
e senza più tardar prendi altra via.
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CURZIO E MARZIO |
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Scena quarta |
Demonio. Coro di Demoni dentro alla scena. Un altro Coro, che balla. Sollecitato il Demonio da i cori infernali, che promettendo gran vittoria, fanno allegrezza con balli si mette all'impresa di tentare e sedurre la costanza del Santo. Si muta la scena in un inferno e nella lontananza si rappresentano le pene dei dannati. Si canta l'aria che segue, e da un coro di Demoni è accompagnata con diverse mutanze. |
Q
Demonio, demoni
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[Aria] | N
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DEMONIO
Si disserrino
l'atre porte
della morte.
Su su su su.
S'atterrino
d'Alessio i pregi
alle prede, alle palme,
ai vanti, ai fregi.
Più non durino
le bell'opre
ch'ei ne scopre,
se si oscurino
suoi fatti egregi.
Alle prede, ecc.
| S
(♦)
(♦)
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Alla notte profonda,
ove correndo il torbido Acheronte
unisce con terror la fiamma e l'onda,
pur oggi ergo la fronte
a' cenni mosso del tartareo duce,
mal mio grado a mirar l'aurata luce.
Ché se ben delle stelle
noi già dall'alto regno
fulminate cademmo, alme rubelle,
restando il vano ardir vinto e deluso,
non ancora però spento è lo sdegno;
ma anco il varco alle nostre armi è chiuso,
ben ch'ai segni di vita
aspiri l'uomo e la sua speme affissi.
Non è non è smarrita
la forza degli abissi
per ordir a suo danno
tradimento, rigor, forza ed inganno.
Ed ecco, or più d'ogni altro,
il suo pensier
rivolge Alessio ad onta pur di noi,
al celeste sentiero,
né de' congiunti suoi
omai ritrarre il ponno
i sospir con le lagrime interrotti,
ché senza cibo i giorni, e senza sonno
tragge intiere le notti.
O se tal ora ei posa il corpo lasso,
è sua morbida piuma un duro sasso.
Ma s'altro oggi non son da quel ch'io soglio,
rammollirò quel core
d'adamantino scoglio: io, d'ogni frode autore,
spinto da fiero sdegno all'alta impresa,
non trarrò neghittoso i giorni e l'ore,
ma contra il duro petto,
movendo aspra contesa,
sotto mentito aspetto
celerò così l'arti,
che d'ogni frode adempirò le parti.
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Continuando a cantare dietro all'Inferno, i sopra detti Demoni fanno una moresca con i tizzoni che portano in mano. | |
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[Moresca e Coro di Demoni] | N
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CORO DI DEMONI |
Sdegno orribile
alla luce
ne conduce.
Su, su, terribile
l'abisso s'armi.
Alle pugne, alle stragi, all'armi, all'armi.
S'hanno a prendere
di mille alme
liete palme.
Già già d'offendere niun si risparmi.
Alle pugne, alle stragi, all'armi, all'armi.
L'ombre tuonino, frema il lito di Cocito,
sì, sì, risuonino
sol fieri carmi.
Alle pugne, alle stragi, all'armi, all'armi.
| Demonio, demoni ->
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Scena quinta |
Madre, Sposa, Nutrice, Marzio, Curzio. La Madre e la Sposa di S. Alessio piangono l'assenza di lui, consolate invano dalla Nutrice, per consiglio della quale si volgono a pregare dio, ché lo prosperi ovunque sia. |
<- Madre, Sposa, Nutrice, Marzio, Curzio
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NUTRICE |
Deh, raffrenate alquanto,
omai dopo tant'anni,
i vostri acerbi affanni.
A che, senz'alcun pro,
struggervi in pianto?
Qual può sperar mercede
il sempre lagrimar per chi no 'l vede?
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SPOSA |
Lasciate pur ch'io pianga,
omai, nutrice,
troppo misera sorte un petto preme,
cui nelle doglie estreme
pur lagrimar non lice.
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MADRE |
So ben anch'io che vane,
o mai fedele,
all'aure sorde, a' venti
fuggono le querele.
E so, che nei lamenti,
ohimè, possiamo solo
l'una con l'altra accumulare il duolo.
Ma se il non udire
novella del mio figlio
rinnova ciascun giorno il mio martire,
come si può mai tranquillare il ciglio?
La notte ancor, che del riposo è madre,
si mostra a me, con larve e con portenti,
torbida e tempestosa,
orrida e spaventosa.
E per mandarne in bando ogni conforto,
o quante volte, o quante, agli occhi miei,
offre, in ben mille modi atroci e rei,
nel sonno Alessio, or moribondo, or morto?
Così, la notte il giorno,
mentre che molto bramo e nulla spero,
m'affligge il falso, e non m'appaga il vero.
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SPOSA |
Riporti Apollo, o pur nasconda il lume,
già le mie cure in me dormir non ponno,
e mi sembran le piume
spine pungenti ad involarmi il sonno,
ond'io co' miei pensier miseri e lassi,
con sospiri interrotti,
vo misurando i passi
delle tacite notti.
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MARZIO |
Or la cagion conosco
onde nasce ch'io dormo a tutte l'ore.
Allor ch'il sonno in questa casa arriva,
ognun lo scaccia fuori ed ei si mette
a far sol contro me le sue vendette.
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SPOSA |
Amara, infida notte,
all'afflitte mie luci,
tenendo sempre il mio bel sole ascoso,
le tenebre radduci.
Perché teco non porti il riposo?
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MADRE |
Se tu sentissi, Alessio, i miei tormenti,
so che pietà n'avresti.
Perciò, dovunque or sei,
in ciel, fra l'onde, o in terra,
potrai de' dolor miei
il numero mirar ch'ivi si serra,
ché tanti son, quante tu puoi mirare
stelle in ciel fronde in terra, arene in mare.
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SPOSA |
Perché privarmi, o dio, degl'occhi tuoi?
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MADRE |
Come crudel abbandonar mi puoi?
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SPOSA |
Quanto, oh quanto fugace
avesti, Alessio, il piè?
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MADRE |
Quanto, oh quanto fallace,
fortuna, è la tua fé.
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SPOSA |
Teco sperai gioir, son senza te.
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MADRE |
Sperai d'esser felice, e piango ohimè.
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SPOSA |
Interrotti desiri
sconsolate dolcezze.
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MADRE |
Eterni miei martiri,
mie funeste amarezze.
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MADRE E SPOSA |
Oh, de' mortali antiveder fallace,
tant'il ben fugge più, quanto più piace.
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CURZIO |
Ohimè, quel sospirar,
quel pianger sempre,
è un pessimo esercizio,
ch'in esso il tempo, e l'opera si perde.
Ti manda in precipizio,
e in dieci giorni ti riduce al verde.
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SPOSA |
Io t'ho perduto, Alessio,
e temo, ahi sorte, temo,
ch'il nodo adamantino e forte,
onde il mio cor già restò teco involto
abbia l'acerba morte
con empia man disciolto.
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NUTRICE |
Sian vani gl'auguri al core impressi,
giova all'afflitta mente
lo sperar sempre prosperi successi,
perché il bene sperar non sempre è vano.
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MADRE |
Chi di mortal miseria il calle preme
troppo ne va lontano
dal sentier della speme.
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NUTRICE |
In sì grave dolor,
voi, per l'amato pegno,
siasi pur morto o vivo,
al ciel volgete
i vostri prieghi e 'l core,
che voleranno alle celesti sfere
con ali di pietà vostre preghiere.
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| Madre, Sposa, Nutrice, Marzio, Curzio ->
<- domestici
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Coro di Domestici d'Eufemiano. Discorrendo sopra la varietà de gli accidenti del mondo, ricorre alla divina pietà per aiuto. | |
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[Coro di Domestici] | N
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CORO DI DOMESTICI |
Dovunque stassi,
dolce Gesù,
d'Alessio i passi
deh sorgi tu,
ché sempre piegasi
là dove pregasi
tua gran virtù.
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Ritornello. Seconda stanza | |
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Se pellegrino
errando va,
piano il cammino
tu per lui fa.
Dovunque accolgasi,
dovunque volgasi,
trovi pietà.
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Ritornello | |
|
S'all'onde, audace,
commetta il piè,
del mar la pace
non cangi fé.
Dei venti il fremito,
dell'onde il gemito,
fugga ond'egli è.
Le vostre doglie
il cielo udì.
Torni alle soglie
ond'ei partì.
Per lui s'accendino
per lui risplendino
sereni i dì.
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a sei |
Con miserabil sorte
ogni mortale, ovunque muova il piede,
rapida corre ad incontrar la morte,
ch'ognor di nuove prede
andar superba e trionfar si vede.
| (♦)
(♦)
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a due |
Non è cittade o via
così remota,
ove d'altere spoglie
su formidabil trono
ella non sia.
Né tra riposte soglie
altri, celato, al suo furor si toglie.
Non è loco sì cinto di larghi fossi,
impenetrabil mura,
che di morte al furor non resti vinto.
Indi a ragion natura
fa ch'ogni loco all'uom è sepoltura.
| |
a sei |
Nel periglioso campo,
in cui vive ciascun,
sol quell'aita
ch'al ciel si chiede
incontro a morte è scampo.
Dunque l'alta infinita
pietà l'ascolti
e serbi Alessio in vita.
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Scena sesta |
Aggiunta per introduzione di un ballo. Trasferitosi Curzio per diporto alle ville del suo Padrone, va pensando di prepararvi alcuni trattenimenti, per servirsene poi a scherno del Pellegrino; il disegno di condurvi i Rustici di quelle selve porge occasione di una danza piacevole. Si muta la scena in una selva. |
Q
Curzio
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CURZIO |
La più bella che sia,
è la profession d'andare a spasso.
A me piace ben tanto in fede mia,
che quando trovo il tempo, no 'l lasso.
Ond'è che spesso in queste selve amene
vo fuggendo la scuola,
ché, quando io sono in Roma,
non ho mai veramente ora di bene.
A pena posso dire una parola,
e bisogna, ch'io stia,
mentre sono a servir la mia padrona,
addolorato per conversazione.
Ma qui le cose in altro modo vanno,
ch'io vado a caccia, e sempre, che ci sono,
s'io non mi do bel tempo,
sia mio danno.
Or che non saprei
fare altro di buono,
i rustici vogl'io del mio padrone,
ch'ordiscano una danza
conforme a loro usanza,
onde il romeo, ch'è pazzo afflitto ed egro,
diventi un pazzo allegro.
Diman poi vo' condurlo in questi boschi,
dove rider farollo a suo dispetto.
Or cominciate, amici,
qualche gentil mutanza;
e vi prometto,
ogni volta che a casa
mi verrete a vedere
menarvi al fonte,
e farvi dar da bere.
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[Ballo] | N
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Escono otto Contadini vestiti all'uso di quei tempi, e si trattengono con un ballo composto di vari scherzi. | <- otto contadini
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CURZIO |
Già veggo, il tutto è lesto;
diman col pellegrin sarò qui presto.
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