Scena prima |
Uranio. Carino. |
(♦) Uranio, Carino |
URANIO |
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CARINO |
Gli è vero, Uranio, e troppo ben per prova te 'l so dir io, che le paterne case giovinetto lasciando, e d'altro vago, che di pascer armenti, o fender solco, or qua, or là peregrinando; alfine torno canuto, onde partii già biondo. Pur è soave cosa a chi del tutto non è privo di senso il patrio nido: che diè natura al nascimento umano verso il caro paese, ov'altri è nato un non so che di non inteso affetto, che sempre vive, e non invecchia mai. Come la calamita, ancor che lunge il sagace nocchier la porti errando, or dove nasce, or dove more il sole, quell'occulta virtute ond'ella mira la tramontana sua, non perde mai: così chi va lontan dalla sua patria; benché molto s'aggiri, e spesse volte in peregrina terra ancor s'annidi; quel naturale amor sempre ritiene, che pur l'inchina alle natie contrade. Oh da me più d'ogn'altra amata, e cara più d'ogn'altra gentil terra d'Arcadia, che col piè tocco, e con la mente inchino: se ne' confini tuoi, madre gentile, foss'io giunto a chiusi occhi, anco t'avrei troppo ben conosciuto. Così tosto m'è corso per le vene un certo amico consentimento incognito, e latente, sì pien di tenerezza, e di diletto, che l'ha sentito in ogni fibra il sangue. Tu dunque, Uranio mio, se del cammino mi se' stato compagno, e del disagio, ben è ragion, che nel gioire ancora delle dolcezze mie tu m'accompagni. | |
URANIO |
Del disagio compagno, e non del frutto stato ti son, che tu se' giunto omai nella tua terra; ove posar le stanche membra potrai, e più la stanca mente. Ma io, che giungo peregrino, e tanto dal mio povero albergo, e dalla mia più povera, e smarrita famigliuola dilungato mi son, teco traendo per lunga via l'affaticato fianco; posso ben ristorar l'afflitte membra, ma non l'afflitta mente, a quel pensando, che m'ho lasciato addietro; e quanto ancora d'aspro cammin per riposar m'avanza. Né so qual altro in questa età canuta m'avesse se non tu, d'Elide tratto, senza saper della cagion, che mosso t'abbia a condurmi in sì remota parte. | |
CARINO |
Tu sai, che 'l mio dolcissimo Mirtillo, che 'l ciel mi diè per figlio, infermo venne qui per sanarsi: e già passati sono duo mesi, e più fors'anco, il mio consiglio, anzi quel dell'oracolo, seguendo, che sol potea sanarlo il ciel d'Arcadia. Io, che veder lontan pegno sì caro lungamente non posso, a quella stessa fatal voce ricorsi, a quella chiesi: del bramato ritorno anco consiglio: la qual rispose in cotal guisa appunto. Torna all'antica patria, ove felice sarai col tuo dolcissimo Mirtillo: però, ch'ivi a gran cose il ciel sortillo; ma fuor d'Arcadia il ciò ridir non lice. Tu dunque, o fedelissimo compagno, diletto Uranio mio, che meco a parte d'ogni fortuna mia se' stato sempre; posa le membra pur, ch'avrai ben onde posar anco la mente. Ogni mia sorte, s'ella pur fia, come l'addita il cielo, teco sarà comune. Indarno fora di sua felicità lieto Carino, se si dolesse Uranio. | |
URANIO |
Ogni fatica, che sia fatta per te, pur che t'aggradi, sempre, Carino mio, seco ha il suo premio. Ma qual fu la cagion, che fe' lasciarti, se t'è sì caro, il tuo natio paese? | |
CARINO |
Musico spirto in giovanil vaghezza d'acquistar fama, ov'è più chiaro il grido, ch'avido anch'io di peregrina gloria, sdegnai, che sola mi lodasse, e sola m'udisse Arcadia, la mia terra; quasi del mio crescente stil termine angusto. E colà venni, ov'è sì chiaro il nome d'Elide, e Pisa, e fa sì chiaro altrui. Quivi il famoso EGON di lauro adorno vidi: poi d'ostro, e di virtù pur sempre: sì che Febo sembrava: ond'io devoto al suo nome sacrai la cetra, e 'l core. E 'n quella parte, ove la gloria alberga, ben mi dovea bastar d'esser omai giunto a quel segno, ov'aspirò il mio core; se come il ciel mi feo felice in terra, così conoscitor, così custode di mia felicità fatto m'avesse. Come poi per veder Argo, e Micene lasciassi Elide, e Pisa; e quivi fussi adorator di deità terrena, con tutto quel, che 'n servitù soffersi; troppo noiosa istoria a te l'udirlo, a me dolente il raccontarlo fora. Ti dirò sol, che perdei l'opra, e 'l frutto. Scrissi, piansi, cantai, arsi, gelai, corsi, stetti, sostenni, or tristo, or lieto, or alto, or basso, or vilipeso, or caro. E come il ferro delfico strumento, or d'impresa sublime, or d'opra vile, non temei risco, e non schivai fatica. Tutto fei, nulla fui. Per cangiar loco, stato, vita, pensier, costumi, e pelo, mai non cangiai fortuna. Alfin conobbi, e sospirai la libertà primiera. E dopo tanti strazi Argo lasciando, e le grandezze di miseria piene, tornai di Pisa ai riposati alberghi: dove, mercé di provvidenza eterna, del mio caro Mirtillo acquisto fei, consolator d'ogni passata noia. | |
URANIO |
Oh mille volte fortunato, e mille chi sa por meta a suoi pensieri in tanto, che per vana speranza immoderata, di moderato ben non perde il frutto. | |
CARINO |
Ma chi creduto avria di venir meno tra le grandezze, e 'mpoverir nell'oro? I' mi pensai, che ne' reali alberghi fossero tanto più le genti umane, quant'esse han più di tutto quel dovizia, ond'è l'umanità sì nobil fregio. Ma vi trovai tutto 'l contrario, Uranio. Gente di nome, e di parlar cortese; ma d'opre scarsa, e di pietà nemica. Gente placida in vista, e mansueta; ma più del cupo mar tumida, e fera. Gente sol d'apparenza; in cui se miri viso di carità, mente d'invidia poi trovi; e 'n dritto sguardo animo bieco; e minor fede allor, che più lusinga. Quel, ch'altrove è virtù, quivi è difetto dir vero: oprar non torto; amar non finto, pietà sincera; inviolabil fede; e di core, e di man vita innocente, stiman d'animo vil, di basso ingegno, sciocchezza, e vanità degna di riso. L'ingannare: il mentir; la frode; il furto e la rapina di pietà vestita; crescer col danno, e precipizio altrui, e far a sé dell'altrui biasmo onore, son le virtù di quella gente infida. Non merto; non valor; non riverenza, né d'età, né di grado. Né di legge; non freno di vergogna; non rispetto, né d'amor, né di sangue non memoria di ricevuto ben; né finalmente cosa sì venerabile, o sì santa, o sì giusta esser può, ch'a quella vasta cupidigia d'onori; a quella ingorda fame d'avere inviolabil sia. Or io, ch'incauto, e di lor arti ignaro sempre mi vissi; e portai scritto in fronte il mio pensiero, e disvelato il core, tu puoi pensar s'a non sospetti strali d'invida gente fui scoperto segno. | |
URANIO |
Or chi dirà d'esser felice in terra, se tanto alla virtù noce l'invidia? | |
CARINO |
Uranio mio, se da quel dì, che meco passò la musa mia d'Elide in Argo, avessi avuto di cantar tant'agio, quanta cagion di lagrimar sempr'ebbi, con sì sublime stil forse cantato avrei del mio signor l'armi, e gli onori, ch'or non avria de la meonia tromba da invidiar Achille; e la mia patria, madre di cigni sfortunati, andrebbe già per me cinta del secondo alloro. Ma oggi è fatta (oh secolo inumano) l'arte del poetar troppo infelice. Lieto nido, esca dolce; aura cortese bramano i cigni; e non si va in Parnaso con le cure mordaci: e chi pur garre sempre col suo destino, e col disagio, vien roco, e perde il canto, e la favella. Ma tempo è già di ricercar Mirtillo, benché sì nuove, e sì cangiate i' trovi, da quel ch'esser solean, queste contrade, che 'n esse a pena i' riconosco Arcadia. Con tutto ciò vien lietamente, Uranio. Scorta non manca a peregrin, c'ha lingua. Ma forse è ben ch'al più vicino ostello, poiché se' stanco, a riposar ti resti. | |
Uranio, Carino -> | ||
Scena seconda |
Titiro. Messo. |
<- Titiro |
TITIRO |
Che piangerò di te prima, mia figlia, la vita, o l'onestate? Piangerò l'onestate; che di padre mortal se' tu ben nata, ma non di padre infame: e 'nvece della tua, piangerò la mia vita; oggi serbata a veder in te spenta la vita, e l'onestate. Oh Montano, Montano, tu sol co' tuoi fallaci, e mali intesi oracoli, e col tuo d'amore, e di mia figlia disprezzator superbo, a cotal fine l'hai tu condotta. Ahi quanto meno incerti, degli oracoli tuoi, son oggi stati i miei. Ch'onestà contr'Amore è troppo frale schermo in giovinetto core. E donna scompagnata è sempre mal guardata. | |
<- Messo | ||
MESSO |
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TITIRO |
Che rechi tu nella tua lingua? Il ferro che svenò la mia figlia? | |
MESSO |
Questo non già; ma poco meno: e come l'hai tu per altra via sì tosto inteso? | |
TITIRO |
Vive ella dunque? | |
MESSO |
Vive, e 'n man di lei sta il vivere, e 'l morire. | |
TITIRO |
Benedetto sii tu, che m'hai da morte tornato in vita. Or come non è salva, s'a lei sta il non morire? | |
MESSO |
Perché viver non vuole. | |
TITIRO |
Viver non vuole? E qual follia l'induce a sprezzar sì la vita? | |
MESSO |
L'altrui morte. E se tu non la smovi, ha così fisso il suo pensiero in questo, che spende ogn'altro in van preghi, e parole. | |
TITIRO |
Or che si tarda? Andiamo. | |
MESSO |
Fermati, che le porte del tempio ancor son chiuse. Non sai tu, che toccar la sacra soglia, se non a piè sacerdotal non lice; finché non esca del sacrario adorna la destinata vittima agli altari? | |
TITIRO |
E s'ella desse intanto al fiero suo proponimento effetto? | |
MESSO |
Non può, ch'è custodita. | |
TITIRO |
In questo mezzo dunque narrami il tutto; e senza velo omai fa', che 'l vero n'intenda. | |
MESSO |
Giunta dinanzi al sacerdote (ahi vista piena d'orror) la tua dolente figlia; che trasse, non dirò dai circostanti; ma, per mia fé, dalle colonne ancora del tempio stesso, e dalle dure pietre, che senso aver parean, lagrime amare, fu quasi in un sol punto accusata, convinta, e condannata. | |
TITIRO |
Misera figlia. E perché tanta fretta? | |
MESSO |
Perché della difesa eran gli indici troppo maggiori; e certa sua ninfa, ch'ella in testimon recava dell'innocenza sua, né quivi era presente, né fu mai chi trovar la sapesse. I fieri segni intanto, e gli accidenti mostruosi, e pieni di spavento, e d'orror, che son nel tempio non pativano indugio: tanto più gravi a noi, quanto più nuovi, e più mai non sentiti dal dì, che minacciar l'ira celeste, vendicatrice dei traditi amori del sacerdote Aminta: sola cagion d'ogni miseria nostra. Suda sangue la dèa; trema la terra; e la caverna sacra mugge tutta, e risuona d'insoliti ululati, e di funesti gemiti; e fiato sì putente spira, che dall'immonde fauci più grave non cred'io, l'esali Averno. Già con l'ordine sacro, per condur la tua figlia a cruda morte, il sacerdote s'inviava; quando, vedendola Mirtillo (oh che stupendo caso udirai), s'offerse di dar con la sua morte a lei la vita: gridando ad alta voce. Sciogliete quelle mani: ah lacci indegni; ed invece di lei, ch'esser dovea vittima di Diana; me traete agli altari, vittima d'Amarilli. | |
TITIRO |
Oh di fedele amante, e di cor generoso atto cortese. | |
MESSO |
Or odi meraviglia. Quella, che fu pur dianzi sì dalla tema del morire oppressa; fatta allor di repente, alle parole di Mirtillo invitta, con intrepido cor così rispose. Pensi dunque, Mirtillo, di dar col tuo morire vita a chi di te vive? Oh miracolo ingiusto. Su ministri: su, che si tarda? Omai menatemi agli altari. Ah che tanta pietà non volev'io, soggiunse allor Mirtillo. Torna cruda Amarilli, che cotesta pietà sì dispietata, troppo di me la miglior parte offende. A me tocca il morire. Anzi a me pure rispondeva Amarilli, che per legge son condannata. E quivi si contendea tra lor, come s'appunto fosse vita il morire, il viver morte. Oh anime ben nate: oh coppia degna di sempiterni onori: oh vivi, e morti gloriosi amanti. Se tante lingue avessi, e tante voci, quant'occhi il cielo, e quante arene il mare perderien tutte il suono, e la favella nel dir appien le vostre lodi immense. Figlia del cielo eterna, e gloriosa donna, che l'opre de' mortali al tempo involi, accogli tu la bella istoria, e scrivi con lettere d'oro in solido diamante l'alta pietà dell'uno, e l'altro amante. | |
TITIRO |
Ma qual fin ebbe poi quella mortal contesa? | |
MESSO |
Vinse Mirtillo. Oh che mirabil guerra, dove del vivo ebbe vittoria il morto. Però che 'l sacerdote disse alla figlia tua. Quetati, Ninfa che campar per altrui non può, chi per altrui s'offerse a morte: così la legge nostra a noi prescrive. Poi comandò, che la donzella fosse sì ben guardata, che 'l dolore estremo a disperato fin non la traesse. In tale stato eran le cose, quando di te mandommi a ricercar Montano. | |
TITIRO |
Insomma egli è pur vero, senz' odorati fiori le rive, e i poggi, e senza i verdi onori vedrai le selve alla stagion novella, prima che senza amor vaga donzella: ma, se qui dimoriam, come sapremo l'ora di gir al tempio? | |
MESSO |
Qui meglio assai, ch'altrove; che questo appunto è 'l loco, ov'esser deve il buon pastore in sacrificio offerto. | |
TITIRO |
E perché non nel Tempio? | |
MESSO |
Perché si dà la pena, ove fu il fallo. | |
TITIRO |
E perché no nell'antro, se nell'antro fu il fallo? | |
MESSO |
Perché a scoperto ciel sacrar si deve. | |
TITIRO |
Ed onde hai tu questi misteri intesi? | |
MESSO |
Dal ministro maggior. Così dic'egli dall'antico Tirenio aver inteso, che 'l fido Aminta, e l'infedel Lucrina sacrificati furo. Ma tempo è di partire. Ecco che scende la sacra pompa al piano. Sarà forse ben fatto, che per quest'altra via ce n'andiam noi per la tua figlia al tempio. | |
Messo, Titiro -> | ||
Scena terza |
Coro di Pastori. Coro di Sacerdoti. Montano. Mirtillo. |
<- pastori, sacerdoti, Montano, Mirtillo |
CORO DI PASTORI |
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CORO DI SACERDOTI |
Tu, che col tuo vitale, e temperato raggio, scemi l'ardor della fraterna luce, onde quaggiù produce felicemente poi l'alma natura tutti i suoi parti; e fa d'erbe, e di piante, d'uomini, e d'animai ricca, e feconda l'aria, la terra, e l'onda: deh, sì come in altrui tempri l'arsura, così spegni in te l'ira, ond'oggi Arcadia tua piange, e sospira. | |
CORO DI PASTORI |
Oh figlia del gran Giove; oh sorella del sol, ch'al cieco mondo splendi nel primo ciel Febo secondo. | |
MONTANO |
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CORO DI PASTORI |
Oh figlia del gran Giove; oh sorella del sol, ch'al cieco mondo splendi nel primo ciel Febo secondo. | |
MONTANO |
Traetevi in disparte, pastori, e servi miei: né qua venite, se dalla voce mia non sete mossi. Giovane valoroso, che, per dar vita altrui, vita abbandoni, mori pur consolato. Tu con un breve sospirar, che morte sembra agli animi vili, immortalmente al tuo morir t'involi. E quando avrà già fatto l'invida età dopo mill'anni, e mille di tanti nomi altrui l'usato scempio, vivrai tu allor di vera fede esempio. Ma perché vuol la legge, che taciturna vittima tu moia, prima, che pieghi le ginocchia a terra, se cosa hai qui da dir, dilla, e poi taci. | |
MIRTILLO |
Padre, che padre di chiamarti, ancora che morir debbia per tua man, mi giova, lascio il corpo alla terra, e lo spirto a colei ch'è la mia vita. Ma s'avvien ch'ella moia, come di far minaccia, ohimè qual parte di me resterà viva? Oh che dolce morir, quando sol meco il mio mortal moria, né bramava morir l'anima mia. Ma se merta pietà; colui che more per soverchia pietà; padre cortese, provvedi tu, ch'ella non moia; e ch'io con questa speme a miglior vita i' passi. Paghisi il mio destin della mia morte; sfoghisi col mio strazio. Ma poi ch'io sarò morto, ah non mi tolga, ch'i' viva almeno in lei con l'alma dalle membra disunita, se d'unirmi con lei mi tolse in vita. | |
MONTANO |
A gran pena le lagrime ritegno. Oh nostra umanità quanto se' frale. Figlio, sta' di buon cor; che quanto brami di far prometto: e ciò per questo capo ti giuro: e questa man ti do per pegno. | |
MIRTILLO |
Or consolato moro, e consolato a te vengo, Amarilli. Ricevi il tuo Mirtillo, del tuo fido pastor l'anima prendi, che nell'amato nome d'Amarilli terminando la vita, e le parole, qui piego a morte le ginocchia; e taccio. | |
MONTANO |
Or non s'indugi più, sacri ministri suscitate la fiamma; e spargendovi sopra incenso, e mirra, traetene vapor: ch'in alto ascenda. | |
CORO DI PASTORI |
Oh figlia del gran Giove; oh sorella del sol ch'al cieco mondo, splendi nel primo ciel Febo secondo. | |
Scena quarta |
Carino. Montano. Nicandro, Mirtillo. |
<- Carino, Nicandro |
CARINO |
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MONTANO |
Porgimi il vasel d'oro, Nicandro, ov'è riposto l'almo licor di Bacco. | |
NICANDRO |
Eccote 'l pronto. | |
MONTANO |
Così il sangue innocente ammollisca il tuo petto, o santa dèa, come rammorbidisce l'incenerita, ed arida favilla questa, d'almo licor, cadente stilla. Or tu riponi il vasel d'oro, e poscia dammi il nappo d'argento. | |
NICANDRO |
Eccoti il nappo. | |
MONTANO |
Così l'ira sia spenta, che destò nel tuo cor, perfida ninfa, come spegne la fiamma questa cadente linfa. | |
CARINO |
Pur questo è sacrificio, né vittima ci veggio. | |
MONTANO |
Or tutto è preparato, né manca altro che 'l fin. Dammi la scure. | |
CARINO |
Vegg'io forse, o m'inganno: un che nel tergo ad uom si rassomiglia, con le ginocchia a terra? È forse egli la vittima? Oh meschino, egli è per certo: e gli tien già la mano il Sacerdote in capo. Infelice mia patria: ancor non hai l'ira del ciel dopo tant'anni estinta? | |
CORO DI PASTORI |
Oh figlia del gran Giove; oh sorella del sol, ch'al cieco mondo, splendi nel primo ciel Febo secondo. | |
MONTANO |
Vindice dèa, che la privata colpa, con pubblico flagello in noi punisci (così ti piace, e forse così sta nell'abisso dell'immutabil provvidenza eterna) poi, che l'impuro sangue dell'infedel Lucrina in te non valse a dissetar quella giustizia ardente, che del ben nostro ha sete, bevi questo innocente di volontaria vittima, e d'amante non men d'Aminta fido, ch'al sacro altare in tua vendetta uccido. | |
CORO DI PASTORI |
Oh figlia del gran Giove; oh sorella del sol, ch'al cieco mondo, splendi nel primo ciel Febo secondo. | |
MONTANO |
Deh come di pietà pur ora il petto intenerirmi sento: che 'nsolito stupor mi lega i sensi. Par che non osi il cor, né la man possa levar questa bipenne. | |
CARINO |
Vorrei prima nel viso veder quell'infelice, e poi partirmi, che non posso mirar cosa sì fiera. | |
MONTANO |
Chissà, che 'n faccia al sol, ben che tramonti non sia fallo il sacrar vittima umana? E perciò la fortezza languisca in me dell'animo, e del corpo? Volgiti alquanto: e gira la moribonda faccia inverso il monte. Così sta ben. | |
CARINO |
Misero me; che veggio? Non è quello il mio figlio? Il mio caro Mirtillo? | |
MONTANO |
Or posso. | |
CARINO |
È troppo desso. | |
MONTANO |
E 'l colpo libro. | |
CARINO |
Che fai, sacro ministro? | |
MONTANO |
E tu, uomo profano, perché ritieni il sacro ferro, ed osi di por tu qui la temeraria mano? | |
CARINO |
Oh Mirtillo, ben mio: già d'abbracciarti in sì dolente guisa. | |
NICANDRO |
Va' in malora insolente, e pazzo vecchio. | |
CARINO |
Non mi credev'io mai. | |
NICANDRO |
Scostati dico, che con impura man toccar non lice cosa sacra agli dèi. | |
CARINO |
Caro agli dèi son ben anch'io; che con la scorta loro qui mi condussi. | |
MONTANO |
Cessa, Nicandro. Udiamlo prima, e poi si parta. | |
CARINO |
Deh, ministro cortese, prima, che sopra il capo di quel garzon cada il tuo ferro, dimmi perché more il meschino. Io te ne prego per quella dèa ch'adori. | |
MONTANO |
Per nume tal tu mi scongiuri, ch'empio sarei, se te 'l negassi: ma che t'importa ciò? | |
CARINO |
Più che non credi. | |
MONTANO |
Perch'egli stesso a volontaria morte s'è per altrui donato. | |
CARINO |
Dunque per altrui more? Anch'io morrò per lui. Deh per pietate drizza invece di quello a questo capo già cadente il colpo. | |
MONTANO |
Amico, tu vaneggi. | |
CARINO |
E perché a me si nega, quel ch'a lui si concede? | |
MONTANO |
Perché se' forestiero. | |
CARINO |
E s'io non fussi? | |
MONTANO |
Né fare anco il potresti: che campar per altrui non può, chi per altrui s'offerse a morte. Ma dimmi chi se' tu? Se pur è vero che non sii forestiero: all'abito tu certo arcade non mi sembri. | |
CARINO |
Arcade sono. | |
MONTANO |
In questa terra già non mi sovviene d'averti io mai veduto. | |
CARINO |
In questa terra nacqui, e son Carino, padre di quel meschino. | |
MONTANO |
Padre tu di Mirtillo? Oh come giugni a te stesso, ed a noi troppo importuno, scostati immantenente, che col paterno affetto render potresti infruttuoso, e vano il sacrificio nostro. | |
CARINO |
Ah, se tu fussi padre. | |
MONTANO |
Son padre, e padre ancor d'unico figlio; e pur tenero padre: nondimeno, se questo fosse del mio Silvio il capo, già non sarei men pronto a far di lui quel, che del tuo far deggio. Che sacro manto indegnamente veste chi per pubblico ben del suo privato comodo non si spoglia. | |
CARINO |
Lascia ch'i 'l baci almen prima che mora. | |
MONTANO |
E questo molto meno. | |
CARINO |
O sangue mio, e tu ancor se' sì crudo, che non rispondi al tuo dolente padre? | |
MIRTILLO |
Deh padre omai t'acqueta. | |
MONTANO |
Oh noi meschini contaminato è 'l sacrificio. Oh dèi. | |
MIRTILLO |
Che spender non potrei più degnamente la vita, che m'hai data. | |
MONTANO |
Troppo ben m'avvisai, ch'alle paterne lagrime costui romperebbe il silenzio. | |
MIRTILLO |
Misero, qual errore ho io commesso: o come la legge del tacer m'uscì di mente? | |
MONTANO |
Ma che si tarda? Su ministri: al tempio rimenatelo tosto; e nella sacra cella un'altra volta da lui si prenda il volontario voto. Qui poscia ritornandolo, portate con esso voi per sacrificio novo, nov'acqua, novo vino, e novo foco. Su speditevi tosto, che già s'inchina il sole. | |
Mirtillo, Nicandro, sacerdoti, pastori -> | ||
Scena quinta |
Montano. Carino. Dameta. |
<- Dameta |
MONTANO |
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CARINO |
Per domandar mercede signoria non s'offende. | |
MONTANO |
Troppo t'ho io sofferto; e tu per questo se' venuto insolente. Né sai tu, che se l'ira in giusto petto lungamente si coce, quanto più tarda fu, tanto più noce. | |
CARINO |
Tempestoso furor non fu mai l'ira in magnanimo petto; ma un fiato sol di generoso affetto, che spirando nell'alma, quand'ella è più con la ragione unita, la desta, e rende alle bell'opre ardita. Dunque se grazia non impetro, almeno fa', che giustizia i' trovi; e ciò negarmi per debito non puoi: che chi dà legge altrui, non è da legge in ogni parte sciolto: e quanto se' maggiore nel comandar, tanto più d'ubbidire se' tenut'anco a chi giustizia chiede: ed ecco i' te la chieggio: s'a me far non la vuoi, falla a te stesso, che Mirtillo uccidendo, ingiusto sei. | |
MONTANO |
E come ingiusto son? Fa' che l'intenda. | |
CARINO |
Non mi dicesti tu, che qui non lice sacrificar d'uomo straniero il sangue? | |
MONTANO |
Dissilo, e dissi quel, che 'l ciel comanda. | |
CARINO |
Pur quello è forestier, che sacrar vuoi. | |
MONTANO |
E come forestier? Non è tuo figlio? | |
CARINO |
Bastiti questo, e non cercar più innanzi. | |
MONTANO |
Forse perché tra noi no 'l generasti? | |
CARINO |
Spesso men sa, chi troppo intender vuole. | |
MONTANO |
Ma qui s'attende il sangue, e non il loco. | |
CARINO |
Perché no 'l generai, straniero il chiamo. | |
MONTANO |
Dunque è tuo figlio, e tu no 'l generasti? | |
CARINO |
E se no 'l generai, non è mio figlio. | |
MONTANO |
Non mi dicesti tu, ch'è di te nato? | |
CARINO |
Dissi ch'è figlio mio, non di me nato. | |
MONTANO |
Il soverchio dolor t'ha fatto insano. | |
CARINO |
Non sentirei dolor, se fussi insano. | |
MONTANO |
Non puoi fuggir d'esser malvagio, o stolto. | |
CARINO |
Come può star malvagità col vero? | |
MONTANO |
Come può star in un figlio, e non figlio? | |
CARINO |
Può star, figlio d'amor, non di natura. | |
MONTANO |
Dunque s'è figlio tuo, non è straniero; e se non è, non hai ragione in lui: così convinto se' padre, o non padre. | |
CARINO |
Sempre di verità non è convinto chi di parole è vinto. | |
MONTANO |
Sempre convinta è di colui la fede, che nel suo favellar si contraddice. | |
CARINO |
Ti torno a dir, che tu fai opra ingiusta. | |
MONTANO |
Sopra questo mio capo, e sopra il capo di mio figlio cada tutta questa ingiustizia. | |
CARINO |
Tu te ne pentirai. | |
MONTANO |
Ti pentirai ben tu, se non mi lasci fornir l'ufficio mio. | |
CARINO |
In testimon ne chiamo uomini, e dèi. | |
MONTANO |
Chiami tu forse i dèi ch'hai disprezzati? | |
CARINO |
E poiché tu non m'odi, odami cielo, e terra, odami la gran dèa, che qui s'adora, che Mirtillo è straniero, e che non è mio figlio, e che profani il sacrificio santo. | |
MONTANO |
Il ciel m'aiuti con quest'uomo importuno. Chi è dunque suo padre, se non è figlio tuo? | |
CARINO |
Non te 'l so dire. So ben, che non son io. | |
MONTANO |
Vedi come vacilli? È egli del tuo sangue? | |
CARINO |
Né questo ancora. | |
MONTANO |
E perché figlio il chiami? | |
CARINO |
Perché l'ho come figlio, dal primo dì, ch'i' l'ebbi, per fin a questa età sempre nudrito nelle mie case, e come figlio amato. | |
MONTANO |
Il comprasti? Il rapisti? Onde l'avesti? | |
CARINO |
In Elide l'ebb'io, cortese dono d'uomo straniero. | |
MONTANO |
E quell'uomo straniero donde l'ebb'egli? | |
CARINO |
A lui l'avea dat'io. | |
MONTANO |
Sdegno tu movi in un sol punto, e riso. Dunque avesti tu in dono quel, che donato avevi? | |
CARINO |
Quel ch'era suo gli diedi, ed egli a me ne fe' cortese dono. | |
MONTANO |
E tu (poi ch'oggi a vaneggiar mi tiri) onde avuto l'avevi? | |
CARINO |
In un cespuglio d'odorato mirto poco prima i' l'aveva nella foce d'Alfeo trovato a caso; per questo solo il nominai Mirtillo. | |
MONTANO |
Oh come ben favole fingi, ed orni. Han fere i vostri boschi? | |
CARINO |
E di che sorte? | |
MONTANO |
Come no 'l divoraro? | |
CARINO |
Un rapido torrente l'avea portato in quel cespuglio, e quivi lasciatolo, nel seno di picciola isoletta, che d'ogn'intorno il difendea con l'onda. | |
MONTANO |
Tu certo ordisci ben menzogne, e fole; ed era stata sì pietosa l'onda, che non l'avea sommerso? Son sì discreti in tuo paese i fiumi, che nudriscon gl'infanti? | |
CARINO |
Posava entr'una culla: e questa quasi discreta navicella, d'altra soda materia, che soglion ragunar sempre i torrenti, accompagnata, e cinta, l'avea portato in quel cespuglio a caso. | |
MONTANO |
Posava entro una culla? | |
CARINO |
Entr'una culla. | |
MONTANO |
Bambino in fasce? | |
CARINO |
E ben vezzoso ancora. | |
MONTANO |
E quanto ha, che fu questo? | |
CARINO |
Fa' tuo conto, che son passati già diciannove anni dal gran diluvio. E son tant'anni appunto. | |
MONTANO |
Oh qual mi sento orror vagar per l'ossa. | |
CARINO |
Egli non sa che dire. Oh superbo costume delle grand'alme: oh pertinace ingegno, che vinto anco non cede; e pensa d'avanzar così di senno, come di forze avanza. Questi certo è convinto, e se ne duole. S'io bene al mal inteso suo mormorar l'intendo: e 'n qualche modo ch'avesse pur di verità sembianza, coprir vorrebbe il fallo dell'ostinata mente. | |
MONTANO |
Ma che ragione in quel bambino avea quell'uom, di cui tu parli? Era suo figlio? | |
CARINO |
Questo non ti so dir. | |
MONTANO |
Né mai di lui notizia avesti tu maggior di questa? | |
CARINO |
Tanto appunto ne so. Vedi novelle. | |
MONTANO |
Conosceresti 'l? | |
CARINO |
Sol ch'io 'l vedessi, rozzo pastor all'abito, ed al viso. Di mezzana statura, e di pel nero; d'ispida barba, e di setose ciglia. | |
MONTANO |
Venite a me, pastori, e servi miei. | |
DAMETA |
Eccoci pronti. | |
MONTANO |
Or mira a qual di questi più si rassomiglia l'uom di cui parli. | |
CARINO |
A quel, che teco parla, non sol si rassomiglia, ma quegli appunto è desso: e mi par quello stesso, ch'era vent'anni già; ch'un pelo solo non ha canuto, ed io son tutto bianco. | |
MONTANO |
Tornatevi in disparte; e tu qui meco resta, Dameta, e dimmi: conosci tu costui? | |
DAMETA |
Mi par di sì; ma dove già non so dirti, o come. | |
CARINO |
Or io di tutto ben ricordar farollo. | |
MONTANO |
A me tu prima lascia favellar seco; e non t'incresca d'allontanarti alquanto. | |
CARINO |
E volentieri fo quanto mi comandi. | |
MONTANO |
Or mi rispondi, Dameta, e guarda ben di non mentire. | |
CARINO |
Che sarà questo, o dèi? | |
MONTANO |
Tornando tu da ricercar (già sono vent'anni) il mio bambin; che con la culla rapì il fiero torrente; non mi dicesti tu, che le contrade tutte, che bagna Alfeo, cercate avevi senz'alcun frutto? | |
DAMETA |
E perché ciò mi chiedi? | |
MONTANO |
Rispondi a questo pur. Non mi dicesti, che ritrovato non l'avevi? | |
DAMETA |
Il dissi. | |
MONTANO |
Or che bambino è quello, ch'allor donasti in Elide a colui, che qui t'ha conosciuto? | |
DAMETA |
Or son vent'anni, e vuoi ch'un vecchio si ricordi tanto? | |
MONTANO |
Ed egli è vecchio, eppur se ne ricorda. | |
DAMETA |
Piuttosto egli vaneggia. | |
MONTANO |
Or il vedremo. Dove se', peregrino? | |
CARINO |
Eccomi. | |
DAMETA |
Oh fossi tanto sotterra. | |
MONTANO |
Dimmi, non è questo il pastor, che ti f' il dono? | |
CARINO |
Questo per certo. | |
DAMETA |
E di qual dono parli? | |
CARINO |
Non ti ricordi tu, quando nel tempio dell'olimpico Giove; avendo quivi dall'Oracolo avuta già la risposta; e stando tu per partire, i' mi ti feci incontro, chiedendoti di quello, che ricercavi i segni, e tu li desti: indi poi ti condussi alle mie case, e quivi il tuo bambino trovasti in culla, e me ne festi il dono? | |
DAMETA |
Che vuoi tu dir per questo? | |
CARINO |
Or quel bambino, ch'allor tu mi donasti, e ch'io poi sempre ho come figlio appresso me nudrito, è 'l misero garzon, ch'a questi altari vittima è destinato. | |
DAMETA |
Oh forza del destino. | |
MONTANO |
Ancor t'infingi? È vero tutto ciò, ch'egli t'ha detto? | |
DAMETA |
Così morto fuss'io, com'è ben vero | |
MONTANO |
Ciò t'avverrà, s'anco nel resto menti. E qual cagion ti mosse a donar quello altrui, che tuo non era? | |
DAMETA |
Deh non cercar più innanzi, padron; deh non per dio, bastiti questo. | |
MONTANO |
Più sete or me ne viene. Ancor mi tieni a bada? Ancor non parli? Morto, se' tu, s'un'altra volta il chiedo. | |
DAMETA |
Perché m'avea l'oracolo predetto, che 'l trovato bambin correa periglio, se mai tornava alle paterne case, d'esser dal padre ucciso. | |
CARINO |
E questo è vero, che mi trovai presente. | |
MONTANO |
Ohimè, che tutto già troppo è manifesto. Il caso è chiaro. Col sogno, e col destin s'accorda il fatto. | |
CARINO |
Or che ti resta più? Vuoi tu chiarezza di questa anco maggior? | |
MONTANO |
Troppo son chiaro. Troppo dicesti tu. Troppo intes'io. Cercato avess'io men. Tu men saputo. O Carino, Carino, come teco dolor cangio, e fortuna. Come gli affetti tuoi son fatti miei. Questo è mio figlio. Oh figlio troppo infelice d'infelice padre: figlio dall'onde assai più fieramente salvato, che rapito: poiché cader per le paterne mani dovevi ai sacri altari, e bagnar del tuo sangue il patrio suolo. | |
CARINO |
Padre tu di Mirtillo? Oh meraviglia. In che modo il perdesti? | |
MONTANO |
Rapito fu da quel diluvio orrendo, che testé mi dicevi. Oh caro pegno, tu fusti salvo allor, che ti perdei; ed or solo ti perdo, perché trovato sei. | |
CARINO |
Oh provvidenza eterna, con qual alto consiglio, tanti accidenti hai fin'a qui sospesi, per farli poi cader tutti in un punto. Gran cosa hai tu concetta; gravida se' di mostruoso parto, o gran bene, o gran male partorirai tu certo. | |
MONTANO |
Questo fu quel, che mi predisse il sogno. Ingannevole sogno; nel mal troppo verace; nel ben troppo bugiardo: questa fu quella insolita pietate: quell'improvviso orrore, che nel mover del ferro sentii scorrer per l'ossa: ch'aborriva natura un così fiero, per man del padre, abominevol colpo. | |
CARINO |
Ma che? Darai tu dunque a sì nefando sacrificio effetto? | |
MONTANO |
Non può per altra man vittima umana cader a questi altari. | |
CARINO |
Il padre al figlio darà dunque la morte? | |
MONTANO |
Così comanda a noi la nostra legge. E qual sarà di perdonarla altrui carità sì possente, se non volle perdonar a sé stesso il fido Aminta? | |
CARINO |
Oh malvagio destino, dove m'hai tu condotto? | |
MONTANO |
A veder di duo padri la soverchia pietà fatta omicida; la tua verso Mirtillo, la mia verso gli dèi. Tu credesti salvarlo col negar d'esser padre, e l'hai perduto. Io cercando, e credendo d'uccider il tuo figlio, il mio trovo, e l'uccido. | |
CARINO |
Ecco l'orribil mostro, che partorisce il fato. Oh caso atroce; oh Mirtillo mia vita. È questo quello, che m'ha di te l'oracolo predetto? Così nella mia terra mi fai felice? Oh figlio, figlio di questo sventurato vecchio già sostegno, e speranza; or pianto, e morte. | |
MONTANO |
Lascia a me queste lagrime, Carino, che piango il sangue mio. Ah perché sangue mio, se l'ho da sparger io? Misero figlio, perché ti generai? Perché nascesti? A te dunque la vita salvò l'onda pietosa, perché te la togliesse il crudo padre? Santi numi immortali, senz'il cui alto intendimento eterno, neppur in mar un'onda si move, o in aria spirto, o in terra fronda, qual sì grave peccato ho contra voi commesso, ond'io sia degno di venir col mio seme in ira al cielo? Ma s'ho pur peccat'io, in che peccò il mio figlio? Ché non perdoni a lui? E con un soffio del tuo sdegno ardente me folgorando, non ancidi, o Giove? Ma se cessa il tuo strale, non cesserà il mio ferro. Rinnoverò d'Aminta il doloroso esempio; e vedrà prima il figlio estinto il padre, che 'l padre uccida di sua mano il figlio. Mori dunque, Montano. Oggi morire a te tocca, a te giova. Numi, non so s'io dica del cielo, o dell'inferno, che col duolo agitate la disperata mente; ecco, il vostro furore; poiché così vi piace, ho già concetto. Non bramo altro che morte: altra vaghezza non ho, che del mio fine. Un funesto desio d'uscir di vita tutto m'ingombra, e par che mi conforte. Alla morte, alla morte. | |
CARINO |
Oh infelice vecchio; come il lume maggiore la minor luce abbaglia, così il dolor, che del tuo male i' sento, il mio dolore ha spento. Certo se' tu d'ogni pietà ben degno. | |
Dameta -> | ||
Scena sesta |
Tirenio. Montano. Carino. |
<- Tirenio |
TIRENIO |
||
MONTANO |
Ma non è quel, che colà veggio il nostro venerando Tirenio, ch'è cieco in terra, e tutto vede in cielo? Qualche gran cosa il move: che da molt'anni in qua non s'è veduto fuor della sacra cella. | |
CARINO |
Piaccia all'alta bontà de' sommi dèi che per te lieto, ed opportuno giunga. | |
MONTANO |
Che novità vegg'io, padre Tirenio? Tu fuor del tempio? Ove ne vai? Che porti? | |
TIRENIO |
A te solo ne vengo; e nuove cose porto, e nuove cerco. | |
MONTANO |
Come teco non è l'ordine sacro? Che tarda? Ancor non torna con la purgata vittima, e col resto, ch'all'interrotto sacrificio manca? | |
TIRENIO |
Oh quanto spesso giova la cecità degli occhi al veder molto. Ch'allor non traviata l'anima, ed in sé stessa tutta raccolta, suole aprir nel cieco senso occhi lincei. Non bisogna, Montano, passar sì leggermente alcuni gravi non aspettati casi, che tra l'opere umane han del divino. Però che i sommi dèi non conversano in terra, né favellan con gli uomini mortali; ma tutto quel di grande, o di stupendo, ch'al cieco caso il cieco volgo ascrive, altro non è che favellar celeste: così parlan tra noi gli eterni numi: queste son le lor voci; mute all'orecchie, e risonanti al core di chi le 'ntende. Oh quattro volte, e sei fortunato colui, che ben le 'ntende. Stava già per condur l'ordine sacro, come tu comandasti, il buon Nicandro; ma il ritenn'io per accidente nuovo nel tempio occorso: ed è ben tal, che mentre vo con quello accoppiandolo, che quasi in un medesmo tempo è oggi a te incontrato: un non so che d'insolito, e confuso tra speranza, e timor tutto m'ingombra, che non intendo: e quanto men l'intendo, tanto maggior concetto o buono, o rio ne prendo. | |
MONTANO |
Quel che tu non intendi, troppo intend'io miseramente, e 'l provo. Ma dimmi. A te, che puoi penetrar del destin gli alti segreti, cosa alcuna s'asconde? | |
TIRENIO |
Oh figlio, figlio: se volontario fosse del profetico lume il divin'uso, saria don di natura, e non del cielo. Sento ben io nell'indigesta mente, che 'l ver m'asconde il fato, e si riserba alto segreto in seno. Questa sola cagione a te mi mosse, vago d'intender meglio, chi è colui, che s'è scoperto padre (se da Nicandro ho ben inteso il fatto) di quel garzon, ch'è destinato a morte. | |
MONTANO |
Troppo il conosci. Oh quanto ti dorrà poi, Tirenio, ch'ei ti sia tanto noto, e tanto caro. | |
TIRENIO |
Lodo la tua pietà, ch'umana cosa è l'aver degli afflitti compassione, oh figlio. Nondimeno fa' pur, che seco i' parli. | |
MONTANO |
Veggio ben'or, che 'l cielo, quanto aver già solevi, di presaga virtute, in te sospende. Quel padre, che tu chiedi, e con cui brami di parlar, son io. | |
TIRENIO |
Tu padre di colui, ch'è destinato vittima alla gran dèa? | |
MONTANO |
Son quel misero padre di quel misero figlio. | |
TIRENIO |
Di quel fido pastore, che, per dar vita altrui, s'offerse a morte? | |
MONTANO |
Di quel, che fa morendo viver, chi gli dà morte; morir, chi gli diè vita. | |
TIRENIO |
E questo è vero? | |
MONTANO |
Eccone il testimonio. | |
CARINO |
Ciò che t'ha detto è vero. | |
TIRENIO |
E chi se' tu, che parli? | |
CARINO |
Io son Carino, padre fin qui di quel garzon creduto. | |
TIRENIO |
Sarebbe questo mai quel tuo bambino, che ti rapì il diluvio? | |
MONTANO |
Ah tu l'hai detto, Tirenio. | |
TIRENIO |
E tu per questo ti chiami padre misero, Montano? Oh cecità delle terrene menti; in qual profonda notte, in qual fosca caligine d'errore son le nostr'alme immerse, quando tu non le illustri, oh sommo sole. A che del saper vostro insuperbite, oh miseri mortali? Questa parte di noi, che 'ntende, e vede, non è nostra virtù, ma vien dal cielo. Esso la dà come a lui piace, e toglie. O Montano, di mente assai più cieco, che non son io di vista, qual prestigio, qual demone t'abbaglia, sì, che s'egli è pur vero, che quel nobil garzon sia di te nato, non ti lasci veder, ch'oggi se' pure il più felice padre, il più caro agli dèi di quanti al mondo generasser mai figli? Ecco l'alto segreto, che m'ascondeva il fato. Ecco il giorno felice, con tanto nostro sangue, e tante nostre lagrime aspettato. Ecco il beato fin de' nostri affanni. Oh Montano, ove se'? Torna in te stesso. Come a te solo è della mente uscito l'oracolo famoso? Il fortunato oracolo nel core di tutta Arcadia impresso? Come, col lampeggiar, ch'oggi ti mostra inaspettatamente il caro figlio, non senti il tuon della celeste voce? Non avrà prima fin quel, che v'offende che duo semi del ciel congiunga Amore. (Scaturiscon dal core lagrime di dolcezza in tanta copia, ch'io non posso parlar). Non avrà prima non avrà prima fin quel, che v'offende, che duo semi del ciel congiunga Amore; e di donna infedel l'antico errore, l'alta pietà d'un PASTOR FIDO ammende. Or dimmi tu, Montan; questo pastore, di cui si parla; e che dovea morire, non è seme del ciel, s'è di te nato? Non è seme del cielo anco Amarilli? E chi gli ha insieme avvinti altro che Amore? Silvio fu dai parenti e fu per forza con Amarilli in matrimonio stretto. Ed è tanto lontan, che gli strignesse nodo amoroso; quanto l'aver in odio è dall'amar lontano. Ma s'esamini il resto, apertamente vedrai, che di Mirtillo ha solo inteso la fatal voce. E qual si vide mai, dopo il caso d'Aminta, fede d'amor, che s'agguagliasse a questa chi ha voluto mai per la sua donna, dopo il fedele Aminta, morir se non Mirtillo? Questa è l'alta pietà del Pastor fido, degna di cancellar l'antico errore dell'infedele, e misera Lucrina. Con quest'atto mirabile, e stupendo, più, che col sangue umano, l'ira del ciel si placa, e quel si rende alla giustizia eterna, che già le tolse il femminile oltraggio. Questa fu la cagion, che non sì tosto giuns'egli al tempio a rinnovar il voto, che cessar tutti i mostruosi segni. Non stilla più dal simulacro eterno sudor di sangue: e più non trema il suolo, né strepitosa più, né più putente è la caverna sacra: anzi da lei vien sì dolce armonia, sì grato odore, che non l'avrebbe più soave il cielo, se voce, o spirto aver potesse il cielo. Oh alta provvidenza, oh sommi dèi; se le parole mie fosser anime tutte, e tutte al vostro onore oggi le consacrassi; alle dovute grazie non basterian di tanto dono ma come posso, ecco le rendo: oh santi numi del ciel, con le ginocchia a terra umilemente. Oh quanto vi son io debitor, perch'oggi vivo. Ho di mia vita corsi cent'anni già, né seppi mai che fosse viver, né mi fu mai la cara vita, se non oggi cara. Oggi a viver comincio; oggi rinasco. Ma che perd'io con le parole il tempo, che si dée dar'all'opre? Ergimi figlio, che levar non posso già senza te queste cadenti membra. | |
MONTANO |
Un'allegrezza ho nel mio cor, Tirenio, con sì stupenda meraviglia unita, che son lieto, e no 'l sento. Né può l'alma confusa mostrar di fuor la ritenuta gioia. Sì tutti lega alto stupore i sensi. Oh non veduto mai, né mai più inteso miracolo del cielo: oh grazia senza esempio: oh pietà singolar de' sommi dèi. Oh fortunata Arcadia: oh sovra quante il sol ne vede, e scalda, terra gradita al ciel, terra beata. Così il tuo ben m'è caro, che 'l mio non sento: e del mio caro figlio, che due volte ho perduto, e due volte trovato; e di me stesso, che da un abisso di dolor trapasso a un abisso di gioia, mentre penso di te; non mi sovviene, e si disperde il mio diletto; quasi poca stilla insensibile confusa nell'ampio mar delle dolcezze tue. Oh benedetto sogno, sogno non già, ma vision celeste: ecco ch'Arcadia mia, come dicesti tu, sarà ancor bella. | |
TIRENIO |
Ma che tardi, Montano? Da noi più non attende vittima umana il cielo. Non è più tempo di vendetta, e d'ira; ma di grazia, e d'amore. Oggi comanda la nostra dèa, che 'nvece di sacrificio orribile, e mortale, si faccian liete, e fortunate nozze. Ma dimmi tu, quant'ha di vivo il giorno. | |
MONTANO |
Un'ora, o poco più. | |
TIRENIO |
Così vien sera? Torniamo al tempio; e quivi immantinente la figliuola di Titiro, e 'l tuo figlio si dian la fede maritale, e sposi divengano d'amanti; e l'un conduca l'altra ben tosto alle paterne case, dove convien prima che 'l sol tramonti, che sian congiunti i fortunati eroi. Così comanda il ciel. Tornami, figlio, onde m'hai tolto: e tu, Montan, mi segui: | |
MONTANO |
Ma guarda ben, Tirenio, che senza violar la santa legge, non può ella a Mirtillo dar quella fé, che fu già data a Silvio. | |
CARINO |
Ed a Silvio fiè data parimente la fede: che Mirtillo fin dal suo nascimento ebbe tal nome, se dal tuo servo mi fu detto il vero: ed egli si compiacque, ch'io 'l nomassi Mirtillo, anzi che Silvio. | |
MONTANO |
Gli è vero. Or mi sovviene, e cotal nome rinnovai nel secondo, per consolar la perdita del primo. | |
TIRENIO |
Il dubbio era importante. Or tu mi segui. | |
Tirenio -> | ||
MONTANO |
Carino, andiamo al tempio. E da qui innanzi duo padri avrà Mirtillo. Oggi ha trovato Montano un figlio, ed un fratel Carino. | |
CARINO |
D'amor padre a Mirtillo; a te fratello; di riverenza all'un servo, ed all'altro sarà sempre Carino. E poi che verso me se' tanto umano, ardirò di pregarti, che ti sia caro il mio compagno ancora, senza cui non sarei caro a me stesso. | |
MONTANO |
Fanne quel, ch'a te piace. | |
CARINO |
Eterni numi: oh come son diversi quegli alti inaccessibili sentieri, onde scendono a noi le vostre grazie da que' fallaci, e torti, onde i nostri pensier salgono al cielo. | |
Montano, Carino -> | ||
Scena settima |
Corisca. Linco. |
<- Corisca, Linco |
CORISCA |
||
LINCO |
Noi la portammo alle case di Silvio, ove la madre con lagrime l'accolse, non so se di dolcezza, o di dolore. Lieta sì, che 'l suo figlio già fosse amante, e sposo; ma del caso della ninfa dolente, e di due nuore suocera mal fornita, l'una morta piangea, l'altra ferita. | |
CORISCA |
Pur è morta Amarilli? | |
LINCO |
Dovea morir. Così portò la fama. Per questo sol mi mossi inverso 'l tempio a consolar Montano, che perduta s'oggi ha una nuora, ecco ne trova un'altra. | |
CORISCA |
Dunque Dorinda non è morta? | |
LINCO |
Morta? Fossi sì viva tu; fossi sì lieta. | |
CORISCA |
Non fu dunque mortal la sua ferita? | |
LINCO |
Alla pietà di Silvio, se morta fosse stata, viva saria tornata. | |
CORISCA |
E con qual arte sanò sì tosto? | |
LINCO |
I' ti dirò da capo tutta la cura: e meraviglie udrai. Stavan d'intorno alla ferita ninfa tutti con pronta mano, e con tremante core uomini e donne: ma ch'altri la toccasse non volle mai, che Silvio suo: dicendo, la man, che mi ferì, quella mi sani. Così soli restammo, Silvio, la madre, ed io, duo col consiglio, un con la mano oprando. Quell'ardito garzon, poi che levata ebbe soavemente dal nudo avorio ogni sanguigna spoglia, tentò di trar dalla profonda piaga la confitta saetta: ma cedendo, non so come, alla mano l'insidioso calamo, nascosto tutto lasciò nelle latebre il ferro. Qui daddovero incominciar l'angosce. Non fu possibil mai, né con maestra mano, né con ferrigno rostro, né con altro argomento indi spiantarlo. Forse con altra assai più larga piaga la piaga aprendo, alle segrete vie del ferro penetrar con altro ferro si poteva, o doveva; ma troppo era pietosa, e troppo amante, per sì cruda pietà la man di Silvio. Con sì fieri strumenti, certo non sana i suoi feriti Amore. Quantunque alla fanciulla innamorata sembrasse che 'l dolor si raddolcisse tra le mani di Silvio; il qual perciò nulla smarrito, disse: «quinci uscirai ben tu, ferro malvagio, e con pena minor, che tu non credi». Chi t'ha spinto qui dentro, è ben anco di trartene possente: ristorerò con l'uso della caccia quel danno, che per l'uso della caccia patisco. D'un'erba or mi sovviene, ch'è molto nota alla silvestre capra, quand'ha lo stral nel saettato fianco: essa a noi la mostrò, natura a lei. Né gran fatto è lontana. Indi partissi, e nel colle vicin subitamente, coltone un fascio, a noi se n' venne; e quivi trattone succo, e misto con seme di verbena; e la radice giuntavi del centauro; un molle impiastro ne feo sopra la piaga. Oh mirabil virtù. Cessa il dolore subitamente, e si ristagna il sangue; e 'l ferro indi a non molto, senza fatica, o pena la man seguendo, ubbidiente n'esce. Tornò il vigor nella donzella, come se non avesse mai piaga sofferta. La qual però mortale veramente non fu: però che 'ntatto quinci l'alvo lasciando, e quindi l'ossa, nel muscoloso fianco era sol penetrata. | |
CORISCA |
Gran virtù d'erba, e via maggior ventura di donzella mi narri. | |
LINCO |
Quel che tra lor sia succeduto poi, si può piuttosto immaginar, che dire. Certo è sana Dorinda; ed or si regge sì ben sul fianco, che di lui servirsi ad ogn'uso ella può. Con tutto questo, credo, Corisca, e tu fors'anco il credi, che di più d'uno stral ferita sia ma come l'han trafitta arme diverse, così diverse ancor le piaghe sono. D'altra è fero il dolor, d'altra è soave: l'una saldando si fa sana, e l'altra quanto si salda men, tanto più sana: e quel fero garzon di saettare, mentr'era cacciator, fu così vago, che non perde costume; ed or ch'egli ama, di ferir anco ha brama. | |
CORISCA |
Oh Linco: ancor se' pure quell'amoroso Linco, che fosti sempre. | |
LINCO |
Oh Corisca mia cara, d'animo Linco, e non di forze sono; e 'n questo vecchio tronco è più che fosse mai verde il desio. | |
CORISCA |
Or ch'è morta Amarilli mi resta di veder quel ch'è seguito del mio caro Mirtillo. | |
Linco -> | ||
Scena ottava |
Ergasto. Corisca. |
<- Ergasto |
ERGASTO |
||
CORISCA |
Ma ecco Ergasto. Oh come viene a tempo. | |
ERGASTO |
Oggi ogni cosa si rallegri: terra, cielo, aria, foco, e 'l mondo tutto rida. Passi il nostro gioire anco fin nell'inferno, né oggi e' sia luogo di pene eterno. | |
CORISCA |
Quanto è lieto costui. | |
ERGASTO |
Selve beate; se sospirando in flebili sussurri, al nostro lamentar vi lamentaste, gioite anco al gioire; e tante lingue sciogliete, quante frondi scherzano al suon di queste, piene del gioir nostro aure ridenti. Cantate le venture, e le dolcezze de' duo beati amanti. | |
CORISCA |
Egli per certo parla di Silvio, e di Dorinda. Insomma, viver bisogna. Tosto il fonte delle lagrime si secca; ma il fiume della gioia abbonda sempre. Della morta Amarilli, ecco più non si parla; e sol s'ha cura di goder con chi gode. Ed è ben fatto. Purtroppo è pien di guai la vita umana. Ove si va sì consolato, Ergasto? A nozze forse? | |
ERGASTO |
E tu l'hai detto appunto. Inteso hai tu l'avventurosa sorte de' duo felici amanti? Udisti mai caso maggior, Corisca? | |
CORISCA |
I' l'ho da Linco, con molto mio piacer, pur ora udito. E quel dolor ho mitigato in parte, che per la morte d'Amarilli i' sento. | |
ERGASTO |
Morta Amarilli? E come? E di qual caso parli tu ora? O pensi tu ch'io parli? | |
CORISCA |
Di Dorinda, e di Silvio. | |
ERGASTO |
Che Dorinda, che Silvio. Nulla dunque sai tu. La gioia mia nasce da più stupenda, e più alta, e più nobile radice. D'Amarilli ti parlo, e di Mirtillo: coppia di quante oggi ne scaldi Amore, la più contenta, e lieta. | |
CORISCA |
Non è morta dunque Amarilli? | |
ERGASTO |
Come morta? È viva e lieta, e bella, e sposa. | |
CORISCA |
Eh tu mi beffi. | |
ERGASTO |
Ti beffo? Il vedrai tosto. | |
CORISCA |
A morir dunque condannata non fu? | |
ERGASTO |
Fu condannata, ma tosto anche assoluta. | |
CORISCA |
Narri tu sogni, oppur sognando ascolto? | |
ERGASTO |
Tosto la vedrai tu, se qui ti fermi, col fortunato suo fedel Mirtillo uscir dal tempio, ov'ora sono; e data s'hanno la fe' già maritale; e verso le case di Montano ir li vedrai, per cor di tante, e di sì lunghe loro amorose fatiche, il dolce frutto. Oh se vedessi l'allegrezza immensa; s'udissi il suon delle gioiose voci, Corisca. Già d'innumerabil turba è tutto pieno il tempio: uomini, e donne quivi vedresti tu; vecchi, e fanciulli: sacri, e profani in un confusi, e misti; e poco men che per letizia insani. Ognun con meraviglia corre a veder la fortunata coppia. Ognun la riverisce, ognun l'abbraccia: chi loda la pietà, chi la costanza; chi le grazie del ciel, chi di natura. Risuona il monte, e 'l pian, le valli e i poggi del Pastor fido il glorioso nome. Oh ventura d'amante, il divenir sì tosto di povero pastore un semideo. Passar in un momento da morte a vita; e le vicine esequie cangiar con sì lontane, e disperate nozze; ancor che molto sia, Corisca, è però nulla. Ma goder di colei, per cui morendo, anco godeva? Di colei, che seco volle sì prontamente concorrer di morir, non che d'amare? Correr in braccio di colei, per cui dianzi sì volentier correva a morte? Questa è ventura tal, questa è dolcezza, ch'ogni pensiero avanza. E tu non ti rallegri? E tu non senti per Amarilli tua quella letizia, che sent'io per Mirtillo? | |
CORISCA |
Anzi sì pur, Ergasto; mira come son lieta. | |
ERGASTO |
Oh se tu avessi veduta la bellissima Amarilli; quando la man per pegno della fede a Mirtillo ella porse; e per pegno d'amor Mirtillo a lei, un dolce sì, ma non inteso bacio, non so se dir mi debbia, o diede, o tolse, saresti certo di dolcezza morta, che purpura? Che rose? Ogni colore o di natura, o d'arte vincean le belle guance; che vergogna copriva con vago scudo di beltà sanguigna, che forza di ferirle al feritor giungeva; ed ella in atto ritrosetta, e schiva, mostrava di fuggire per incontrar più dolcemente il colpo; e lasciò in dubbio, se quel bacio fosse o rapito, o donato, con sì mirabil arte fu conceduto, e tolto. E quel soave mostrarsene ritrosa, era un no, che voleva: un atto misto di rapina, e d'acquisto; un negar sì cortese, che bramava quel che negando, dava: un vietar, ch'era invito, sì dolce d'assalire, ch'a rapir, chi rapiva, era rapito: un restar, e fuggire, ch'affrettava il rapire. Oh dolcissimo bacio. Non posso più Corisca. Vo diritto, diritto a trovarmi una sposa: che 'n sì alte dolcezze, non si può ben gioir, se non amando. | |
Ergasto -> | ||
CORISCA |
Se costui dice il vero; questo è quel dì, Corisca, che tutto perdi, o tutto acquisti il senno. | |
Scena nona |
Coro di Pastori. Corisca. Amarilli. Mirtillo. |
<- pastori |
CORO |
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CORISCA |
Ohimè che troppo è vero. E cotal frutto dalle tue vanità, misera, mieti. Oh pensieri, oh desiri non meno ingiusti, che fallaci, e vani. Dunque d'una innocente ho bramata la morte, per adempir le mie sfrenate voglie? Sì cruda fui? Sì cieca? Chi m'apre or gli occhi? Ah misera che veggio? L'orror del mio peccato, che di felicità sembianza avea. | |
CORO |
Vieni santo Imeneo; seconda i nostri voti, e i nostri canti, scorgi i beati amanti, l'uno, e l'altro celeste semideo; stringi il nodo fatal santo Imeneo, deh mira, o Pastor fido, dopo lagrime tante, e dopo tanti affanni ove se' giunto. Non è questa colei, che t'era tolta dalle leggi del cielo, e della terra? Dal tuo crudo destino? Dalle sue caste voglie? Dal tuo povero stato? Dalla sua data fede, e dalla morte? Eccola tua, Mirtillo. Quel volto amato tanto, e que' begli occhi: quel seno, e quelle mani, e quel tutto, che miri, ed odi, e tocchi, da te già tanto sospirato invano, sarà ora mercede della tua invitta fede. E tu non parli? | |
<- Mirtillo, Amarilli | ||
MIRTILLO |
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CORO |
Vieni santo Imeneo; seconda i nostri voti, e i nostri canti, scorgi i beati amanti, l'uno, e l'altro celeste semideo; stringi il nodo fatal santo Imeneo. | |
CORISCA |
Ma che fate voi meco, vaghezze insidiose, e traditrici; fregi del corpo vil, macchie dell'alma? Itene. Assai m'avete ingannata, e schernita. E perché terra sete, itene a terra. D'amor lascivo un tempo arme vi fei, or vi fo d'onestà spoglie, e trofei. | |
CORO |
Vieni santo Imeneo; seconda i nostri voti, e i nostri canti, scorgi i beati amanti, l'uno, e l'altro celeste semideo; stringi il nodo fatal santo Imeneo. | |
CORISCA |
Ma che badi, Corisca? Comodo tempo è di trovar perdono: che fai? Temi la pena? Ardisci pur: che pena non puoi aver maggior della tua colpa. Coppia beata, e bella, tanto del cielo, e della terra amica s'al vostro altero fato oggi s'inchina ogni terrena forza; ben'è ragion, che vi s'inchini ancora colei, che contra il vostro fato, e voi ha posto in opra ogni terrena forza. Già no 'l nego, Amarilli, anch'io bramai quel, che bramasti tu: ma tu te 'l godi, perché degna ne fusti. Tu godi il più leale pastor, che viva, e tu, Mirtillo, godi la più pudica ninfa di quante n'abbia, o mai n'avesse il mondo credete'l pur a me, che cote fui di fede all'uno, e d'onestate all'altra. Ma tu, ninfa cortese, prima che l'ira tua sopra me scenda; mira nel volto del tuo caro sposo: quivi del mio peccato, e del perdono tuo vedrai la forza. In virtù di sì caro amoroso tuo pegno all'amoroso fallo oggi perdona, amorosa Amarilli: ed è ben dritto, ch'oggi perdon delle sue colpe trovi Amore in te, se le sue fiamme provi. | |
AMARILLI |
Non solo i' ti perdono. Corisca, ma t'ho cara: l'effetto sol, non la cagion mirando: che 'l ferro, e 'l foco, ancor che doglia apporti, pur che risani, a chi fu sano, è caro, qualunque mi sii stata oggi amica, o nemica, basta a me, che 'l destino t'usò per felicissimo strumento d'ogni mia gioia. Avventurosi inganni, tradimenti felici, E se ti piace d'esser lieta ancor tu, vientene, e godi delle nostre allegrezze. | |
CORISCA |
Assai lieta son io del perdon ricevuto, e del cor sano. | |
MIRTILLO |
Ed io pur ti perdono ogni offesa, Corisca, se non questa troppo importuna tua lunga dimora. | |
CORISCA |
Vivete lieti: addio. | |
Corisca -> | ||
CORO |
Vieni santo Imeneo, seconda i nostri voti, e i nostri canti, scorgi i beati amanti, l'uno, e l'altro celeste semideo, stringi il nodo fatal santo Imeneo. | |
Scena decima |
Mirtillo. Amarilli. Coro di Pastori. |
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MIRTILLO |
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AMARILLI |
Ben se' tu frettoloso. | |
MIRTILLO |
O mio tesoro, ancor non son sicuro, ancor'i' tremo, né sarò certo mai di possederti, perfin che nelle mie case non se' del padre mio fatta mia donna. Questi mi paion sogni, a dirti il vero, e mi par d'ora in ora che 'l sonno mi si rompa, e che tu mi t'involi, anima mia. Vorrei pur ch'altra prova mi fesse omai sentire che 'l mio dolce vegghiar non è dormire. | |
CORO DI PASTORI |
Vieni santo Imeneo, seconda i nostri voti, e i nostri canti, scorgi i beati amanti, l'uno, e l'altro celeste semideo, stringi il nodo fatal santo Imeneo. | |
CORO ULTIMO che pianto ha seminato, e riso accoglie; con quante amare doglie hai raddolciti tu gli affetti tuoi. Quinci imparate voi, o ciechi, e troppo teneri mortali i sinceri diletti, e i veri mali. Non è sana ogni gioia, né mal ciò che v'annoia. Quello è vero gioire, che nasce da virtù dopo il soffrire. | ||
Arcadia.
Per tutto è buona stanza, ov'altri goda
Che piangerò di te prima, mia figlia
Se non è morto; o se per l'aria i venti
Chi vide mai sì rari abitatori
E così Linco il dispietato Silvio
Oh giorno pien di meraviglie: oh giorno
Ohimè che troppo è vero. E cotal frutto