Scena prima |
Corisca. |
(♦) Corisca |
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Tanto in condur la semplicetta al varco ebbi pur dianzi il cor fisso, e la mente, che di pensar non mi sovvenne mai della mia cara, chioma, che rapita m'ha quel brutto villano, e com'io possa ricoverarla. Oh quanto mi fu grave d'avermi a riscattar con sì gran prezzo, e con sì caro pegno. Ma fu forza uscir di man dell'indiscreta bestia: che quantunque egli sia più d'un coniglio pusillanimo assai, m'avria potuto far nondimeno mille oltraggi, e mille fiere vergogne. Io l'ho schernito sempre, e fin che sangue ha nelle vene avuto, come sansuga l'ho succhiato. Or duolsi che più non l'ami, e di dolersi avrebbe; giusta cagion, se mai l'avessi amato. Amar cosa inamabile non puossi. Com'erba, che fu dianzi a chi la colse per uso salutifero sì cara; poi che ‘l succo n'è tratto, inutil resta, e come cosa fracida s'aborre, così costui; poi che spremuto ho quanto era di buono in lui, che far ne debbo; se non gettarne il fracidume al ciacco? Or vo' veder se Coridone è sceso ancor nella spelonca. Oh che fia questo? Che novità vegg'io? Son desta o sogno? O son ebbra o traveggio? So pur certo, ch'era la bocca di quest'antro aperta guari non ha. Com'ora è chiusa? E come questa pietra sì grave, e tanto antica allo ‘mprovviso è ruinata a basso? Non s'è già scossa di tremuoto udita. Sapessi almen, se Coridon v'è chiuso con Amarilli, ché del resto poi poco mi curerei. Dovria pur egli esser giunto oggimai, sì buona pezza è che partì, se ben Lisetta intesi. Chissà che non sia dentro, e che Mirtillo così non li abbia ambedue chiusi. Amore punto da sdegno, il mondo anco potrebbe scuoter, non ch'una pietra. Se ciò fosse, già non avria potuto far Mirtillo più secondo il mio cor, se nel suo core fosse Corisca invece d'Amarilli. Meglio sarà che per la via del monte mi conduca nell'antro, e ‘l ver n'intenda. | |
Corisca -> | ||
Scena seconda |
Dorinda, Linco. |
<- Dorinda, Linco |
DORINDA |
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LINCO |
Chi ti conoscerebbe sotto queste sì rozze orride spoglie per Dorinda gentile? S'io fossi un fiero can, come son Linco, malgrado tuo t'avrei troppo ben conosciuta. Oh che veggio oh, che veggio. | |
DORINDA |
Un affetto d'amor tu vedi, Linco, un effetto d'amare misero, e singolare. | |
LINCO |
Una fanciulla come tu sì molle, e tenerella ancora; ch'eri pur dianzi (si può dir) bambina, e mi par che pur ieri t'avessi tra le braccia pargoletta, e le tenere piante reggendo t'insegnassi a formar babbo, e mamma, quando ai servigi del tuo padre i' stava. Tu che qual damma timida solevi, prima ch'amor sentissi, paventar d'ogni cosa, ch'allo 'mprovviso si movesse; ogn'aura, ogn'augellin, che ramo scotesse; ogni lucertola, che fuori della fratta corresse; ogni tremante foglia ti facea sbigottire; or vai soletta errando per montagne, e per boschi, né di fera hai paura, né di veltro? | |
DORINDA |
Chi è ferito d'amoroso strale, d'altra piaga non teme. | |
LINCO |
Ben ha potuto in te, Dorinda, amore, poi che di donna in uomo, anzi di donna in lupo ti trasforma. | |
DORINDA |
Oh se qui dentro, Linco, scorger tu mi potessi, vedresti un vivo lupo quasi agnella innocente l'anima divorarmi. | |
LINCO |
E qual è il lupo? Silvio? | |
DORINDA |
Ah tu l'hai detto. | |
LINCO |
E tu, poich'egli è lupo, in lupa volentier ti se' cangiata; perché se non l'ha mosso il viso umano, il mova almen questo ferino, e t'ami. Ma, dimmi, ove trovasti questi ruvidi panni? | |
DORINDA |
I' ti dirò. Mi mossi stamani assai per tempo verso là dove inteso avea, che Silvio, a piè dell'Erimanto nobilissima caccia al fier cignale apparecchiata avea, e nell'uscir de l'Eliceto appunto quinci non molto lunge verso il rigagno, che dal poggio scende, trovai Melampo il cane del bellissimo Silvio, che la sete quivi, come cred'io, s'avea già tratta, e nel prato vicin posando stava. Io, ch'ogni cosa del mio Silvio ho cara, e l'ombra ancor del suo bel corpo, e l'orma del piè leggiadro, non che 'l can da lui cotanto amato, inchino, subitamente il presi: ed ei senza contrasto, qual mansueto agnel meco ne venne. E mentre i' vo pensando di ricondurlo al suo signore, e mio; sperando far con dono a lui sì caro della sua grazia acquisto; eccolo appunto, che venia diritto cercandone i vestigi, e qui fermossi. Caro Linco, non voglio perder tempo in narrarti minutamente quello ch'è passato tra noi. Ma dirò ben per ispedirmi in breve, che dopo un lungo giro di mentite promesse, e di parole, mi s'è involato il crudo, pien d'ira, e di disdegno, col suo fido Melampo, e con la cara mia dolce mercede. | |
LINCO |
Oh dispietato Silvio, oh garzon fiero. E tu che festi allor? Non ti sdegnasti della sua fellonia? | |
DORINDA |
Anzi, come s'appunto, il foco del suo sdegno fosse stato al mio cor foco amoroso, crebbe per l'ira sua l'incendio mio, e, tuttavia seguendone i vestigi, e pur verso la caccia l'interrotto cammin continuando, non molto lunge il mio Lupin raggiunsi che quinci poco prima di me s'era partito. Onde mi venne tosto pensier di travestirmi e 'n questi abiti suoi servili nascondermi sì ben, che tra pastori potessi per pastore esser tenuta, e seguir e mirar comodamente il mio bel Silvio. | |
LINCO |
E 'n sembianza di lupo tu se' ita alla caccia, e t'han veduta i cani e quinci salva se' ritornata? Hai fatto assai, Dorinda. | |
DORINDA |
Non ti meravigliar Linco, che i cani non potean far'offesa a chi del signor loro è destinata preda. Quivi confusa infra la spessa turba de' vicini pastori, ch'eran concorsi alla famosa caccia, stav'io fuor delle tende spettatrice amorosa via più del cacciator che della caccia. A ciascun moto della fera alpestre palpitava il cor mio: a ciascun atto del mio caro Silvio correa subitamente con ogni affetto suo l'anima mia. Ma il mio sommo diletto turbava assai la paventosa vista del terribil cignale, smisurato di forza, e di grandezza. Come rapido turbo d'impetuosa, e subita procella, che tetti, e piante, e sassi, e ciò ch'incontra in poco giro, in poco tempo atterra, così a un solo rotar di quelle zanne e spumose, e sanguigne, si vedean tutti insieme cani uccisi, aste rotte, uomini offesi. Quante volte bramai di patteggiar con la rabbiosa fera per la vita di Silvio il sangue mio? Quante volte d'accorrervi e di fare con questo petto al suo buon petto scudo? Quante volte dicea fra me stessa. Perdona, fiero cignal, perdona al delicato sen del mio bel Silvio. Così meco parlava, sospirando, e pregando. Quand'egli di squamosa, e dura scorza il suo Melampo armato contra la fera impetuoso spinse, che più superba ogn'ora s'avea fatta d'intorno di molti uccisi cani, e di feriti pastori orrida strage. Linco, non potrei dirti il valor di quel cane; e ben ha gran ragion Silvio se l'ama. Come irato leon, che 'l fiero corno dell'indomito tauro ora incontri, ora fugga, una sola fiata, che nel tergo l'afferri con le robuste branche, il ferma sì, ch'ogni poter n'emunge, tale il forte Melampo fuggendo accortamente gli spessi giri, e le mortali rote di quella fera mostruosa; alfine l'azzannò nell'orecchia; e dopo averla impetuosamente prima crollata alquante volte, e scossa, ferma la tenne sì, che potea farsi nel vasto corpo suo, quantunque altrove leggermente ferito, di ferita mortal certo disegno. Allor subitamente il mio bel Silvio, invocando Diana, drizza tu questo colpo, disse, ch'a te fo voto di sacrar, santa dèa, l'orribil teschio. E 'n questo dir dalla faretra d'oro tratto un rapido strale, fin dall'orecchia al ferro tese l'arco possente, e nel medesmo punto restò piagato, ove confina, il collo con l'omero sinistro il fier cinghiale; il qual subito cadde. I' respirai vedendo Silvio mio fuor di periglio. O fortunata fera, degna d'uscir di vita per quella man, che 'nvola sì dolcemente il cor dai petti umani. | |
LINCO |
Ma che sarà di quella fera uccisa? | |
DORINDA |
No 'l so, perché me n' venni, per non esser veduta, innanzi a tutti: ma crederò, che porteranno in breve, secondo il voto del mio Silvio, il teschio solennemente al tempio. | |
LINCO |
E tu non vuoi uscir di questi panni? | |
DORINDA |
Sì voglio, ma Lupino ebbe la veste mia con l'altro arnese, e disse d'aspettarmi con essi al fonte, e non ve l'ho trovato. Caro Linco, se m'ami, va' tu per queste selve di lui cercando, che non può già molto esser lontano. Poserò frattanto là in quel cespuglio. Il vedi? Ivi t'attendo, ch'io son dalla stanchezza vinta, e dal sonno, e ritornar non voglio con queste spoglie a casa. | |
LINCO |
Io vo. Tu non partire di là fin ch'io non torni. | |
Dorinda, Linco -> | ||
Scena terza |
Coro, Ergasto. |
<- pastori, Ergasto |
CORO |
che 'l nostro semideo, figlio ben degno del gran Montano, e degno discendente d'Alcide, oggi n'ha liberati dalla fera terribile, che tutta infestava l'Arcadia; e che già si prepara di sciorne il voto al tempio. Se grati esser vogliamo fi tanto beneficio, andiamo tutti ad incontrarlo; e come nostro liberatore sia da noi onorato con la lingua, e col core: e benché d'alma valorosa, e bella l'onor sia poco pregio, è però quello che si può dar maggiore alla virtute in terra. | |
ERGASTO |
Oh sciagura dolente, oh caso amaro; oh piaga immedicabile, e mortale; oh sempre acerbo, e lagrimevol giorno. | |
CORO |
Qual voce odo d'orror piena, di pianto? | |
ERGASTO |
Stelle nemiche alla salute nostra, così la fé schernite? Così il nostro sperar levaste in alto, perché poscia cadendo, con maggior pena il precipizio avesse? | |
CORO |
Questi mi par Ergasto: e certo è desso. | |
ERGASTO |
Ma perché il cielo accuso? Te pur accusa, Ergasto. Tu solo avvicinasti l'esca pericolosa al focile d'amor, tu il percotesti, e tu sol ne traesti le faville, ond' è nato l'incendio inestinguibile, e mortale. Ma sallo il ciel, se da buon fin mi mossi, e se fu sol pietà, che mi c'indusse. Oh sfortunati amanti, oh misera Amarilli, oh Titiro infelice, oh orbo padre, oh dolente Montano, oh desolata Arcadia, oh noi meschini: oh, finalmente, misero, e infelice quant'ho veduto, e veggio, quanto parlo, quant'odo, e quanto penso. | |
CORO |
Ohimè, qual fia cotesto sì misero accidente, che 'n sé comprende ogni miseria nostra? Andiam, pastori, andiamo verso di lui, ch'appunto egli ci vien incontra. Eterni numi, ah non è tempo ancora di rallentar lo sdegno? Dinne Ergasto gentile, qual fiero caso a lamentar ti mena? Che piangi? | |
ERGASTO |
Amici cari, piango la mia, piango la vostra, piango la ruina d'Arcadia. | |
CORO |
Ohimè che narri? | |
ERGASTO |
È caduto il sostegno d'ogni nostra speranza. | |
CORO |
Deh parlaci più chiaro. | |
ERGASTO |
La figliuola di Titiro; quel solo del suo ceppo cadente, e del cadente padre appoggio, e rampollo; quell'unica speranza della nostra salute, ch'al figlio di Montano era dal cielo destinata, e promessa, per liberar con le sue nozze Arcadia; quella Ninfa celeste, quella saggia Amarilli, quell'esempio d'onore, quel fior di castitate, ohimè quella; ah mi scoppia il core a dirlo. | |
CORO |
È morta? | |
ERGASTO |
No; ma sta per morire. | |
CORO |
Ohimè che intendo? | |
ERGASTO |
E nulla ancor intendi; peggio è che more infame. | |
CORO |
Amarillide infame? E come? Ergasto. | |
ERGASTO |
Trovata con l'adultero, e se quinci non partite sì tosto, la vedrete condurre cattiva al tempio. | |
CORO |
Oh, bella e singolare; ma troppo malagevole virtute del sesso femminile. Oh pudicizia come oggi se' sì rara. Dunque non si dirà donna pudica se non quella, che mai non fu sollecitata? Oh secolo infelice. | |
ERGASTO |
Veramente potrassi con gran ragione avere d'ogn'altra donna l'onestà sospetta, se disonesta l'onestà si trova. | |
CORO |
Deh, cortese pastor, non ti sia grave di raccontarci il tutto. | |
ERGASTO |
Io vi dirò. Stamane assai per tempo venne (come sapete) il sacerdote al tempio, con l'infelice padre della misera ninfa, da un medesmo pensier ambedue mossi, d'agevolar co' prieghi le nozze de' lor figli da lor bramate tanto. Per questo solo in un medesmo tempo fur le vittime offerte, e fatto il sacrificio solennemente, e con sì lieti auspici, che non fur viste mai né viscere più belle, né fiamma più sincera, o men turbata, onde da questi segni mosso il cieco indovino, oggi, disse, a Montano. Sarà il tuo Silvio amante, e la tua figlia oggi, Titiro, sposa. Vanne tu tosto preparar le nozze. Oh insensate, e vane menti degli indovini; e tu di dentro non men, che di fuor cieco. S'a Titiro l'esequie invece delle nozze avessi detto, ti potevi ben dir certo indovino. Già tutti consolati erano i circostanti, e i vecchi padri piangean di tenerezza, e partito era già Titiro, quando furon nel tempio orribilmente uditi di subito, e veduti sinistri auguri, e paventosi segni, nunzi dell'ira sacra. Ai quali, ohimè, sì repentini, e fieri, s'attonito e confuso restasse ogn'un, dopo sì lieti auguri, pensate 'l voi, cari pastori. Intanto s'erano i sacerdoti nel sacrario maggior soli rinchiusi, e mentre essi di dentro, e noi di fuori, lagrimosi, e divoti, stavamo intenti alle preghiere sante, ecco il malvagio satiro, che chiede con molta fretta, e per instante caso al sacerdote udienza. E perché questa è, come voi sapete, mia cura, fui quell'io, che l'introdussi. Ed egli (ah, ben ha ceffo da non portar altra novella) disse. Padri; s'ai vostri voti non rispondon le vittime, e gli incensi: se sopra i vostri altari splende fiamma non pura, non vi meravigliate: impuro ancora è quel, che si commette oggi contra la legge nell'antro d'Ericina. Una perfida ninfa con l'adultero infame ivi profana a voi la legge, altrui la fede rompe. Vengan meco i ministri, mostrerò lor di prenderli sul fatto agevolmente il modo. Allora (o mente umana, come nel tuo destino se' tu stupida e cieca) respirarono alquanto gli afflitti, e buoni padri, parendo lor, che fosse trovata la cagion, che pria sospesi li ebbe a tener nel sacro ufficio infausto: onde subitamente il sacerdote al ministro maggior Nicandro impose, che se n' gisse col Satiro, e cattivi conducesse ambedue gli amanti al tempio. Ond'egli accompagnato da tutto il nostro coro de' ministri minori, per quella via, che 'l Satiro avea mostra tenebrosa, ed obliqua, si condusse nell'antro. La giovane infelice forse dallo splendor delle facelle d'improvviso assalita, e spaventata, uscendo fuor d'una riposta cava, ch'è nel mezzo dell'antro, di provò di fuggir, come cred'io, verso cotesta uscita, che fu dianzi dal Satiro malvagio, com'e' ci disse, chiusa. | |
CORO |
Ed egli intanto, che facea? | |
ERGASTO |
Partissi subito che 'l sentiero ebbe scorto a Nicandro. Non si può dir, fratelli, quanto rimase ognuno stupefatto, ed attonito, vedendo, che quella era la figlia di Titiro; la quale non fu sì tosto presa, che subito v'accorse; ma non saprei già dirvi, onde s'uscisse, l'animoso Mirtillo, e per ferir Nicandro, il dardo, ond'era armato, impetuoso spinse; e se giungeva il ferro là 've la mano il destinò, Nicandro oggi vivo non fora. Ma in quel medesmo punto, che drizzò l'uno il colpo, s'arretrò l'altro; o fosse caso, o fosse avvedimento accorto, sfuggì il ferro mortale, lasciando il petto, che diè luogo, intatto, e nell'irsuta spoglia non pur finì quel periglioso colpo; ma s'intricò, non so dir come, in modo, che no 'l potendo ricovrar, Mirtillo restò cattivo anch'egli. | |
CORO |
E di lui che seguì? | |
ERGASTO |
Per altra via nel condussero al tempio. | |
CORO |
E per far che? | |
ERGASTO |
Per meglio trar da lui di questo fatto il vero. E chissà? Forse non merta impunità l'aver tentato di por man ne' ministri, e 'ncontra loro la maestà sacerdotale offesa. Avessi almen potuto consolarlo, il meschino. | |
CORO |
E perché non potesti? | |
ERGASTO |
Perché vieta la legge ai ministri minori di favellar co' rei. Per questo sol mi sono dilungato dagli altri; e per altro sentiero mi vo condurre al tempio; e con prieghi, e con lagrime devote chieder al ciel, ch'a più sereno stato giri questa oscurissima procella. Addio, cari pastori, restate in pace e voi co' prieghi nostri accompagnate i vostri. | |
Ergasto -> | ||
CORO |
Così farem, poi che per noi fornito sarà verso il buon Silvio il nostro a lui così devoto ufficio. O dèi del sommo cielo, deh mostratevi omai con la pietà, non col furore eterni. | |
pastori -> | ||
Scena quarta |
Corisca. |
<- Corisca |
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o trionfanti allori le vincitrici, e gloriose chiome. Oggi felicemente ho nel campo d'Amor pugnato, e vinto. Oggi il cielo, e la terra, e la natura, e l'arte, e la fortuna, e 'l fato, e gli amici, e i nemici han per me combattuto. Anco il perverso Satiro, che tanto m'ha pur in odio; hammi giovato, come se parte anch'egli in favorirmi avesse, quanto meglio dal caso Mirtillo fu nella spelonca tratto, che non fu Coridon dal mio consiglio, per far più verisimile, e più grave la colpa d'Amarilli: e benché seco sia preso anco Mirtillo, ciò non importa; e' fiè ben anco sciolto; che solo è dell'adultera la pena. Oh vittoria solenne, oh bel trionfo. Drizzatemi un trofeo, amorose menzogne. Voi sete in questa lingua, in questo petto forze sopra natura onnipotenti. Ma che tardi, Corisca? Non è tempo da starsi. Allontanati pur, finché la legge contra la tua rivale oggi s'adempia. Però che del suo fallo graverà te per iscolpar sé stessa; e vorrà forse il sacerdote, prima che far altro di lei, saper di ciò per la tua lingua il vero. Fuggi dunque, Corisca. A gran periglio va per lingua mendace, chi non ha il piè fugace. M'asconderò tra queste selve, e quivi starò, fin che sia tempo di venir a goder delle mie gioie. Oh beata Corisca, chi vide mai più fortunata impresa? | |
Corisca -> | ||
Scena quinta |
Nicandro, Amarilli. |
<- Nicandro, Amarilli |
NICANDRO |
Ben duro cor avrebbe; o non avrebbe piuttosto cor, né sentimento umano, chi non avesse del tuo mal pietate, misera ninfa; e non sentisse affanno della sciagura tua tanto maggiore, quanto men la pensò, chi più la intende. Che 'l veder sol cattiva una donzella venerabile in vista, e di sembiante celeste; e degna a cui consacri il mondo, per divina beltà, vittime, e tempi, condur vittima al tempio, è cosa certo da non veder se non con occhi molli. Ma chissà poi di te, come se' nata, ed che fin se' nata; e che se' figlia di Titiro; e che nuora di Montano esser dovevi; e ch'ambidue pur sono questi d'Arcadia i più pregiati, e chiari, non so se debba dir pastori, o padri, e che tale, e che tanta, e sì famosa, e sì vaga donzella, e sì lontana dal natural confin della tua vita, così t'appressi al rischio della morte; chi sa questo, e non piange, e non se n' duole uomo non è, ma fera in volto umano. | |
AMARILLI |
Se la miseria mia fosse mia colpa, Nicandro, e fosse, come credi, effetto di malvagio pensiero, siccome in vista par d'opra malvagia; men grave assai mi fora, che di grave fallire, fosse pena il morire: che ben giusto sarebbe, che dovesse il mio sangue lavar l'anima immonda, placar l'ira del cielo, e dar suo dritto, alla giustizia umana. Così pur i' potrei quetar l'anima afflitta, e con un giusto sentimento interno di meritata morte, mortificando i sensi, avvezzarmi al morire, e con tranquillo varco passar fors'anco a più tranquilla vita. Ma troppo, ohimè, Nicandro, troppo mi pesa in sì giovane etate, in sì alta fortuna, il dover così subito morire, e morir innocente. | |
NICANDRO |
Piacesse al ciel, che gli uomini piuttosto avesser contra te, ninfa, peccato, che tu peccato incontra 'l cielo avessi: ch'assai più agevolmente oggi potremmo ristorar te del violato nome, che lui placar del violato nume. Ma non so già veder chi t'abbia offesa, se non te stessa tu, misera ninfa. Dimmi, non se' tu stata in loco chiuso trovata con l'adultero? E con lui sola con solo? E non se' tu promessa al figlio di Montano? E tu per questo non hai la fede marital tradita? Come dunque innocente? | |
AMARILLI |
Eppur in tanto, e sì grave fallir, contra la legge non ho peccato, ed innocente sono. | |
NICANDRO |
Contra la legge di natura forse non hai, ninfa, peccato; ama, se piace; ma ben hai tu peccato incontra quella degli uomini, e del cielo; ama, se lice. | |
AMARILLI |
Han peccato per me gli uomini, e 'l cielo, se pur è ver, che di lassù derivi ogni nostra ventura: ch'altri che 'l mio destino non può voler, che sia il peccato d'altrui la pena mia. | |
NICANDRO |
Ninfa, che parli? Frena, frena la lingua da soverchio sdegno trasportata là, dove mente devota a gran fatica sale. Non incolpar le stelle: che noi soli a noi stessi fabbri siam pur delle miserie nostre. | |
AMARILLI |
Già nel ciel non accuso altro, che 'l mio destino empio, e crudele; ma più del mio destino, chi m'ha ingannata accuso. | |
NICANDRO |
Dunque te sol, che t'ingannasti, accusa. | |
AMARILLI |
M'ingannai sì, ma nell'inganno altrui. | |
NICANDRO |
Non si fa inganno a cui l'inganno è caro. | |
AMARILLI |
Dunque m'hai tu per impudica tanto? | |
NICANDRO |
Ciò non so dirti; all'opra pure il chiedi. | |
AMARILLI |
Spesso del cor segno fallace è l'opra. | |
NICANDRO |
Pur l'opra solo, e non il cor si vede. | |
AMARILLI |
Con gli occhi della mente il cor si vede. | |
NICANDRO |
Ma ciechi son, se non gli scorge il senso. | |
AMARILLI |
Se ragion no 'l governa, ingiusto è il senso. | |
NICANDRO |
E ingiusta è la ragion, se dubbio è il fatto. | |
AMARILLI |
Comunque sia, so ben che 'l core ho giusto. | |
NICANDRO |
E chi ti trasse altri che tu nell'antro? | |
AMARILLI |
La mia semplicitate, e 'l creder troppo. | |
NICANDRO |
Dunque all'amante l'onestà credesti? | |
AMARILLI |
All'amica infedel, non all'amante. | |
NICANDRO |
A qual amica? All'amorosa voglia? | |
AMARILLI |
Alla suora d'Ormin, che m'ha tradita. | |
NICANDRO |
Oh dolce con l'amante esser tradita. | |
AMARILLI |
Mirtillo entrò, che no 'l sepp'io, nell'antro. | |
NICANDRO |
Come dunque v'entrasti? Ed a qual fine? | |
AMARILLI |
Basta che per Mirtillo io non v'entrai. | |
NICANDRO |
Convinta sei, s'altra cagion non rechi. | |
AMARILLI |
Chiedasi a lui dell'innocenza mia. | |
NICANDRO |
A lui, che fu cagion della tua colpa? | |
AMARILLI |
Ella che mi tradì fede ne faccia. | |
NICANDRO |
E qual fede può far chi non ha fede? | |
AMARILLI |
Io giurerò nel nome di Diana. | |
NICANDRO |
Spergiurato purtroppo hai tu con l'opre, ninfa; non ti lusingo, e parlo chiaro, perché poscia confusa al maggior uopo non abbi a restar tu. Questi son sogni. Onda di fiume torbido non lava, né torto cor fa parlar dritto; e dove il fatto accusa, ogni difesa offende. Tu la tua castità guardar dovevi più della luce assai degli occhi tuoi. Che pur vaneggi? A che te stessa inganni? | |
AMARILLI |
Così dunque morire, ohimè, Nicandro, così morir debb'io? Né sarà chi m'ascolti, o mi difenda? Così da tutti abbandonata, e priva d'ogni speranza? Accompagnata solo da un'estrema infelice, e funesta pietà, che non m'aita? | |
NICANDRO |
Ninfa, queta il tuo core; e se 'n peccar sì poco saggia fusti, mostra almen senno in sostener l'affanno della fatal tua pena. Drizza gli occhi nel cielo, se derivi dal cielo. Tutto quel, che c'incontra, o di bene, o di male, sol di lassù deriva; come fiume nasce da fonte, o da radice pianta; e quanto qui par male, dove ogni ben con molto male è misto, è ben lassù, dov'ogni ben s'annida. Sallo il gran Giove, a cui pensiero umano non è nascosto; sallo il venerabil nume di quella dèa, di cui ministro i' sono, quanto di te m'incresca. E se t'ho col mio dir così trafitta, ho fatto come suol medica mano pietosamente acerba, che va con ferro, o stilo le latebre tentando di profonda ferita, ov'ella è più sospetta, e più mortale. Quetati dunque omai, né voler contrastar più lungamente a quel, ch'è già di te scritto nel cielo. | |
AMARILLI |
Oh sentenza crudele, ovunque ella sia scritta o 'n cielo, o 'n terra. Ma in ciel già non è scritta, ché lassù nota è l'innocenza mia. Ma che mi val, se pur convien ch'i' mora? Ahi questo è pure il duro passo: ahi questo è pur l'amaro calice, Nicandro. Deh per quella pietà, che tu mi mostri, non mi condur, ti prego, sì tosto al tempio: aspetta ancora, aspetta. | |
NICANDRO |
O ninfa, ninfa; a chi 'l morir è grave ogni momento è morte. Che tardi tu il tuo male? Altro mal non ha morte, che 'l pensar a morire. E chi morir pur deve, quanto più tosto more, tanto più tosto al suo morir s'invola. | |
AMARILLI |
Mi verrà forse alcun soccorso intanto. Padre mio, caro padre, e tu ancor m'abbandoni? Padre d'unica figlia, così morir mi lasci, e non m'aiti? Almen non mi negar gli ultimi baci. Ferirà pur duo petti un ferro solo. Verserà pur la piaga di tua figlia il tuo sangue. Padre un tempo sì dolce, e caro nome, ch'invocar non soleva indarno mai, così le nozze fai della tua cara figlia? Sposa il mattino, e vittima la sera? | |
NICANDRO |
Deh non penar più, ninfa. A che tormenti indarno e te stessa, ed altrui? È tempo omai, che ti conduca al tempio, né 'l mio debito vuol, che più s'indugi. | |
AMARILLI |
Dunque addio, care selve, care mie selve, addio, ricevete questi ultimi sospiri, finché sciolta da ferro ingiusto, e crudo torni la mia fredd'ombra alle vostr'ombre amate. Che nel penoso inferno non può gir innocente, né può star tra beati disperata, e dolente. Oh Mirtillo, Mirtillo, ben fu misero il dì, che pria ti vidi, e 'l dì; che pria ti piacqui; poi che la vita mia, più cara a te, che la tua vita assai: così pur non dovea per altro esser tua vita, che per esser cagion della mia morte. Così (chi 'l crederia) per te dannata more colei, che ti fu cruda per viver innocente. O per me troppo ardente, e per te poco ardito. Era pur meglio o peccar, o fuggire. In ogni modo i' moro, e senza colpa, e senza frutto; e senza te, cor mio. Mi moro, ohimè, Mirtillo. | |
NICANDRO |
Certo ella more. Oh meschina: accorrete, sostenetela meco. Oh fiero caso, nel nome di Mirtillo ha finito il suo corso, e l'amor, e 'l dolor nella sua morte ha prevenuto il ferro. Oh misera donzella. Pur vive ancora; e sento al palpitante cor segni di vita. Portiamla al fonte qui vicino: forse rivocheremo in lei, con l'onda fresca gli smarriti spirti. Ma chissà, che non sia opra di crudeltà l'esser pietoso, a chi muor di dolore per non morir di ferro? Comunque sia, pur si soccorra; e quello facciasi, che conviene alla pietà presente, che del futuro sol presago è 'l cielo. | |
Amarilli, Nicandro -> | ||
Scena sesta |
Coro di Cacciatori, coro di Pastori con Silvio. |
<- cacciatori, pastori, Silvio |
CORO DI CACCIATORI |
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CORO DI PASTORI |
O fanciul glorioso, per cui dell'Erimanto giace la fera superata, e spenta, che parea viva insuperabil tanto. Ecco l'orribil teschio, che così morto par che morte spiri. Questo è 'l chiaro trofeo; questa la nobilissima fatica del nostro semideo. Celebrate, pastori, il suo gran nome, e questo dì tra noi sempre solenne sia, sempre festoso. | |
CORO DI CACCIATORI |
O fanciul glorioso, vera stirpe d'Alcide, che fere già sì mostruose ancide. | |
CORO DI PASTORI |
O fanciul glorioso, che sprezzi per altrui la propria vita, questo, è 'l vero cammino di poggiar a virtute; però ch'innanzi a lei, la fatica, e 'l sudor poser gli dèi. Chi vuol goder degli agi, soffra prima i disagi. Né da riposo infruttuoso, e vile, che 'l faticar aborre; ma da fatica, che virtù precorre, nasce il vero riposo. | |
CORO DI CACCIATORI |
O fanciul glorioso, vera stirpe d'Alcide, che fere già sì mostruose ancide. | |
CORO DI PASTORI |
O fanciul glorioso, per cui le ricche piagge, prive già di cultura, e di cultori, han ricovrati i lor fecondi onori. Va' pur sicuro, e prendi omai, bifolco, il neghittoso aratro. Spargi il gravido seme, e 'l caro frutto in sua stagione attendi. Fiero piè, fiero dente, non fiè più che te 'l tronchi, o te 'l calpesti, né sarai per sostegno della vita a te grave, altrui noioso. | |
CORO DI CACCIATORI |
O fanciul glorioso, vera stirpe d'Alcide, che fere già sì mostruose ancide. | |
CORO DI PASTORI |
O fanciul glorioso, come presago di tua gloria il cielo alla cui gloria arride. Era tal forse, il famoso cignale, che vivo Ercole vinse. E tal l'avresti forse ancor tu, s'egli di te non fosse così prima fatica, come fu già del tuo grand'avo terza. Ma con le fere scherza la virtude giovinetta ancora, per far de' mostri in più matura etate strazio poi sanguinoso. | |
CORO DI CACCIATORI |
O fanciul glorioso, vera stirpe d'Alcide, che fere già sì mostruose ancide. | |
CORO DI PASTORI |
O fanciul glorioso, come il valor con la pietate accoppi. Ecco, Cintia, ecco il voto del tuo Silvio devoto. Mira il capo superbo, che quinci, e quindi in tuo disprezzo s'arma di curvo, e bianco dente, ch'emulo par delle tue corna altere. Dunque, possente dèa, se tu drizzasti del garzon lo strale, ben dessi a te di sua vittoria il pregio, per te vittorioso. | |
CORO DI CACCIATORI |
O fanciul glorioso, vera stirpe d'Alcide, che fere già sì mostruose ancide. | |
cacciatori, pastori, Silvio -> | ||
Scena settima |
Coridone. |
<- Coridone |
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Son ben io stato infin' a qui sospeso, me 'l prestar fede a quel, che di Corisca testé m'ha detto il Satiro: temendo non sua favola fosse a danno mio, così da lui malignamente finta: troppo dal ver parendomi lontano, che nel medesmo loco, ov'ella meco esser dovea (se non è falso quello, che da sua parte mi recò Lisetta) sì repentinamente oggi sia stata con l'adultero colta. Ma, nel vero mi par gran segno, e mi perturba assai la bocca di quest'antro, in quella guisa, ch'egli appunto m'ha detto, e che si vede da sì grave petron turata, e chiusa. Oh Corisca, Corisca. I' t'ho sentita troppo bene alla mano, che 'incappando tu così spesso, alfin ti conveniva cader senza rilievo. Tanti inganni, tante perfidie tue, tante menzogne, certo dovean di sì mortal caduta esser veri presagi, a chi non fosse stato privo di mente, e d'amor cieco buon per me, che tardai. Fu gran ventura che 'l padre mio mi trattenesse (sciocco) quel, che mi parve un fiero intoppo allora. Che se veniva al tempo, che prescritto da Lisetta mi fu, certo poteva qualche strano incidente oggi incontrarmi. Ma che farò? Debb'io di sdegno armato ricorrer'agli oltraggi? Alle vendette? No, che troppo l'onoro. Anzi, se voglio discorrer sanamente, è caso degno piuttosto di pietà che di vendetta. Avrai dunque pietà di chi t'inganna? Ingannata ha sé stessa; che lasciando un, che con pura fé l'ha sempre amata, ad un vil pastorel s'è data in preda vagabondo, e straniero; che domani sarà di lei più perfido, e bugiardo. Che? Debb'io dunque vendicar l'oltraggio, che seco porta la vendetta? E l'ira supera sì, che fa pietà lo sdegno? Pur t'ha schernito: anzi onorato; ed io ho ben onde pregiarmi, or che mi sprezza femmina, ch'al suo mal sempre s'appiglia, e le leggi non sa né dell'amare, né dell'esser amata; e che 'l men degno sempre gradisce, e 'l più gentile aborre. Ma dimmi, Coridon, se non ti move lo sdegno del disprezzo a vendicarti, com'esser può, che non ti mova almeno il dolor della perdita, e del danno? Non ho perduta lei, che mia non era; ho ricovrato me, ch'era d'altrui. Né il restar senza femmina sì vana, e sì pronta, e sì agevole a cangiarsi, perdita si può dire. E finalmente che cosa ho io perduto? Una bellezza senza onestate; un volto senza senno, un petto senza core; un cor senz'alma; un'alma senza fede; un'ombra vana; una larva; un cadavero d'Amore, che doman sarà fracido, e putente. E questa si dée dir perdita? Acquisto molto ben caro, e fortunato ancora. Mancheranno le femmine, se manca Corisca? Mancheranno a Coridone ninfe di lei più degne, e più leggiadre? Mancherà ben a lei fedele amante com'era Coridon, di cui fu indegna. Or se volessi far quel che di lei m'ha consigliato il Satiro, so certo, che se la fede a me già da lei data oggi accusassi, i' la farei morire ma non ho già sì basso cor, che basti mobilità di femmina a turbarlo. Troppo felice, ed onorata fora la femminil perfidia, se con pena di cor virile, e con turbar la pace, e la felicità d'alma ben nata, s'avesse a vendicar. Oggi Corisca per me dunque si viva, o, per dir meglio, per me non moia, e per altrui si viva, sarà la vita sua vendetta mia, viva l'infamia sua, viva al suo drudo. Poi ch'è tal, ch'io non l'odio; ed ho piuttosto pietà di lei, che gelosia di lui. | |
Coridone -> | ||
Scena ottava |
Silvio. |
<- Silvio |
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Oh dèa, che non se' dèa se non di gente vana, oziosa, e cieca, che con impura mente, e con religion stolta, e profana, ti sacra altari, e tempi. Ma che tempi diss'io? Piuttosto asili d'opre sozze, e nefande, per onestar la loro empia disonestate, col titolo famoso della tua deitate. E tu, sordida dèa; perché le tue vergogne, nelle vergogne altrui si veggan meno, rallenti lor d'ogni lascivia il freno. Nemica di ragione: macchinatrice sol d'opre furtive: corruttela dell'alme: calamità degli uomini, e del mondo. Figlia del mar ben degna, e degnamente nata di quel perfido mostro; che con aura di speme allettatrice, prima lusinghi, e poi movi ne' petti umani tante fiere procelle d'impetuosi, e torbidi desiri, di pianti, e di sospiri, che madre di tempeste, e di furore devria chiamarti il mondo, e non madre d'Amore. Ecco in quanta miseria tu hai precipitati que' duo miseri amanti. Or va' tu, che ti vanti d'esser onnipotente: va' tu, perfida dèa; salva se puoi la vita a quella ninfa, che tu con tue dolcezze avvelenate hai pur condotta a morte. Oh per me fortunato quel dì, che ti sacrai l'animo casto, Cintia, mia sola dèa: santa mia deità, mio vero nume; e così nume in terra dell'anime più belle, come lume del cielo, più bel dell'altre stelle. Quanto son più lodevoli, e sicuri de' cari amici tuoi l'opre, e gli studi, che non son quei degli infelici servi di Venere impudica. Uccidono i cinghiali i tuoi devoti; ma i devoti di lei, miseramente son dai cinghiali uccisi. Oh arco mia possanza, e mio diletto: strali, invitte mie forze: or venga in prova; venga quella vana fantasima d'Amore con le sue armi effeminate: venga al paragon di voi, che ferite, e pungete. Ma che? Troppo t'onoro, vil pargoletto imbelle; e perché tu m'intenda, ad alta voce il dico: la ferza a castigarti sola mi basta. | |
ECO |
Basta. | |
SILVIO |
Chi se' tu che rispondi? Eco, o piuttosto Amor, che così d'Eco imita il sono? | |
ECO |
Sono. | |
SILVIO |
Appunto i' ti volea: ma dimmi, certo se' tu poi desso? | |
ECO |
Esso. | |
SILVIO |
Il figlio di colei, che per Adone già si miseramente ardea? | |
ECO |
Dèa. | |
SILVIO |
Come ti piace, su: di quella dèa concubina di Marte, che le stelle di sua lascivia ammorba, e gli elementi? | |
ECO |
Menti. | |
SILVIO |
Oh quanto è lieve il cinguettare al vento. Vien' fuori, vien'; né star ascoso. | |
ECO |
Oso. | |
SILVIO |
Ed io t'ho per vigliacco: ma di lei se' legittimo figlio, oppur bastardo? | |
ECO |
Ardo. | |
SILVIO |
Oh buon: né figlio di Vulcan per questo già ti cred'io. | |
ECO |
Dio. | |
SILVIO |
E dio di che? Del core immondo? | |
ECO |
Mondo. | |
SILVIO |
Gnaffé, del'universo? Quel terribil garzon: di chi ti sprezza vindice sì possente e sì severo? | |
ECO |
Vero. | |
SILVIO |
E quali son le pene, ch'a' tuoi rubelli, e contumaci dai cotanto amare? | |
ECO |
Amare. | |
SILVIO |
E di me, che ti sprezzo, che farai, se 'l cor più duro ho di diamante? | |
ECO |
Amante. | |
SILVIO |
Amante me? Se' folle. Quando sarà che 'n questo cor pudico Amor alloggi? | |
ECO |
Oggi. | |
SILVIO |
Dunque sì tosto s'innamora? | |
ECO |
Ora. | |
SILVIO |
E qual sarà colei, che far potrà, ch'oggi l'adori? | |
ECO |
Dori. | |
SILVIO |
Dorinda forse, o bambo vuoi dir in tua mozza favella. | |
ECO |
Ella. | |
SILVIO |
Dorinda ch'odio più, che lupo agnella. Chi farà forza in questo al voler mio? | |
ECO |
Io. | |
SILVIO |
E come? E con qual armi? E con qual arco? Forse col tuo? | |
ECO |
Col tuo. | |
SILVIO |
Come col mio? Vuoi dir quando l'avrai con la lascivia tua corrotto? | |
ECO |
Rotto. | |
SILVIO |
E le mie armi rotte mi faran guerra? E romperailo tu? | |
ECO |
Tu. | |
SILVIO |
Oh questo sì mi fa veder affatto che tu se' ubriaco. Va' dormi va': ma dimmi, dove fien queste meraviglie? Qui? | |
ECO |
Qui. | |
SILVIO |
Oh sciocco ed io mi parto. Vedi come se' stato oggi indovino, pien di vino. | |
ECO |
Divino. | |
SILVIO |
Ma veggio, o veder parmi, colà posando in quel cespuglio, starsi un non so che di bigio, ch'a lupo s'assomiglia. Ben mi par desso; ed è per certo il lupo. Oh, come è smisurato: oh per me giorno destinato alle prede: oh dèa cortese, che favori son questi? In un dì solo trionfar di due fere? Ma che tardo, mia dèa? Ecco, nel nome tuo questa saetta scelgo per la più rapida, e pungente di quante n'abbia la faretra mia. A te la raccomando: levala tu, saettatrice eterna, ci man della fortuna; e nella fera, col tuo nume infallibile la drizza; a cui fo' voto di sacrar la spoglia. E nel tuo nome scocco. Oh bellissimo colpo. Colpo caduto appunto, dove l'occhio, e la man l'ha destinato. Deh avessi il mio dardo, per ispedirlo a un tratto prima, che mi s'involi, e si rinselvi; ma non avendo altr'arme, il ferirò con quelle della terra. Ben rari sono in questa chiostra i sassi, ch'a pena un qui ne trovo: ma che vo io cercando armi, s'armato sono? Se quest'altro quadrello il va a ferir nel vivo. Ohimè che veggio? Ohimè, Silvio infelice, ohimè, che hai tu fatto? Hai ferito un pastor sotto la scorza d'un lupo. Oh fiero caso; oh caso acerbo da viver sempre misero, e dolente: e mi par di conoscerlo il meschino, e Linco è seco, che 'l sostene, e regge. Oh funesta saetta, oh voto infausto; e tu, che la scorgesti, e tu, che l'esaudisti, nume di lei più infausto, e più funesto. Io dunque reo dell'altrui sangue? Io dunque cagion de l'altrui morte? Io che fui dianzi, per la salute altrui, sì largo sprezzator della mia vita, sprezzator del mio sangue? Va', getta l'armi, e senza gloria vivi, profano cacciator, profano arciero. Ma ecco lo infelice, di te però men infelice assai. | |
Scena nona |
Linco. Silvio. Dorinda. |
<- Linco, Dorinda |
LINCO |
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SILVIO |
Ohimè. Dorinda? Son morto. | |
DORINDA |
Oh Linco, Linco, oh mio secondo padre. | |
SILVIO |
È Dorinda per certo; ahi voce, ahi vista. | |
DORINDA |
Ben era, Linco, il sostener Dorinda ufficio a te fatale. Accogliesti i singulti primi del mio natale, accorrai tu fors'anco gli ultimi della morte. E coteste tue braccia, che pietose, mi fur già culla, or mi saran feretro. | |
LINCO |
Oh figlia a me più cara, che se figlia mi fussi; io non ti posso risponder; che 'l dolore ogni mio detto in lagrime dissolve. | |
SILVIO |
Oh terra, che non t'apri, e non m'inghiotti? | |
DORINDA |
Deh ferma il passo, e 'l pianto, pietosissimo Linco; che l'un cresce il dolor, l'altro la piaga. | |
SILVIO |
Ahi che dura mercede ricevi del tuo amor, misera Ninfa. | |
LINCO |
Fa' buon animo, figlia, che la tua piaga non sarà mortale. | |
DORINDA |
Ma Dorinda mortale sarà ben tosto morta. Sapessi almen, chi m'ha così piagata. | |
LINCO |
Curiam pur la ferita, e non l'offesa, che per vendetta mai non sanò piaga. | |
SILVIO |
Ma che fai qui? Che tardi? Soffrirai tu ch'ella ti veggia? Avrai tanto cor, tanta fronte? Fuggi la pena meritata, Silvio, di quella vista ultrice. Fuggi il giusto coltel della sua voce. Ah che non posso, e non so come, o quale necessità fatale a forza mi ritegna, e mi sospinga più verso quel, che più fuggir devrei. | |
DORINDA |
Così dunque debb'io morir senza saper, chi mi dà morte? | |
LINCO |
Silvio t'ha dato morte. | |
DORINDA |
Silvio? Ohimè, che ne sai? | |
LINCO |
Riconosco il suo strale. | |
DORINDA |
O dolce uscir di vita, se Silvio m'ha ferita. | |
LINCO |
Eccolo appunto in atto, ed in sembiante tal, che da sé stesso par che s'accusi. Or sia lodato il cielo, Silvio, che se' pur ito dimenandoti sì per queste selve con cotesto tuo arco, e cotesti tuoi strali onnipotenti, ch'hai fatto un colpo da maestro. Dimmi, tu, che vivi da Silvio, e non da Linco, questo colpo, che hai fatto sì leggiadro, è fors'egli da Linco, oppur da Silvio? Oh fanciul troppo savio, avessi tu creduto a questo pazzo vecchio. Rispondimi, infelice, qual vita fia la tua, se costei more? So ben, che tu dirai. Ch'errasti, e di ferir credesti un lupo, quasi non sia tua colpa il saettare da fanciul vagabondo, e non curante, senza veder s'uomo saetti, o fera. Qual caprar, per tua vita, o qual bifolco non vedesti coperto di così fatte spoglie? Eh Silvio, Silvio, chi coglie acerbo il senno, maturo sempre ha d'ignoranza il frutto. Credi tu, garzon vano, che questo caso, a caso oggi ti sia così incontrato? Oh male avvisi. Senza nume divin questi accidenti sì mostruosi, e novi non avvengono agli uomini. Non vedi che 'l cielo è fastidito di cotesto tuo tanto fastoso, insopportabile disprezzo d'amor, del mondo, e d'ogn'affetto umano? Non piace ai sommi dèi l'aver compagni in terra, né piace lor nella virtute ancora tanta alterezza. Or tu se' muto sì? Ch'eri pur dianzi intollerabil tanto. | |
DORINDA |
Silvio, lascia dir Linco; ch'egli non sa quale in virtù d'Amore, tu abbi signoria sovra Dorinda e di vita, e di morte. Se tu mi saettasti, quel ch'è tuo saettasti, e feristi quel segno, ch'è proprio del tuo strale. Quelle mani a ferirmi, han seguito lo stil de' tuo' begli occhi. Ecco, Silvio, colei ch'in odio hai tanto; eccola in quella guisa, che la volevi appunto. Bramastila ferir, ferita l'hai; bramastila tua preda, eccola preda; bramastila alfin morta, eccola a morte. Che vuoi più tu da lei? Che ti può dare più di questo Dorinda? Ah garzon crudo: ah cor senza pietà. Tu non credesti la piaga, che per te mi fece Amore, puoi questa or tu negar della tua mano? Non hai creduto il sangue, ch'i' versava dagli occhi; crederai questo, che 'l mio fianco versa? Ma se con la pietà non è in te spenta gentilezza, e valor, che teco nacque, non mi negar, ti prego (anima cruda sì, ma però bella) non mi negar all'ultimo sospiro un tuo solo sospir. Beata morte; se l'addolcissi tu con questa sola voce cortese, e pia, va' in pace, anima mia. | |
SILVIO |
Dorinda, ah dirò mia, se mia non sei, se non quando ti perdo? E quando morte da me ricevi; e mia non fosti allora, ch'i' ti potei dar vita? Pur mia dirò; che mia sarai malgrado di mia dura sorte: e se mia non sarai con la tua vita, sarai con la mia morte: tutto quel ch'in me vedi a vendicarti è pronto. Con quest'armi t'ancisi, e tu con queste ancor m'anciderai. Ti fui crudele, ed io altro da te, che crudeltà non bramo. Ti disprezzai superbo; ecco, piegando le ginocchia a terra, riverente t'adoro, e ti cheggio perdon, ma non già vita. Ecco gli strali, e l'arco; ma non ferir già tu gli occhi, o le mani colpevoli ministri d'innocente voler; ferisci il petto, ferisci questo mostro di pietate, e d'Amor aspro nemico, ferisci questo cor, che ti fu crudo: eccoti il petto ignudo. | |
DORINDA |
Ferir quel petto, Silvio? Non bisognava agli occhi miei scovrirlo, s'avevi pur desio, ch'io te 'l ferissi. Oh bellissimo scoglio, già dall'onda, e dal vento delle lagrime mie, de' miei sospiri sì spesso in van percosso. È pur ver, che tu spiri? E che senti pietate? Oppur m'inganno? Ma sii tu pure o petto molle, o marmo, già non vo', che m'inganni d'un candido alabastro il bel sembiante, come quel d'una fera oggi ingannato ha il tuo signore, e mio. Ferir io te? Te pur ferisca Amore: che vendetta maggiore non so bramar, che di vederti amante. Sia benedetto il dì, che da prima arsi: benedette le lagrime, e i martìri: di voi lodar, non vendicar mi voglio. Ma tu, Silvio cortese, che t'inchini a colei, di cui tu signor sei, deh non istar in atto di servo, o se pur servo di Dorinda esser vuoi, ergiti a' i cenni suoi. Questo sia di tua fede il primo pegno; il secondo, che vivi. Sia pur di me quel che nel cielo è scritto; in te vivrà il cor mio, né pur che vivi tu, morir poss'io. E se 'ngiusto ti par, ch'oggi impunita resti la mia ferita, chi la fe' si punisca: fella quell'arco: e sol quell'arco pera. Sovra quell'omicida cada la pena, ed egli sol s'ancida. | |
LINCO |
Oh sentenza giustissima, e cortese. | |
SILVIO |
E così fia, tu dunque la pena pagherai legno funesto. E perché tu dell'altrui vita il filo mai più non rompa, ecco te rompo, e snervo; e qual fosti alla selva ti rendo inutil tronco. E voi, strali di lui, che 'l fianco aperse della mia cara donna; e per natura, e per malvagità forse fratelli, non rimarrete interi, non più strali, o quadrella, ma verghe invan pennute, invano armate ferri tarpati, e disarmati vanni. Ben me 'l dicesti, Amor, tra quelle frondi in suon d'Eco indovina. Oh nume domator d'uomini, e dèi, già nemico, or signore di tutti i pensier miei; se la tua gloria stimi d'aver domato un cor superbo, e duro, difendimi, ti prego, dall'empio stral di morte, che con un colpo solo anciderà Dorinda, e con Dorinda Silvio da te pur vinto: così morte crudel, se costei more trionferà del trionfante Amore. | |
LINCO |
Così feriti ambedue sete. Oh piaghe, e fortunate, e care, ma senza fine amare, se questa di Dorinda oggi non sana: dunque andiamo a sanarla. | |
DORINDA |
Deh, Linco mio, non mi condur, ti prego, con queste spoglie alle paterne case. | |
SILVIO |
Tu dunque in altro albergo, Dorinda, poserai, che 'n quel di Silvio? Certo nelle mie case o viva, o morta, oggi sarai mia sposa; e teco sarà Silvio o vivo, o morto. | |
LINCO |
E come a tempo, or ch'Amarilli ha spento e le nozze, e la vita, e l'onestate. Oh coppia benedetta: oh sommi dèi, date con una sola salute a duo la vita. | |
DORINDA |
Silvio, come son lassa, appena posso reggermi, ohimè, su questo fianco offeso. | |
SILVIO |
Sta' di buon cor, ch'a questo si troverà rimedio: a noi sarai tu cara soma, e noi a te sostegno. Linco, dammi la mano. | |
LINCO |
Eccola pronta. | |
SILVIO |
Tienla ben ferma, e del tuo braccio, e mio a lei si faccia seggio. Tu, Dorinda, qui posa: e quinci col tuo destro braccio il collo di Linco, e quindi il mio cingi col tuo sinistro: e sì t'adatta soavemente, che 'l ferito fianco non se ne dolga. | |
DORINDA |
Ahi punta crudel, che mi trafigge. | |
SILVIO |
A tuo bell'agio acconciati, ben mio. | |
DORINDA |
Or mi par di star bene. | |
SILVIO |
Linco, va' col piè fermo. | |
LINCO |
E tu col braccio non vacillar; ma va' diritto, e sodo, che ti bisogna, sai? Questo è ben altro trionfar, che d'un teschio. Dimmi, Dorinda mia: come ti pugne forte lo stral? | |
DORINDA |
Mi pugne, sì, cor mio ma nelle braccia tue l'esser punta m'è caro, e 'l morir dolce. | |
Dorinda, Linco, Silvio -> | ||
CORO quand'era cibo il latte del pargoletto mondo, e culla il bosco; e i cari parti loro godean le greggi intatte, né temea il mondo ancor ferro, né tosco. Pensier torbido, e fosco allor non facea velo al sol di luce eterna. Or la ragion, che verna tra le nubi del senso, ha chiuso il cielo; ond'è ch'il peregrino va l'altrui terra, e 'l mar turbando il pino. Quel suon fastoso, e vano: quell'inutil soggetto di lusinghe, di titoli, e d'inganno, c'onor dal volgo insano indegnamente è detto; non era ancor degli animi tiranno. Ma sostener affanno per le vere dolcezze, tra i boschi, e tra le gregge la fede aver per legge, fu di quell'alme al ben oprar avvezze. Cura d'onor felice, cui dettava onestà, piaccia se lice. Allor tra prati, e linfe gli scherzi, e le carole di legittimo amor furon le faci. Avean pastori, e ninfe il cor nelle parole; dava lor Imeneo le gioie, e i baci più dolci, e più tenaci. Un sol godeva ignude d'Amor le vive rose: furtivo amante ascose le trovò sempre, ed aspre voglie, e crude, o in antro, o in selva, o in lago, ed era un nome sol marito, e vago. Secol rio, che velasti, co' tuoi sozzi diletti, il bel dell'alma; ed a nudrir la sete dei desiri insegnasti co' sembianti ristretti, sfrenando poi l'impurità segrete. Così qual tesa rete tra fiori, e fronde sparte, celi pensier lascivi con atti santi, e schivi; bontà stimi il parer, la vita un'arte: né curi (e parti onore) che furto sia, pur che s'asconda, amore. Ma tu, deh spirti egregi forma ne' petti nostri verace ONOR, delle grand'alme donno. Oh regnator de' regi, deh torna in questi chiostri, che senza te beati esser non ponno. Destin dal mortal sonno tuoi stimoli potenti chi per indegna, e bassa voglia seguir te lassa, e lassa il pregio dell'antiche genti. Speriam, che 'l mal fa tregua talor, se speme in noi non si dilegua. Speriam, che 'l sol cadente anco rinasce. E 'l ciel quando men luce l'aspettato seren spesso n'adduce. | ||
Arcadia.
Ben duro cor avrebbe; o non avrebbe
Oh dèa, che non se' dèa se non di gente