Io, dell'alto Appennino ondoso figlio
di cento irrigator tirrene valli,
fuor de' vaghi cristalli
al sen della mia Flora innalzo il ciglio:
e qui, mi specchio al tuo guerriero sole
del sarmatico Giove invitta prole.
Là, nell'ampio oceano, onde se n' viene,
ed a cui torna il mio famoso fonte,
vidi in squallida fronte
sanguigni entrar la Volga, e 'l Boristene,
ed estinti da te negl'ermi boschi,
pianger i figli lor, Tartari, e Moschi.
Udii, ch'armato in quell'eterno gelo,
ne' monti lontanissimi Rifei,
drizzasti alti trofei,
e l'orse algenti gl'inchinar dal cielo:
e Borea inascoltando il suo gran nome
sparse d'orror, più che di gel le chiome.
L'Istro poi mi narrò, dov'egli bagna,
vicine al Nero mar l'ampie contrade,
dalla sarmate spade
l'ottomano infedel vinto in campagna
e che per te discolorata, e bruna,
allor de' traci inorridì la luna.
Arsi quinci, signor, d'eterna brama
sì chiaro sol di rimirar d'appresso;
e 'l mio dotto permesso
bramai tutto sacrare alla tua fama:
or qui ti veggio, e a riverirti intanto
sveglio le tosche muse a nobil canto.
Oggi l'alma real, cui sol fan lieta
i guerrieri metalli, e 'l suon dell'armi,
a pacifici carmi
volgi signore, e l'alte cure acquieta:
e cangia in vaga, imitatrice scena
armato campo, e bellicosa arena.
Marte così, poiché Geloni, e Sciti
ha flagellati al tempestar dell'asta,
ed or l'Ercinia vasta.
Or dell'Ircania ha funestati i liti;
stanco in Parnaso, ov'un bell'antro adombra,
spesso il canto di Febo ascolta all'ombra.
Or voi, ch'ogn'or viveste alle mie rive,
da che v'accolse il mio mediceo Lauro,
del regio cor ristauro,
quai carmi detterete amabil dive?
Tu regina gentil del dotto coro
movi Urania la voce, e 'l plettro d'oro.