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Il pastor fido

IL PASTOR FIDO

Tragicommedia pastorale.

Versione sintetica a cura di www.librettidopera.it.

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Libretto di Giovanni Battista GUARINI.
Musica di AUTORI VARI.

Prima esecuzione: gennaio 1602, Venezia.


Le persone che parlano:

ALFEO fiume d'Arcadia

sconosciuto

SILVIO figlio di Montano

sconosciuto

LINCO vecchio servo di Montano

sconosciuto

MIRTILLO amante d'Amarilli

sconosciuto

ERGASTO compagno di Mirtilli

sconosciuto

CORISCA innamorata di Mirtillo

sconosciuto

MONTANO padre di Silvio, sacerdote

sconosciuto

TITIRO padre d'Amarilli

sconosciuto

DAMETA vecchio servo di Montano

sconosciuto

SATIRO vecchio amante già di Corisca

sconosciuto

DORINDA innamorata di Silvio

sconosciuto

LUPINO capraio servo di Dorinda

sconosciuto

AMARILLI figlia di Titiro

sconosciuto

NICANDRO ministro maggiore del sacerdote

sconosciuto

CORIDONE amante di Corisca

sconosciuto

CARINO vecchio padre putativo di Mirtillo

sconosciuto

URANIO vecchio compagno di Carino

sconosciuto

MESSO

sconosciuto

TIRENIO cieco indovino

sconosciuto


Coro di Pastori.
Coro di Cacciatori.
Coro di Ninfe.
Coro di Sacerdoti.

La scena è in Arcadia.

Dedica

Hassi per fama celebre, e approvata d'autore non solo antico, ma curioso delle cose mirabili di natura; che la Fenice, stupendo, e unico augello della sua spezie; dopo che dal suo cenere per virtù dei raggi solari meravigliosamente è rinata; col suo primiero volo in verso 'l tempio del Sole forse per adorar l'autore della sua nascita, s'indirizza. Non altrimenti principe sereniss. Il Pastor fido dai chiarissimi raggi della sua grazia tante volte illustrato; e finalmente con apparecchio si sontuoso di tal regina fatto spettacolo, che fu essa spettacolo a tutta Italia: ora in questa solenne forma; quasi vaga Fenice rinovellato a alt. sereniss. come a vero e magnanimo autore della sua gloria, di primo volo se n' viene, con fine di riverirla, di ringraziarla, e esaltare, quant'è per lui possibile, il suo gran nome. Sì che dovunque il Pastor Fido si celebri, cioè per tutte quelle parti d'Europa, dove la nostra lingua si pregia; sia celebrata ancora quella virtù, colla quale l'a. v. secondo l'uso de' veri principi, abbraccia gli uomini valorosi, e con effetti d'animo grande onora l'opere loro. Né già dè ella sdegnare d'esser in pregio per cagion degli studi, che son più nobili della pace, essendo in que' della guerra tanto stimata. Percioché se dell'una, e dell'altra gli opportuni tempi sono distinti, e per ciò non potendo chi è guerriero, e principe insieme obbligato al governo de' popoli, aver sempre occasione di guerra, dov'egli degnamente possa impiegarsi; valoroso per diritta ragione dovrà esser chiamato quello, che nell'ozio non s'ammollisce, e passa con tanta agevolezza dal riposo al travaglio, che la memoria della passata quiete no ‘l renda niente men forte nel tollerare le fatiche presenti. Chi è colui, che oggi non vegga principe sereniss. che per l'addietro al valoroso animo suo l'occasione sola è mancata? Conciosiacosaché essendo ella suta un gran tempo, come macchina senza moto; non così tosto l'ha ricevuto, che non fu mai nell'armi, né Annibale sì feroce, né Pirro sì vivace, né Scipione sì valoroso, come ella in tutti i tempi delle più importanti, e malagevoli imprese di subito s'è mostrata: non senza meraviglia di tutti, e specialmente delle straniere nazioni più bellicose, alle quali ha fatto conoscere, che sorte di guerrieri produca l'ozio in Italia. Qui certo non canto favole, ne porto cose di secoli; né fatti appena vivi nell'altrui carte, e tanto veri quanto creduti: ma parlo cose sì manifeste, e tanto recenti, che s'elle fossero false; dagli eserciti vivi potrebbon essermi rinfacciate: cose da mill'occhi testè vedute, da mille lingue oggi esaltate. E come queste in un concento solo s'accordano, e del nome di lei risuonano; così non è chi sappia ben dire qual sia stato maggiore in lei o l'ardir ne' pericoli, o l'ardor nel combattere, o la sofferenza nelle fatiche, o la vigilanza nelle difficoltà, o l'accortezza nel provvedere, o 'l senno nel discorrere, o la prontezza nell'intraprendere; e finalmente qual parte o d'animoso guerriero, o di gran capitano abbia meglio, e con più lode sempre adempiuta. Ma forse oltre il dovere la troppo ardita mia penna è per soverchio affetto trascorsa. Con tutto ciò ne spero da lei perdono: poiché dovendo io dedicarle quest'opera; e perciò farla alla presenza di lei più bella, e meglio adorna, che per me sia possibile, comparire, qual bellezza, o quale ornamento poteva io procurarle, che fosse tanto nobile, e tanto degno di lei, quant'è 'l riflesso, ch'egli viene a ricever dal suo splendore? Sarà ben temerario colui, ch'adonti il Pastor Fido da tale, e tanto principe si altamente onorato. Dunque s'ella degnò di esaltarlo nella sua scena, degni ancor di gradirlo nella mia stampa la quale vuol'essa ancora splendidamente co' lumi di dottrina, coll'armonia delle muse, e con altre vaghezze d'arte, e d'ingegno rappresentarlo nel teatro del mondo agl'occhi dello 'ntelletto, come fu dinanzi a quelli del senso per opra di v. a. meraviglioso, e ricco spettacolo. Alla quale umilmente inchinandomi prego dio, che le conceda felicissimo fine d'ogni suo desiderio.

Di Venezia li 12 di gennaio MDCII

Di v. alt. serenissima

umilissimo, e devotiss servitore

Gio. Battista Ciotti.

Argomento

Sacrificavano gli Arcadi a Diana loro dèa ciascun'anno una giovane del paese; così gran tempo avanti per cessar assai più gravi pericoli; dall'oracolo consigliati, il quale indi a non molto, ricercato del fine di tanto male, aveva loro in questa guisa risposto.

Non avra prima fin quel, che v'offende,

che duo semi del ciel congiunga Amore,

e di donna infedel l'antico errore

l'alta pietà d'un Pastor Fido ammende.

Mosso da questo vaticinio Montano sacerdote della medesima dèa: si come quegli, che l'origine sua ad Ercole riferiva, procurò che fosse Silvio unico suo figliolo, sì come solennemente fu, in matrimonio promessa Amarilli nobilissima ninfa, e figlia altresì unica di Titiro discendente da Pane, le quali nozze tutto che instantemente i padri loro sollecitassero, non si recavano però al fine desiderato; conciofosse cosa che il giovinetto, il quale niuna maggior vaghezza aveva, che della caccia, dai pensieri amorosi lontanissimo si vivesse. Era in tanto della promessa Amarilli fieramente acceso un pastore nominato Mirtillo, figliolo, come egli si credea, di Carino pastore nato in Arcadia, ma che di lungo tempo nel paese di Elide dimorava, ed ella amava altresì lui, ma non ardiva di discovrirglielo per timor della legge, che con pena di morte la femminile infedeltà, severamente puniva. La qual cosa prestando a Corisca molto comoda occasione di nuocer alla donzella, odiata da lei per amor di Mirtillo, di cui essa capricciosamente s'era invaghita: sperando per la morte della rivale di vincer più agevolmente la costantissima fede di quel pastore: in guisa adopra con sue menzogne, ed inganni, che i miseri amanti incautamente, e con intenzione da quella, che vien loro imputata, molto diversa, si conducono dentro ad una spelonca, dove accusati da un satiro, ambedue sono presi, e Amarilli non potendo giustificare la sua innocenza, alla morte vien condannata, la quale ancora che Mirtillo non dubiti, lei troppo bene aver meritata; ed egli per la legge, che la sola donna castiga, sappia di poterne andar assoluto; delibera nondimeno di voler morire per lei; si come di poter fare dalla medesima legge gli è conceduto. Essendo egli dunque da Montano, a cui per essere sacerdote, questa cura s'appartenea, condotto alla morte, sopraggiunto in questo Carino, che veniva da lui cercando, e vedutolo in atto agli occhi suoi non meno miserabile che improvviso; sì come quegli, che niente meno l'amava, che se figliolo per natura stato gli fosse, mentre si sforza per camparlo da morte, di provare con sue ragioni, ch'egli sia forestiero, e perciò incapace a poter esser vittima per altrui, viene, non accorgendosene egli stesso, a scoprire, che 'l suo Mirtillo è figliolo del sacerdote Montano. Il quale suo vero padre rammaricandosi di dover essere ministro della legge nel proprio sangue, da Tirenio cieco indovino vien fatto chiaro colla interpretazione dell'oracolo stesso, non solo repugnare alla volonta de gli iddii, che quella vittima si consacri: ma essere eziandio delle miserie d'Arcadia quel fin venuto, che fu loro dalla divina voce predetta. Colla quale mentre tutto il successo vanno accordando; conchiudono, che Amarilli d'altrui non possa, ne debba essere sposa, che di Mirtillo. E perché poco innanzi Silvio, credendosi di saettare una fera, avea piagata Dorinda, miseramente accesa di lui; e per cotale accidente la solita sua durezza in amorosa pietà cangiata; poi che già era la piaga di quella ninfa, che fu creduta mortale, ridotta a termine di salute, ed era di Mirtillo divenuta sposa Amarilli; anch'esso già fatto amante, sposa Dorinda. Per cagione de' quali oltre ad ogni loro credenza felicissimi avvenimenti, ravvedutasi alfin Corisca: dopo l'aver trovato da gli amanti sposi perdono, tutta racconsolata, ancor che sazia del mondo, si dispone di cangiar vita.

Prologo
Scena unica

Alfeo fiume d'Arcadia.

ALFEO

Se per antica, e forse

da noi negletta, e non creduta fama

avete mai d'innamorato fiume

le meraviglie udite,

che per seguir l'onda fugace, e schiva

dell'amata Aretusa

corse (o forza d'amor) le più profonde

viscere della terra;

e del mar penetrando;

là dove sotto alla gran mole etnea

non so se fulminato, o fulminante

vibra il fiero gigante

contra 'l nemico ciel fiamme di sdegno

quel son io: già l'udiste, or ne vedete

prova tal, ch'a noi stessi

fede negar non lice.

Ecco lasciando il corso antico, e noto

per incognito mar l'onda incontrando

del re de' fiumi altero,

qui sorgo, e lieto a rivederne vegno

qual esser già solea libera, e bella,

or desolata, e serva,

quell'antica mia terra, ond'io derivo.

O cara genitrice: o dal tuo figlio

riconosciuta Arcadia:

riconosci il tuo caro,

e già non men di te famoso Alfeo.

Queste son le contrade

sì chiare un tempo: e queste son le selve,

ove 'l prisco valor visse, e morio.

In questo angolo sol del ferreo mondo,

cred'io che ricovrasse il secol d'oro,

quando fuggia le scellerate genti.

Qui non veduta altrove

libertà moderata, e senza invidia

fiorir si vide, in dolce sicurezza

non custodita, e n' disarmata pace.

Cingea popolo inerme

un muro d'innocenza, e di virtute,

assai più impenetrabile di quello,

che d'animati sassi

canoro fabbro alla gran Tebe eresse.

E quando più di guerre, e di tumulti

arse la Grecia, e gli altri suoi guerrieri

popoli armò l'Arcadia,

a questa sola fortunata parte;

a questo sacro asilo

strepito mai non giunse né d'amica

né di nemica tromba.

E sperò tanto sol Tebe, e Corinto,

e Micene, e Megara, e Patra, e Sparta

di trionfar del suo nemico, quanto

l'ebbe cara e guardolla

questa amica del ciel devota gente,

di cui fortunatissimo riparo

fur esse in terra, ella di lor nel cielo:

pugnando altri con l'armi, ella co' prieghi.

E benché qui ciascuno

abito e nome pastorale avesse,

non fu però ciascuno,

né di pensier, né di costumi rozzo:

però ch'altri fu vago

di spiar tra le stelle, e gli elementi

di natura, e del ciel gli alti segreti:

altri di seguir l'orme

di fuggitiva fera.

Altri con maggior gloria

d'atterrar orso o d'assalir cignale.

Questi rapido al corso,

e quegli al duro cesto

fiero mostrossi ed alla lotta invitto.

Chi lanciò dardo, e chi ferì di strale

il destinato segno.

Chi d'altra cosa ebbe vaghezza, come

ciascun suo piacer segue.

La maggior parte amica

fu delle sacre muse: amore, e studio

beato un tempo, or infelice, e vile.

Ma chi mi fa veder dopo tant'anni

qui trasportata, dove

scende la Dora in Po, l'Arcada terra?

Questa la chiostra è pur, questo quel antro

dell'antica Ericina.

E quel, che colà sorge è pur il tempio

alla gran Cintia sacro. Or qual m'appare

miracolo stupendo?

Che 'nsolito valor, che virtù nova

vegg'io di trapiantar popoli e terre?

O fanciulla reale,

d'eta fanciulla, e di saver già donna:

virtù del vostro aspetto.

Valor del vostro sangue,

gran Caterina, (or me n'avveggio), è questa

di quel sublime, e glorioso sangue,

alla cui monarchia nascono i mondi.

Questi sì grandi effetti,

che sembran meraviglie,

opre son vostre usate, opre natie,

come a quel sol, che d'oriente sorge

tante cose leggiadre

produce il mondo: erbe, fior, fronde e tante

in cielo, in terra in mare alme viventi,

così al vostro possente, altero sole,

ch'uscì dal grande, e per voi chiaro occaso

si veggon d'ogni clima

nascer province, e regni,

e crescer palme, e pullular trofei.

A voi dunque m'inchino, altera figlia

di quel monarca, a cui

né anco quando annotta il sol tramonta:

sposa di quel gran duce,

al cui senno, al cui petto, alla cui destra

commise il ciel la cura

dell'italiche mura.

Ma non bisogna più d'alpestre rupi

schermo, o d'orride balze.

Stia pur la bella Italia

per voi sicura, e suo riparo, invece

delle grand'alpi, una grand'alma or sia.

Quel suo tanto di guerra

propugnacolo invitto,

è per voi fatto alle nemiche genti

quasi tempio di pace,

ove novella deità s'adori.

Vivete pur, vivete

lungamente concordi anime grandi,

che da sì glorioso, e santo nodo

spera gran cose il mondo;

ed ha ben anco, ove fondar sua speme.

Se mira in oriente

con tanti scettri il suo perduto impero,

campo sol di voi degno,

o magnanimo Carlo, e dai vestigi

dei grand'avoli vostri ancora impresso:

augusta è questa terra,

augusti i vostri nomi, augusto il sangue,

i sembianti, i pensier, gli animi augusti;

saran ben anco augusti i parti, e l'opre.

Ma voi, mentre v'annunzio

corone d'oro, e le prepara il fato,

non isdegnate queste,

nelle piagge di Pindo

d'erbe e di fior conteste

per man di quelle vergini canore,

che, malgrado di morte altrui dan vita:

picciole offerte sì; ma però tali,

che se con puro affetto il cor le dona,

anco il ciel non le sdegna. E se dal vostro

serenissimo ciel d'aura cortese

qualche spirto non manca,

la cetra, che per voi

vezzosamente or canta

teneri amori, e placidi imenei,

sonerà fatta tromba arme e trofei.

Atto primo
Scena prima

Silvio, Linco.

SILVIO

Ite voi, che chiudeste

l'orribil fera, a dar l'usato segno

de la futura caccia. Ite svegliando

gli occhi col corno, e con la Voce i cori.

Se fu mai nell'Arcadia

pastor di Cintia, e de' suoi studi amico,

cui stimolasse il generoso petto

cura o gloria di selve,

oggi il mostri, e me segua,

là dove in picciol giro,

ma largo campo al valor nostro, è chiuso,

quel terribil cinghiale,

quel mostro di natura, e delle selve;

quel sì vasto, e sì fero,

e per le piaghe altrui

sì noto abitator dell'Erimanto,

strage delle campagne,

e terror de' bifolchi. Ite voi dunque,

e non sol precorrete,

ma provocate ancora

col rauco suon la sonnacchiosa Aurora.

Noi, Linco, andiamo a venerar gli dèi,

con più sicura scorta

seguirem poi la destinata caccia.

Chi ben comincia, ha la meta dell'opra;

né si comincia ben se non dal cielo.

LINCO

Lodo ben Silvio, il venerar gli déi,

ma il dar noia a coloro,

che son ministri degli déi, non lodo.

Tutti dormono ancora

i custodi del tempio, i quai non hanno

più tempestivo, o lucido orizzonte

della cima del monte.

SILVIO

A te, che forse non se' desto ancora,

par ch'ogni cosa addormentata sia.

LINCO

O Silvio, Silvio: a che ti diè natura

ne' più begli anni tuoi

fior di beltà sì delicato, e vago,

se tu se' tanto a calpestarlo intento?

Che s'avess'io cotesta tua sì bella,

e sì fiorita guancia,

addio, selve, direi;

e seguendo altre fere,

e la vita passando in festa, e 'n gioco,

farei la state all'ombra, e 'l verno al foco.

SILVIO

Così fatti consigli

non mi desti mai più: come se' ora

tanto da te diverso?

LINCO

Altri tempi, altre cure.

Così certo farei, se Silvio fossi.

SILVIO

Ed io, se fussi Linco;

ma perché Silvio sono,

oprar da Silvio, e non da Linco i' voglio.

LINCO

O garzon folle; a che cercar lontana

e perigliosa fera,

se l'hai via più d'ogni altra

e vicina e domestica e sicura?

SILVIO

Parli tu da davvero, o pur vaneggi?

LINCO

Vaneggi tu, non io.

SILVIO

Ed è così vicina?

LINCO

Quanto tu di te stesso.

SILVIO

In qual selva s'annida?

LINCO

La selva se' tu, Silvio;

e la fera crudel, che vi s'annida,

è la tua feritate.

SILVIO

Come ben m'avvisai, che vaneggiavi.

LINCO

Una ninfa sì bella e sì gentile,

ma che dissi una ninfa? Anzi una dèa,

più fresca, e più vezzosa,

di mattutina rosa;

e più molle, e più candida del cigno,

per cui non è sì degno

pastor oggi tra noi, che non sospiri,

e non sospiri invano;

a te solo dagli uomini, e dal cielo

destinata si serba;

ed oggi tu, senza sospiri, e pianti,

(o troppo indegnamente

garzon avventuroso) aver la puoi

nelle tue braccia, e tu la fuggi Silvio?

E tu la sprezzi? E non dirò che 'l core

abbi di fera, anzi di ferro il petto?

SILVIO

Se 'l non aver amore è crudeltate,

crudeltate è virtute, e non mi pento,

ch'ella sia nel mio cor, ma me ne pregio;

poiché solo con questa ho vinto Amore,

fera di lei maggiore.

LINCO

E come vinto l'hai

se no 'l provasti mai?

SILVIO

No 'l provando l'ho vinto.

LINCO

Oh s'una sola

volta il provassi, o Silvio,

se sapessi una volta

qual è grazia, e ventura

l'esser amato, il possedere amando

un riamante core,

so ben io che diresti,

dolce vita amorosa

perché sì tardi nel mio cor venisti?

Lascia, lascia le selve,

folle garzon,

lascia le fere, ed ama.

SILVIO

Linco, di' pur se sai,

mille ninfe darei per una fera,

che da Melampo mio cacciata fosse.

Godasi queste gioie,

chi n'ha di me più gusto, io non le sento.

LINCO

E che sentirai tu s'amor non senti,

sola cagion di ciò che sente il mondo?

Ma credimi fanciullo

a tempo il sentirai,

che tempo non avrai.

Vuol una volta Amor ne' cuori nostri

mostrar quant'egli vale.

Credi a me pur, che 'l provo,

non è pena maggiore

che 'n vecchie membra il pizzicor d'Amore.

Che mal si può sanar quel che s'offende,

quanto più di sanarlo altri procura:

se 'l giovinetto core Amor ti pugne,

Amor anco te l'ugne:

se col duol il tormenta,

con la speme il consola;

e s'un tempo l'ancide, alfine il sana:

ma s'e' ti giugne in quella fredda etade,

ove il proprio difetto

più che la colpa altrui spesso si piange,

allora insopportabili, e mortali

son le sue piaghe, allor le pene acerbe;

allora se pietà tu cerchi, male,

se non la trovi, e se la trovi, peggio.

Deh non ti procacciar prima del tempo

i difetti del tempo.

Che se t'assale alla canuta etate

amoroso talento,

avrai doppio tormento,

e di quel, che potendo non volesti,

e di quel, che volendo non potrai.

Lascia lascia le selve,

folle garzon; lascia le fere, ed ama.

SILVIO

Come vita non sia

se non quella, che nutre

amorosa insanabile follia.

LINCO

Dimmi, se 'n questa sì ridente, e vaga

stagion, che 'nfiora, e rinovella il mondo,

vedessi, invece di fiorite piagge,

di verdi prati, e di vestite selve,

starsi il pino, e l'abete, e 'l faggio, e l'orno

senza l'usata lor frondosa chioma,

senz'erbe i prati, e senza fiori i poggi,

non diresti tu Silvio il mondo langue?

La natura vien meno? Or quell'orrore,

e quella meraviglia, che devresti

di novità sì mostruosa avere,

abbila di te stesso. Il ciel n'ha dato

vita agli anni conforme, ed all'etate

somiglianti costumi: e come amore

in canuti pensier si disconviene,

così la gioventù d'amor nemica

contrasta al cielo, e la natura offende.

Mira d'intorno, Silvio,

quanto il mondo ha di vago, e di gentile,

opra è d'amore, amante è il cielo; amante

la terra; amante il mare.

Quella, che lassù miri innanzi all'alba

così leggiadra stella,

ama d'amor anch'ella, e del suo figlio

sente le fiamme: ed essa, che 'nnamora,

innamorata splende.

E questa è forse l'ora

che le furtive sue dolcezze, e 'l seno

del caro amante lassa.

Vedila pur come sfavilla, e ride.

Amano per le selve

le mostruose fere, aman per l'onde

i veloci delfini, e l'orche gravi.

Quell'augellin, che canta

sì dolcemente, e lascivetto vola

or dall'abete al faggio,

ed or dal faggio al mirto,

s'avesse umano spirto,

direbbe, ardo d'amore, ardo d'amore;

ma ben arde nel core,

e parla in sua favella,

sì che l'intende il suo dolce desio:

et odi appunto, Silvio,

il suo dolce desio,

che gli risponde, ardo d'amore anch'io.

Mugge in mandra l'armento, e que' muggiti

sono amorosi inviti.

Rugge il leone al bosco;

né quel ruggito è d'ira,

così d'amor sospira.

Alfine ama ogni cosa

se non tu Silvio, e sarà Silvio solo

in cielo, in terra, in mare

anima senza amore?

Deh lascia omai le selve,

folle garzon, lascia le fere, ed ama.

SILVIO

A te dunque commessa

fu la mia verde età, perché d'amori,

e di pensieri effeminati, e molli

tu l'avessi a nudrir? Né ti sovviene

chi se' tu, chi son io?

LINCO

Uomo sono, e mi pregio

d'esser umano: e teco, che se' uomo,

o che piuttosto esser dovresti, parlo

di cosa umana; e se di cotal nome

forse ti sdegni, guarda

che nel disumanarti

non divenghi una fera, anzi che un dio.

SILVIO

Né sì famoso mai, né mai sì forte

stato sarebbe il domator de' mostri,

dal cui gran fonte il sangue mio deriva,

se' non avesse pria domato Amore.

LINCO

Vedi, cieco fanciul, come vaneggi.

Dove saresti tu, dimmi, s'amante

stato non fosse il tuo famoso Alcide?

Anzi se guerre vinse, e mostri ancise,

gran parte Amor ve n'ebbe. Ancor non sai,

che per piacer ad Onfale, non pure

volle cangiar in femminili spoglie

del feroce leon l'ispido tergo,

ma, della clava noderosa invece

trattare il fuso, e la conocchia imbelle?

Così delle fatiche, e degli affanni

prendea ristoro, e nel bel sen di lei,

quasi in porto d'Amor solea ritrarsi;

che sono i suoi sospir dolci respiri

delle passate noie, e quasi acuti

stimoli al cor nelle future imprese.

E come il rozzo, ed intrattabil ferro,

temprato con più tenero metallo,

affina sì, che sempre e più resiste,

e per uso più nobile s'adopra,

così vigor indomito, e feroce,

che nel proprio furor spesso si rompe,

se con le sue dolcezze Amor il tempra,

diviene all'opra generoso, e forte.

Se d'esser dunque imitator tu brami

d'Ercole invitto, e suo degno nipote,

poi che lasciar non vuoi le selve, almeno

segui le selve, e non lasciar Amore;

un amor sì legittimo, e sì degno,

com'è quel d'Amarilli, che se fuggi

Dorinda, i' te ne scuso, anzi pur lodo,

ch'a te, vago d'onore, aver non lice

di furtivo desio l'animo caldo,

per non far torto alla tua cara sposa.

SILVIO

Che di' tu Linco? Ancor non è mia sposa.

LINCO

Da lei dunque la fede

non ricevesti tu solennemente?

Guarda garzon superbo

non irritar gli dèi.

SILVIO

L'umana libertate è don del cielo;

che non fa forza a chi riceve forza.

LINCO

Anzi se tu l'ascolti, e ben l'intendi,

a questo il ciel ti chiama,

il ciel ch'alle tue nozze

tante grazie promette, e tanti onori.

SILVIO

Altro pensiero appunto

i sommi déi non hanno, appunto questa

l'almo riposo lor cura molesta.

Linco né questo amor, né quel mi piace.

Cacciator non amante al mondo nacqui,

tu che seguisti Amor, torna al riposo.

LINCO

Tu derivi dal cielo,

crudo garzon? Né di celeste seme

ti cred'io, né d'umano;

e se pur se' d'umano, i' giurerei

che tu fussi piuttosto

col velen di Tisifone, e d'Aletto,

che col piacer di Venere concetto.

Scena seconda

Mirtillo, Ergasto.

MIRTILLO

Cruda Amarilli, che col nome ancora

d'amar, ahi lasso, amaramente insegni;

Amarilli del candido ligustro

più candida, e più bella;

ma dell'aspido sordo

e più sorda, e più fera, e più fugace,

poi che col dir t'offendo

i' mi morrò tacendo;

ma grideran per me le piagge, e i monti,

e questa selva, a cui

sì spesso il tuo bel nome

di risonare insegno:

per me piangendo i fonti,

e mormorando i venti

diranno i miei lamenti:

parlerà nel mio volto

la pietate, e 'l dolore;

e se fia muta ogn'altra cosa, al fine

parlerà il mio morire,

e ti dirà la morte il mio martìre.

ERGASTO

Mirtillo, Amor fu sempre un fier tormento,

ma più quanto è più chiuso;

però ch'egli dal freno,

ond'è legata un'amorosa lingua,

forza prende, e s'avanza;

e più fiero è prigion, che non è sciolto.

Già non dovevi tu sì lungamente

celarmi la cagion della tua fiamma,

se la fiamma celar non mi potevi.

Quante volte l'ho detto; arde Mirtillo,

ma in chiuso foco e' si consuma, e tace.

MIRTILLO

Offesi me per non offender lei,

cortese Ergasto, e sarei muto ancora;

ma la necessità m'ha fatto ardito.

Odo una voce mormorar d'intorno,

che per l'orecchie mi ferisce il core,

delle vicine nozze d'Amarilli.

Ma chi ne parla ogni altra cosa tace,

ed io più innanzi ricercar non oso;

sì per non dar altrui di me sospetto,

come per non trovar quel, che pavento.

So ben, Ergasto, e non m'inganna Amore,

ch'alla mia bassa, e povera fortuna

sperar non lice in alcun tempo mai,

che ninfa sì leggiadra, e sì gentile,

e di sangue, e di spirto, e di sembiante

veramente divina, a me sia sposa:

ben conosco il tenor della mia stella:

nacqui solo alle fiamme, e 'l mio destino

d'arder mi feo, non di gioirne degno.

Ma poi ch'era ne' fati, ch'io dovessi

amar la morte, e non la vita mia;

vorrei morir almen, sì che la morte

da lei, che n'è cagion, gradita fosse,

né si sdegnasse all'ultimo sospiro

di mostrarmi i begli occhi, e dirmi muori.

Vorrei, prima che passi a far beato

delle sue nozze altrui, ch'ella m'udisse

almen sola una volta. Or se tu m'ami,

ed hai di me pietate, in ciò t'adopra,

cortesissimo Ergasto, in ciò m'aita.

ERGASTO

Giusto desio d'amante, e di chi muore

lieve mercé, ma faticosa impresa.

Misera lei se risapesse il padre,

ch'ella a prieghi furtivi avesse mai

inchinate l'orecchie, o pur ne fosse

al sacerdote suocero accusata.

Per questo forse ella ti fugge, e forse

t'ama, ancorché no 'l mostri, che la donna

nel desiar è ben di noi più frale,

ma nel celar il suo desio, più scaltra.

E se fosse pur ver, ch'ella t'amasse,

che potrebbe altro far se non fuggirti?

Chi non può dar aita, indarno ascolta,

e fugge con pietà, chi non s'arresta

senz'altrui pena: ed è sano consiglio

tosto lasciar quel, che tener non puoi.

MIRTILLO

O se ciò fosse vero, o s'io 'l credessi,

care mie pene, e fortunati affanni.

Ma se ti guardi il ciel, cortese Ergasto,

non mi tacer qual è il pastor tra noi

felice tanto, e delle stelle amico.

ERGASTO

Non conosci tu Silvio, unico figlio

di Montan sacerdote di Diana,

sì famoso pastore oggi e sì ricco?

Quel garzon sì leggiadro? Quegli è desso.

MIRTILLO

Fortunato fanciul, che 'l tuo destino

trovi maturo in così acerba etate;

né te l'invidio no, ma piango il mio.

ERGASTO

E veramente invidiar no 'l déi,

che degno è di pietà più che d'invidia.

MIRTILLO

E perché di pietà?

ERGASTO

Perché non l'ama.

MIRTILLO

Ed è vivo? Ed ha core? E non è cieco?

Benché se dritto miro,

a lei per altro core

non restò fiamma più, quando nel mio

spirò da quei begli occhi

tutte le fiamme sue, tutti gli amori.

Ma perché dar sì preziosa gioia

a chi non la conosce? A chi la sprezza?

ERGASTO

Perché promette a queste nozze il cielo

la salute d'Arcadia. Non sai dunque,

che qui si paga ogn'anno alla gran dèa

dell'innocente sangue d'una ninfa

tributo miserabile, e mortale?

MIRTILLO

Unqua più non l'udii, né ciò m'è nuovo,

che nuovo ancora abitator qui sono,

e come vuol Amore, e 'l mio destino,

quasi pur sempre abitator de' boschi:

ma qual peccato il meritò sì grave?

Come tant'ira un cor celeste accoglie?

ERGASTO

Ti narrerò delle miserie nostre

tutta da capo la dolente istoria,

che trar porria da queste dure querce

pianto, e pietà, nonché dai petti umani.

In quella età, che 'l sacerdozio santo,

e la cura del tempio ancor non era

a sacerdote giovane contesa.

Un nobile pastor chiamato Aminta,

sacerdote in quel tempo, amò Lucrina

ninfa leggiadra a meraviglia, e bella;

ma senza fede a meraviglia, e vana.

Gradì costei gran tempo, o 'l mostrò forse

con simulati, e perfidi sembianti,

del giovane amoroso il puro affetto,

e di false speranze anco nudrillo,

(misero) mentre alcun rival non ebbe.

Ma non sì tosto (or vedi instabil donna)

rustico pastorel l'ebbe guatata;

che i primi sguardi non sostenne, i primi

sospiri, e tutta al nuovo amor si diede,

prima che gelosia sentisse Aminta.

Misero Aminta, che da lei fu poscia

e sprezzato, e fuggito; sì ch'udirlo,

né vederlo mai più l'empia non volle.

Se piangesse il meschin, se sospirasse,

pensa 'l tu, che per prova intendi Amore.

MIRTILLO

Ohimè questo è 'l dolor, ch'ogn'altro avanza.

ERGASTO

Ma poiché dietro al cor perduto, ebbe anco

i sospiri perduti, e le querele;

volto pregando, alla gran dèa: se mai,

disse, con puro cor, Cintia: se mai,

con innocente man fiamma t'accesi,

vendica tu la mia sotto la fede

di bella ninfa, e perfida tradita.

Udì del fido amante, e del suo caro

sacerdote Diana i prieghi, e 'l pianto:

tal che nella pietà l'ira spirando,

fe' lo sdegno più fero; ond'ella prese

l'arco possente, e saettò nel seno

della misera Arcadia non veduti

strali, ed inevitabili di morte.

Perìan senza pietà, senza soccorso

d'ogni sesso le genti, e d'ogni etate:

vani erano i rimedi; il fuggir tardo,

inutil l'arte, e prima che l'infermo,

spesso nell'opra il medico cadea.

Restò solo una speme in tanti mali

del soccorso del cielo e s'ebbe tosto

al più vicino oracolo ricorso,

da cui venne risposta assai ben chiara,

ma sopra modo orribile, e funesta.

Che Cintia era sdegnata, e che placarla

si sarebbe potuto, se Lucrina,

perfida ninfa, ovvero altri per lei

di nostra gente, alla gran dèa si fosse

per man d'Aminta in sacrificio offerta:

la qual, poi ch'ebbe indarno pianto, e 'ndarno

dal suo nuovo amator soccorso atteso,

fu con pompa solenne al sacro altare

vittima lagrimevole condotta:

dove, a quei piè che la seguiro invano

già tanto, ai piè, dell'amator tradito,

le tremanti ginocchia alfin piegando,

dal giovane crudel morte attendea.

Strinse intrepido Aminta il sacro ferro,

e parea ben, che dall'accese labbra

spirasse ira, e vendetta: indi, a lei volto

disse con un sospir nunzio di morte.

Dalla miseria tua, Lucrina, mira

qual amante seguisti; e qual lasciasti

mira'l da questo colpo: e così detto,

ferì sé stesso, e nel sen proprio immerse

tutto 'l ferro, ed esangue in braccio a lei

vittima, e sacerdote in un cadeo.

A sì fero spettacolo, e sì nuovo

instupidì la misera donzella

tra viva, e morta; e non ben certa ancora

s'esser dal ferro, o dal dolor trafitta.

Ma come prima ebbe la voce, e 'l senso,

disse piangendo: o fido, o forte Aminta,

o troppo tardi conosciuto amante,

che m'hai data morendo, e vita, e morte.

Se fu colpa il lasciarti, ecco l'ammendo

con l'unir teco eternamente l'alma.

E questo detto, il ferro stesso, ancora

nel caro sangue tiepido, e vermiglio,

tratto dal morto, e tardi amato petto,

il suo petto trafisse; e sopra Aminta,

che morto ancor non era e sentì forse

quel colpo in braccio si lasciò cadere.

Tal fine ebber gli amanti; a tal miseria

troppo amor, e perfidia ambedue trasse.

MIRTILLO

O misero pastor, ma fortunato,

ch'ebbe sì largo, e sì famoso campo

di mostrar la sua fede, e di far viva

pietà nell'altrui cor con la sua morte.

Ma che seguì della cadente turba?

Trovò fine il suo mal? Placossi Cintia?

ERGASTO

L'ira s'intiepidì, ma non s'estinse;

che dopo l'anno in quel medesmo tempo

con ricaduta più spietata, e fiera,

incrudelì lo sdegno, onde, di nuovo

per consiglio all'oracolo tornando,

si riportò della primiera assai

più dura, e lagrimevole risposta:

che si sacrasse allora, e poscia ogn'anno

vergine, o donna alla sdegnata dèa,

che 'l terzo lustro empiesse, ed oltre al quarto

non s'avanzasse; e così d'una il sangue

l'ira spegnesse apparecchiata a molti.

Impose ancora all'infelice sesso

una molto severa, e, se ben miri

la sua natura, inosservabil legge;

legge scritta col sangue: che qualunque

donna, o donzella abbia la fé d'amore,

come che sia, contaminata o rotta,

s'altri per lei non muore, a morte sia

irremissibilmente condannata.

A questa dunque sì tremenda, e grave

nostra calamità spera il buon padre

di trovar fin con le bramate nozze;

però che dopo alquanto tempo, essendo

ricercato l'oracolo, qual fine

prescritto avesse a nostri danni il cielo,

ciò ne predisse in cotai voci appunto.

Non avrà prima fin quel, che v'offende,

che duo semi del ciel congiunga Amore,

e di donna infedel l'antico errore

l'alta pietà d'un Pastor Fido ammende.

Or nell'Arcadia tutta altri rampolli

di celesti radici oggi non sono,

che Silvio, ed Amarillide; che l'una

vien del seme di Pan, l'altro d'Alcide.

Né per nostra sciagura in altro tempo

s'incontraron giammai femmina, e maschio,

com'or, delle due schiatte; e però quinci

di sperar bene ha gran ragion Montano.

E benché tutto quel, che ci promette

la risposta fatale, ancor non segua;

pur questo è 'l fondamento: il resto poi

ha negli abissi suoi nascosto il fato,

e sarà parto un dì di queste nozze.

MIRTILLO

O sfortunato, e misero Mirtillo:

tanti fieri nemici,

tant'armi, e tanta guerra

contra un cor moribondo?

Non bastava Amor solo,

se non s'armava alle mie pene il fato?

ERGASTO

Mirtillo, il crudo Amore

si pasce ben, ma non si sazia mai,

di lagrime, e dolore.

Andiamo; i' ti prometto

di porre ogni mio ingegno,

perché la bella ninfa oggi t'ascolti:

tu datti pace intanto.

Non son come a te pare,

questi sospiri ardenti

refrigerio del core,

ma son piuttosto impetuosi venti,

che spiran nell'incendio, e 'l fan maggiore:

con turbini d'Amore,

ch'apportan sempre ai miserelli amanti

foschi nembi di duol, piogge di pianti.

Scena terza

Corisca.

Chi vide mai, chi mai udì più strana,

e più folle, e più fera, e più importuna

passione amorosa? Amore ed odio

con sì mirabil tempre in un cor misti,

che l'un per l'altro (e non so ben dir come)

e si strugge, e s'avanza, e nasce, e muore.

S'i' miro alle bellezze di Mirtillo,

dal piè leggiadro al grazioso volto,

il vago portamento, il bel sembiante,

gli atti, i costumi, e le parole, e 'l guardo:

m'assale Amor con sì possente foco,

ch'i' ardo tutta, e par, ch'ogn'altro affetto

da questo sol sia superato, e vinto:

ma se poi penso all'ostinato amore,

ch'ei porta ad altra donna, e che per lei

di me non cura, e sprezza, (il vo' pur dire)

la mia famosa, e da mill'alme, e mille

inchinata beltà, bramata grazia,

l'odio così, così l'aborro, e schivo,

ch'impossibil mi par, ch'unqua per lui

mi s'accendesse al cor fiamma amorosa.

Talor meco ragiono, o, s'i' potessi

gioir del mio dolcissimo Mirtillo,

sì che fosse mio tutto, e ch'altra mai

no 'l potesse godere, o più d'ogn'altra

beata, e felicissima Corisca.

Ed in quel punto in me sorge un talento

verso di lui sì dolce, e sì gentile,

che di seguirlo, e di pregarlo ancora,

e di scoprirgli il cor prendo consiglio:

che più? Così mi stimola il desio,

che se potessi allor l'adorerei:

dall'altra parte, i' mi risento, e dico;

un ritroso? Uno schifo? Un che non degna?

Un che può d'altra donna essere amante?

Un ch'ardisce mirarmi, e non m'adora?

E dal mio volto si difende in guisa;

che per amor non more? Ed io, che lui

devrei veder, come molti altri i' veggio,

supplice, e lagrimoso a' piedi miei.

Supplice, e lagrimosa a' piedi suoi

sosterrò di cadere? Ah non fia mai;

ed in questo pensier tant'ira accoglio

contra di lui, contra di me, che volsi

a seguirlo il pensier gli occhi a mirarlo,

che 'l nome di Mirtillo, e l'amor mio

odio più che la morte, e lui vorrei

vedere il più dolente, il più infelice

pastor che viva, e se potessi allora

con le mie proprie man l'anciderei.

Così sdegno, e desire, odio, ed amore

mi fanno guerra, ed io che stata sono

sempre fin qui di mille cor la fiamma,

di mill'alme il tormento, ardo, e languisco,

e provo nel mio mal le pene altrui;

io che tant'anni in cittadina schiera

di vezzosi, leggiadri, e degni amanti

fui sempre insuperabile, schernendo

tante speranze lor, tanti desiri,

or da rustico amor, da vile amante,

da rozzo pastorel son presa, e vinta.

Oh più d'ogn'altra misera Corisca,

che sarebbe di te, se sprovveduta

ti trovassi or d'amante? Che faresti

per mitigar quest'amorosa rabbia?

Impari alle mie spese oggi ogni donna

a far conserva, e cumulo d'amanti.

S'altro ben non avessi, altro trastullo

che l'amor di Mirtillo, non sarei

ben fornita di vago? O mille volte

mal consigliata donna, che si lascia

ridurre in povertà d'un solo amore.

Sì sciocca mai non sarà già Corisca.

Che fede? Che costanza? Immaginate

favole de' gelosi, e nomi vani

per ingannar le semplici fanciulle.

La fede in cor di donna, se pur fede

in donna alcuna (ch'io no 'l so) si trova,

non è bontà, non è virtù, ma dura

necessità d'Amor, misera legge

di fallita beltà, ch'un sol gradisce,

perché gradita esser non può da molti.

Bella donna, e gentil, sollecitata

da numeroso stuol di degni amanti,

se d'un solo è contenta, e gli altri sprezza,

o non è donna o, se pur donna, è sciocca.

Che val beltà non vista? E, se pur vista,

non vagheggiata? E se pur vagheggiata,

vagheggiata da un solo? E quanti sono

più frequenti gli amanti e di più pregio

tanto ella d'esser gloriosa, e rara,

pegno nel mondo ha più sicuro, e certo.

La gloria, e lo splendor di bella donna

è l'aver molti amanti. Così fanno

nelle cittadi ancor le donne accorte,

e 'l fan più le più belle e le più grandi.

Rifiutare un amante, appresso loro,

è peccato, e sciocchezza; e quel, ch'un solo

far non può, molti fanno. Altri a servire,

altri a donare, altri ad altr'uso è buono;

e spesso avvien, che, no 'l sapendo l'uno

scaccia la gelosia che l'altro diede,

o la risveglia in tal, che pria non l'ebbe.

Così nelle città vivon le donne

amorose, e gentili, ov'io col senno,

e con l'esempio già di donna grande

l'arte di ben amar fanciulla appresi.

Corisca, mi dicea, si vuole appunto

far degli amanti quel che delle vesti:

molti averne, un goderne, e cangiar spesso,

che 'l lungo conversar genera noia,

e la noia disprezzo, e odio alfine.

Né far peggio può donna, che lasciarsi

svogliar l'amante: fa' pur ch'egli parta

fastidito da te, non di te mai.

E così sempre ho fatto. Amo d'averne

gran copia, e li trattengo, e honne sempre

un per mano, un per occhio; ma di tutti

il migliore, e 'l più comodo nel seno,

e quanto posso più nel cor nessuno.

Ma non so come a questa volta (ahi lassa)

v'è pur giunto Mirtillo, e mi tormenta

sì: che a forza sospiro; e quel ch'è peggio,

di me sospiro, e non inganno altrui;

e le membra al riposo, e gli occhi al sonno

furando anch'io, so desiar l'aurora,

felicissimo tempo degli amanti

poco tranquilli: ed ecco io vo per queste

ombrose selve anch'io cercando l'orme

dell'odiato mio dolce desio.

Ma che farai, Corisca? Il pregherai?

No, che l'odio non vuol, bench'io 'l volessi:

il fuggirai? Né questo Amor consente,

benché far il devrei: che farò dunque?

Tenterò prima le lusinghe, e i prieghi,

e scoprirò l'amor, ma non l'amante;

se ciò non giova, adoprerò l'inganno

e se questo non può, farà lo sdegno

vendetta memorabile. Mirtillo,

se non vorrai amor, proverai odio;

ed Amarilli tua farò pentire

d'esser a me rivale, a te sì cara:

e finalmente proverete entrambi

quel, che può sdegno in cor di donna amante.

Scena quarta

Titiro, Montano, Dameta.

TITIRO

Vagliami il ver, Montano, i' so che parlo

a chi di me più intende: oscuri sempre

sono assai più gli oracoli di quello,

ch'altri si crede: e le parole loro

sono come il coltel; che, se tu 'l prendi

in quella parte, ove per uso umano

la man s'adatta, a chi l'adopra è buono;

ma chi 'l prende ove fere, è spesso morte.

Ch'Amarillide mia, come argomenti,

sia per alto destin dal cielo eletta

alla salute universal d'Arcadia;

chi più deve bramarlo, e caro averlo

di me, che le son padre? Ma, s'i' miro

a quel, che n'ha l'oracolo predetto,

mal si confanno alla speranza i segni.

S'unir gli deve Amor, come fia questo,

se fugge l'un? Com'esser pon gli stami

d'amoroso ritegno odio, e disprezzo?

Mal si contrasta quel, ch'ordina il cielo;

e se pur si contrasta, è chiaro segno

che non l'ordina il cielo; a cui se pure

piacesse ch'Amarillide consorte

fosse di Silvio tuo, piuttosto amante

lui fatto avria, che cacciator di fere.

MONTANO

Non vedi tu com'è fanciullo? Ancora

non ha fornito il diciottesim'anno,

ben sentirà col tempo anch'egli amore.

TITIRO

E 'l può sentir di fera, e non di ninfa?

MONTANO

A giovinetto cor più si conface.

TITIRO

E non Amor, ch'è naturale affetto?

MONTANO

Ma senza gli anni è natural difetto.

TITIRO

Sempre e' fiorisce alla stagion più verde.

MONTANO

Può ben forse fiorir, ma senza frutto.

TITIRO

Col fior maturo ha sempre il frutto Amore.

Qui non venn'io né per garrir, Montano,

né per contender teco: che né posso,

né fare il debbo; ma son padre anch'io

d'unica, e cara, e, se mi lece dirlo,

meritevole figlia: e con tua pace

da molti chiesta, e desiata ancora.

MONTANO

Titiro, ancor che queste nozze in cielo

non iscorgesse alto destin, le scorge

la fede in terra, e 'l violarla fora

un violar della gran Cintia il nume

a cui fu data: e tu sai pur quant'ella

è disdegnosa, e contra noi sdegnata.

Ma per quel ch'i' ne sento, e quanto puote

mente sacerdotal rapita al cielo

spiar lassù di que' consigli eterni,

per man del fato è questo nodo ordito:

e tutti sortiranno (abbi pur fede)

a suo tempo maturi anco i presagi.

Più ti vo' dir, che questa notte in sogno

veduto ho cosa, onde l'antica speme

più che mai nel mio cor si rinnovella.

TITIRO

Son i sogni alfin sogni: e che vedesti?

MONTANO

Io credo ben, ch'abbi memoria (e quale

sì stupido è tra noi, ch'oggi non l'abbia?)

di quella notte lagrimosa, quando

il tumido Ladon ruppe le sponde,

sì che la dove avean gli augelli il nido,

notaro i pesci, e in un medesmo corso

gli uomini, e gli animali,

e le mandre, e gli armenti

trasse l'onda rapace.

In quella stessa notte

(o dolente memoria) il cor perdei,

anzi quel che del core

m'era più caro assai,

bambin tenero in fasce,

unico figlio allora, e da me sempre

e vivo, e morto unicamente amato:

rapillo il fier torrente

prima che noi potessimo sepolti

nel terror, nelle tenebre, e nel sonno,

provar di dargli alcun soccorso a tempo;

neppur la culla stessa, in cui giacea

trovar potemmo, ed ho creduto sempre

che la culla, e 'l bambin, così com'era,

una stessa voragine inghiottisse.

TITIRO

Che altro su può credere? Ben parmi

d'aver inteso ancora, e da te forse

di questa tua sciagura, veramente

sciagura memorabile, ed acerba:

e puoi ben dir, che di duo figli l'uno

generassi alle selve, e l'altro all'onde.

MONTANO

Forse nel vivo il ciel pietoso ancora

ristorerà la perdita del morto.

Sperar ben si dée sempre: Or tu m'ascolta.

Era quell'ora appunto

che tra la notte, e 'l dì, tenebre, e lume

col fosco raggio ancor l'alba confonde:

quand'io, pur nel pensiero

di queste nozze avendo

vegghiata una gran parte della notte,

alfin lunga stanchezza

recò negli occhi miei placido sonno;

e con quel sonno vision sì certa,

che di vegghiar dormendo

avrei potuto dire.

Sopra la riva del famoso Alfeo

seder pareami all'ombra

d'un platano frondoso,

e con l'amo tentar nell'onda i pesci;

ed uscire in quel punto

di mezzo 'l fiume un vecchio ignudo, e grave,

tutto stillante il crin, stillante il mento,

e con ambe le mani

benignamente porgermi un bambino,

ignudo e lagrimoso,

dicendo: ecco 'l tuo figlio,

guarda, che non l'ancidi:

e questo detto, tuffarsi nell'onde.

Indi tutto repente

di foschi nembi il ciel turbarsi intorno,

e minacciarmi orribile procella;

tal ch'io per la paura

strinsi il bambino al seno,

gridando: ah dunque un'ora

me 'l dona, e me 'l ritoglie?

Ed in quel punto parve,

che d'ogn'intorno il ciel si serenasse,

e cadesser nel fiume

fulmini inceneriti,

ed archi, e strali rotti a mille a mille.

Indi tremasse il tronco

del platano, e n'uscisse,

formato in voce spirito sottile,

che stridendo dicesse in sua favella;

Montano, Arcadia tua sarà ancor bella.

E così m'è rimaso

nel cor, negli occhi, e nella mente impressa

l'immagine gentil di questo sogno,

ch'i' l'ho sempre dinanzi;

e sopra tutto il volto

di quel cortese veglio,

che mi par di vederlo.

Per questo i' me n' venia diritto al tempio

quando tu m'incontrasti,

per quivi far col sacrificio santo

della mia vision l'augurio certo.

TITIRO

Son veramente i sogni

delle nostre speranze,

più che dell'avvenir vane sembianze;

immagini del dì guaste e corrotte

dall'ombre della notte.

MONTANO

Non è sempre co' sensi

l'anima addormentata;

anzi tanto è più desta,

quanto men traviata

dalle fallaci forme

del senso, allor, che dorme.

TITIRO

Insomma quel, che s'abbia il ciel disposto

de' nostri figli, è troppo incerto a noi;

ma certo è ben, che 'l tuo se n' fugge, e contra

la legge di natura amor non sente,

e che la mia fin qui l'obbligo solo

ha della data fé, non la mercede:

né so già dir se senta amor; so bene

ch'a molti il fa sentire;

né possibil mi par, ch'ella no 'l provi,

se 'l fa provar altrui.

Ben mi par di vederla

più dell'usato suo cangiata in vista,

che ridente, e festosa

già tutta esser solea.

Ma l'invaghir donzella

senza nozze alle nozze, è grave offesa:

come in vago giardin rosa gentile,

che nelle verdi sue tenere spoglie

pur dianzi era rinchiusa;

e sotto l'ombra del notturno velo

incolta, e sconosciuta

stava posando in sul materno stelo;

al subito apparir del primo raggio

che spunti in oriente,

si desta, e si risente,

e scopre al sol, che la vagheggia, e mira,

il suo vermiglio, ed odorato seno,

dov'ape sussurrando

nei mattutini albori

vola suggendo i rugiadosi umori;

ma s'allor non si coglie,

sì che del mezzo dì senta le fiamme:

cade al cader del sole

sì scolorita in sulla siepe ombrosa,

ch'appena si può dir questa fu rosa.

Così la verginella,

mentre cura materna

la custodisce, e chiude,

chiude anch'ella il suo petto

all'amoroso affetto:

ma se lascivo sguardo

di cupido amator vien che la miri,

e n'oda ella i sospiri,

gli apre subito il core,

e nel tenero sen riceve amore.

E se vergogna il cela,

o temenza l'affrena,

la misera tacendo,

per soverchio desio tutta si strugge:

così manca beltà, se 'l foco dura,

e perdendo stagion, perde ventura.

MONTANO

Titiro, fa' buon core;

non t'avvilir nelle temenze umane;

che bene inspira il cielo

quel cor, che bene spera,

né può giunger lassù fiacca preghiera;

e s'ognun dée pregare

ove 'l bisogno sia,

e sperar negli dèi,

quanto più ciò conviene

a chi da lor deriva?

Son pure i nostri figli

propaggini celesti:

non spegnerà il suo seme

chi fa crescer l'altrui.

Andiam, Titiro, andiamo

unitamente al tempio, e sacreremo,

tu il capro a Pan, ed io

ad Ercole il torello.

Chi feconda l'armento,

feconderà ben'anco

colui, che con l'armento

feconda i sacri altari.

Tu va', fido Dameta,

scegli tosto un torello,

di quanti n'abbia la feconda mandra,

il più morbido, e bello;

e per la via del monte assai più breve

fa' ch'io l'abbia nel tempio, ov'io t'attendo.

TITIRO

E dalla greggia mia, caro Dameta,

conduci un irco.

DAMETA

I' farò l'uno, e l'altro.

TITIRO

Questo sogno, Montano

piaccia all'alta bontà de' sommi dèi

che fortunato sia quanto tu speri.

So ben io, so ben io

quant'esser può del tuo perduto figlio

la rimembranza a te felice augurio.

Scena quinta

Satiro.

Come il gelo alle piante, ai fior l'arsura,

la grandine alle spighe, ai semi il verme,

le reti ai cervi, ed agli augelli il visco,

così nemico all'uom fu sempre Amore.

E chi fuoco chiamollo, intese molto

la sua natura perfida, e malvagia,

che se 'l foco si mira, oh come è vago;

ma se si tocca, oh come è crudo: il mondo

non ha di lui più spaventevol mostro.

Come fera divora, e come ferro

pugne, e trapassa, e come vento vola.

E dove il piede imperioso ferma,

cede ogni forza, ogni poter dà loco.

Non altrimenti Amor; che se tu 'l miri

in duo begl'occhi, in una treccia bionda,

oh come alletta, e piace; oh come pare,

che gioia spiri, e pace altrui prometta:

ma se troppo t'accosti, e troppo il tenti,

sì che serper cominci, e forza acquisti,

non ha tigre l'Ircania e non ha Libia

leon sì fero e sì pestifero angue,

che la sua ferita vinca, o pareggi;

crudo più che l'inferno, e che la morte:

nemico di pietà, ministro d'ira;

è finalmente Amor privo d'amore.

Ma che parlo di lui? Perché l'incolpo?

È forse egli cagion di ciò, che 'l mondo,

amando no; ma vaneggiando pecca?

O femminil perfidia; a te si rechi

la cagion pur d'ogni amorosa infamia.

Da te sola deriva, e non da lui

quanto ha di crudo, e di malvagio Amore;

che 'n sua natura placido, e benigno,

teco ogni sua bontà subito perde.

Tutte le vie di penetrar nel seno,

e di passar al cor tosto li chiudi:

sol di fuor il lusinghi, e fai suo nido,

è tua cura, e tua pompa, e tuo diletto

la scorza sol d'un miniato volto.

Né già son l'opre tue gradir con fede

la fede di chi t'ama, e con chi t'ama

contender nell'amare, ed in duo petti

stringer un core, e 'n duo voleri un'alma;

ma tinger d'oro un'insensata chioma,

e d'una parte in mille nodi attorta

infrascarne la fronte: indi con l'altra

tessuta in rete, e 'n quelle frasche involta

prender'il cor di mille incauti amanti.

Oh come è indegna, e stomachevol cosa

il vederti talor con un pennello

pinger le guance, ed occultar le mende

di natura, e del tempo; e veder come

il livido pallor fai parer d'ostro,

le rughe appiani, e 'l bruno imbianchi, e togli

col difetto il difetto; anzi l'accresci.

Spesso un filo incrocicchi, e l'un de capi

co' denti afferri, e con la man sinistra

l'altro sostieni, e del corrente nodo

con la destra fai giro, e l'apri, e stringi,

quasi radente forfice, e l'adatti

sull'inegual lanuginosa fronte:

indi radi ogni piuma, e svelli insieme

il mal crescente, e temerario pelo

con tal dolor, ch'è penitenza il fallo.

Ma questo è nulla, ancor che tanto: all'opre

sono i costumi somiglianti, e i vezzi.

Qual cosa hai tu, che non sia tutta finta?

S'apri la bocca, menti; e se sospiri,

son mentiti i sospir: se muovi gli occhi,

è simulato il guardo: insomma ogn'atto,

ogni sembiante, è ciò che 'n te si vede;

e ciò che non si vede, o parli o pensi,

o vadi, o miri, o pianga, o rida, o canti

tutto è menzogna: e questo ancora è poco.

Ingannar più chi più si fida, è meno

amar chi più n'è degno odiar la fede

più della morte assai: queste son l'arti

che fan sì crudo, e sì perverso Amore.

Dunque d'ogni suo fallo è tua la colpa.

Anzi pur ella è sol di chi ti crede.

Dunque la colpa è mia, che ti credei.

Malvagia, e perfidissima Corisca,

qui per mio danno sol, cred'io, venuta

dalle contrade scellerate d'Argo,

ove lussuria fa l'ultima prova.

Ma sì ben fingi, e sì sagace, e scorta

se' nel celar altrui l'opre, e i pensieri,

che tra le più pudiche oggi te n' vai,

del nome indegno d'onestate altera.

Oh quanti affanni ho sostenuti, oh quante

per questa cruda indignità sofferte.

Ben me ne pento. Anzi vergogno. Impara

dalle mie pene, o mal'accorto amante:

non far idolo un volto, ed a me credi;

donna adorata un nume è dell'inferno,

di sé tutto presume, e del suo volto,

sovra te che l'inchini, e, quasi dèa,

come cosa mortal ti sdegna, e schiva.

Che d'esser tal per suo valor si vanta,

qual tu per tua viltà la fingi, ed orni.

Che tanta servitù? Che tanti preghi,

tanti pianti, e sospiri? Usin quest'armi

le femmine, e i fanciulli: i nostri petti

sien'anche nell'amar virili, e forti.

Un tempo anch'io credei, che sospirando,

e piangendo, e pregando in cor di donna

si potesse destar fiamma d'amore.

Or me n'avvegio: errai: che s'ella il core

ha di duro macigno; indarno tenti,

che per lagrima molle, o lieve fiato

di sospir, che 'l lusinghi, arda o sfaville,

se rigido focil no 'l batte o sferza.

Lascia, lascia le lagrime, e i sospiri,

s'acquisto far della tua donna vuoi:

e s'ardi pur d'inestinguibil foco,

nel centro del tuo cor quanto più sai

chiudi l'affetto: e poi secondo il tempo

fa' quel ch'Amore, e la natura insegna.

Però che la modestia è nel sembiante

sol virtù della donna: e però seco

il trattar con modestia è gran difetto:

ed ella, che sì ben con altrui l'usa,

seco usata l'ha in odio; e vuol che 'n lei

la miri sì, ma non l'adopri il vago.

Con questa legge naturale, e dritta,

se farai per mio senno amerai sempre.

Me non vedrà, né proverà Corisca

mai più tenero amante; anzi piuttosto

fiero nemico, e sentirà con armi

non di femmina più, ma d'uom virile

assalirsi, e trafiggersi. Due volte

l'ho presa già questa malvagia; e sempre

m'è, (non so come) dalle mani uscita:

ma s'ella giunge anco la terza al varco,

ho ben pensato d'afferrarla in guisa,

che non potrà fuggirmi: appunto suole

tra queste selve capitar sovente;

ed io vo' pur come sagace veltro,

fiutandola per tutto, oh qual vendetta

ne vo' far, se la prendo; e quale strazio.

Ben le farò veder, che talor anco

chi fu cieco, apre gli occhi; e che gran tempo

delle perfidie sue non si dà vanto

femmina ingannatrice, e senza fede.

CORO

O nel seno di Giove alta, e possente

legge scritta: anzi nata:

la cui soave, ed amorosa forza,

verso quel ben, che non inteso sente

ogni cosa creata,

gli animi inchina, e la natura sforza:

neppur la frale scorza,

che 'l senso appena vede, e nasce, e more

al variar dell'ore;

ma i semi occulti, e la cagion interna,

ch'è d'eterno valor, move, e governa.

E se gravido è il mondo e tante belle

sue meraviglie forma,

e se per entro a quanto scalda il sole,

all'ampia luna, alle titanie stelle,

vive spirto, che 'nforma,

col suo maschio valor l'immensa mole:

s'indi l'umana prole

sorge, e le piante, e gli animali han vita;

se la terra è fiorita,

o se canuta ha la rugosa fronte,

vien dal tuo vivo, e sempiterno fonte.

Né questo pur, ma ciò che vaga spera

versa sopra i mortali,

onde quaggiù di ria ventura, o lieta

stella s'addita, or mansueta, or fera,

ond'han le vite frali

del nascer l'ora, e del morir la meta:

ciò che fa vaga, o queta

ne' suoi torbidi affetti umana voglia,

e par che doni, e toglia

fortuna; e 'l mondo vuol ch'à lei s'ascriva,

dall'alto tuo valor tutto deriva.

O detto inevitabile, e verace;

se pur è tuo concetto,

che dopo tanti affanni un dì riposi

l'arcada terra, ed abbia vita, e pace,

se quel che n'hai predetto

per bocca degli oracoli famosi

de' duo fatali sposi,

pur da te viene, e 'n quello eterno abisso,

l'hai stabilito, e fisso,

e se la voce lor non è bugiarda,

deh, chi l'effetto al voler tuo ritarda?

Ecco d'amore, e di pietà nemico

garzon aspro, e crudele,

che vien dal cielo, e pur col ciel contende:

ecco poi chi combatte un cor pudico,

amante invan fedele,

che 'l tuo voler con le sue fiamme offende,

e quanto meno attende

pietà del pianto, e del servir mercede,

tant'ha più foco, e fede;

ed è pur quella a lui fatal bellezza,

ch'è destinata a chi la fugge, e sprezza.

Così dunque in sé stessa è pur divisa

quell'eterna possanza?

E così l'un destin con l'altro giostra:

o non ben forse ancor doma, e conquisa

folle umana speranza

di porre assedio alla superna chiostra;

rubella al ciel si mostra,

ed arma quasi nuovi empi giganti,

amanti, e non amanti?

Qui si può tanto? E di stellato regno

trionferan duo ciechi Amore, e Sdegno?

Ma tu che stai sovra le stelle, e 'l fato,

e con saver divino

indi ne reggi, alto motor del cielo,

mira, ti prego il nostro dubbio stato;

accorda col destino

Amor, e Sdegno; e con paterno zelo

tempra la fiamma e 'l gelo:

chi dée goder, non fugga, e non disami:

chi dée fuggir non ami.

Deh fa' che l'empia, e cieca voglia altrui

la promessa pietà non tolga a nui.

Ma chi sa? Forse quella,

che pare inevitabile sciagura,

sarà lieta ventura.

Oh quanto poco umana mente sale,

che non s'affisa al sol vista mortale.

Atto secondo
Scena prima

Ergasto, Mirtillo.

ERGASTO

Oh quanti passi ho fatti: al fiume, al poggio,

al prato, al fonte, alla palestra, al corso

t'ho lungamente ricercato: alfine

qui pur ti trovo, e ne ringrazio il cielo.

MIRTILLO

Ond'hai tu nuova, Ergasto,

degna di tanta fretta? Hai vita, o morte?

ERGASTO

Questa non ti darei, bench'io l'avessi,

e quella spero dar, bench'io non l'abbia.

Ma tu non ti lasciar sì fieramente

vincer al tuo dolor, vinci te stesso,

se vuoi vincer altrui: vivi, e respira

talvolta. Ma per dirti la cagione

del mio venir a te sì ratto, ascolta.

Conosci tu (ma chi non la conosce?)

la sorella d'Ormino? È di persona

anzi grande, che no, di vista allegra,

di bionda chioma, e colorita alquanto.

MIRTILLO

Com'ha nome?

ERGASTO

Corisca.

MIRTILLO

I' la conosco

troppo bene, e con lei alcuna volta

ho favellato ancora.

ERGASTO

Or sappi ch'ella

da un tempo in qua (vedi ventura) è fatta,

non so già come, o con che privilegio,

della bella Amarillide compagna;

ond' a lei tutto ho l'amor tuo scoperto

segretamente; e quel, che da lei brami,

holle mostrato, ed ella prontamente

m'ha la sua fede in ciò promessa, e l'opra.

MIRTILLO

Oh mille volte, e mille,

se questo è vero, e più d'ogn'altro amante

fortunato Mirtillo: ma del modo

t'ha ella detto nulla?

ERGASTO

Appunto nulla,

e ti dirò perché: dice Corisca,

che non può ben deliberar del modo,

prima ch'alcuna cosa ella non sappia

dell'amor tuo più certa, ond'ella possa

meglio spiare, e più sicuramente

l'animo della ninfa; e sappia come

reggersi, o con preghiere, o con inganni,

quel che tentar, quel che lasciar sia buono.

Per questo solo i' ti venia cercando

sì ratto, e sarà ben, che tu da capo

tutta la storia del tuo amor mi narri.

MIRTILLO

Così appunto farò. Ma sappi, Ergasto,

che questa rimembranza

(ah troppo acerba a chi si vive amando

fuori d'ogni speranza)

è quasi un agitar fiaccola al vento;

per cui quanto l'incendio

sempre s'avanza, tanto

all'agitata fiamma ella si strugge;

o scoter pungentissima saetta

altamente confitta:

che se senti di svellerla, maggiore

fai la piaga, e 'l dolore.

Ben cosa ti dirò, che chiaramente

farà veder com'è fallace, e vana

la speme degli amanti; e come Amore

la radice ha soave, il frutto amaro.

Nella bella stagion, che 'l dì s'avanza

sovra la notte (or compie l'anno appunto)

questa leggiadra pellegrina, questo

novo sol di beltade

venne a far di sua vista,

quasi d'un'altra primavera, adorno

il mio solo per lei leggiadro allora,

e fortunato nido Elide, e Pisa,

condotta dalla madre

in que' solenni dì, che del gran Giove

i sacrifici, e i giochi

si soglion celebrar famosi tanto,

per farne a suoi begli occhi

spettacolo beato;

ma furon que' begli occhi

spettacolo d'Amore

d'ogn'altro assai maggiore.

Ond'io, che fin allor fiamma amorosa

non avea più sentita,

ohimè non così tosto

mirato ebbi quel volto,

che di subito n'arsi:

e senza far difesa al primo sguardo,

che mi drizzò negli occhi,

sentii correr nel seno

una bellezza imperiosa, e dirmi,

dammi il tuo cor, Mirtillo.

ERGASTO

Oh quanto può ne' petti nostri Amore,

né ben il può saper, se non chi 'l prova.

MIRTILLO

Mira cio che sa fare anco ne' petti

più semplici, e più molli Amore industre.

Io so del mio pensiero una mia cara

sorella consapevole, compagna

della mia cruda ninfa

que' pochi dì, ch'Elide l'ebbe, e Pisa.

Da questa sola, come Amor m'insegna,

fedel consiglio, ed amoroso aiuto

nel mio bisogno i' prendo:

ella delle sue gonne femminili

vagamente m'adorna,

e d'innestato crin cinge le tempie.

Poi le 'ntreccia, e le 'nfiora,

e l'arco, e la faretra

al fianco mi sospende,

e m'insegna a mentir parole, e sguardi,

e sembianti nel volto, in cui non era

di lanugine ancora

pur un vestigio solo.

E quando ora ne fue,

seco là mi condusse, ove solea

la bella ninfa diportarsi, e dove

trovammo alcune nobili, e leggiadre

vergini di Megara,

e di sangue, e d'amor, sì come intesi,

alla mia dèa congiunte.

Tra queste ella si stava,

sì come suol tra le violette umili

nobilissima rosa;

e poi che 'n quella guisa

state furono alquanto

senz'altro far di più diletto, o cura,

levossi una donzella

di quelle di Megara, e così disse.

Dunque in tempo di giochi,

e di palme sì chiare, e sì famose,

starem noi neghittose?

Dunque non abbiam noi

armi da far tra noi finte contese

così ben, come gl'uomini? Sorelle

se 'l mio consiglio di seguir v'aggrada,

proviam oggi tra noi così da scherzo

noi le nostr'armi, come

contra gli uomini allor, che ne sie tempo,

l'userem da dovero.

Bacianne, e si contenda

tra noi di baci; e quella, che d'ogn'altra

baciatrice più scaltra

li saprà dar più saporiti, e cari,

n'avra per sua vittoria

questa bella ghirlanda.

Risero tutte alla proposta, e tutte

subito s'accordaro;

e si sfidavan molte, e molte ancora,

senza che dato lor fosse alcun segno,

facean guerra confusa.

Il che veggendo allor la Megarese,

ordinò prima la tenzone, e poi

disse: de' nostri baci

meritamente sia giudice quella,

che la bocca ha più bella.

Tutte concordemente

elesser la bellissima Amarilli:

ed ella i suoi begli occhi

dolcemente chinando,

di modesto rossor tutta si tinse;

e mostrò ben, che non men bella è dentro

di quel che sia di fuori:

o fosse che 'l bel volto

avesse invidia all'onorata bocca,

e s'adornasse anch'egli,

della purpurea sua pomposa vesta,

quasi volesse dir, son bello anch'io.

ERGASTO

Oh come a tempo ti cangiasti in ninfa

avventuroso, e quasi

delle dolcezze tue presago amante.

MIRTILLO

Già si sedeva all'amoroso ufficio

la bellissima giudice, e secondo

l'ordine, e l'uso di Megara, andava

ciascheduna per sorte

a far della sua bocca, e de' suoi baci

prova con quel bellissimo, e divino

paragon di dolcezza:

quella bocca beata:

quella bocca gentil, che può ben dirsi

conca d'Indo odorata

di perle orientali, e pellegrine:

e la parte, che chiude,

ed apre il bel tesoro

con dolcissimo mel purpura mista.

Così potess'io dirti, Ergasto mio,

l'ineffabil dolcezza,

ch'i' sentii nel baciarla:

ma tu da questo prendine argomento,

che non la può ridir la bocca stessa,

che l'ha provata: accogli pur insieme

quant'hanno in sé di dolce

o le canne di Cipro, o i favi d'Ibla;

tutto è nulla rispetto

alla soavità, ch'indi gustai.

ERGASTO

Oh furto avventuroso, oh dolci baci.

MIRTILLO

Dolci sì, ma non grati,

perché mancava lor la miglior parte

dell'intero diletto:

davagli Amor, non gli rendeva Amore.

ERGASTO

Ma dimmi: e come ti sentisti allora

che di baciar a te cadde la sorte?

MIRTILLO

Su queste labbra, Ergasto,

tutta se n' venne allor l'anima mia;

e la mia vita chiusa

in così breve spazio,

non era altro che un bacio,

onde restar le membra

quasi senza vigor tremanti e fioche:

e quando i' fui vicino

al folgorante sguardo,

come quel, che sapea,

che pur inganno era quell'atto, e furto,

temei la maestà di quel bel viso.

Ma da un sereno suo vago sorriso

assicurato poi

pur oltre mi sospinsi.

Amor si stava, Ergasto,

com'ape suol, nelle due fresche rose

di quelle labbra ascoso:

e mentre ella si stette

con la baciata bocca

al baciar della mia

immobile, e ristretta;

la dolcezza del mel sola gustai.

Ma poi che mi s'offerse, anch'ella, e porse

l'una e l'altra dolcissima sua rosa,

(fosse o sua gentilezza, o mia ventura,

so ben che non fu Amore),

e sonar quelle labbra,

e s'incontraro i nostri baci (oh caro

e prezioso mio dolce tesoro,

t'ho perduto, e non moro?)

allor sentii dell'amorosa pecchia

la spina pungentissima soave

passarmi il cor; che forse

mi fu renduto allora

per poterlo ferire.

Io, poi ch'a morte mi sentii ferito,

come suol disperato,

poco mancò, che l'omicide labbra

non mordessi, e segnassi:

ma mi ritenne, ohimè, l'aura adorata,

che quasi spirto d'anima divina

risvegliò la modestia,

e quel furore estinse.

ERGASTO

O modestia molestia

degli amanti importuna.

MIRTILLO

Già fornito il su' arringo avea ciascuna,

e con sospension d'animo grande

la sentenza attendea,

quando la leggiadrissima Amarilli

giudicando i miei baci

più di quelli d'ogn'altra saporiti,

di propria man, con quella

ghirlandetta gentil, che fu serbata

premio alla vincitrice, il crin mi cinse.

Ma, lasso, aprica piaggia

così non arse mai sotto la rabbia

del can celeste allor, che latra, e morde;

come ardeva il cor mio

tutto allor di dolcezza, e di desio,

e più che mai nella vittoria vinto.

Pur mi riscossi tanto,

che la ghirlanda trattami di capo

a lei porsi, dicendo.

Questa a te si convien; questa a te tocca,

che festi i baci miei

dolci nella tua bocca.

Ed ella umanamente

presala, al suo bel crin ne feo corona;

ed un'altra, che prima

cingea le tempie a lei, cinse le mie.

Ed è questa, ch'io porto,

e portero fin al sepolcro sempre,

arida come vedi,

per la dolce memoria di quel giorno;

ma molto più per segno

della perduta mia morta speranza.

ERGASTO

Degno se' di pietà più che d'invidia,

Mirtillo; anzi pur Tantalo novello,

che nel gioco d'Amor chi fa da scherzo,

tormenta da dovero: troppe care

ti costar le tue gioie; e del tuo furto

e 'l piacer, e 'l castigo insieme avesti.

Ma s'accorse ella mai di questo inganno?

MIRTILLO

Ciò non so dirti, Ergasto:

so ben ch'ella in que' giorni,

ch'Elide fu della sua vista degno,

mi fu sempre cortese

di quel soave, ed amoroso sguardo.

Ma il mio crudo destino

la 'nvolò sì repente,

che me ne avvidi appena: ond'io lasciando

quanto già di più caro aver solea,

tratto dalla virtù di quel bel guardo;

qui, dove il padre mio,

dopo tant'anni ancor, come t'è noto,

serba l'antico suo povero albergo,

me n' venni, e vidi, (ah misero) già corso

a sempiterno occaso

quell'amoroso mio giorno sereno,

che cominciò da sì beata aurora.

Al mio primo apparir subito sdegno

lampeggiò nel bel viso;

poi chinò gli occhi, e girò il piede altrove.

Misero allor i' dissi,

questi son ben della mia morte i segni.

Avea sentita acerbamente intanto

la non prevista, e subita partita

il mio tenero padre;

e dal dolore oppresso

ne cadde infermo assai vicino a morte;

ond'io costretto fui

di ritornar alle paterne case;

fu il mio ritorno, ahi lasso,

salute al padre, infermitate al figlio:

che d'amorosa febbre

ardendo, in pochi dì languido venni.

E dall'uscir che fe' di Tauro il sole,

fin all'entrar di Capricorno, sempre

in cotal guisa stetti;

e sarei certo ancora,

se non avesse il mio pietoso padre

opportuno consiglio

all'oracolo chiesto; il qual rispose,

che sol potea sanarmi il ciel d'Arcadia.

Così tornaimi, Ergasto,

a riveder colei,

che mi sanò del corpo

(oh voce degli oracoli fallace)

per farmi l'alma eternamente inferma.

ERGASTO

Strano caso nel vero

tu mi narri, Mirtillo; e non può dirsi,

che di molta pietà non ne sii degno.

Ma solo una salute

al disperato è 'l disperar salute.

E tempo è già, ch'io vada a far di quanto

m'hai detto, consapevole Corisca.

Tu vanne al fonte, e là m'attendi, dove

teco sarò quanto più tosto anch'io.

MIRTILLO

Vanne felicemente: il ciel ti dia

di cotesta pietà quella mercede,

che dar non ti poss'io, cortese Ergasto.

Scena seconda

Dorinda, Lupino, Silvio.

DORINDA

Oh del mio bello, e dispietato Silvio

cura, e diletto, avventuroso, e fido

foss'io sì cara al tuo signor crudele

come se' tu, Melampo: egli con quella

candida man, ch'a me distringe il core,

te dolcemente lusingando, nutre,

e teco il dì, teco la notte alberga;

mentr'io, che l'amo tanto, invan sospiro,

e 'nvano il prego, e quel che più mi duole;

ti dà sì cari, e sì soavi baci,

ch'un sol, che n'avess'io, n'andrei beata;

e per più non poter, ti bacio anch'io,

fortunato Melampo. Or se benigna

stella forse d'Amore a me t'invia,

perché l'orme di lui mi scorga, andiamo

dove Amor me, te sol natura inchina.

Ma non sent'io tra queste selve un corno

sonar vicino?

SILVIO

Te', Melampo, te'.

DORINDA

Se 'l desio non m'inganna, quella è voce

del bellissimo Silvio, che 'l suo cane

chiama tra queste selve.

SILVIO

Te', Melampo,

te', te'.

DORINDA

Senz'alcun fallo è la sua voce.

Oh felice Dorinda: il ciel ti manda

quel ben, che vai cercando. È meglio, ch'io

serbi il cane in disparte; io farò forse

dell'amor suo con questo mezzo acquisto.

LUPINO

Eccomi.

DORINDA

Va' con questo cane

e ti nascondi in quella fratta. Intendi?

LUPINO

Intendo.

DORINDA

E non uscir s'io non ti chiamo.

LUPINO

Tanto farò.

DORINDA

Va' tosto.

LUPINO

E tu fa' tosto,

che se venisse fame a questa bestia,

in un boccone non mi manicasse.

DORINDA

O come se' da poco: su va' via.

SILVIO

Dove misero me, dove debb'io

volger più il piede a seguitarti, o caro,

o mio fido Melampo? Ho monte, e piano

cercato indarno; e son già molle, e stanco.

Maladetta la fera, che seguisti.

Ma ecco ninfa, che di lui novella

mi darà forse, oh come male inciampo:

questa è colei, che mi dà sempre noia.

Pur soffrir mi bisogna. O bella ninfa,

dimmi vedesti il mio fedel Melampo,

che testé dietro ad una damma sciolsi?

DORINDA

Io bella, Silvio? Io bella?

Perché così mi chiami

crudel, se bella agl'occhi tuoi non sono?

SILVIO

O bella, o brutta, hai tu il mio can veduto?

A questo mi rispondi, o ch'io mi parto.

DORINDA

Tu se' pur aspro a chi t'adora, Silvio:

chi crederia, che 'n sì soave aspetto

fosse sì crudo affetto?

Tu segui per le selve

e per gli alpestri monti

una fera fugace, e dietro l'orme

d'un veltro, ohimè t'affanni, e ti consumi;

e me, che t'amo sì, fuggi, e disprezzi.

Deh non seguir damma fugace; segui

segui amorosa, e mansueta damma,

che, senza esser cacciata

è già presa, e legata.

SILVIO

Ninfa, qui venni a ricercar Melampo,

non a perder il tempo, addio.

DORINDA

Deh Silvio

crudel non mi fuggire,

ch'i' ti darò del tuo Melampo nova.

SILVIO

Tu mi beffi, Dorinda?

DORINDA

Silvio mio,

per quello amor, che mi t'ha fatta ancella,

io so dov'è 'l tuo cane.

No 'l lasciasti testé dietro a una damma?

SILVIO

Lasciailo, e ne perdei tosto la traccia.

DORINDA

Or' il cane, e la damma è in poter mio.

SILVIO

In tuo poter?

DORINDA

In mio poter. Ti duole

d'esser tenuto a chi t'adora, ingrato?

SILVIO

Cara Dorinda mia daglimi tosto.

DORINDA

Ve', mobile fanciullo, a che son giunta,

ch'una fera, ed un can mi ti fa cara.

Ma vedi, core mio, tu non li avrai

senza mercede.

SILVIO

È ben ragion: darotti,

vo' schernirla costei.

DORINDA

Che mi darai?

SILVIO

Due belle poma d'oro, che l'altr'ieri

la bellissima mia madre mi diede.

DORINDA

A me poma non mancano; potrei

a te darne di quelle, che son forse

più saporite, e belle, se i miei doni

tu non avessi a schivo.

SILVIO

E che vorresti?

Un capro od una agnella? Ma il mio padre

non mi concede ancor tanta licenza.

DORINDA

Né di capro ho vaghezza, né d'agnella:

te solo, Silvio, e l'amor tuo vorrei.

SILVIO

Né altro vuoi, che l'amor mio?

DORINDA

Non altro.

SILVIO

Sì sì tutto te 'l dono: or dammi dunque.

Cara ninfa il mio cane, e la mia damma,

DORINDA

Oh se sapessi quanto

vale il tesor, di che sì largo sembri,

e rispondesse alla tua lingua il core.

SILVIO

Ascolta, bella ninfa, tu mi vai

sempre di certo amor parlando, ch'io

non so quel ch'e' si sia. Tu vuoi ch'i' t'ami,

e t'amo quanto posso, e quanto intendo.

Tu di' ch'io son crudele, e non conosco

quel, che sia crudeltà, né so che farti.

DORINDA

O misera Dorinda, ov'hai tu poste

le tue speranze? Onde soccorso attendi?

In beltà che non sente ancor favilla

di quel foco d'amor, ch'arde ogn'amante.

Amoroso fanciullo,

tu se' pur a me foco, e tu non ardi;

e tu, che spiri amore, amor non senti.

Te, sotto umana forma

di bellissima madre

partorì l'alma dèa, che Cipro onora.

Tu hai gli strali, e 'l foco,

ben sallo il petto mio ferito, ed arso.

Giugni agli omeri l'ali

sarai novo Cupido;

se non c'hai ghiaccio il core,

né ti manca d'Amore, altro che amore.

SILVIO

Che cosa è questo amore?

DORINDA

S'i' miro il tuo bel viso.

Amore è un paradiso:

ma s'i' miro il mio core,

è un infernal ardore.

SILVIO

Ninfa, non più parole

dammi il mio cane omai.

DORINDA

Dammi tu prima il pattuito amore.

SILVIO

Dato non te l'ho dunque? Ohimè che pena

è 'l contentar costei: prendilo, fanne

ciò che ti piace. Chi te 'l nega, o vieta?

DORINDA

Tu perdi nell'arena i semi, e l'opra

sfortunata Dorinda.

SILVIO

Che fai? Che pensi ancor mi tieni a bada?

DORINDA

Non così tosto avrai quel, che tu brami

che poi mi fuggirai, perfido Silvio.

SILVIO

No certo, bella ninfa.

DORINDA

Dammi un pegno.

SILVIO

Che pegno vuoi?

DORINDA

Ah che non oso a dirlo.

SILVIO

Perché?

DORINDA

Perc'ho vergogna.

SILVIO

E pur il chiedi.

DORINDA

Vorrei senza parlar esser intesa.

SILVIO

Ti vergogni di dirlo, e non avresti

vergogna di riceverlo?

DORINDA

Se darlo

tu mi prometti, i' te 'l dirò.

SILVIO

Prometto

ma vuò che tu me 'l dica.

DORINDA

Ah non m'intendi

Silvio mio ben: t'intenderei pur io,

s'a me il dicessi tu.

SILVIO

Più scaltra certo

se' tu di me.

DORINDA

Più calda Silvio, e meno

di te crudele io sono.

SILVIO

A dirti il vero

io non son indovin: parla se vuoi

esser intesa.

DORINDA

Oh misera, un di quelli

che ti dà la tua madre.

SILVIO

Una guanciata?

DORINDA

Una guanciata a chi t'adora Silvio?

SILVIO

Ma careggiar con queste ella sovente

mi suole.

DORINDA

Ah so ben io, che non è vero.

E talor non ti bacia.

SILVIO

Né mi bacia,

né vuol che altri mi baci.

Forse vorresti tu per pegno un bacio?

Tu non rispondi. Il tuo rossor t'accusa.

Certo mi son apposto. I' son contento;

ma dammi con la preda il can tu prima.

DORINDA

Me 'l prometti tu, Silvio?

SILVIO

I' te 'l prometto.

DORINDA

E me l'attenderai?

SILVIO

Sì ti dich'io.

Non mi dar più tormento.

DORINDA

Esci, Lupino.

Lupino, ancor non odi?

LUPINO

Oh se' noioso.

Chi chiama? Oh vengo, vengo: io non dormiva,

no certo. Il can dormiva.

DORINDA

Ecco il tuo cane,

Silvio; che più di te cortese in queste.

SILVIO

Oh come son contento.

DORINDA

In queste braccia,

che tanto sprezzi tu, venne a posarsi.

SILVIO

O dolcissimo mio fido Melampo.

DORINDA

Cari avendo i miei baci, e i miei sospiri.

SILVIO

Baciar ti voglio mille volte, e mille.

Ti se' fatto alcun mal forse correndo?

DORINDA

Avventuroso can: perché non posso

cangiar teco mia sorte. A che son giunta,

che sin d'un can la gelosia m'accora

ma tu, Lupin, t'invia verso la caccia,

che fra poco i' ti seguo.

LUPINO

Io vo, padrona.

Scena terza

Silvio, Dorinda.

SILVIO

Tu non hai alcun male. Al rimanente;

ov'è la damma che promessa m'hai?

DORINDA

La vuoi tu viva, o morta?

SILVIO

Io non t'intendo.

Com'esser viva può, se 'l can l'uccise?

DORINDA

Ma se 'l can non l'uccise?

SILVIO

È dunque viva?

DORINDA

Viva.

SILVIO

Tanto più cara, e più gradita

mi fia cotesta preda: e fu sì destro

Melampo mio, che non l'ha guasta, o tocca?

DORINDA

Sol è nel cor d'una ferita punta.

SILVIO

Mi beffi tu, Dorinda, oppur vaneggi?

Com'esser viva può nel cor ferita?

DORINDA

Quella damma son io,

crudelissimo Silvio,

che senza esser attesa,

son da te vinta, e presa;

viva, se tu m'accogli;

morta, se mi ti togli.

SILVIO

E questa è quella damma, e quella preda,

che testé mi dicevi?

DORINDA

Questa, e non altra, ohimè, perché ti turbi?

Non t'è più caro aver ninfa, che fera?

SILVIO

Né t'ho cara, né t'amo; anzi t'ho in odio,

brutta, vile, bugiarda, ed importuna.

DORINDA

È questo il guiderdon, Silvio crudele;

è questa la mercé che tu mi dai,

garzon ingrato? Abbi Melampo in dono,

e me con lui, che tutto,

pur ch'a me torni, i' ti rimetto; e solo

de' tuoi begli occhi il sol non mi si neghi.

Ti seguirò compagna

del tuo fido Melampo assai più fida:

e quando sarai stanco,

ti asciugherò la fronte;

e sovra questo fianco,

che per te mai non posa, avrai riposo.

Porterò l'armi, porterò la preda,

e, se ti mancherà mai fera al bosco,

saetterai Dorinda, in questo petto

l'arco tu sempre esercitar potrai;

che sol come vorrai,

il porterò tua serva,

il proverò tua preda,

e sarò del tuo stral faretra, e segno.

Ma con chi parlo? Ahi lassa

teco che non m'ascolti, e via te n' fuggi;

ma fuggi pur: ti seguirà Dorinda

nel crudo inferno ancor, s'alcun'inferno

più crudo aver poss'io

della fierezza tua, del dolor mio.

Scena quarta

Corisca.

Oh, come favorisce i miei disegni

Fortuna molto più, ch'io non sperai.

Ed ha ragion di favorir colei,

che sonnacchiosa il suo favor non chiede.

Ha ben ella gran forza; e non la chiama

possente dèa senza ragione il mondo;

ma bisogna incontrarla, e farle vezzi;

spianandole il sentiero. I neghittosi

saran di rado fortunati mai.

Se non m'avesse la mia industria fatta

compagna di colei, che potrebbe ora

giovarmi una sì comoda, e sicura

occasion di ben condurre a fine

il mio pensiero? Avria qualch'altra sciocca

la sua rival fuggita; e segni aperti

della sua gelosia portando in fronte

di malocchio guatata anco l'avrebbe;

e mal' avrebbe fatto ch'assai meglio

dall'aperto nemico altri si guarda,

che non fa dall'occulto. Il cieco scoglio

è quel ch'inganna i marinari ancora

più saggi: chi non sa finger l'amico,

non è fiero nemico. Oggi vedrassi

quel, che sa far Corisca. Ma sì sciocca

non son io già, che lei non creda amante.

A qualch'un'altro il farà creder forse,

che poco sappia; a me non già, che sono

maestra di quest'arte. Una fanciulla

tenera, e semplicetta, che pur ora

spunta fuor della buccia: in cui pur dianzi

stillò le prime sue dolcezze Amore;

lungamente seguita, e vagheggiata

da sì leggiadro amante; e quel ch'è peggio,

baciata, e ribaciata, e starà salda?

Pazzo è ben chi se 'l crede; io già no 'l credo.

Ma vedi il mio destin come m'aita.

Ecco appunto Amarilli, ah i' vo' far vista

di non vederla, e ritirarmi alquanto.

Scena quinta

Amarilli, Corisca.

AMARILLI

Care selve beate,

e voi solinghi, e taciturni orrori,

di riposo, e di pace alberghi veri.

Oh quanto volentieri

a rivedervi i' torno: e se le stelle

m'avesser dato in sorte

di viver a me stessa, e di far vita

conforme alle mie voglie;

i' già co' campi Elisi

fortunato giardin de' semidèi,

la vostr'ombra gentil non cangerei.

Che, se ben dritto miro

questi beni mortali

altro non son che mali.

Meno ha, chi più n'abbonda,

e posseduto è più, che non possede,

ricchezze no, ma lacci

dell'altrui libertate.

Che val ne' più verdi anni

titolo di bellezza,

o fama d'onestate,

e 'n mortal sangue nobiltà celeste;

tante grazie del cielo, e della terra,

qui larghi, e lieti campi,

e la felici piagge,

fecondi paschi, e più fecondo armento,

se 'n tanti beni il cor non è contento?

Felice pastorella,

cui cinge appena il fianco

povera sì, ma schietta,

e candida gonnella:

ricca sol di sé stessa,

e delle grazie di natura adorna,

che 'n dolce povertate

né povertà conosce, né i disagi

delle ricchezze sente;

ma tutto quel possede,

per cui desio d'aver non la tormenta.

Nuda sì, ma contenta.

Co' doni di natura

i doni di natura anco nudrìca,

col latte il latte avviva,

e col dolce dell'api

condisce il mel delle natie dolcezze.

Quel fonte, ond'ella beve,

quel solo anco la bagna, e la consiglia:

paga lei, pago 'l mondo.

Per lei di nembi il ciel s'oscura indarno,

e di grandine s'arma,

che la sua povertà nulla paventa.

Nuda sì, ma contenta.

Sola una dolce, e d'ogn'affanno sgombra

cura le sta nel core.

Pasce le verdi erbette

la greggia a lei commessa, ed ella pasce

de' suo' begli occhi il pastorello amante,

non qual le destinaro

o gli uomini, o le stelle,

ma qual le diede Amore.

E tra l'ombrose piante

d'un favorito lor mirteto adorno

vagheggiata il vagheggia; né per lui

sente foco d'amor, che non gli scopra,

né ella scopre ardor, ch'egli non senta;

nuda sì, ma contenta.

Oh vera vita, che non sa che sia

morire innanzi morte;

potess'io pur cangiar teco mia sorte.

Ma vedi là Corisca. Il ciel ti guardi,

dolcissima Corisca.

CORISCA

Chi mi chiama?

Oh, più degli occhi miei, più della vita

a me cara Amarilli: e dove vai

così soletta?

AMARILLI

In nessun altro loco,

se non dove mi trovi, e dove meglio

capitar non potea, poiché te trovo.

CORISCA

Tu trovi chi da te non parte mai,

Amarilli mia dolce, e di te stava

pur or pensando, e fra mio cor dicea:

s'io son l'anima sua, come può ella

star senza me sì lungamente? E, 'n questo

tu mi s'è sopraggiunta, anima mia.

Ma tu non ami più la tua Corisca.

AMARILLI

E perché ciò?

CORISCA

Come perché? Tu 'l chiedi

oggi tu sposa.

AMARILLI

Io sposa?

CORISCA

Sì tu sposa,

ed a me no 'l palesi?

AMARILLI

E come posso

palesar quel, che non m'è noto?

CORISCA

Ancora

tu t'infingi, e me 'l neghi?

AMARILLI

Ancor mi beffi

CORISCA

Anzi tu beffi me.

AMARILLI

Dunque m'affermi

ciò tu per vero?

CORISCA

Anzi te 'l giuro: e certo

non ne sai nulla tu?

AMARILLI

So che promessa

già fui, ma non so già che sì vicine

sien le mie nozze: e tu da chi 'l sapesti?

CORISCA

Da mio fratello Ormino. Esso l'ha inteso,

dice, da molti, e non si parla d'altro.

Par che tu te ne turbi. È forse questa

novella da turbarsi?

AMARILLI

Gli è un gran passo,

Corisca. E già la madre mia mi disse,

che quel dì si rinasce.

CORISCA

A miglior vita

si rinasce per certo. E tu per questo

viver lieta dovresti. A che sospiri?

Lascia pur sospirar a quel meschino.

AMARILLI

Qual meschino?

CORISCA

Mirtillo, che trovossi

presente a ciò che 'l mio fratel mi disse.

E poco men, che di dolor no 'l vidi

morire: è certo e' si moriva, s'io

non l'avessi soccorso, promettendo

di sturbar queste nozze: e ben che questo

dicessi sol per suo conforto, io pure

sarei donna per farlo.

AMARILLI

E ti darebbe

l'animo di sturbarle?

CORISCA

E di che sorte

AMARILLI

E come ciò faresti?

CORISCA

Agevolmente,

pur che tu ti disponga, e ci consenta.

AMARILLI

Se ciò sperassi, e la tua fé mi dessi

di non l'appalesar, ti scovrirei

un pensier, che nel cor gran tempo ascondo.

CORISCA

Io palesarti mai? Aprasi prima

la terra, e per miracolo m'inghiotta.

AMARILLI

Sappi, Corisca mia, che quand'io penso,

ch'i' debbo ad un fanciullo esser soggetta,

che m'ha in odio, e mi fugge, e ch'altra cura

non ha che i boschi, e ch'una fera e un cane

stima più che l'amor di mille ninfe,

malcontenta ne vivo; e poco meno

che disperata; ma non oso a dirlo,

sì perché l'onestà non me 'l comporta,

sì perché al padre mio n'ho di già data,

e quel ch'è peggio, alla gran dèa, la fede:

che se per opra tua, ma però sempre,

salva la fede mia, salva la vita,

e la religion, e l'onestate,

troncar di questo a me sì grave nodo

si potesser le fila; oggi saresti

tu ben la mia salute, e la mia vita.

CORISCA

Se per questo sospiri hai gran ragione,

Amarilli. Deh quante volte il dissi:

una cosa sì bella a chi la sprezza?

Sì ricca gioia a chi non la conosce?

Ma tu se' troppo savia, a dirti il vero;

anzi pur troppo sciocca. E che non parli?

Che non ti lasci intendere?

AMARILLI

Ho vergogna.

CORISCA

Hai un gran mal, sorella. I' vorrei prima

aver la febbre, il fistolo, la rabbia;

ma, credi a me, la perderai tu ancora,

sorella mia, sì ben basta una sola

volta, che tu la superi, e rinieghi.

AMARILLI

Vergogna, che 'n altrui stampò natura

non si può rinnegar: che se tu tenti

di cacciarla dal cor, fugge nel volto.

CORISCA

O Amarilli mia, chi troppo savia

tace il suo male, alfin da pazza il grida.

Se questo tuo pensiero avessi prima

scoperto a me, saresti fuor d'impaccio.

Oggi vedrai quel che sa far Corisca.

Nelle più sagge man, nelle più fide

tu non potevi capitar. Ma quando

sarai per opra mia già liberata

d'un cattivo marito; non vorrai tu

d'un buon amante provvederti?

AMARILLI

A questo

penseremo a bell'agio.

CORISCA

Veramente

non puoi mancare al tuo fedel Mirtillo.

E tu sai pur s'oggi è pastor di lui,

né per valor, né per sincera fede,

né per beltà dell'amor tuo più degno.

E tu 'l lasci morire (ah troppo cruda)

senza che dir ti possa almeno, io moro.

Ascoltalo una volta.

AMARILLI

Oh quanto meglio

farebbe a darsi pace, e la radice

sveller di quel desio ch'è senza speme.

CORISCA

Dagli questo conforto anzi che mora.

AMARILLI

Sarà piuttosto un raddoppiargli affanno.

CORISCA

Lascia di questo tu la cura a lui.

AMARILLI

E di me che sarebbe, se mai questo

si risapesse?

CORISCA

Oh quanto hai poco core.

AMARILLI

E poco sia, pur ch'a bontà mi vaglia.

CORISCA

Amarilli, se lecito ti fai

di mancarmi tu in questo, anch'io ben posso

giustamente mancarti, addio.

AMARILLI

Corisca,

non ti partir, ascolta.

CORISCA

Una parola

sola non udirei, se non prometti.

AMARILLI

Ti prometto d'udirlo, ma con questo,

ch'ad altro non m'astringa.

CORISCA

Altro non chiede.

AMARILLI

E tu gli facci credere, che nulla

saputo i' n'abbia.

CORISCA

Mostrerò che tutto

abbia portato il caso.

AMARILLI

E ch'indi possa

partirmi a mio piacer, né mi contrasti.

CORISCA

Quando ti piacerà, pur che l'ascolti.

AMARILLI

E brevemente si spedisca.

CORISCA

E questo

ancora si farà.

AMARILLI

Né mi s'accosti,

quanto è lungo il mio dardo.

CORISCA

Ohimè che pena

m'è oggi il riformar cotesta tua

semplicità. Fuor che la lingua ogn'altro

membro gli legherò; sì che sicura

star ne potrai: vuoi altro?

AMARILLI

Altro non voglio.

CORISCA

E quando il farai tu?

AMARILLI

Quando a te piace,

pur che tanto di tempo or mi conceda;

ch'i' torni a casa, ove di queste nozze

mi vo' meglio informar.

CORISCA

Vanne, ma guarda

di farlo accortamente. Or odi quello,

ch'i' vo pensando, ch'oggi sul meriggio

qui sola fra quest'ombre, e senz'alcuna

delle tue ninfe tu te n' venghi; dove

mi troverò per questo effetto anch'io.

Meco saran Nerine, Aglauro, Elisa,

e Fillide, e Licori; tutte mie

non meno accorte, e sagge, che fedeli,

e segrete compagne: ove con loro

facendo tu, come sovente suoli,

il giuoco della cieca, agevolmente

Mirtillo crederà, che non per lui,

ma per diporto tuo ci sii venuta.

AMARILLI

Questo mi piace assai; ma non vorrei

che quelle ninfe fossero presenti

alle parole di Mirtillo sai?

CORISCA

T'intendo; e ben avvisi; e sie mia cura,

che tu di questo alcun timor non aggia;

ch'io le farò sparir quando sia tempo.

Vattene pur, e ti ricorda intanto

d'amar la tua fidissima Corisca.

AMARILLI

Se posto ho il cor nelle sue mani, a lei

starà di farsi amar quanto le piace.

CORISCA

Parti ch'ella stia salda? A questa rocca

maggior forza bisogna. S'all'assalto

delle parole mie può far difesa,

a quelle di Mirtillo certamente

resister non potrà. So ben'anch'io

quel che nel cor di tenera fanciulla

possano i preghi di gradito amante.

Se ridur ci si lascia, a tal partito

la stringerò ben' io con questo giuoco,

che non l'avrà da giuoco. Ed io non solo

dalle parole sue, voglia, o non voglia,

potrò spiar, ma penetrar ancora

fin nell'interne viscere il suo core.

Come questo abbia in mano, e già padrona

sia del segreto suo, farò di lei

ciò che vorrò, senza fatica alcuna,

e condurrolla a quel che bramo, in guisa,

ch'ella stessa, non ch'altri, agevolmente

creder potrà, che l'abbia a ciò condotta

il suo sfrenato amor, non l'arte mia.

Scena sesta

Corisca, Satiro.

CORISCA

Ohimè, son morta.

SATIRO

Ed io son vivo.

CORISCA

Torna,

torna, Amarilli mia, che presa sono.

SATIRO

Amarilli non t'ode: ah questa volta

ti converrà star salda.

CORISCA

Ohimè le chiome.

SATIRO

T'ho pur sì lungamente attesa al varco,

che nella rete se' caduta. E sai,

questo non è il mantello, è 'l crin, sorella.

CORISCA

A me Satiro?

SATIRO

A te. Non se' tu quella

Corisca sì famosa, ed eccellente

maestra di menzogne, che mentite

parolette, e speranze, e finti sguardi

vendi a sì caro prezzo? Che tradito

m'ha' in tanti modi, e dileggiato sempre,

ingannatrice, e pessima Corisca?

CORISCA

Corisca son ben' io; ma non già quella,

Satiro mio gentil, ch'agli occhi tuoi

un tempo fu sì cara.

SATIRO

Or son gentile

sì, scellerata, ma gentil non fui,

quando per Coridon tu mi lasciasti.

CORISCA

Te per altrui?

SATIRO

Or odi meraviglia,

e cosa nuova all'animo sincero.

E quando l'arco a Lilla, e 'l velo a Clori,

la veste a Dafne, ed i coturni a Silvia

m'inducesti a rubar, perché 'l mio furto

fosse di quell'amor poscia mercede,

ch'a me promesso fu donato altrui:

e quando la bellissima ghirlanda,

che donata i' t'avea, donasti a Niso;

e quando alla caverna, al bosco, al fonte

facendomi vegghiar le fredde notti

m'hai schernito, e beffato: allor ti parvi

gentile, ah scellata? Or pagherai,

credimi, or pagherai di tutto il fio.

CORISCA

Tu mi strascini, ohimè, come s'i' fussi

una giovenca.

SATIRO

Tu 'l dicesti appunto.

Scotiti pur, se sai: già non tem'io,

che quinci or tu mi fugga: a questa presa

non ti varranno inganni. Un'altra volta

te n' fuggisti, malvagia. Ma se 'l capo

qui non mi lasci, indarno t'affatichi

d'uscirmi oggi di man.

CORISCA

Deh non negarmi

tanto di tempo almen, che teco i' possa

dir mia ragion comodamente.

SATIRO

Parla.

CORISCA

Come vuoi tu ch'io parli essendo presa?

Lasciami.

SATIRO

Ch'i' ti lasci?

CORISCA

I' ti prometto

la fede mia di non fuggir.

SATIRO

Qual fede,

perfidissima femmina? Ancor osi

parlar meco di fede? I' v' condurti

nella più spaventevole caverna

di questo monte, ove non giunga mai

raggio di Sol, nonché vestigio umano.

Del resto non ti parlo, il sentirai.

Farò con mio diletto, e con tuo scorno

quello strazio di te, che meritasti.

CORISCA

Puoi tu dunque, crudele, a questa chioma

che ti legò già il core; a questo volto,

che fu già il tuo diletto, a questa un tempo

più della vita tua cara Corisca,

per cui giuravi che ti fora stato

anco dolce il morire; a questa puoi

soffrir di far oltraggio? Oh cielo, oh sorte

in cui pos'io speranza? A cui debb'io

creder mai più, meschina?

SATIRO

Ah, scellerata

pensi ancor d'ingannarmi? Ancor mi tenti

con le lusinghe tue, con le tue frodi?

CORISCA

Deh, Satiro gentil, non far più strazio

di chi t'adora. Ohimè non se' già fera,

non hai già il cor di marmo, o di macigno.

Eccomi a' piedi tuoi. Se mai t'offesi,

idolo del mio cor, perdon ti cheggio.

Per queste nerborute, e sovrumane

tue ginocchia, ch'abbraccio, a cui m'inchino,

per quello amor, che mi portasti un tempo,

per quella soavissima dolcezza,

che trar solevi già dagli occhi miei,

che tue stelle chiamavi, or son duo fonti;

per queste amare lagrime ti prego,

abbi pietà di me, lasciami omai.

SATIRO

La perfida m'ha mosso; e, s'io credessi

solo all'affetto, affé che sarei vinto.

Ma insomma io non ti credo. Tu se' troppo

malvagia, e 'nganni più, chi più si fida.

Sotto quell'umiltà, sotto que' preghi

si nasconde Corisca: tu non puoi

esser da te diversa. Ancor contendi?

CORISCA

Ohimè il mio capo, ah crudo; ancor un poco

fermati prego, ed una sola grazia

non mi negar' almen.

SATIRO

Che grazia è questa?

CORISCA

Che tu m'ascolti ancor un poco.

SATIRO

Forse

ti pensi tu con parolette finte,

e mendicate lagrime piegarmi?

CORISCA

Deh, Satiro cortese, e pur tu vuoi

far di me strazio?

SATIRO

Il proverai, vien pure.

CORISCA

Senza avermi pietà?

SATIRO

Senza pietate.

CORISCA

E 'n ciò se' tu ben fermo?

SATIRO

In ciò ben fermo.

Hai tu finito ancor questo incantesmo?

CORISCA

O villano, indiscreto, ed importuno;

mezz'uomo, e mezzo capra, e tutto bestia:

carogna fracidissima, e difetto

di natura nefando; se tu credi

che Corisca non t'ami, il vero credi.

Che vuoi tu ch'ami in te? Quel tuo bel ceffo?

Quella succida barba? Quell'orecchie

caprigne? E quella putrida e bavosa

isdentata caverna?

SATIRO

Oh scellerata:

a me questo?

CORISCA

A te questo.

SATIRO

A me, ribalda?

CORISCA

A te caprone.

SATIRO

Ed io con queste mani

non ti trarrò cotesta tua canina,

ed importuna lingua?

CORISCA

Se t'accosti,

e fossi tanto ardito.

SATIRO

In tale stato

una vil femminuzza? In queste mani?

E non teme? E m'oltraggia? E mi dispregia?

Io ti farò.

CORISCA

Cosa mi farai, villano?

SATIRO

I' ti mangerò viva.

CORISCA

E con quai denti,

se tu non gli hai?

SATIRO

Oh ciel, come il comporti.

Ma s'io non te ne pago vien pur via.

CORISCA

Non vo' venir.

SATIRO

Non ci verrai, malvagia?

CORISCA

No, mal tuo grado, no.

SATIRO

Tu ci verrai,

se mi credessi di lasciarci queste

braccia.

CORISCA

Non ci verrò, se questo capo

di lasciarci credessi.

SATIRO

Orsù veggiamo

chi di noi ha più forte, e più tenace,

tu il collo, od io le braccia. Tu ci metti

le mani; né con questo anco potrai

difenderti, perversa.

CORISCA

Or il vedremo.

SATIRO

Sì certo.

CORISCA

Tira ben. Satiro, addio,

fiaccati il collo.

SATIRO

Ohimè dolente, ahi lasso,

ohimè il capo, ohimè il fianco, ohimè la schiena.

O che fiera caduta. Appena i' posso

movermi, e rilevarmene: è pur vero

è ch'ella fugga, e qui rimanga il teschio?

Oh meraviglia inusitata: o ninfe,

o pastori, accorrete, e rimirate

il magico stupor di chi se n' fugge,

e vive senza capo. Oh come è lieve:

quanto ha poco cervello; e come il sangue

fuor non ne spiccia? Ma che miro? Oh sciocco,

oh mentecatto: senza capo lei?

Senza capo se' tu: chi vide mai

uom di te più schernito? Or mira s'ella

ha saputo fuggir, quando tu meglio

la pensavi tener? Perfida maga;

non ti bastava aver mentito il core,

e 'l volto, e le parole, e 'l riso, e 'l guardo,

s'anco il crin non mentivi? Ecco, poeti,

questo è l'oro nativo, e l'ambra pura,

che pazzamente voi lodate. Omai

arrossite, insensati, e ricantando,

vostro soggetto in quella vece sia

l'arte d'una impurissima, e malvagia

incantatrice, che i sepolcri spoglia,

e dai fracidi teschi il crin furando,

al suo l'intesse; e così ben l'asconde,

che v'ha fatto lodar quel, che aborrire

dovevate assai più, che di Megera

le viperine, e mostruose chiome.

Amanti, or non son questi i vostri nodi?

Mirate, e vergognatevi, meschini.

E se come voi dite, i vostri cori

son pur qui ritenuti, omai ciascuno

potrà senza sospiri, e senza pianto

ricoverar il suo. Ma che più tardo

a pubblicar le sue vergogne? Certo

non fu mai sì famosa, né sì chiara

la chioma, ch'è lassù con tante stelle

ornamento del ciel, come fie questa

per la mia lingua, e molto più colei,

che la portava, eternamente infame.

CORO

Ah ben fu di colei grave l'errore,

(cagion del nostro male)

che le leggi santissime d'Amore,

di fé mancando, offese:

poscia ch'indi s'accese

degli immortali dèi l'ira mortale,

che per lagrime, e sangue

di tante alme innocenti ancor non langue.

Così la fé, d'ogni virtù radice,

e d'ogn'alma ben nata unico fregio

lassù si tiene in pregio.

Così di farci amanti, onde felice

si fa nostra natura,

l'eterno amante ha cura.

Ciechi mortali voi, che tanta sete

di possedere avete:

l'urna amata guardando

d'un cadavero d'or, quasi nud'ombra,

che vada intorno al suo sepolcro errando;

qual amore, o vaghezza

d'una morta bellezza il cor v'ingombra?

Le ricchezze, e i tesori

son insensati amori. Il vero, e vivo

amor dell'alma, è l'alma: ogn'altro oggetto,

perché d'amare è privo,

degno non è dell'amoroso affetto.

L'anima perché sola è riamante,

sola è degna d'amor, degna d'amante.

Ben è soave cosa

quel bacio, che si prende

da una vermiglia, e delicata rosa

di bella guancia. E pur chi 'l vero intende,

com' intendete vui,

avventurosi amanti, che 'l provate;

dirà che quello è morto bacio, a cui

la baciata beltà bacio non rende.

Ma i colpi di due labbra innamorate,

quando a ferir si va bocca con bocca,

e che in un punto scocca

Amor con soavissima vendetta

l'una, e l'altra saetta,

son veri baci; ove con giuste voglie

tanto si dona altrui, quanto si toglie.

Baci pur bocca curiosa, e scaltra

o seno, o fronte, o mano; unqua non fia

che parte alcuna in bella donna baci,

che baciatrice sia,

se non la bocca: ove l'un'alma, e l'altra

corre, e si bacia anch'ella: e con vivaci

spiriti pellegrini

da vita al bel tesoro

de' bacianti rubini:

sì che parlan tra loro

gran cose in picciol suono,

e segreti dolcissimi, che sono

a lor solo palesi, altrui celati.

Tal gioia amando prova, anzi tal vita

alma con alma unita:

e son come d'amor baci baciati

gli incontri di due cori amanti amati.

Atto terzo
Scena prima

Mirtillo.

Oh primavera gioventù dell'anno,

bella madre di fiori,

d'erbe novelle, e di novelli amori:

tu torni ben, ma teco

non tornano i sereni,

e fortunati dì delle mie gioie:

tu torni ben, tu torni,

ma teco altro non torna,

che del perduto mio caro tesoro

la rimembranza misera, e dolente:

tu quella se', tu quella,

ch'eri pur dianzi sì vezzosa, e bella.

Ma non son io già quel, ch'un tempo fui

sì caro agli occhi altrui.

Oh dolcezze amarissime d'amore,

quanto è più duro perdervi, che mai

non v'aver o provate, o possedute.

Come saria l'amar felice stato,

se 'l già goduto ben non si perdesse;

o quando egli si perde,

ogni memoria ancora

del dileguato ben si dileguasse.

Ma se le mie speranze oggi non sono,

com'è l'usato lor, di fragil vetro,

o se maggior del vero

non fa la speme il desiar soverchio,

qui pur vedrò colei,

ch'è 'l sol degli occhi miei:

e s'altri non m'inganna,

qui pur vedrolla al suon de' miei sospiri

fermar il piè fugace.

Qui pur dalle dolcezze

di quel bel volto avrà soave cibo

nel suo lungo digiun l'avida vista:

qui pur vedrò quell'empia

girar inverso me le luci altere,

se non dolci, almen fere;

e se non carche d'amorosa gioia,

sì crude almen, ch'i' moia.

Oh lungamente sospirato invano

avventuroso dì, se dopo tanti

foschi giorni di pianti

tu mi concedi, Amor, di veder oggi

ne' begli occhi di lei

girar sereno il sol degli occhi miei.

Ma qui mandommi Ergasto, ove mi disse,

ch'esser doveano insieme

Corisca, e la bellissima Amarilli,

per fare il gioco della cieca; eppure

qui non veggio altra cieca,

che la mia cieca voglia,

che va con l'altrui scorta

cercando la sua luce, e non la trova,

oppur frapposto alle dolcezze mie

un qualche amaro intoppo

non abbia il mio destino invido, e crudo.

Questa lunga dimora,

di paura, e d'affanno il cor m'ingombra.

Ch'un secolo agli amanti

par ogn'ora che tardi, ogni momento

quell'aspettato ben, che fa contento.

Ma chissa? troppo tardi

son fors'io giunto; e qui m'avrà Corisca

fors'anco indarno lungamente atteso.

Fui pur anco sollecito a partirmi.

Ohimè se questo è vero, i' vo' morire.

Scena seconda

Amarilli, Mirtillo, coro di Ninfe, Corisca.

AMARILLI

Ecco la cieca.

MIRTILLO

Eccola appunto, ahi vista.

AMARILLI

Or che si tarda?

MIRTILLO

Ahi voce che m'hai punto,

e sanato in un punto.

AMARILLI

Ove sete? Che fate? E tu, Lisetta,

che sì bramavi il gioco della cieca,

che badi? E tu Corisca ove se' ita?

MIRTILLO

Or sì, che si può dire,

ch'Amor è cieco, ed ha bendati gli occhi.

AMARILLI

Ascoltatemi voi,

che 'l sentier mi scorgete, e quinci, e quindi

mi tenete per man; come sien giunte

l'altre nostre compagne,

guidatemi lontan da queste piante,

ov'è maggior il vano: e quivi sola

lasciandomi nel mezzo,

ite con l'altre in schiera: e tutte insieme

fatemi cerchio, e s'incominci il gioco.

MIRTILLO

Ma che sarà di me? Fin qui non veggio

qual mi possa venir da questo gioco

comodità, che 'l mio desire adempia:

né so veder Corisca,

ch'è la mia tramontana. Il ciel m'aiti.

AMARILLI

Alfin sete venute: e che pensaste

di non far altro, che bendarmi gli occhi?

Pazzerelle che sete. Or cominciamo.

CORO

Cieco Amor non ti cred'io,

ma fai cieco 'l desio

di chi ti crede;

che, s'hai pur poca vista, hai minor fede.

Cieco, oh no mi tenti invano,

e per girti lontano

ecco m'allargo:

che così cieco ancor vedi più d'Argo,

così cieco m'annodasti,

e cieco m'ingannasti,

or che vo sciolto,

se ti credessi più, sarei ben stolto.

Fuggi, e scherza pur se sai,

già non sara' tu mai,

che 'n te mi fidi:

perché non sai scherzar se non ancidi.

AMARILLI

Ma voi giocate troppo largo, e troppo

vi guardate da rischio:

fuggir bisogna sì, ma ferir prima.

Toccatemi, accostatevi, che sempre

non ve n'andrete sciolte.

MIRTILLO

Oh sommi dèi, che miro? Oh dove sono?

In cielo, o in terra? Oh cieli,

i vostri eterni giri

han sì dolce armonia? Le vostre stelle

han sì leggiadri aspetti?

CORO

Ma tu, pur perfido cieco

mi chiami a scherzar teco,

ed ecco scherzo,

e col piè fuggo, e con la man ti sferzo.

E corro, e ti percoto,

e tu t'aggiri a voto.

Ti pungo ad ora ad ora,

né tu mi prendi ancora

o cieco Amore,

perché libero ho 'l core.

AMARILLI

In bona fé, Licori,

ch'i mi pensai d'averti presa, e trovo

d'aver presa una pianta.

Sento ben che tu ridi.

MIRTILLO

Deh foss'io quella pianta.

Or non veggio Corisca

tra quelle fratte ascosa? È dessa certo:

e non so che m'accenna,

che non intendo. E pur m'accenna ancora.

CORO

Sciolto cor fa piè fugace:

o lusinghier fallace

ancor m'alletti

a' tuoi vezzi mentiti, a' tuo' diletti?

E pur di nuovo i' riedo,

e giro, e fuggo, e siedo,

e torno, e non mi prendi,

e sempre invan m'attendi.

Oh cieco Amore, perché libero ho il core.

AMARILLI

Oh fosti svelta, maladetta pianta,

che pur anco ti prendo,

quantunque un'altra al brancolar mi sembri:

forse ch'i' non credei

d'averti franca a questa volta Elisa?

MIRTILLO

E pur anco non cessa

d'accennarmi Corisca: e sì sdegnosa,

che sembra minacciar. Vorrebbe forse,

che mi mischiassi anch'io tra quelle ninfe?

AMARILLI

Dunque giocar debb'io

tutt'oggi con le piante?

CORO

Bisogna pur che mal mio grado i' parli,

ed esca della buca.

Prendila, da pochissimo, che badi?

Ch'ella ti corra in braccio?

O lasciati almen prendere. Su dammi

cotesto dardo, e valle incontra sciocco.

MIRTILLO

Oh come mal s'accorda

l'animo col desio,

sì poco ardisce il cor, che tanto brama.

AMARILLI

Per questa volta ancor tornisi al gioco:

che son già stanca: e per mia fé voi sete

troppo indiscrete a farmi correr tanto.

CORO

Mira nume trionfante,

a cui dà il mondo amante

empio tributo,

eccol oggi deriso, eccol battuto.

Siccome ai rai del sole

cieca nottola suole,

c'ha mille augei d'intorno,

che le fan guerra, e scorno,

ed ella picchia

col becco invano, e s'erge, e si rannicchia:

così se' tu beffato,

Amore in ogni lato,

chi 'l tergo, e chi le gote

ti stimola, e percote.

E poco vale;

perché stendi gli artigli, o batti l'ale.

Gioco dolce ha pania amara,

e ben l'impara

augel, che vi s'invesca.

Non sa fuggir Amor chi seco tresca.

Scena terza

Amarilli, Corisca, Mirtillo.

AMARILLI

Affé t'ho colta, Aglauro:

tu vuoi fuggir? T'abbraccerò sì stretta.

CORISCA

Certamente se contra

non gliel'avessi all'improvviso spinto

con sì grand'urto, i' faticava invano

per far, ch'egli vi gisse.

AMARILLI

Tu non parli: se' dessa o non se' dessa?

CORISCA

Qui ripongo il suo dardo, e nel cespuglio

torno per osservar ciò che ne segue.

AMARILLI

Or ti conosco sì; tu se' Corisca,

che se' sì grande e senza chioma; appunto

altra che te non volev'io per darti

delle pugna a mio senno.

Or te' questo, e quest'altro,

e quest'anco, e poi questo: ancor non parli?

Ma se tu mi legasti, anco mi sciogli.

E fa' tosto, cor mio,

ch'i' vo' poi darti il più soave bacio,

ch'avessi mai. Che tardi?

Par che la man ti tremi? Se' sì stanca?

Mettici i denti, se non puoi con l'ugna.

Oh quanto se' melensa.

Ma lascia far a me, che da me stessa

mi leverò d'impaccio.

Or ve' con quanti nodi

mi legasti tu stretta?

Se può toccar a te l'esser la cieca.

Son pur ecco sbendata. Ohimè, che veggio?

Lasciami, traditor. Ohimè, son morta.

MIRTILLO

Sta' cheta, anima mia.

AMARILLI

Lasciami dico,

lasciami. Così dunque

si fa forza alle ninfe? Aglauro, Elisa;

ah perfide, ove sete?

Lasciami, traditore.

MIRTILLO

Ecco ti lascio.

AMARILLI

Quest'è un inganno di Corisca. Or togli

quel che n'hai guadagnato.

MIRTILLO

Dove fuggi, crudele?

Mira almen la mia morte. Ecco, mi passo

con questo dardo il petto.

AMARILLI

Ohimè, che fai?

MIRTILLO

Quel che forse ti pesa,

ch'altri faccia per te, ninfa crudele.

AMARILLI

Ohimè, son quasi morta.

MIRTILLO

E se quest'opra alla tua man si deve,

ecco il ferro, ecco 'l petto.

AMARILLI

Ben il meriteresti. E chi t'ha dato

cotanto ardir, presuntuoso?

MIRTILLO

Amore.

AMARILLI

Amor non è cagion d'atto villano.

MIRTILLO

Dunque in me credi amore,

poiché discreto fui; che se prendesti

tu prima me, son io tanto men degno

d'esser da te di villania notato,

quanto con sì vezzosa

comodità d'esser ardito, e quando

potei le leggi usar teco d'Amore,

fui però sì discreto,

che quasi mi scordai d'esser amante.

AMARILLI

Non mi rimproverar quel, che fei cieca.

MIRTILLO

Ah che tanto più cieco

son io di te, quanto più sono amante.

AMARILLI

Preghi, e lusinghe, e non insidie, e furti

usa il discreto amante.

MIRTILLO

Come selvaggia fera

cacciata dalla fame

esce dal bosco, e 'l peregrino assale;

tal io, che sol de' tuo' begli occhi i' vivo;

poiché l'amato cibo,

o tua fierezza, o mio destin mi nega,

se famelico amante,

uscendo oggi de' boschi, ov'io soffersi

digiun misero, e lungo,

quello scampo tentai per mia salute,

che mi dettò necessità d'amore;

non incolpar già me, ninfa crudele:

te sola pur incolpa;

che se' co' preghi sol, come dicesti,

s'ama discretamente, e con lusinghe,

e ciò da me non aspettasti mai,

tu sola, tu m'hai tolto

con la durezza tua, con la tua fuga

l'esser discreto amante.

AMARILLI

Assai discreto amante esser potevi,

lasciando di seguir chi ti fuggiva.

Pur sai, che 'nvan mi segui.

Che voi da me?

MIRTILLO

Ch'una sola fiata

degni almen d'ascoltarmi anzi, ch'io moia.

AMARILLI

Buon per te che la grazia,

prima che l'abbia chiesta, hai ricevuta.

Vattene dunque.

MIRTILLO

Ah ninfa,

quel che t'ho detto, appena

è una minuta stilla

dell'infinito mar del pianto mio.

Deh, se non per pietade,

almen per tuo diletto ascolta, cruda,

di chi si vuol morir, gli ultimi accenti.

AMARILLI

Per levar te d'errore, e me d'impaccio,

son contenta d'udirti:

ma ve', con queste leggi:

di' poco, e tosto parti, e più non torna.

MIRTILLO

In troppo picciol fascio,

crudelissima ninfa,

stringer tu mi comandi

quell'immenso desio, che se con altro,

misurar si potesse,

che con pensiero umano,

a pena il capiria, cio che capire

puote in pensiero umano.

Ch'i' t'ami, e t'ami più della mia vita,

se tu no 'l sai, crudele,

chiedilo a queste selve,

che te 'l diranno; e te 'l diran con esse

le fere loro, e i duri sterpi, e i sassi

di questi alpestri monti;

ch'i' ho sì spesse volte

inteneriti al suon de' miei lamenti.

Ma che bisogna far cotanta fede

dell'amor mio, dov'è bellezza tanta?

Mira quante vaghezze ha 'l ciel sereno;

quante la terra; e tutte

raccogli in picciol giro, indi vedrai

l'alta necessità dell'arder mio.

E come l'acqua scende, e 'l foco sale

per sua natura, e l'aria

vaga, e posa la terra, e 'l ciel s'aggira;

così naturalmente a te s'inchina,

come a suo bene il mio pensiero, e corre

alle bellezze amate

con ogni affetto suo l'anima mia:

e chi di traviarla

dal caro oggetto suo forse pensasse,

prima torcer potria

dall'usato cammino, e cielo, e terra,

ed acqua, ed aria, e foco,

e tutto trar dalle sue sedi il mondo.

Ma perché mi comandi,

ch'io dica poco (ah cruda)

poco dirò, s'io dirò sol, ch'io moro;

e men farò morendo,

s'io miro a quel, che del mio strazio brami.

Ma farò quello, ohimè, che sol m'avanza

miseramente amando.

Ma poi che sarò morto, anima cruda,

avrai tu almen pietà delle mie pene?

Deh bella, e cara, e sì soave un tempo

cagion del viver mio, mentre a Dio piacque,

volgi una volta, volgi

quelle stelle amorose,

come le vidi mai così tranquille,

e piene di pietà prima ch'i' moia,

che 'l morir mi sia dolce.

E dritto è ben, che se mi furo un tempo

dolci segni di vita, or sien di morte

que' begli occhi amorosi.

E quel soave sguardo,

che mi scorse ad amare,

mi scorga anco a morire;

e chi fu l'alba mia,

del mio cadente dì l'Espero or sia.

Ma tu, più che mai dura,

favilla di pietà non senti ancora,

anzi t'innaspri più, quanto più prego.

Così senza parlar dunque m'ascolti?

A chi parlo, infelice, a un muto marmo?

S'altro non mi vuoi dir, dimmi almen mori,

e morir mi vedrai.

Questa è ben'empio amor, miseria estrema,

che sì rigida ninfa

e del mio fin sì vaga,

perché grazia di lei

non sia la morte mia, morte mi neghi,

né mi risponda, e l'armi

d'una sola sdegnosa, e cruda voce

sdegni di proferire

al mio morire.

AMARILLI

Se dianzi t'avess'io

promesso di risponderti, sì come

d'ascoltar ti promisi,

qualche giusta cagion di lamentarti

del mio silenzio avresti.

Tu mi chiami crudele, immaginando,

che dalla ferità rimproverata

agevole ti sia forse il ritrarmi

al suo contrario affetto.

Né sai tu, che l'orecchie

così non mi lusinga il suon di quelle

da me sì poco meritate, e molto

meno gradite lodi,

che mi dai di beltà, come mi giova

il sentirmi chiamar da te crudele.

L'esser cruda ad ogn'altro,

(già no 'l nego) è peccato;

all'amante è virtute;

ed è vera onestate

quella, che 'n bella donna

chiami tu feritate.

Ma sia come tu vuoi peccato, e biasmo

l'esser cruda all'amante; or quando mai

ti fu cruda Amarilli?

Forse allor, che giustizia

stato sarebbe il non usar pietate?

E pur teco l'usai

tanto, ch'a dura morte i' ti sottrassi:

io dico allor, che tu fra nobil coro

di vergini pudiche

libidinoso amante,

sotto abito mentito di donzella,

ti mescolasti, e i puri scherzi altrui

contaminando ardisti

mischiar tra finti, ed innocenti baci

baci impuri, e lascivi,

che la memoria ancor se ne vergogna.

Ma sallo il ciel, ch'allor non ti conobbi,

e che poi conosciuto,

sdegno n'ebbi; e serbai

dalle lascivie tue l'animo intatto:

né lasciai che corresse

l'amoroso veneno al cor pudico,

ch'alfin non violasti

se non la sommità di queste labbra.

Bocca baciata a forza,

se 'l bacio sputa, ogni vergogna ammorza.

Ma dimmi tu, qual frutto avresti allora

dal temerario tuo furto raccolto,

se t'avess'io scoperto a quelle ninfe?

Non fu sull'Ebro mai

sì fieramente lacerato, e morto

dalle donne di Tracia, il tracio Orfeo,

come stato da loro

saresti tu, se non ti dava aita

la pietà di colei, che cruda or chiami

ma non è cruda già quanto bisogna;

che se cotanto ardisci

quanto ti son crudele,

che faresti tu poi,

se pietosa ti fussi?

Quella sana pietà, che dar potei,

quella t'ho dato. In altro modo è vano

che tu la chiedi, o speri.

Che pietate amorosa

mal si dà per colei,

che per sé non la trova,

poi che l'ha data altrui.

Ama l'onesta mia, s'amante sei

ama la mia salute, ama la vita

troppo lunge se' tu da quel che brami.

Il proibisce il ciel, la terra il guarda,

e 'l vendica la morte.

Ma più d'ogn'altro, e con più saldo scudo,

l'onestate il difende.

Che sdegna alma ben nata

più fido guardatore

aver del proprio onore. Or datti pace

dunque, Mirtillo, e guerra

non far a me. Fuggi lontano, e vivi

se saggio se', ch'abbandonar la vita

per soverchio dolore

non è atto, o pensiero

di magnanimo core.

Ed è vera virtute

il sapersi astener da quel che piace,

se quel che piace offende.

MIRTILLO

Non è in man di chi perde

l'anima, il non morire.

AMARILLI

Chi s'arma di virtù, vince ogni affetto.

MIRTILLO

Virtù non vince, ove trionfa Amore.

AMARILLI

Chi non può quel che vuol, quel che può voglia.

MIRTILLO

Necessità d'amor legge non have.

AMARILLI

La lontananza ogni gran piaga salda.

MIRTILLO

Quel che nel cor si porta, invan si fugge:

AMARILLI

Scaccerà vecchio amor novo desio.

MIRTILLO

Sì s'un'altra alma, e un altro core avessi.

AMARILLI

Consuma il tempo finalmente amore.

MIRTILLO

Ma prima il crudo amor l'alma consuma.

AMARILLI

Così dunque il tuo mal non ha rimedio?

MIRTILLO

Non ha rimedio alcun, se non la morte.

AMARILLI

La morte? Or tu m'ascolta, e fa' che legge

ti sian queste parole: ancor ch'i' sappia,

che 'l morir degli amanti è piuttosto uso

d'innamorata lingua, che desio

d'animo in ciò deliberato, e fermo;

pur se talento mai

e sì strano, e sì folle a te venisse;

sappi, che la tua morte,

non men della mia fama,

che della vita tua morte sarebbe.

Vivi dunque se m'ami:

vattene, e da qui innanzi avrò per chiaro

segno, che tu sii saggio,

se con ogni tuo ingegno

ti guarderai di capitarmi innanzi.

MIRTILLO

Oh sentenza crudele.

Come viver poss'io

senza la vita; o come

dar fin senza la morte al mio tormento?

AMARILLI

Orsù, Mirtillo, è tempo

che tu te n' vada, e troppo lungamente

hai dimorato ancora.

Partiti, e ti consola,

ch'infinita è la schiera

degli infelici amanti.

Vive ben'altri in pianti

sì come tu, Mirtillo: ogni ferita

ha seco il suo dolore,

né se' tu solo a lagrimar d'amore.

MIRTILLO

Misero infra gli amanti

già solo non son io; ma son ben solo

miserabile esempio

e de' vivi, e de' morti, non potendo

né viver, né morire.

AMARILLI

Orsù partiti omai.

MIRTILLO

Ah dolente partita,

ah fin della mia vita.

Da te parto, e non moro? E pur i' provo

la pena della morte,

e sento nel partire

un vivace morire,

che dà vita al dolore

per far che moia immortalmente il core.

Scena quarta

Amarilli.

Oh Mirtillo, Mirtillo, anima mia,

se vedessi qui dentro,

come sta il cor di questa,

che chiami crudelissima Amarilli

so ben; che tu di lei

quella pietà, che da lei chiedi, avresti.

Oh anime in amor troppo infelici.

Che giova a te, cor mio, l'esser amato?

Che giova a me l'aver sì caro amante?

Perché crudo destino,

ne disunisci tu, s'Amor ne strigne?

E tu perché ne strigni,

se ne parte il destin, perfido Amore?

Oh fortunate voi fere selvagge,

a cui l'alma natura

non diè legge in amar, se non d'amore:

legge umana inumana,

che dai per pena dell'amar la morte.

Se 'l peccar è sì dolce,

e 'l non peccar sì necessario, oh troppo

imperfetta natura,

che repugni alla legge;

oh troppo dura legge,

che la natura offendi.

Ma che? Poco ama altrui, chi 'l morir teme.

Piacesse pur al ciel, Mirtillo mio,

che sol pena al peccar fusse la morte.

Santissima onestà, che sola sei

d'alma ben nata inviolabil nume:

quest'amorosa voglia,

che svenata ho col ferro

del tuo santo rigor, qual innocente

vittima a te consacro.

E tu, Mirtillo (anima mia) perdona

a chi t'è cruda sol, dove pietosa

esser non può: perdona a questa solo

nei detti, e nel sembiante

rigida tua nemica; ma nel core

pietosissima amante:

e se pur hai desio di vendicarti;

deh qual vendetta aver puoi tu maggiore

del tuo proprio dolore?

Che se tu se' 'l cor mio,

come se' pur malgrado

del cielo, e della terra,

qualor piangi, e sospiri,

quelle lagrime tue sono il mio sangue,

que' sospiri il mio spirto, e quelle pene,

e quel dolor, che senti,

son miei, non tuoi, tormenti.

Scena quinta

Corisca, Amarilli.

CORISCA

Non t'asconder già più, sorella mia.

AMARILLI

Meschina me son discoperta.

CORISCA

Il tutto

ho troppo ben inteso. Or non m'apposi?

Non ti diss'io, ch'amavi? Or ne son certa.

E da me tu ti guardi? A me l'ascondi?

A me che t'amo sì? Non t'arrossire,

non t'arrossir, che questo è mal comune.

AMARILLI

Io son vinta, Corisca, e te 'l confesso.

CORISCA

Or che negar no 'l puoi, tu me 'l confessi.

AMARILLI

E ben m'avveggio, (ahi lassa)

che troppo angusto vaso è debil core

a traboccante amore.

CORISCA

O cruda al tuo Mirtillo,

e più cruda a te stessa.

AMARILLI

Non è fierezza quella,

che nasce da pietate.

CORISCA

Aconito, e cicuta

nascer da salutifera radice

non si vide giammai.

Che differenza fai

da crudeltà, ch'offende,

a pietà, che non giova?

AMARILLI

Ohimè, Corisca.

CORISCA

Il sospirar, sorella,

è debolezza, e vanità di core,

e proprio è delle femmine da poche.

AMARILLI

Non sarei più crudele

se 'n lui nudrissi amor senza speranza?

Il fuggirlo è pur segno

ch'i' ho compassione

del suo male, e del mio.

CORISCA

Perché senza speranza?

AMARILLI

Non sai tu che promessa a Silvio sono?

Non sai tu che la legge

condanna a morte ogni donzella, ch'aggia

violata la fede?

CORISCA

O semplicetta: ed altro non t'arresta?

Qual è tra noi più antica,

la legge di Diana, oppur d'amore?

Questa ne' nostri petti

nasce, Amarilli, e con l'età s'avanza,

né s'apprende, o s'insegna,

ma negli umani cuori,

senza maestro la natura stessa

di propria man l'imprime:

e dov'ella comanda,

ubbidisce anco il ciel, non che la terra.

AMARILLI

E pur se questa legge

mi togliesse la vita,

quella d'amor non mi darebbe aita.

CORISCA

Tu se' troppo guardinga: se cotali

fusser tutte le donne,

e cotali rispetti avesser tutte,

buon tempo addio. Soggette a questa pena

stimo le poche pratiche, Amarilli.

Per quelle, che son sagge

non è fatta la legge.

Se tutte le colpevoli uccidesse,

credimi, senza donne

resterebbe il paese: e se le sciocche

v'inciampano, è ben dritto,

che 'l rubar sia vietato

a chi leggiadramente

non sa celare il furto.

Ch'altro alfin l'onestate

non è che un'arte di parere onesta.

Creda ognun a suo modo, io così credo.

AMARILLI

Queste son vanità, Corisca mia.

Gran senno è lasciar tosto

quel, che non può tenersi.

CORISCA

E chi te 'l vieta, sciocca?

Troppo breve è la vita

da trapassarla con un solo amore.

Troppo gli uomini avari

(o sia difetto, o pur fierezza loro)

ci son delle lor grazie.

E sai? Tanto siam care,

tanto gradite altrui, quanto siam fresche.

Levaci la beltà, la giovinezza,

come alberghi di pecchie

restiamo, senza favi, e senza mele

negletti aridi tronchi.

Lascia gracchiar agli uomini Amarilli,

però ch'essi non sanno,

né sentono i disagi delle donne.

E troppo differente

dalla condizion dell'uomo è quella

della misera donna.

Quanto più invecchia l'uomo,

diventa più perfetto;

e se perde bellezza, acquista senno.

Ma in noi con la beltate,

e con la gioventù, da cui sì spesso

il viril senno, e la possanza è vinta,

manca ogni nostro ben, né si può dire,

né pensar la più sozza

cosa, né la più vil di donna vecchia.

Or prima che tu giunga

a questa nostra universal miseria,

conosci i pregi tuoi.

Se t'è la vita destra,

non l'usar a sinistra.

Che varrebbe al leone

la sua ferocità, se non l'usasse?

Che gioverebbe all'uomo,

l'ingegno suo, se non l'usasse a tempo?

Così noi la bellezza,

ch'è virtù nostra così propria, come

la forza del leone,

e l'ingegno dell'uomo

usiam mentre l'abbiamo:

godiam, sorella mia,

godiam, che 'l tempo vola, e posson gl'anni

ben ristorar i danni

della passata lor fredda vecchiezza,

ma s'in noi giovinezza

una volta si perde,

mai più non si rinverde.

Ed a canuto, e livido sembiante

può ben tornar amor, ma non amante.

AMARILLI

Tu, come credo, in questa guisa parli

per tentarmi, Corisca,

piuttosto che per dir quel, che senti.

E però sii pur certa,

che se tu non mi mostri agevol modo,

e soprattutto onesto,

di fuggir queste nozze,

ho fatto irrevocabile pensiero

di piuttosto morir, che macchiar mai

l'onestà mia, Corisca.

CORISCA

Non ho veduto mai la più ostinata

femmina di costei.

Poi che questo conchiudi, eccomi pronta.

Dimmi un poco, Amarilli,

credi tu forse, che 'l tuo Silvio sia

tanto di fede amico,

quanto tu d'onestate?

AMARILLI

Tu mi farai ben ridere: di fede

amico Silvio? E come?

s'è nemico d'amore?

CORISCA

Silvio d'amor nemico? Oh semplicetta;

tu no 'l conosci: e' sa far e tacere,

ti so dir io. Quest'anime sì schife eh?

Non ti fidar di loro.

Non è furto d'amor tanto sicuro,

né di tanta finezza,

quanto quel, che s'asconde

sotto il vel d'onestate.

Ama dunque il tuo Silvio,

ma non già te, sorella.

AMARILLI

E quale è questa dèa,

(che certo esser non può donna mortale)

che l'ha d'amore acceso?

CORISCA

Né dèa, né anco ninfa.

AMARILLI

Oh che mi narri.

CORISCA

Conosci tu la mia Lisetta?

AMARILLI

Quale

Lisetta tua, la pecoraia?

CORISCA

Quella.

AMARILLI

Di' tu vero, Corisca?

CORISCA

Questa è dessa,

questa è l'anima sua.

AMARILLI

Or vedi se lo schifo,

s'è d'un leggiadro amor ben provveduto

CORISCA

E sai come ne spasima, e ne muore?

Ogni giorno s'infinge

d'ire alla caccia.

AMARILLI

Ogni mattina appunto

sento sull'alba il maladetto corno.

CORISCA

E sul fitto meriggio,

mentre che gli altri sono

più fervidi nell'opra; ed egli allotta

da' compagni s'invola, e vien soletto

per via non trita al mio giardino, ov'ella

tra le fessure d'una siepe ombrosa,

che 'l giardin chiude, i suoi sospiri ardenti,

i suoi prieghi amorosi ascolta, e poi

a me li narra, e ride. Or odi quello,

che pensato ho di fare; anzi ho già fatto

per tuo servigio. Io credo ben, che sappi

che la medesma legge, che comanda

alla donna il servar fede al suo sposo,

ha comandato ancor, che ritrovando

ella il suo sposo in atto di perfidia,

possa, mal grado de' parenti suoi,

negar d'essergli sposa, e d'altro amante

onestamente provvedersi.

AMARILLI

Questo

so molto bene; e anco alcuno esempio

veduto n'ho, Leucippe a Ligurino,

Egle a Licota, ed a Turingo Armilla,

trovati senza fé la data fede

ricoveraron tutte.

CORISCA

Or tu m'ascolta.

Lisetta mia così da me avvertita,

ha col fanciullo amante e poco cauto

d'esser in quello speco oggi con lei

ordine dato. Ond'egli è 'l più contento

garzon, che viva; e sol n'attende l'ora.

Quivi vo' che tu 'l colga: i' sarò teco

per testimon del tutto; che senz'esso

vana sarebbe l'opra e così sciolta

sarai senza periglio, e con tuo onore,

e con onor del padre tuo, da questo

sì noioso legame.

AMARILLI

Oh quanto bene

hai pensato, Corisca. Or che ci resta?

CORISCA

Quel ch'ora intenderai. Tu bene osserva

le mie parole. A mezzo dello speco,

ch'è di forma assai lunga, e poco larga;

sulla man dritta, è nel cavato sasso

una, non so ben dir, se fatta sia

o per natura, o per industria umana,

picciola cavernetta, d'ogni intorno

tutta vestita d'edera tenace;

a cui dà lume un picciolo pertugio,

che d'alto s'apre; assai grato ricetto,

ed a furti d'amor comodo molto.

Or tu gli amanti prevenendo, quivi

fa' che t'ascondi, e 'l venir loro attendi:

invierò la mia Lisetta intanto;

poi le vestigia di lontan seguendo

di Silvio, come pria sceso nell'antro

vedrollo, entrando anch'io subitamente,

il prenderò, perché non fugga; e 'nsieme

farò (che così seco ho divisato)

con Lisetta grandissimi rumori:

a' quali tosto accorrerai tu ancora,

e secondo 'l costume, eseguirai

contra Silvio la legge, e poi n'andremo

ambedue con Lisetta al sacerdote:

e così il marital nodo sciorrai.

AMARILLI

Dinanzi al padre suo?

CORISCA

Che 'mporta questo?

Pensi tu che Montano il suo privato

comodo debba al pubblico anteporre?

Ed al sacro il profano?

AMARILLI

Or dunque, gli occhi

chiudendo, fedelissima mia scorta,

a te regger mi lascio.

CORISCA

Ma non tardar; entra, ben mio.

AMARILLI

Vo' prima

girmene al tempio a venerar gli dèi,

che fortunato fin non può sortire,

se non la scorge il ciel, mortale impresa.

CORISCA

Ogni loco; Amarilli, è degno tempio

di ben devoto core.

Perderai troppo tempo.

AMARILLI

Non si può perder tempo

nel far preghi a coloro,

che comandano al tempo.

CORISCA

Vanne dunque, e vien' tosto.

Or s'io non erro, a buon cammin son volta.

Mi turba sol questa tardanza. Pure

potrebbe anco giovarmi. Or mi bisogna

tesser novello inganno, a Coridone

amante mio creder farò, che seco

trovar mi voglia, e nel medesim'antro

dopo Amarilli il manderò, là dove

farò venir per più segreta strada

di Diana i ministri a prender lei,

la qual come colpevole a morire

sarà senz'alcun dubbio condannata.

Spenta la mia rivale, alcun contrasto

non avrò più per ispugnar Mirtillo,

che per lei m'è crudele. Eccolo appunto.

Oh come a tempo. I' vo' tentarlo alquanto,

mentre Amarilli mi dà tempo. Amore

vien nella lingua mia tutto, e nel volto.

Scena sesta

Mirtillo, Corisca.

MIRTILLO

Udite, lagrimosi

spirti d'Averno, udite

nova sorte di pena, e di tormento.

Mirate crudo affetto

in sembiante pietoso.

La mia donna crudel più dell'inferno,

perch'una sola morte

non può far sazia la sua ingorda voglia,

e la mia vita è quasi

una perpetua morte,

mi comanda, ch'i' viva,

perché la vita mia

di mille morti il dì ricetto sia.

CORISCA

M'infingerò di non l'aver veduto.

Sento una voce querula, e dolente

sonar d'intorno, e non so dir di cui.

Oh se' tu, il mio Mirtillo?

MIRTILLO

Così foss'io nud'ombra, e poca polve.

CORISCA

Ebben, come ti senti

da poi che lungamente ragionasti

con l'amata tua donna?

MIRTILLO

Come assetato infermo,

che bramò lungamente

il vietato licor, se mai vi giunge,

meschin, beve la morte,

e spegne anzi la vita, che la sete:

tal io, gran tempo infermo,

e d'amorosa sete arso, e consunto,

in duo bramati fonti,

che stillan ghiaccio dall'alpestre vena

d'un indurato core,

ho bevuto il veleno,

e spento il viver mio,

piuttosto, che 'l desio.

CORISCA

Tanto è possente amore,

quanto dai nostri cor forza riceve

caro Mirtillo. E come l'orsa suole

con la lingua dar forma

all'informe suo parto,

che per sé fora inutilmente nato,

così l'amante al semplice desire,

che nel suo nascimento

era infermo, ed informe,

dando forma, e vigore,

ne fa nascere amore.

Il qual prima nascendo

è delicato, e tenero bambino:

e mentre è tale in noi, sempre è soave.

Ma se troppo s'avanza,

divien'aspro, e crudele:

ch'alfin Mirtillo un invecchiato affetto

si fa pena, e difetto.

Che s'in un sol pensiero

l'anima immaginando, si condensa,

e troppo in lui s'affisa,

l'amor ch'esser dovrebbe

pura gioia, e dolcezza;

si fa malinconia,

e quel, ch'è peggio, alfin morte, o pazzia.

Però saggio è quel core,

che spesso cangia amore.

MIRTILLO

Prima che mai cangiar voglia, o pensiero,

cangerò vita in morte:

però, che la bellissima Amarilli

così com'è crudel, com'è spietata,

e sola è la vita mia,

né può già sostener corporea salma

più d'un cor, più d'un'alma.

CORISCA

O misero pastore

come sai mal usare

per lo suo dritto amore.

Amar chi m'odia, e seguir chi mi fugge eh?

I' mi morrei ben prima.

MIRTILLO

Come l'oro nel foco,

così la fede nel dolor s'affina,

Corisca mia, né può senza fierezza

dimostrar sua possanza

amorosa invincibile costanza.

Questo solo mi resta,

fra tanti affanni miei dolce conforto.

Arda pur sempre, o mora

o languisca il cor mio,

a lui sien lievi pene

per sì bella cagion pianti, e sospiri,

strazio, pene, tormenti, esilio, e morte,

purché prima la vita,

che questa fé, si scioglia:

ch'assai peggio di morte è il cangiar voglia.

CORISCA

Oh bella impresa, oh valoroso amante,

come ostinata fera,

come insensato scoglio

rigido, e pertinace.

Non è la maggior peste,

né 'l più fero, e mortifero veleno

a un'anima amorosa della fede.

Infelice quel core,

che si lascia ingannar da questa vana

fantasima d'errore, e de' più cari

amorosi diletti

turbatrice importuna.

Dimmi povero amante

con cotesta tua folle

virtù della costanza,

che cosa ami in colei, che ti disprezza?

Ami tu la bellezza,

che non è tua? La gioia che non hai?

La pietà che sospiri?

La mercé che non speri?

Altro non ami alfin, se dritto miri,

che 'l tuo mal, che 'l tuo duol, che la tua morte.

E se' sì forsennato,

ch'amar vuoi sempre, e non esser amato?

Deh risorgi Mirtillo.

Riconosci te stesso.

Forse ti mancheran gli amori? Forse

non troverai chi ti gradisca, e pregi?

MIRTILLO

M'è più dolce il penar per Amarilli,

che il gioir di mill'altre;

e se gioir di lei

mi vieta il mio destino, oggi si moia

per me pure ogni gioia.

Viver io fortunato

per altra donna mai, per altro amore?

Né volendo il potrei,

né potendo il vorrei.

E s'esser può che 'n alcun tempo mai

ciò voglia il mio volere,

o possa il mio potere,

prego il cielo, ed Amor che tolto pria

ogni voler, ogni poter mi sia.

CORISCA

Oh core ammaliato

per una cruda, dunque,

tanto sprezzi te stesso?

MIRTILLO

Chi non spera pietà, non teme affanno,

Corisca mia.

CORISCA

Non t'ingannar Mirtillo,

che forse da dovero

non credi ancor, ch'ella non t'ami, e ch'ella

da dovero ti sprezzi.

Se tu sapessi quello

che sovente di te meco ragiona.

MIRTILLO

Tutti questi pur sono

amorosi trofei della mia fede:

trionferò con questa

del cielo, e della terra,

della sua cruda voglia,

delle mie pene, e della dura sorte,

di fortuna, del mondo, e della morte.

CORISCA

Che farebbe costui, quando sapesse

d'esser da lei sì grandemente amato?

Oh qual compassione

t'ho io, Mirtillo, di cotesta tua

misera frenesia.

Dimmi amasti tu mai

altra donna che questa?

MIRTILLO

Primo amor del cor mio

fu la bella Amarilli,

e la bella Amarilli

sarà l'ultimo ancora.

CORISCA

Dunque, per quel ch'i' veggia,

non provasti tu mai

se non crudele amor, se non sdegnoso.

Deh s'una volta sola

il provassi soave,

e cortese, e gentile.

Provalo un poco, provalo; e vedrai;

com'è dolce il gioire

per gratissima donna, che t'adori,

quanto sai tu la tua

crudele ed amarissima Amarilli.

Com'è soave cosa

tanto goder quanto ami,

tanto aver quanto brami:

sentir, che la tua donna

ai tuoi caldi sospiri

caldamente sospiri.

E dica poi: ben mio,

quanto son, quanto miri,

tutto è tuo, s'io son bella,

a te solo son bella: a te s'adorna

questo viso, quest'oro e questo seno:

in questo petto mio

alberghi tu, caro mio cor, non io.

Ma questo è un picciol rivo

rispetto all'ampio mar delle dolcezze,

che fa gustar'amore.

Ma non le sa ben dir, chi non le prova.

MIRTILLO

Oh mille volte fortunato, e mille,

chi nasce in tale stella.

CORISCA

Ascoltami, Mirtillo

(quasi m'uscì di bocca, anima mia)

una ninfa gentile

fra quante o spieghi al vento, o 'n treccia annodi

chioma d'oro leggiadra,

degna dell'amor tuo

come se' tu del suo,

onor di queste selve;

amor di tutti i cori:

dai più degni pastori

invan sollecitata, invan seguita,

te solo adora, ed ama

più della vita sua, più del suo core.

Se saggio se', Mirtillo,

tu non la sprezzerai.

Come l'ombra del corpo,

così questa fia sempre

dell'orme tue seguace;

al tuo detto, al tuo cenno

ubbidiente ancella, a tutte l'ore

della notte, e del dì teco l'avrai.

Deh non lasciar, Mirtillo,

questa rara ventura.

Non è piacere al mondo

più soave di quel, che non ti costa

né sospiri, né pianto,

né periglio, né tempo.

Un comodo diletto,

una dolcezza alle tue voglie pronta,

all'appetito tuo sempre, al tuo gusto

apparecchiata. Ohimè non è tesoro

che la possa pagar; Mirtillo lascia,

lascia di piè fugace

la disperata traccia,

e chi ti cerca, abbraccia.

Né di speranze vane

ti pascerò, Mirtillo.

A te sta comandare.

Non è molto lontan chi ti desia,

se vuoi ora, ora sia.

MIRTILLO

Non è il mio cor soggetto

d'amoroso diletto.

CORISCA

Proval sola una volta,

e poi torna al tuo solito tormento.

Perché sappi almen dire

com'è fatto il gioire.

MIRTILLO

Corrotto gusto ogni dolcezza aborre.

CORISCA

Fallo almen per dar vita

a chi del sol de' tuo' begli occhi vive,

crudel; tu sai pur anco

che cosa è povertate,

e l'andar mendicando. Ah se tu brami

per te stesso pietate,

non la negare altrui.

MIRTILLO

Che pietà posso dare,

non la potendo avere?

Insomma io son fermato

di serbar fin ch'io viva

fede a colei, ch'adoro, o cruda, o pia

ch'ella sia stata, e sia.

CORISCA

Oh veramente cieco, ed infelice;

oh stupido Mirtillo.

A chi serbi tu fede?

Non volea già contaminarti, e pena

giugner alla tua pena.

Ma troppo se' tradito;

ed io, che t'amo, sofferir no 'l posso.

Credi tu ch'Amarilli

ti sia cruda per zelo

o di religione, o d'onestate?

Folle se' ben se 'l credi.

Occupata è la stanza,

misero; ed a te tocca

pianger, quand'altri ride.

Tu non parli? Se' muto?

MIRTILLO

Sta la mia vita in forse

tra 'l viver, e 'l morire,

mentre sta in dubbio il core

se ciò creda, o non creda;

però son io così stupido, e muto.

CORISCA

Dunque tu non me 'l credi?

MIRTILLO

S'io te 'l credessi, certo

mi vedresti morire; e s'egli è vero,

i' vo' morire or'ora.

CORISCA

Vivi, meschino, vivi,

serbati alla vendetta.

MIRTILLO

Ma non te 'l credo, e so che non è vero.

CORISCA

Ancor non credi, e pur cercando vai;

ch'io dica quel, che d'ascoltar ti duole:

vedi tu là quell'antro?

quello è fido custode

della fé, dell'onor della tua donna.

Quivi di te si ride;

quivi con le tue pene

si condiscon le gioie

del fortunato tuo lieto rivale.

Quivi, per dirti insomma,

molto sovente suole

la tua fida Amarilli

a rozzo pastorel recarsi in braccio.

Or va' piangi, e sospira; or serva fede,

tu n'hai cotal mercede.

MIRTILLO

Ohimè, Corisca dunque,

il ver mi narri, e pur convien ch' il creda?

CORISCA

Quanto più vai cercando,

tanto peggio udirai,

e peggio troverai.

MIRTILLO

E l'hai veduto tu, Corisca? Ahi lasso.

CORISCA

Non pur l'ho vedut'io,

ma tu ancor il potrai

per te stesso vedere: ed oggi appunto,

ch'oggi l'ordine è dato. E questa è l'ora.

Talché se tu t'ascondi

tra qualch'una di queste

fratte vicine, la vedrai tu stesso

scender nell'antro ed indi a poco il vago.

MIRTILLO

Sì tosto ho da morir?

CORISCA

Vedila appunto,

che per la via del tempio

vien pian piano scendendo.

La vedi tu, Mirtillo?

E non ti par, che mova

furtivo il piè, com'ha furtivo il core?

Or qui l'attendi, e ne vedrai l'effetto.

Ci rivedrem da poi.

MIRTILLO

Già ch'io son sì vicino

a chiarirmi del vero,

sospenderò con la credenza mia

e la vita, e la morte.

Scena settima

Amarilli.

Non cominci mortale alcuna impresa

senza scorta divina, Assai confusa

e con incerto cor quinci partimmi

per gire al tempio, onde, (mercé del cielo)

e ben disposta, e consolata, i' torno.

Ch'alle preghiere mie pure, e devote

m'è paruto sentir moversi dentro

un animoso spirito celeste,

e rincorarmi, e quasi dir, che temi?

Va' sicura Amarilli, e così voglio

sicuramente andar, che 'l ciel mi guida.

Bella madre d'amore,

favorisci colei,

che 'l tuo soccorso attende.

Donna del terzo giro,

se mai provasti di tuo figlio il foco,

abbi del mio pietate.

Scorgi, cortese dèa,

con piè veloce, e scaltro

il pastorello, a cui la fede ho data.

E tu cara spelonca,

sì chiusamente nel tuo sen ricevi

questa serva d'Amor, ch'in te fornire

possa ogni suo desire.

Ma che tardi, Amarilli?

Qui non è chi mi vegga, o chi m'ascolti.

Entra sicuramente.

Oh Mirtillo, Mirtillo;

se di trovarmi qui sognar potessi.

Scena ottava

Mirtillo.

Ah purtroppo son desto e troppo miro.

Così nato senz'occhi

foss'io piuttosto, o piuttosto non nato

a che fero destin serbarmi in vita,

per condurmi a vedere

spettacolo sì crudo, e sì dolente?

O più d'ogni infernale

anima tormentata,

tormentato Mirtillo.

Non stare in dubbio no; la tua credenza

non sospender già più; tu l'hai veduta

con gli occhi propri, e con gli orecchi udita;

la tua donna è d'altrui:

non per legge del mondo,

che la toglie ad ogni altro;

ma per legge d'Amore,

che la toglie a te solo.

Oh crudele Amarilli;

dunque non ti bastava

di dar'a questo misero la morte,

s'anco non lo schernivi?

Con quella insidiosa, ed incostante

bocca, che le dolcezze di Mirtillo

gradì pur una volta:

or l'odiato nome,

che forse ti sovvenne,

per tuo rimordimento

non hai voluto a parte

delle dolcezze tue, delle tue gioie,

e 'l vomitasti fuore,

ninfa crudel, per non l'aver nel core.

Ma che tardi, Mirtillo?

Colei, che ti dà vita

a te l'ha tolta, e l'ha donata altrui,

e tu vivi meschino? E tu non mori?

Mori, Mirtillo, mori

al tormento, al dolore,

com'al tuo ben, com'al gioir se' morto.

Mori morto Mirtillo.

Hai finita la vita,

finisci anco il tormento.

Esci, misero amante,

di questa dura, ed angosciosa morte,

che per maggior tuo mal ti tiene in vita.

Ma che? Debb'io morir senza vendetta?

Farò prima morir, chi mi dà morte.

Tanto in me si sospenda

il desio di morire,

che giustamente abbia la vita tolta

a chi m'ha tolto ingiustamente il core.

Ceda il dolore alla vendetta, ceda

la pietate allo sdegno,

e la morte alla vita,

fin ch'abbia con la vita

vendicato la morte.

Non beva questo ferro

del suo signor l'invendicato sangue,

e questa man non sia

ministra di pietate,

che non sia prima d'ira.

Ben ti farò sentire,

chiunque se', che del mio ben gioisci,

nel precipizio mio la tua ruina.

M'appiatterò qui dentro

nel medesmo cespuglio: e come prima

alla caverna avvicinar vedrollo,

improvviso assalendolo, nel fianco

il ferirò con questo acuto dardo.

Ma non sarà vilta ferir altrui

nascosamente? Sì, sfidalo dunque

a singolar contesa; ove virtute

del tuo giusto dolor possa far fede.

No, che potrebbon di leggeri in questo

loco a tutti sì noto, e sì frequente,

accorrere i pastori, ed impedirci;

e ricercar'ancor, che peggio fora,

la cagion, che mi move: e s'io la nego,

malvagio, e s'io la fingo, senza fede

ne sarò riputato: e s'io la scopro,

d'eterna infamia rimarrà macchiato

della mia donna il nome: in cui, ben ch'io

non ami quel che veggio, almen quell'amo,

che sempre volli, e vorrò fin ch'i' viva,

e che sperai, e che veder devrei.

Moia dunque l'adultero malvagio,

ch'a lei l'onore, a me la vita invola.

Ma se l'uccido qui, non sarà il sangue

chiaro indizio del fatto? E che tem'io

la pena del morir, se morir bramo?

Ma l'omicidio alfin fatto palese,

scoprirà la cagione, onde cadrai

nel medesmo periglio dell'infamia,

che può venirne a questa ingrata. Or entra

nella spelonca, e qui l'assali. È buono,

questo mi piace; entrerò cheto cheto

sì ch'ella non mi senta: e credo bene,

che nella più segreta, e chiusa parte,

come accennò di far ne' detti suoi,

si sarà ricovrata: ond'io non voglio

penetrar molto addentro. Una fessura

fatta nel sasso, e di frondosi rami

tutta coperta a man sinistra appunto

si trova a piè dell'alta scesa; quivi,

più che si può tacitamente entrando

il tempo attenderò di dar effetto

a quel che bramo. Il mio nemico morto

alla nemica mia porterò innanzi:

così d'ambiduo lor farò vendetta:

indi trapasserò col ferro stesso

a me medesmo il petto: e tre saranno

gli estinti, duo dal ferro, una dal duolo.

Vedrà questa crudele

dell'amante gradito

non men che del tradito

tragedia miserabile, e funesta.

E sarà questo speco,

ch'esser dovea delle sue gioie albergo,

dell'un, e l'altro amante,

e quel che più desio,

delle vergogne sue tomba, e sepolcro.

Ma voi orme già tanto invan seguite,

così fido sentiero

voi mi segnate? A così caro albergo

voi mi scorgete? Eppur v'inchino, e seguo.

O Corisca, Corisca,

or sì m'hai detto il vero, or sì ti credo.

Scena nona

Satiro.

Costui crede a Corisca? E segue l'orme

di lei nella spelonca d'Ericina?

Stupido è ben chi non intende il resto.

Ma certo e' ti bisogna aver gran pegno

della sua fede in man, se tu le credi,

e stretta lei con più tenaci nodi;

che non ebb'io quando nel crin la presi.

Ma nodi più possenti in lei dei doni

certo avuto non hai. Questa malvagia,

nemica d'onestate, oggi a costui

s'è venduta al suo solito, e qui dentro

si paga il prezzo del mercato infame.

Ma forse costà giù ti mandò il cielo

per tuo castigo, e per vendetta mia.

Dalle parole di costui si scorge

ch'egli non crede invano, e le vestigia,

che vedute ha di lei, son chiari indizi

ch'ella è già nello speco. Or fa' un bel colpo,

chiudi il foro dell'antro con quel grave,

e soprastante sasso; acciò che quinci

sia lor negata di fuggir l'uscita.

Poi vanne, al sacerdote, e' suoi ministri,

per la strada del colle a pochi nota,

conduci, e falla prendere; e secondo

la legge, e i suoi misfatti alfin morire.

E so ben' io che data a Coridone

ha la fé maritale, il qual si tace,

perché teme di me, che minacciato

l'ho molte volte. Oggi farò ben io,

ch'egli di due vendicherà l'oltraggio.

Non vo' perder più tempo. Un sodo tronco

schianterò da quest'elce. Appunto questo

fia buono, ond'io potrò più prontamente

smover'il sasso. Oh com'è grave. Oh come

è ben affisso. Qui bisogna il tronco

spinger di forza, e penetrar sì dentro,

che questa mole alquanto si divella.

Il consiglio fu buono. Anco si faccia

il medesmo di qua. Come s'appoggia

tenacemente, è più dura l'impresa

di quel che mi pensava. Ancor non posso

svellerlo, né per urto anco piegarlo.

Forse il mondo è qui dentro? Oppur mi manca

il solito vigor? Stelle perverse,

che macchinate? Il moverò malgrado.

Maledetta Corisca, e quasi dissi

quante femmine ha il mondo. O Pan Liceo,

o Pan, che tutto se', che tutto puoi,

moviti a' prieghi miei:

fosti amante ancor tu di cor protervo.

Vendica nella perfida Corisca

i tuoi scherniti amori.

Così in virtù del tuo gran nume il movo,

così in virtù del tuo gran nume e' cade.

La mala volpe è nella tana chiusa,

or le troppo largo si darà il foco, ov'io vorrei

veder quante son femmine malvage

in un incendio solo arse, e distrutte.

CORO

Come se' grande, Amore,

di natura miracolo, e del mondo.

Qual cor sì rozzo, o qual sì fiera gente

il tuo valor non sente?

Ma qual sì scaltro ingegno, e sì profondo

il tuo valor intende?

Chi sa gli ardori che 'l tuo foco accende

importuni, e lascivi,

dirà spirto mortal tu regni, e vivi

nella corporea salma.

Ma chi sa poi come a virtù l'amante

si desti, e come soglia

farsi al suo foco (ogni sfrenata voglia

subito spenta) pallido, e tremante;

dirà spirto immortale, hai tu nell'alma

il tuo solo, e santissimo ricetto.

Raro mostro, e mirabile d'umano

e di divino aspetto,

di veder cieco, e di saver insano,

di senso, e d'intelletto,

di ragion, e desio confuso affetto.

E tale hai tu l'impero

della terra, e del ciel, ch'a te soggiace.

Ma (dirò 'l con tua pace)

miracolo più altero

ha di te il mondo, e più stupendo assai.

Però che quanto fai

di meraviglia, e di stupor tra noi,

tutto in virtù di bella donna puoi.

Oh donna, oh don del cielo,

anzi pur di colui,

che 'l tuo leggiadro velo

fe', d'ambo creator più bel di lui.

Qual cosa non hai tu del ciel più bella?

Nella sua vasta fronte

mostruoso Ciclope un occhio ei gira,

non di luce a chi 'l mira,

ma d'alta cecità cagione e fonte.

Se sospira, o favella,

com'irato leon rugge, e spaventa;

e non più ciel, ma campo

di tempestosa, ed orrida procella

col fiero lampeggiar folgori avventa.

Tu col soave lampo,

e con la vista angelica amorosa

di duo soli visibili, e sereni,

l'anima tempestosa

di chi ti mira acqueti, e rassereni:

e suono, e moto, e lume,

e valor, e bellezza, e leggiadria

fan sì dolce armonia nel tuo bel viso,

che 'l cielo invan presume,

(se 'l cielo è pur men bel del paradiso)

di pareggiarsi a te cosa divina.

Ebben ha gran ragione

quell'altero animale,

ch'uomo s'appella, ed a cui pur s'inchina

ogni cosa mortale;

se mirando di te l'alta cagione,

t'inchina, e cede, e s'ei trionfa, e regna,

non è perché di scettro, o di vittoria

sii tu di lui men degna,

ma per maggior tua gloria.

Che quanto il vinto è di più pregio, tanto

più glorioso è di chi vince il vanto.

Ma che la tua beltate

vinca con l'uomo ancor l'umanitate,

oggi ne fa Mirtillo a chi no 'l crede

meravigliosa fede.

E mancava ben questo al tuo valore

donna di far senza speranza Amore.

Atto quarto
Scena prima

Corisca.

Tanto in condur la semplicetta al varco

ebbi pur dianzi il cor fisso, e la mente,

che di pensar non mi sovvenne mai

della mia cara, chioma, che rapita

m'ha quel brutto villano, e com'io possa

ricoverarla. Oh quanto mi fu grave

d'avermi a riscattar con sì gran prezzo,

e con sì caro pegno. Ma fu forza

uscir di man dell'indiscreta bestia:

che quantunque egli sia più d'un coniglio

pusillanimo assai, m'avria potuto

far nondimeno mille oltraggi, e mille

fiere vergogne. Io l'ho schernito sempre,

e fin che sangue ha nelle vene avuto,

come sansuga l'ho succhiato. Or duolsi

che più non l'ami, e di dolersi avrebbe;

giusta cagion, se mai l'avessi amato.

Amar cosa inamabile non puossi.

Com'erba, che fu dianzi a chi la colse

per uso salutifero sì cara;

poi che ‘l succo n'è tratto, inutil resta,

e come cosa fracida s'aborre,

così costui; poi che spremuto ho quanto

era di buono in lui, che far ne debbo;

se non gettarne il fracidume al ciacco?

Or vo' veder se Coridone è sceso

ancor nella spelonca. Oh che fia questo?

Che novità vegg'io? Son desta o sogno?

O son ebbra o traveggio? So pur certo,

ch'era la bocca di quest'antro aperta

guari non ha. Com'ora è chiusa? E come

questa pietra sì grave, e tanto antica

allo ‘mprovviso è ruinata a basso?

Non s'è già scossa di tremuoto udita.

Sapessi almen, se Coridon v'è chiuso

con Amarilli, ché del resto poi

poco mi curerei. Dovria pur egli

esser giunto oggimai, sì buona pezza

è che partì, se ben Lisetta intesi.

Chissà che non sia dentro, e che Mirtillo

così non li abbia ambedue chiusi. Amore

punto da sdegno, il mondo anco potrebbe

scuoter, non ch'una pietra. Se ciò fosse,

già non avria potuto far Mirtillo

più secondo il mio cor, se nel suo core

fosse Corisca invece d'Amarilli.

Meglio sarà che per la via del monte

mi conduca nell'antro, e ‘l ver n'intenda.

Scena seconda

Dorinda, Linco.

DORINDA

E conosciuta certo

tu non m'avevi, Linco?

LINCO

Chi ti conoscerebbe

sotto queste sì rozze orride spoglie

per Dorinda gentile?

S'io fossi un fiero can, come son Linco,

malgrado tuo t'avrei

troppo ben conosciuta.

Oh che veggio oh, che veggio.

DORINDA

Un affetto d'amor tu vedi, Linco,

un effetto d'amare

misero, e singolare.

LINCO

Una fanciulla come tu sì molle,

e tenerella ancora;

ch'eri pur dianzi (si può dir) bambina,

e mi par che pur ieri

t'avessi tra le braccia pargoletta,

e le tenere piante

reggendo t'insegnassi

a formar babbo, e mamma,

quando ai servigi del tuo padre i' stava.

Tu che qual damma timida solevi,

prima ch'amor sentissi,

paventar d'ogni cosa,

ch'allo 'mprovviso si movesse; ogn'aura,

ogn'augellin, che ramo

scotesse; ogni lucertola, che fuori

della fratta corresse;

ogni tremante foglia

ti facea sbigottire;

or vai soletta errando

per montagne, e per boschi,

né di fera hai paura, né di veltro?

DORINDA

Chi è ferito d'amoroso strale,

d'altra piaga non teme.

LINCO

Ben ha potuto in te, Dorinda, amore,

poi che di donna in uomo,

anzi di donna in lupo ti trasforma.

DORINDA

Oh se qui dentro, Linco,

scorger tu mi potessi,

vedresti un vivo lupo

quasi agnella innocente

l'anima divorarmi.

LINCO

E qual è il lupo? Silvio?

DORINDA

Ah tu l'hai detto.

LINCO

E tu, poich'egli è lupo,

in lupa volentier ti se' cangiata;

perché se non l'ha mosso il viso umano,

il mova almen questo ferino, e t'ami.

Ma, dimmi, ove trovasti

questi ruvidi panni?

DORINDA

I' ti dirò. Mi mossi

stamani assai per tempo

verso là dove inteso avea, che Silvio,

a piè dell'Erimanto

nobilissima caccia

al fier cignale apparecchiata avea,

e nell'uscir de l'Eliceto appunto

quinci non molto lunge

verso il rigagno, che dal poggio scende,

trovai Melampo il cane

del bellissimo Silvio, che la sete

quivi, come cred'io, s'avea già tratta,

e nel prato vicin posando stava.

Io, ch'ogni cosa del mio Silvio ho cara,

e l'ombra ancor del suo bel corpo, e l'orma

del piè leggiadro, non che 'l can da lui

cotanto amato, inchino,

subitamente il presi:

ed ei senza contrasto,

qual mansueto agnel meco ne venne.

E mentre i' vo pensando

di ricondurlo al suo signore, e mio;

sperando far con dono a lui sì caro

della sua grazia acquisto;

eccolo appunto, che venia diritto

cercandone i vestigi, e qui fermossi.

Caro Linco, non voglio

perder tempo in narrarti

minutamente quello

ch'è passato tra noi.

Ma dirò ben per ispedirmi in breve,

che dopo un lungo giro

di mentite promesse, e di parole,

mi s'è involato il crudo,

pien d'ira, e di disdegno,

col suo fido Melampo,

e con la cara mia dolce mercede.

LINCO

Oh dispietato Silvio, oh garzon fiero.

E tu che festi allor? Non ti sdegnasti

della sua fellonia?

DORINDA

Anzi, come s'appunto,

il foco del suo sdegno

fosse stato al mio cor foco amoroso,

crebbe per l'ira sua l'incendio mio,

e, tuttavia seguendone i vestigi,

e pur verso la caccia

l'interrotto cammin continuando,

non molto lunge il mio Lupin raggiunsi

che quinci poco prima

di me s'era partito. Onde mi venne

tosto pensier di travestirmi e 'n questi

abiti suoi servili

nascondermi sì ben, che tra pastori

potessi per pastore esser tenuta,

e seguir e mirar comodamente

il mio bel Silvio.

LINCO

E 'n sembianza di lupo

tu se' ita alla caccia,

e t'han veduta i cani e quinci salva

se' ritornata? Hai fatto assai, Dorinda.

DORINDA

Non ti meravigliar Linco, che i cani

non potean far'offesa

a chi del signor loro

è destinata preda.

Quivi confusa infra la spessa turba

de' vicini pastori,

ch'eran concorsi alla famosa caccia,

stav'io fuor delle tende

spettatrice amorosa

via più del cacciator che della caccia.

A ciascun moto della fera alpestre

palpitava il cor mio:

a ciascun atto del mio caro Silvio

correa subitamente

con ogni affetto suo l'anima mia.

Ma il mio sommo diletto

turbava assai la paventosa vista

del terribil cignale,

smisurato di forza, e di grandezza.

Come rapido turbo

d'impetuosa, e subita procella,

che tetti, e piante, e sassi, e ciò ch'incontra

in poco giro, in poco tempo atterra,

così a un solo rotar di quelle zanne

e spumose, e sanguigne,

si vedean tutti insieme

cani uccisi, aste rotte, uomini offesi.

Quante volte bramai

di patteggiar con la rabbiosa fera

per la vita di Silvio il sangue mio?

Quante volte d'accorrervi e di fare

con questo petto al suo buon petto scudo?

Quante volte dicea

fra me stessa. Perdona,

fiero cignal, perdona

al delicato sen del mio bel Silvio.

Così meco parlava,

sospirando, e pregando.

Quand'egli di squamosa, e dura scorza

il suo Melampo armato

contra la fera impetuoso spinse,

che più superba ogn'ora

s'avea fatta d'intorno

di molti uccisi cani, e di feriti

pastori orrida strage.

Linco, non potrei dirti

il valor di quel cane;

e ben ha gran ragion Silvio se l'ama.

Come irato leon, che 'l fiero corno

dell'indomito tauro

ora incontri, ora fugga,

una sola fiata,

che nel tergo l'afferri

con le robuste branche,

il ferma sì, ch'ogni poter n'emunge,

tale il forte Melampo

fuggendo accortamente

gli spessi giri, e le mortali rote

di quella fera mostruosa; alfine

l'azzannò nell'orecchia;

e dopo averla impetuosamente

prima crollata alquante volte, e scossa,

ferma la tenne sì, che potea farsi

nel vasto corpo suo, quantunque altrove

leggermente ferito,

di ferita mortal certo disegno.

Allor subitamente il mio bel Silvio,

invocando Diana,

drizza tu questo colpo,

disse, ch'a te fo voto

di sacrar, santa dèa, l'orribil teschio.

E 'n questo dir dalla faretra d'oro

tratto un rapido strale,

fin dall'orecchia al ferro

tese l'arco possente,

e nel medesmo punto

restò piagato, ove confina, il collo

con l'omero sinistro il fier cinghiale;

il qual subito cadde. I' respirai

vedendo Silvio mio fuor di periglio.

O fortunata fera,

degna d'uscir di vita

per quella man, che 'nvola

sì dolcemente il cor dai petti umani.

LINCO

Ma che sarà di quella fera uccisa?

DORINDA

No 'l so, perché me n' venni,

per non esser veduta, innanzi a tutti:

ma crederò, che porteranno in breve,

secondo il voto del mio Silvio, il teschio

solennemente al tempio.

LINCO

E tu non vuoi uscir di questi panni?

DORINDA

Sì voglio, ma Lupino

ebbe la veste mia con l'altro arnese,

e disse d'aspettarmi

con essi al fonte, e non ve l'ho trovato.

Caro Linco, se m'ami,

va' tu per queste selve

di lui cercando, che non può già molto

esser lontano. Poserò frattanto

là in quel cespuglio. Il vedi? Ivi t'attendo,

ch'io son dalla stanchezza

vinta, e dal sonno, e ritornar non voglio

con queste spoglie a casa.

LINCO

Io vo. Tu non partire

di là fin ch'io non torni.

Scena terza

Coro, Ergasto.

CORO

Pastori, avete inteso

che 'l nostro semideo, figlio ben degno

del gran Montano, e degno

discendente d'Alcide,

oggi n'ha liberati

dalla fera terribile, che tutta

infestava l'Arcadia;

e che già si prepara

di sciorne il voto al tempio.

Se grati esser vogliamo

fi tanto beneficio,

andiamo tutti ad incontrarlo; e come

nostro liberatore

sia da noi onorato

con la lingua, e col core:

e benché d'alma valorosa, e bella

l'onor sia poco pregio, è però quello

che si può dar maggiore

alla virtute in terra.

ERGASTO

Oh sciagura dolente, oh caso amaro;

oh piaga immedicabile, e mortale;

oh sempre acerbo, e lagrimevol giorno.

CORO

Qual voce odo d'orror piena, di pianto?

ERGASTO

Stelle nemiche alla salute nostra,

così la fé schernite?

Così il nostro sperar levaste in alto,

perché poscia cadendo,

con maggior pena il precipizio avesse?

CORO

Questi mi par Ergasto: e certo è desso.

ERGASTO

Ma perché il cielo accuso?

Te pur accusa, Ergasto.

Tu solo avvicinasti

l'esca pericolosa

al focile d'amor, tu il percotesti,

e tu sol ne traesti

le faville, ond' è nato

l'incendio inestinguibile, e mortale.

Ma sallo il ciel, se da buon fin mi mossi,

e se fu sol pietà, che mi c'indusse.

Oh sfortunati amanti,

oh misera Amarilli,

oh Titiro infelice, oh orbo padre,

oh dolente Montano,

oh desolata Arcadia, oh noi meschini:

oh, finalmente, misero, e infelice

quant'ho veduto, e veggio,

quanto parlo, quant'odo, e quanto penso.

CORO

Ohimè, qual fia cotesto

sì misero accidente,

che 'n sé comprende ogni miseria nostra?

Andiam, pastori, andiamo

verso di lui, ch'appunto

egli ci vien incontra. Eterni numi,

ah non è tempo ancora

di rallentar lo sdegno?

Dinne Ergasto gentile,

qual fiero caso a lamentar ti mena?

Che piangi?

ERGASTO

Amici cari,

piango la mia, piango la vostra, piango

la ruina d'Arcadia.

CORO

Ohimè che narri?

ERGASTO

È caduto il sostegno

d'ogni nostra speranza.

CORO

Deh parlaci più chiaro.

ERGASTO

La figliuola di Titiro; quel solo

del suo ceppo cadente, e del cadente

padre appoggio, e rampollo;

quell'unica speranza

della nostra salute,

ch'al figlio di Montano era dal cielo

destinata, e promessa,

per liberar con le sue nozze Arcadia;

quella Ninfa celeste,

quella saggia Amarilli,

quell'esempio d'onore,

quel fior di castitate,

ohimè quella; ah mi scoppia

il core a dirlo.

CORO

È morta?

ERGASTO

No; ma sta per morire.

CORO

Ohimè che intendo?

ERGASTO

E nulla ancor intendi;

peggio è che more infame.

CORO

Amarillide infame? E come? Ergasto.

ERGASTO

Trovata con l'adultero, e se quinci

non partite sì tosto,

la vedrete condurre

cattiva al tempio.

CORO

Oh, bella e singolare;

ma troppo malagevole virtute

del sesso femminile. Oh pudicizia

come oggi se' sì rara.

Dunque non si dirà donna pudica

se non quella, che mai

non fu sollecitata?

Oh secolo infelice.

ERGASTO

Veramente potrassi

con gran ragione avere

d'ogn'altra donna l'onestà sospetta,

se disonesta l'onestà si trova.

CORO

Deh, cortese pastor, non ti sia grave

di raccontarci il tutto.

ERGASTO

Io vi dirò. Stamane assai per tempo

venne (come sapete)

il sacerdote al tempio,

con l'infelice padre

della misera ninfa,

da un medesmo pensier ambedue mossi,

d'agevolar co' prieghi

le nozze de' lor figli

da lor bramate tanto.

Per questo solo in un medesmo tempo

fur le vittime offerte,

e fatto il sacrificio

solennemente, e con sì lieti auspici,

che non fur viste mai

né viscere più belle,

né fiamma più sincera, o men turbata,

onde da questi segni

mosso il cieco indovino,

oggi, disse, a Montano.

Sarà il tuo Silvio amante, e la tua figlia

oggi, Titiro, sposa.

Vanne tu tosto preparar le nozze.

Oh insensate, e vane

menti degli indovini; e tu di dentro

non men, che di fuor cieco.

S'a Titiro l'esequie

invece delle nozze avessi detto,

ti potevi ben dir certo indovino.

Già tutti consolati

erano i circostanti, e i vecchi padri

piangean di tenerezza,

e partito era già Titiro, quando

furon nel tempio orribilmente uditi

di subito, e veduti

sinistri auguri, e paventosi segni,

nunzi dell'ira sacra.

Ai quali, ohimè, sì repentini, e fieri,

s'attonito e confuso

restasse ogn'un, dopo sì lieti auguri,

pensate 'l voi, cari pastori. Intanto

s'erano i sacerdoti

nel sacrario maggior soli rinchiusi,

e mentre essi di dentro, e noi di fuori,

lagrimosi, e divoti,

stavamo intenti alle preghiere sante,

ecco il malvagio satiro, che chiede

con molta fretta, e per instante caso

al sacerdote udienza. E perché questa

è, come voi sapete,

mia cura, fui quell'io, che l'introdussi.

Ed egli (ah, ben ha ceffo

da non portar altra novella) disse.

Padri; s'ai vostri voti

non rispondon le vittime, e gli incensi:

se sopra i vostri altari

splende fiamma non pura,

non vi meravigliate: impuro ancora

è quel, che si commette

oggi contra la legge

nell'antro d'Ericina.

Una perfida ninfa

con l'adultero infame ivi profana

a voi la legge, altrui la fede rompe.

Vengan meco i ministri,

mostrerò lor di prenderli sul fatto

agevolmente il modo.

Allora (o mente umana,

come nel tuo destino

se' tu stupida e cieca)

respirarono alquanto

gli afflitti, e buoni padri,

parendo lor, che fosse

trovata la cagion, che pria sospesi

li ebbe a tener nel sacro ufficio infausto:

onde subitamente il sacerdote

al ministro maggior Nicandro impose,

che se n' gisse col Satiro, e cattivi

conducesse ambedue gli amanti al tempio.

Ond'egli accompagnato

da tutto il nostro coro

de' ministri minori,

per quella via, che 'l Satiro avea mostra

tenebrosa, ed obliqua,

si condusse nell'antro.

La giovane infelice

forse dallo splendor delle facelle

d'improvviso assalita, e spaventata,

uscendo fuor d'una riposta cava,

ch'è nel mezzo dell'antro,

di provò di fuggir, come cred'io,

verso cotesta uscita, che fu dianzi

dal Satiro malvagio,

com'e' ci disse, chiusa.

CORO

Ed egli intanto, che facea?

ERGASTO

Partissi

subito che 'l sentiero

ebbe scorto a Nicandro.

Non si può dir, fratelli,

quanto rimase ognuno

stupefatto, ed attonito, vedendo,

che quella era la figlia

di Titiro; la quale

non fu sì tosto presa,

che subito v'accorse;

ma non saprei già dirvi, onde s'uscisse,

l'animoso Mirtillo,

e per ferir Nicandro,

il dardo, ond'era armato,

impetuoso spinse;

e se giungeva il ferro

là 've la mano il destinò, Nicandro

oggi vivo non fora.

Ma in quel medesmo punto,

che drizzò l'uno il colpo,

s'arretrò l'altro; o fosse caso, o fosse

avvedimento accorto,

sfuggì il ferro mortale,

lasciando il petto, che diè luogo, intatto,

e nell'irsuta spoglia

non pur finì quel periglioso colpo;

ma s'intricò, non so dir come, in modo,

che no 'l potendo ricovrar, Mirtillo

restò cattivo anch'egli.

CORO

E di lui che seguì?

ERGASTO

Per altra via

nel condussero al tempio.

CORO

E per far che?

ERGASTO

Per meglio trar da lui

di questo fatto il vero. E chissà? Forse

non merta impunità l'aver tentato

di por man ne' ministri, e 'ncontra loro

la maestà sacerdotale offesa.

Avessi almen potuto

consolarlo, il meschino.

CORO

E perché non potesti?

ERGASTO

Perché vieta la legge

ai ministri minori

di favellar co' rei.

Per questo sol mi sono

dilungato dagli altri;

e per altro sentiero

mi vo condurre al tempio;

e con prieghi, e con lagrime devote

chieder al ciel, ch'a più sereno stato

giri questa oscurissima procella.

Addio, cari pastori,

restate in pace e voi co' prieghi nostri

accompagnate i vostri.

CORO

Così farem, poi che per noi fornito

sarà verso il buon Silvio il nostro a lui

così devoto ufficio.

O dèi del sommo cielo,

deh mostratevi omai

con la pietà, non col furore eterni.

Scena quarta

Corisca.

Cingetemi d'intorno

o trionfanti allori

le vincitrici, e gloriose chiome.

Oggi felicemente

ho nel campo d'Amor pugnato, e vinto.

Oggi il cielo, e la terra,

e la natura, e l'arte,

e la fortuna, e 'l fato,

e gli amici, e i nemici

han per me combattuto.

Anco il perverso Satiro, che tanto

m'ha pur in odio; hammi giovato, come

se parte anch'egli in favorirmi avesse,

quanto meglio dal caso

Mirtillo fu nella spelonca tratto,

che non fu Coridon dal mio consiglio,

per far più verisimile, e più grave

la colpa d'Amarilli: e benché seco

sia preso anco Mirtillo,

ciò non importa; e' fiè ben anco sciolto;

che solo è dell'adultera la pena.

Oh vittoria solenne, oh bel trionfo.

Drizzatemi un trofeo,

amorose menzogne.

Voi sete in questa lingua, in questo petto

forze sopra natura onnipotenti.

Ma che tardi, Corisca?

Non è tempo da starsi.

Allontanati pur, finché la legge

contra la tua rivale oggi s'adempia.

Però che del suo fallo

graverà te per iscolpar sé stessa;

e vorrà forse il sacerdote, prima

che far altro di lei,

saper di ciò per la tua lingua il vero.

Fuggi dunque, Corisca. A gran periglio

va per lingua mendace,

chi non ha il piè fugace.

M'asconderò tra queste selve, e quivi

starò, fin che sia tempo

di venir a goder delle mie gioie.

Oh beata Corisca,

chi vide mai più fortunata impresa?

Scena quinta

Nicandro, Amarilli.

NICANDRO

Ben duro cor avrebbe; o non avrebbe

piuttosto cor, né sentimento umano,

chi non avesse del tuo mal pietate,

misera ninfa; e non sentisse affanno

della sciagura tua tanto maggiore,

quanto men la pensò, chi più la intende.

Che 'l veder sol cattiva una donzella

venerabile in vista, e di sembiante

celeste; e degna a cui consacri il mondo,

per divina beltà, vittime, e tempi,

condur vittima al tempio, è cosa certo

da non veder se non con occhi molli.

Ma chissà poi di te, come se' nata,

ed che fin se' nata; e che se' figlia

di Titiro; e che nuora di Montano

esser dovevi; e ch'ambidue pur sono

questi d'Arcadia i più pregiati, e chiari,

non so se debba dir pastori, o padri,

e che tale, e che tanta, e sì famosa,

e sì vaga donzella, e sì lontana

dal natural confin della tua vita,

così t'appressi al rischio della morte;

chi sa questo, e non piange, e non se n' duole

uomo non è, ma fera in volto umano.

AMARILLI

Se la miseria mia fosse mia colpa,

Nicandro, e fosse, come credi, effetto

di malvagio pensiero,

siccome in vista par d'opra malvagia;

men grave assai mi fora,

che di grave fallire,

fosse pena il morire:

che ben giusto sarebbe,

che dovesse il mio sangue

lavar l'anima immonda,

placar l'ira del cielo,

e dar suo dritto, alla giustizia umana.

Così pur i' potrei

quetar l'anima afflitta,

e con un giusto sentimento interno

di meritata morte,

mortificando i sensi,

avvezzarmi al morire,

e con tranquillo varco

passar fors'anco a più tranquilla vita.

Ma troppo, ohimè, Nicandro,

troppo mi pesa in sì giovane etate,

in sì alta fortuna,

il dover così subito morire,

e morir innocente.

NICANDRO

Piacesse al ciel, che gli uomini piuttosto

avesser contra te, ninfa, peccato,

che tu peccato incontra 'l cielo avessi:

ch'assai più agevolmente oggi potremmo

ristorar te del violato nome,

che lui placar del violato nume.

Ma non so già veder chi t'abbia offesa,

se non te stessa tu, misera ninfa.

Dimmi, non se' tu stata in loco chiuso

trovata con l'adultero? E con lui

sola con solo? E non se' tu promessa

al figlio di Montano? E tu per questo

non hai la fede marital tradita?

Come dunque innocente?

AMARILLI

Eppur in tanto,

e sì grave fallir, contra la legge

non ho peccato, ed innocente sono.

NICANDRO

Contra la legge di natura forse

non hai, ninfa, peccato; ama, se piace;

ma ben hai tu peccato incontra quella

degli uomini, e del cielo; ama, se lice.

AMARILLI

Han peccato per me gli uomini, e 'l cielo,

se pur è ver, che di lassù derivi

ogni nostra ventura:

ch'altri che 'l mio destino

non può voler, che sia

il peccato d'altrui la pena mia.

NICANDRO

Ninfa, che parli? Frena,

frena la lingua da soverchio sdegno

trasportata là, dove

mente devota a gran fatica sale.

Non incolpar le stelle:

che noi soli a noi stessi

fabbri siam pur delle miserie nostre.

AMARILLI

Già nel ciel non accuso

altro, che 'l mio destino empio, e crudele;

ma più del mio destino,

chi m'ha ingannata accuso.

NICANDRO

Dunque te sol, che t'ingannasti, accusa.

AMARILLI

M'ingannai sì, ma nell'inganno altrui.

NICANDRO

Non si fa inganno a cui l'inganno è caro.

AMARILLI

Dunque m'hai tu per impudica tanto?

NICANDRO

Ciò non so dirti; all'opra pure il chiedi.

AMARILLI

Spesso del cor segno fallace è l'opra.

NICANDRO

Pur l'opra solo, e non il cor si vede.

AMARILLI

Con gli occhi della mente il cor si vede.

NICANDRO

Ma ciechi son, se non gli scorge il senso.

AMARILLI

Se ragion no 'l governa, ingiusto è il senso.

NICANDRO

E ingiusta è la ragion, se dubbio è il fatto.

AMARILLI

Comunque sia, so ben che 'l core ho giusto.

NICANDRO

E chi ti trasse altri che tu nell'antro?

AMARILLI

La mia semplicitate, e 'l creder troppo.

NICANDRO

Dunque all'amante l'onestà credesti?

AMARILLI

All'amica infedel, non all'amante.

NICANDRO

A qual amica? All'amorosa voglia?

AMARILLI

Alla suora d'Ormin, che m'ha tradita.

NICANDRO

Oh dolce con l'amante esser tradita.

AMARILLI

Mirtillo entrò, che no 'l sepp'io, nell'antro.

NICANDRO

Come dunque v'entrasti? Ed a qual fine?

AMARILLI

Basta che per Mirtillo io non v'entrai.

NICANDRO

Convinta sei, s'altra cagion non rechi.

AMARILLI

Chiedasi a lui dell'innocenza mia.

NICANDRO

A lui, che fu cagion della tua colpa?

AMARILLI

Ella che mi tradì fede ne faccia.

NICANDRO

E qual fede può far chi non ha fede?

AMARILLI

Io giurerò nel nome di Diana.

NICANDRO

Spergiurato purtroppo hai tu con l'opre,

ninfa; non ti lusingo, e parlo chiaro,

perché poscia confusa al maggior uopo

non abbi a restar tu. Questi son sogni.

Onda di fiume torbido non lava,

né torto cor fa parlar dritto; e dove

il fatto accusa, ogni difesa offende.

Tu la tua castità guardar dovevi

più della luce assai degli occhi tuoi.

Che pur vaneggi? A che te stessa inganni?

AMARILLI

Così dunque morire, ohimè, Nicandro,

così morir debb'io?

Né sarà chi m'ascolti, o mi difenda?

Così da tutti abbandonata, e priva

d'ogni speranza? Accompagnata solo

da un'estrema infelice,

e funesta pietà, che non m'aita?

NICANDRO

Ninfa, queta il tuo core;

e se 'n peccar sì poco saggia fusti,

mostra almen senno in sostener l'affanno

della fatal tua pena.

Drizza gli occhi nel cielo,

se derivi dal cielo.

Tutto quel, che c'incontra,

o di bene, o di male,

sol di lassù deriva; come fiume

nasce da fonte, o da radice pianta;

e quanto qui par male,

dove ogni ben con molto male è misto,

è ben lassù, dov'ogni ben s'annida.

Sallo il gran Giove, a cui pensiero umano

non è nascosto; sallo

il venerabil nume

di quella dèa, di cui ministro i' sono,

quanto di te m'incresca.

E se t'ho col mio dir così trafitta,

ho fatto come suol medica mano

pietosamente acerba,

che va con ferro, o stilo

le latebre tentando

di profonda ferita,

ov'ella è più sospetta, e più mortale.

Quetati dunque omai,

né voler contrastar più lungamente

a quel, ch'è già di te scritto nel cielo.

AMARILLI

Oh sentenza crudele,

ovunque ella sia scritta o 'n cielo, o 'n terra.

Ma in ciel già non è scritta,

ché lassù nota è l'innocenza mia.

Ma che mi val, se pur convien ch'i' mora?

Ahi questo è pure il duro passo: ahi questo

è pur l'amaro calice, Nicandro.

Deh per quella pietà, che tu mi mostri,

non mi condur, ti prego,

sì tosto al tempio: aspetta ancora, aspetta.

NICANDRO

O ninfa, ninfa; a chi 'l morir è grave

ogni momento è morte.

Che tardi tu il tuo male?

Altro mal non ha morte,

che 'l pensar a morire.

E chi morir pur deve,

quanto più tosto more,

tanto più tosto al suo morir s'invola.

AMARILLI

Mi verrà forse alcun soccorso intanto.

Padre mio, caro padre,

e tu ancor m'abbandoni?

Padre d'unica figlia,

così morir mi lasci, e non m'aiti?

Almen non mi negar gli ultimi baci.

Ferirà pur duo petti un ferro solo.

Verserà pur la piaga

di tua figlia il tuo sangue.

Padre un tempo sì dolce, e caro nome,

ch'invocar non soleva indarno mai,

così le nozze fai

della tua cara figlia?

Sposa il mattino, e vittima la sera?

NICANDRO

Deh non penar più, ninfa.

A che tormenti indarno

e te stessa, ed altrui?

È tempo omai, che ti conduca al tempio,

né 'l mio debito vuol, che più s'indugi.

AMARILLI

Dunque addio, care selve,

care mie selve, addio,

ricevete questi ultimi sospiri,

finché sciolta da ferro ingiusto, e crudo

torni la mia fredd'ombra

alle vostr'ombre amate.

Che nel penoso inferno

non può gir innocente,

né può star tra beati

disperata, e dolente.

Oh Mirtillo, Mirtillo,

ben fu misero il dì, che pria ti vidi,

e 'l dì; che pria ti piacqui;

poi che la vita mia,

più cara a te, che la tua vita assai:

così pur non dovea

per altro esser tua vita,

che per esser cagion della mia morte.

Così (chi 'l crederia)

per te dannata more

colei, che ti fu cruda

per viver innocente.

O per me troppo ardente,

e per te poco ardito. Era pur meglio

o peccar, o fuggire.

In ogni modo i' moro, e senza colpa,

e senza frutto; e senza te, cor mio.

Mi moro, ohimè, Mirtillo.

NICANDRO

Certo ella more.

Oh meschina: accorrete,

sostenetela meco. Oh fiero caso,

nel nome di Mirtillo

ha finito il suo corso,

e l'amor, e 'l dolor nella sua morte

ha prevenuto il ferro.

Oh misera donzella.

Pur vive ancora; e sento

al palpitante cor segni di vita.

Portiamla al fonte qui vicino: forse

rivocheremo in lei,

con l'onda fresca gli smarriti spirti.

Ma chissà, che non sia

opra di crudeltà l'esser pietoso,

a chi muor di dolore

per non morir di ferro?

Comunque sia, pur si soccorra; e quello

facciasi, che conviene

alla pietà presente,

che del futuro sol presago è 'l cielo.

Scena sesta

Coro di Cacciatori, coro di Pastori con Silvio.

CORO DI CACCIATORI

O fanciul glorioso,

vera stirpe d'Alcide,

che fere già sì mostruose ancide.

CORO DI PASTORI

O fanciul glorioso,

per cui dell'Erimanto

giace la fera superata, e spenta,

che parea viva insuperabil tanto.

Ecco l'orribil teschio,

che così morto par che morte spiri.

Questo è 'l chiaro trofeo;

questa la nobilissima fatica

del nostro semideo.

Celebrate, pastori, il suo gran nome,

e questo dì tra noi

sempre solenne sia, sempre festoso.

CORO DI CACCIATORI

O fanciul glorioso,

vera stirpe d'Alcide,

che fere già sì mostruose ancide.

CORO DI PASTORI

O fanciul glorioso,

che sprezzi per altrui la propria vita,

questo, è 'l vero cammino

di poggiar a virtute;

però ch'innanzi a lei,

la fatica, e 'l sudor poser gli dèi.

Chi vuol goder degli agi,

soffra prima i disagi.

Né da riposo infruttuoso, e vile,

che 'l faticar aborre;

ma da fatica, che virtù precorre,

nasce il vero riposo.

CORO DI CACCIATORI

O fanciul glorioso,

vera stirpe d'Alcide,

che fere già sì mostruose ancide.

CORO DI PASTORI

O fanciul glorioso,

per cui le ricche piagge,

prive già di cultura, e di cultori,

han ricovrati i lor fecondi onori.

Va' pur sicuro, e prendi

omai, bifolco, il neghittoso aratro.

Spargi il gravido seme,

e 'l caro frutto in sua stagione attendi.

Fiero piè, fiero dente,

non fiè più che te 'l tronchi, o te 'l calpesti,

né sarai per sostegno

della vita a te grave, altrui noioso.

CORO DI CACCIATORI

O fanciul glorioso,

vera stirpe d'Alcide,

che fere già sì mostruose ancide.

CORO DI PASTORI

O fanciul glorioso,

come presago di tua gloria il cielo

alla cui gloria arride. Era tal forse,

il famoso cignale,

che vivo Ercole vinse. E tal l'avresti

forse ancor tu, s'egli di te non fosse

così prima fatica,

come fu già del tuo grand'avo terza.

Ma con le fere scherza

la virtude giovinetta ancora,

per far de' mostri in più matura etate

strazio poi sanguinoso.

CORO DI CACCIATORI

O fanciul glorioso,

vera stirpe d'Alcide,

che fere già sì mostruose ancide.

CORO DI PASTORI

O fanciul glorioso,

come il valor con la pietate accoppi.

Ecco, Cintia, ecco il voto

del tuo Silvio devoto.

Mira il capo superbo,

che quinci, e quindi in tuo disprezzo s'arma

di curvo, e bianco dente,

ch'emulo par delle tue corna altere.

Dunque, possente dèa,

se tu drizzasti del garzon lo strale,

ben dessi a te di sua vittoria il pregio,

per te vittorioso.

CORO DI CACCIATORI

O fanciul glorioso,

vera stirpe d'Alcide,

che fere già sì mostruose ancide.

Scena settima

Coridone.

Son ben io stato infin' a qui sospeso,

me 'l prestar fede a quel, che di Corisca

testé m'ha detto il Satiro: temendo

non sua favola fosse a danno mio,

così da lui malignamente finta:

troppo dal ver parendomi lontano,

che nel medesmo loco, ov'ella meco

esser dovea (se non è falso quello,

che da sua parte mi recò Lisetta)

sì repentinamente oggi sia stata

con l'adultero colta. Ma, nel vero

mi par gran segno, e mi perturba assai

la bocca di quest'antro, in quella guisa,

ch'egli appunto m'ha detto, e che si vede

da sì grave petron turata, e chiusa.

Oh Corisca, Corisca. I' t'ho sentita

troppo bene alla mano, che 'incappando

tu così spesso, alfin ti conveniva

cader senza rilievo. Tanti inganni,

tante perfidie tue, tante menzogne,

certo dovean di sì mortal caduta

esser veri presagi, a chi non fosse

stato privo di mente, e d'amor cieco

buon per me, che tardai. Fu gran ventura

che 'l padre mio mi trattenesse (sciocco)

quel, che mi parve un fiero intoppo allora.

Che se veniva al tempo, che prescritto

da Lisetta mi fu, certo poteva

qualche strano incidente oggi incontrarmi.

Ma che farò? Debb'io di sdegno armato

ricorrer'agli oltraggi? Alle vendette?

No, che troppo l'onoro. Anzi, se voglio

discorrer sanamente, è caso degno

piuttosto di pietà che di vendetta.

Avrai dunque pietà di chi t'inganna?

Ingannata ha sé stessa; che lasciando

un, che con pura fé l'ha sempre amata,

ad un vil pastorel s'è data in preda

vagabondo, e straniero; che domani

sarà di lei più perfido, e bugiardo.

Che? Debb'io dunque vendicar l'oltraggio,

che seco porta la vendetta? E l'ira

supera sì, che fa pietà lo sdegno?

Pur t'ha schernito: anzi onorato; ed io

ho ben onde pregiarmi, or che mi sprezza

femmina, ch'al suo mal sempre s'appiglia,

e le leggi non sa né dell'amare,

né dell'esser amata; e che 'l men degno

sempre gradisce, e 'l più gentile aborre.

Ma dimmi, Coridon, se non ti move

lo sdegno del disprezzo a vendicarti,

com'esser può, che non ti mova almeno

il dolor della perdita, e del danno?

Non ho perduta lei, che mia non era;

ho ricovrato me, ch'era d'altrui.

Né il restar senza femmina sì vana,

e sì pronta, e sì agevole a cangiarsi,

perdita si può dire. E finalmente

che cosa ho io perduto? Una bellezza

senza onestate; un volto senza senno,

un petto senza core; un cor senz'alma;

un'alma senza fede; un'ombra vana;

una larva; un cadavero d'Amore,

che doman sarà fracido, e putente.

E questa si dée dir perdita? Acquisto

molto ben caro, e fortunato ancora.

Mancheranno le femmine, se manca

Corisca? Mancheranno a Coridone

ninfe di lei più degne, e più leggiadre?

Mancherà ben a lei fedele amante

com'era Coridon, di cui fu indegna.

Or se volessi far quel che di lei

m'ha consigliato il Satiro, so certo,

che se la fede a me già da lei data

oggi accusassi, i' la farei morire

ma non ho già sì basso cor, che basti

mobilità di femmina a turbarlo.

Troppo felice, ed onorata fora

la femminil perfidia, se con pena

di cor virile, e con turbar la pace,

e la felicità d'alma ben nata,

s'avesse a vendicar. Oggi Corisca

per me dunque si viva, o, per dir meglio,

per me non moia, e per altrui si viva,

sarà la vita sua vendetta mia,

viva l'infamia sua, viva al suo drudo.

Poi ch'è tal, ch'io non l'odio; ed ho piuttosto

pietà di lei, che gelosia di lui.

Scena ottava

Silvio.

Oh dèa, che non se' dèa se non di gente

vana, oziosa, e cieca,

che con impura mente,

e con religion stolta, e profana,

ti sacra altari, e tempi.

Ma che tempi diss'io? Piuttosto asili

d'opre sozze, e nefande,

per onestar la loro

empia disonestate,

col titolo famoso

della tua deitate.

E tu, sordida dèa;

perché le tue vergogne,

nelle vergogne altrui si veggan meno,

rallenti lor d'ogni lascivia il freno.

Nemica di ragione:

macchinatrice sol d'opre furtive:

corruttela dell'alme:

calamità degli uomini, e del mondo.

Figlia del mar ben degna,

e degnamente nata

di quel perfido mostro;

che con aura di speme allettatrice,

prima lusinghi, e poi

movi ne' petti umani

tante fiere procelle

d'impetuosi, e torbidi desiri,

di pianti, e di sospiri,

che madre di tempeste, e di furore

devria chiamarti il mondo,

e non madre d'Amore.

Ecco in quanta miseria

tu hai precipitati

que' duo miseri amanti.

Or va' tu, che ti vanti

d'esser onnipotente:

va' tu, perfida dèa; salva se puoi

la vita a quella ninfa,

che tu con tue dolcezze

avvelenate hai pur condotta a morte.

Oh per me fortunato

quel dì, che ti sacrai l'animo casto,

Cintia, mia sola dèa:

santa mia deità, mio vero nume;

e così nume in terra

dell'anime più belle,

come lume del cielo,

più bel dell'altre stelle.

Quanto son più lodevoli, e sicuri

de' cari amici tuoi l'opre, e gli studi,

che non son quei degli infelici servi

di Venere impudica.

Uccidono i cinghiali i tuoi devoti;

ma i devoti di lei, miseramente

son dai cinghiali uccisi.

Oh arco mia possanza, e mio diletto:

strali, invitte mie forze:

or venga in prova; venga

quella vana fantasima d'Amore

con le sue armi effeminate: venga

al paragon di voi,

che ferite, e pungete.

Ma che? Troppo t'onoro,

vil pargoletto imbelle;

e perché tu m'intenda,

ad alta voce il dico:

la ferza a castigarti

sola mi basta.

ECO

Basta.

SILVIO

Chi se' tu che rispondi?

Eco, o piuttosto Amor, che così d'Eco

imita il sono?

ECO

Sono.

SILVIO

Appunto i' ti volea: ma dimmi, certo

se' tu poi desso?

ECO

Esso.

SILVIO

Il figlio di colei, che per Adone

già si miseramente ardea?

ECO

Dèa.

SILVIO

Come ti piace, su: di quella dèa

concubina di Marte, che le stelle

di sua lascivia ammorba,

e gli elementi?

ECO

Menti.

SILVIO

Oh quanto è lieve il cinguettare al vento.

Vien' fuori, vien'; né star ascoso.

ECO

Oso.

SILVIO

Ed io t'ho per vigliacco: ma di lei

se' legittimo figlio,

oppur bastardo?

ECO

Ardo.

SILVIO

Oh buon: né figlio di Vulcan per questo

già ti cred'io.

ECO

Dio.

SILVIO

E dio di che? Del core immondo?

ECO

Mondo.

SILVIO

Gnaffé, del'universo?

Quel terribil garzon: di chi ti sprezza

vindice sì possente

e sì severo?

ECO

Vero.

SILVIO

E quali son le pene,

ch'a' tuoi rubelli, e contumaci dai

cotanto amare?

ECO

Amare.

SILVIO

E di me, che ti sprezzo, che farai,

se 'l cor più duro ho di diamante?

ECO

Amante.

SILVIO

Amante me? Se' folle.

Quando sarà che 'n questo cor pudico

Amor alloggi?

ECO

Oggi.

SILVIO

Dunque sì tosto s'innamora?

ECO

Ora.

SILVIO

E qual sarà colei,

che far potrà, ch'oggi l'adori?

ECO

Dori.

SILVIO

Dorinda forse, o bambo

vuoi dir in tua mozza favella.

ECO

Ella.

SILVIO

Dorinda ch'odio più, che lupo agnella.

Chi farà forza in questo

al voler mio?

ECO

Io.

SILVIO

E come? E con qual armi? E con qual arco?

Forse col tuo?

ECO

Col tuo.

SILVIO

Come col mio? Vuoi dir quando l'avrai

con la lascivia tua corrotto?

ECO

Rotto.

SILVIO

E le mie armi rotte

mi faran guerra? E romperailo tu?

ECO

Tu.

SILVIO

Oh questo sì mi fa veder affatto

che tu se' ubriaco.

Va' dormi va': ma dimmi,

dove fien queste meraviglie? Qui?

ECO

Qui.

SILVIO

Oh sciocco ed io mi parto.

Vedi come se' stato oggi indovino,

pien di vino.

ECO

Divino.

SILVIO

Ma veggio, o veder parmi,

colà posando in quel cespuglio, starsi

un non so che di bigio,

ch'a lupo s'assomiglia.

Ben mi par desso; ed è per certo il lupo.

Oh, come è smisurato: oh per me giorno

destinato alle prede: oh dèa cortese,

che favori son questi? In un dì solo

trionfar di due fere?

Ma che tardo, mia dèa?

Ecco, nel nome tuo questa saetta

scelgo per la più rapida, e pungente

di quante n'abbia la faretra mia.

A te la raccomando:

levala tu, saettatrice eterna,

ci man della fortuna; e nella fera,

col tuo nume infallibile la drizza;

a cui fo' voto di sacrar la spoglia.

E nel tuo nome scocco.

Oh bellissimo colpo.

Colpo caduto appunto,

dove l'occhio, e la man l'ha destinato.

Deh avessi il mio dardo,

per ispedirlo a un tratto

prima, che mi s'involi, e si rinselvi;

ma non avendo altr'arme,

il ferirò con quelle della terra.

Ben rari sono in questa chiostra i sassi,

ch'a pena un qui ne trovo:

ma che vo io cercando

armi, s'armato sono?

Se quest'altro quadrello

il va a ferir nel vivo. Ohimè che veggio?

Ohimè, Silvio infelice,

ohimè, che hai tu fatto?

Hai ferito un pastor sotto la scorza

d'un lupo. Oh fiero caso; oh caso acerbo

da viver sempre misero, e dolente:

e mi par di conoscerlo il meschino,

e Linco è seco, che 'l sostene, e regge.

Oh funesta saetta, oh voto infausto;

e tu, che la scorgesti,

e tu, che l'esaudisti,

nume di lei più infausto, e più funesto.

Io dunque reo dell'altrui sangue? Io dunque

cagion de l'altrui morte? Io che fui dianzi,

per la salute altrui,

sì largo sprezzator della mia vita,

sprezzator del mio sangue?

Va', getta l'armi, e senza gloria vivi,

profano cacciator, profano arciero.

Ma ecco lo infelice,

di te però men infelice assai.

Scena nona

Linco. Silvio. Dorinda.

LINCO

Reggiti, figlia mia,

reggiti tutta pur su queste braccia

infelice Dorinda.

SILVIO

Ohimè. Dorinda?

Son morto.

DORINDA

Oh Linco, Linco,

oh mio secondo padre.

SILVIO

È Dorinda per certo; ahi voce, ahi vista.

DORINDA

Ben era, Linco, il sostener Dorinda

ufficio a te fatale.

Accogliesti i singulti

primi del mio natale,

accorrai tu fors'anco

gli ultimi della morte.

E coteste tue braccia, che pietose,

mi fur già culla, or mi saran feretro.

LINCO

Oh figlia a me più cara,

che se figlia mi fussi; io non ti posso

risponder; che 'l dolore

ogni mio detto in lagrime dissolve.

SILVIO

Oh terra, che non t'apri, e non m'inghiotti?

DORINDA

Deh ferma il passo, e 'l pianto,

pietosissimo Linco;

che l'un cresce il dolor, l'altro la piaga.

SILVIO

Ahi che dura mercede

ricevi del tuo amor, misera Ninfa.

LINCO

Fa' buon animo, figlia,

che la tua piaga non sarà mortale.

DORINDA

Ma Dorinda mortale

sarà ben tosto morta.

Sapessi almen, chi m'ha così piagata.

LINCO

Curiam pur la ferita, e non l'offesa,

che per vendetta mai non sanò piaga.

SILVIO

Ma che fai qui? Che tardi?

Soffrirai tu ch'ella ti veggia? Avrai

tanto cor, tanta fronte?

Fuggi la pena meritata, Silvio,

di quella vista ultrice.

Fuggi il giusto coltel della sua voce.

Ah che non posso, e non so come, o quale

necessità fatale

a forza mi ritegna, e mi sospinga

più verso quel, che più fuggir devrei.

DORINDA

Così dunque debb'io

morir senza saper, chi mi dà morte?

LINCO

Silvio t'ha dato morte.

DORINDA

Silvio? Ohimè, che ne sai?

LINCO

Riconosco il suo strale.

DORINDA

O dolce uscir di vita,

se Silvio m'ha ferita.

LINCO

Eccolo appunto in atto,

ed in sembiante tal, che da sé stesso

par che s'accusi. Or sia lodato il cielo,

Silvio, che se' pur ito

dimenandoti sì per queste selve

con cotesto tuo arco,

e cotesti tuoi strali onnipotenti,

ch'hai fatto un colpo da maestro. Dimmi,

tu, che vivi da Silvio, e non da Linco,

questo colpo, che hai fatto sì leggiadro,

è fors'egli da Linco, oppur da Silvio?

Oh fanciul troppo savio,

avessi tu creduto

a questo pazzo vecchio.

Rispondimi, infelice,

qual vita fia la tua, se costei more?

So ben, che tu dirai.

Ch'errasti, e di ferir credesti un lupo,

quasi non sia tua colpa il saettare

da fanciul vagabondo, e non curante,

senza veder s'uomo saetti, o fera.

Qual caprar, per tua vita, o qual bifolco

non vedesti coperto

di così fatte spoglie? Eh Silvio, Silvio,

chi coglie acerbo il senno,

maturo sempre ha d'ignoranza il frutto.

Credi tu, garzon vano,

che questo caso, a caso oggi ti sia

così incontrato? Oh male avvisi.

Senza nume divin questi accidenti

sì mostruosi, e novi

non avvengono agli uomini. Non vedi

che 'l cielo è fastidito

di cotesto tuo tanto

fastoso, insopportabile disprezzo

d'amor, del mondo, e d'ogn'affetto umano?

Non piace ai sommi dèi

l'aver compagni in terra,

né piace lor nella virtute ancora

tanta alterezza. Or tu se' muto sì?

Ch'eri pur dianzi intollerabil tanto.

DORINDA

Silvio, lascia dir Linco;

ch'egli non sa quale in virtù d'Amore,

tu abbi signoria sovra Dorinda

e di vita, e di morte.

Se tu mi saettasti,

quel ch'è tuo saettasti,

e feristi quel segno,

ch'è proprio del tuo strale.

Quelle mani a ferirmi,

han seguito lo stil de' tuo' begli occhi.

Ecco, Silvio, colei ch'in odio hai tanto;

eccola in quella guisa,

che la volevi appunto.

Bramastila ferir, ferita l'hai;

bramastila tua preda, eccola preda;

bramastila alfin morta, eccola a morte.

Che vuoi più tu da lei? Che ti può dare

più di questo Dorinda? Ah garzon crudo:

ah cor senza pietà. Tu non credesti

la piaga, che per te mi fece Amore,

puoi questa or tu negar della tua mano?

Non hai creduto il sangue,

ch'i' versava dagli occhi;

crederai questo, che 'l mio fianco versa?

Ma se con la pietà non è in te spenta

gentilezza, e valor, che teco nacque,

non mi negar, ti prego

(anima cruda sì, ma però bella)

non mi negar all'ultimo sospiro

un tuo solo sospir. Beata morte;

se l'addolcissi tu con questa sola

voce cortese, e pia,

va' in pace, anima mia.

SILVIO

Dorinda, ah dirò mia, se mia non sei,

se non quando ti perdo? E quando morte

da me ricevi; e mia non fosti allora,

ch'i' ti potei dar vita?

Pur mia dirò; che mia

sarai malgrado di mia dura sorte:

e se mia non sarai con la tua vita,

sarai con la mia morte:

tutto quel ch'in me vedi

a vendicarti è pronto.

Con quest'armi t'ancisi,

e tu con queste ancor m'anciderai.

Ti fui crudele, ed io

altro da te, che crudeltà non bramo.

Ti disprezzai superbo;

ecco, piegando le ginocchia a terra,

riverente t'adoro,

e ti cheggio perdon, ma non già vita.

Ecco gli strali, e l'arco;

ma non ferir già tu gli occhi, o le mani

colpevoli ministri

d'innocente voler; ferisci il petto,

ferisci questo mostro

di pietate, e d'Amor aspro nemico,

ferisci questo cor, che ti fu crudo:

eccoti il petto ignudo.

DORINDA

Ferir quel petto, Silvio?

Non bisognava agli occhi miei scovrirlo,

s'avevi pur desio, ch'io te 'l ferissi.

Oh bellissimo scoglio,

già dall'onda, e dal vento

delle lagrime mie, de' miei sospiri

sì spesso in van percosso.

È pur ver, che tu spiri?

E che senti pietate? Oppur m'inganno?

Ma sii tu pure o petto molle, o marmo,

già non vo', che m'inganni

d'un candido alabastro il bel sembiante,

come quel d'una fera

oggi ingannato ha il tuo signore, e mio.

Ferir io te? Te pur ferisca Amore:

che vendetta maggiore

non so bramar, che di vederti amante.

Sia benedetto il dì, che da prima arsi:

benedette le lagrime, e i martìri:

di voi lodar, non vendicar mi voglio.

Ma tu, Silvio cortese,

che t'inchini a colei,

di cui tu signor sei,

deh non istar in atto

di servo, o se pur servo

di Dorinda esser vuoi,

ergiti a' i cenni suoi.

Questo sia di tua fede il primo pegno;

il secondo, che vivi.

Sia pur di me quel che nel cielo è scritto;

in te vivrà il cor mio,

né pur che vivi tu, morir poss'io.

E se 'ngiusto ti par, ch'oggi impunita

resti la mia ferita,

chi la fe' si punisca:

fella quell'arco: e sol quell'arco pera.

Sovra quell'omicida

cada la pena, ed egli sol s'ancida.

LINCO

Oh sentenza giustissima, e cortese.

SILVIO

E così fia, tu dunque

la pena pagherai legno funesto.

E perché tu dell'altrui vita il filo

mai più non rompa, ecco te rompo, e snervo;

e qual fosti alla selva

ti rendo inutil tronco.

E voi, strali di lui, che 'l fianco aperse

della mia cara donna; e per natura,

e per malvagità forse fratelli,

non rimarrete interi,

non più strali, o quadrella,

ma verghe invan pennute, invano armate

ferri tarpati, e disarmati vanni.

Ben me 'l dicesti, Amor, tra quelle frondi

in suon d'Eco indovina.

Oh nume domator d'uomini, e dèi,

già nemico, or signore

di tutti i pensier miei;

se la tua gloria stimi

d'aver domato un cor superbo, e duro,

difendimi, ti prego,

dall'empio stral di morte,

che con un colpo solo

anciderà Dorinda, e con Dorinda

Silvio da te pur vinto:

così morte crudel, se costei more

trionferà del trionfante Amore.

LINCO

Così feriti ambedue sete. Oh piaghe,

e fortunate, e care,

ma senza fine amare,

se questa di Dorinda oggi non sana:

dunque andiamo a sanarla.

DORINDA

Deh, Linco mio, non mi condur, ti prego,

con queste spoglie alle paterne case.

SILVIO

Tu dunque in altro albergo,

Dorinda, poserai, che 'n quel di Silvio?

Certo nelle mie case

o viva, o morta, oggi sarai mia sposa;

e teco sarà Silvio o vivo, o morto.

LINCO

E come a tempo, or ch'Amarilli ha spento

e le nozze, e la vita, e l'onestate.

Oh coppia benedetta: oh sommi dèi,

date con una sola

salute a duo la vita.

DORINDA

Silvio, come son lassa, appena posso

reggermi, ohimè, su questo fianco offeso.

SILVIO

Sta' di buon cor, ch'a questo

si troverà rimedio: a noi sarai

tu cara soma, e noi a te sostegno.

Linco, dammi la mano.

LINCO

Eccola pronta.

SILVIO

Tienla ben ferma, e del tuo braccio, e mio

a lei si faccia seggio.

Tu, Dorinda, qui posa:

e quinci col tuo destro

braccio il collo di Linco, e quindi il mio

cingi col tuo sinistro: e sì t'adatta

soavemente, che 'l ferito fianco

non se ne dolga.

DORINDA

Ahi punta

crudel, che mi trafigge.

SILVIO

A tuo bell'agio

acconciati, ben mio.

DORINDA

Or mi par di star bene.

SILVIO

Linco, va' col piè fermo.

LINCO

E tu col braccio

non vacillar; ma va' diritto, e sodo,

che ti bisogna, sai? Questo è ben altro

trionfar, che d'un teschio.

Dimmi, Dorinda mia: come ti pugne

forte lo stral?

DORINDA

Mi pugne, sì, cor mio

ma nelle braccia tue

l'esser punta m'è caro, e 'l morir dolce.

CORO

Oh bella età dell'oro,

quand'era cibo il latte

del pargoletto mondo, e culla il bosco;

e i cari parti loro

godean le greggi intatte,

né temea il mondo ancor ferro, né tosco.

Pensier torbido, e fosco

allor non facea velo

al sol di luce eterna.

Or la ragion, che verna

tra le nubi del senso, ha chiuso il cielo;

ond'è ch'il peregrino

va l'altrui terra, e 'l mar turbando il pino.

Quel suon fastoso, e vano:

quell'inutil soggetto

di lusinghe, di titoli, e d'inganno,

c'onor dal volgo insano

indegnamente è detto;

non era ancor degli animi tiranno.

Ma sostener affanno

per le vere dolcezze,

tra i boschi, e tra le gregge

la fede aver per legge,

fu di quell'alme al ben oprar avvezze.

Cura d'onor felice,

cui dettava onestà, piaccia se lice.

Allor tra prati, e linfe

gli scherzi, e le carole

di legittimo amor furon le faci.

Avean pastori, e ninfe

il cor nelle parole;

dava lor Imeneo le gioie, e i baci

più dolci, e più tenaci.

Un sol godeva ignude

d'Amor le vive rose:

furtivo amante ascose

le trovò sempre, ed aspre voglie, e crude,

o in antro, o in selva, o in lago,

ed era un nome sol marito, e vago.

Secol rio, che velasti,

co' tuoi sozzi diletti,

il bel dell'alma; ed a nudrir la sete

dei desiri insegnasti

co' sembianti ristretti,

sfrenando poi l'impurità segrete.

Così qual tesa rete

tra fiori, e fronde sparte,

celi pensier lascivi

con atti santi, e schivi;

bontà stimi il parer, la vita un'arte:

né curi (e parti onore)

che furto sia, pur che s'asconda, amore.

Ma tu, deh spirti egregi

forma ne' petti nostri

verace ONOR, delle grand'alme donno.

Oh regnator de' regi,

deh torna in questi chiostri,

che senza te beati esser non ponno.

Destin dal mortal sonno

tuoi stimoli potenti

chi per indegna, e bassa

voglia seguir te lassa,

e lassa il pregio dell'antiche genti.

Speriam, che 'l mal fa tregua

talor, se speme in noi non si dilegua.

Speriam, che 'l sol cadente anco rinasce.

E 'l ciel quando men luce

l'aspettato seren spesso n'adduce.

Atto quinto
Scena prima

Uranio. Carino.

URANIO

Per tutto è buona stanza, ov'altri goda,

ed ogni stanza al valent'uomo è patria.

CARINO

Gli è vero, Uranio, e troppo ben per prova

te 'l so dir io, che le paterne case

giovinetto lasciando, e d'altro vago,

che di pascer armenti, o fender solco,

or qua, or là peregrinando; alfine

torno canuto, onde partii già biondo.

Pur è soave cosa a chi del tutto

non è privo di senso il patrio nido:

che diè natura al nascimento umano

verso il caro paese, ov'altri è nato

un non so che di non inteso affetto,

che sempre vive, e non invecchia mai.

Come la calamita, ancor che lunge

il sagace nocchier la porti errando,

or dove nasce, or dove more il sole,

quell'occulta virtute ond'ella mira

la tramontana sua, non perde mai:

così chi va lontan dalla sua patria;

benché molto s'aggiri, e spesse volte

in peregrina terra ancor s'annidi;

quel naturale amor sempre ritiene,

che pur l'inchina alle natie contrade.

Oh da me più d'ogn'altra amata, e cara

più d'ogn'altra gentil terra d'Arcadia,

che col piè tocco, e con la mente inchino:

se ne' confini tuoi, madre gentile,

foss'io giunto a chiusi occhi, anco t'avrei

troppo ben conosciuto. Così tosto

m'è corso per le vene un certo amico

consentimento incognito, e latente,

sì pien di tenerezza, e di diletto,

che l'ha sentito in ogni fibra il sangue.

Tu dunque, Uranio mio, se del cammino

mi se' stato compagno, e del disagio,

ben è ragion, che nel gioire ancora

delle dolcezze mie tu m'accompagni.

URANIO

Del disagio compagno, e non del frutto

stato ti son, che tu se' giunto omai

nella tua terra; ove posar le stanche

membra potrai, e più la stanca mente.

Ma io, che giungo peregrino, e tanto

dal mio povero albergo, e dalla mia

più povera, e smarrita famigliuola

dilungato mi son, teco traendo

per lunga via l'affaticato fianco;

posso ben ristorar l'afflitte membra,

ma non l'afflitta mente, a quel pensando,

che m'ho lasciato addietro; e quanto ancora

d'aspro cammin per riposar m'avanza.

Né so qual altro in questa età canuta

m'avesse se non tu, d'Elide tratto,

senza saper della cagion, che mosso

t'abbia a condurmi in sì remota parte.

CARINO

Tu sai, che 'l mio dolcissimo Mirtillo,

che 'l ciel mi diè per figlio, infermo venne

qui per sanarsi: e già passati sono

duo mesi, e più fors'anco, il mio consiglio,

anzi quel dell'oracolo, seguendo,

che sol potea sanarlo il ciel d'Arcadia.

Io, che veder lontan pegno sì caro

lungamente non posso, a quella stessa

fatal voce ricorsi, a quella chiesi:

del bramato ritorno anco consiglio:

la qual rispose in cotal guisa appunto.

Torna all'antica patria, ove felice

sarai col tuo dolcissimo Mirtillo:

però, ch'ivi a gran cose il ciel sortillo;

ma fuor d'Arcadia il ciò ridir non lice.

Tu dunque, o fedelissimo compagno,

diletto Uranio mio, che meco a parte

d'ogni fortuna mia se' stato sempre;

posa le membra pur, ch'avrai ben onde

posar anco la mente. Ogni mia sorte,

s'ella pur fia, come l'addita il cielo,

teco sarà comune. Indarno fora

di sua felicità lieto Carino,

se si dolesse Uranio.

URANIO

Ogni fatica,

che sia fatta per te, pur che t'aggradi,

sempre, Carino mio, seco ha il suo premio.

Ma qual fu la cagion, che fe' lasciarti,

se t'è sì caro, il tuo natio paese?

CARINO

Musico spirto in giovanil vaghezza

d'acquistar fama, ov'è più chiaro il grido,

ch'avido anch'io di peregrina gloria,

sdegnai, che sola mi lodasse, e sola

m'udisse Arcadia, la mia terra; quasi

del mio crescente stil termine angusto.

E colà venni, ov'è sì chiaro il nome

d'Elide, e Pisa, e fa sì chiaro altrui.

Quivi il famoso EGON di lauro adorno

vidi: poi d'ostro, e di virtù pur sempre:

sì che Febo sembrava: ond'io devoto

al suo nome sacrai la cetra, e 'l core.

E 'n quella parte, ove la gloria alberga,

ben mi dovea bastar d'esser omai

giunto a quel segno, ov'aspirò il mio core;

se come il ciel mi feo felice in terra,

così conoscitor, così custode

di mia felicità fatto m'avesse.

Come poi per veder Argo, e Micene

lasciassi Elide, e Pisa; e quivi fussi

adorator di deità terrena,

con tutto quel, che 'n servitù soffersi;

troppo noiosa istoria a te l'udirlo,

a me dolente il raccontarlo fora.

Ti dirò sol, che perdei l'opra, e 'l frutto.

Scrissi, piansi, cantai, arsi, gelai,

corsi, stetti, sostenni, or tristo, or lieto,

or alto, or basso, or vilipeso, or caro.

E come il ferro delfico strumento,

or d'impresa sublime, or d'opra vile,

non temei risco, e non schivai fatica.

Tutto fei, nulla fui. Per cangiar loco,

stato, vita, pensier, costumi, e pelo,

mai non cangiai fortuna. Alfin conobbi,

e sospirai la libertà primiera.

E dopo tanti strazi Argo lasciando,

e le grandezze di miseria piene,

tornai di Pisa ai riposati alberghi:

dove, mercé di provvidenza eterna,

del mio caro Mirtillo acquisto fei,

consolator d'ogni passata noia.

URANIO

Oh mille volte fortunato, e mille

chi sa por meta a suoi pensieri in tanto,

che per vana speranza immoderata,

di moderato ben non perde il frutto.

CARINO

Ma chi creduto avria di venir meno

tra le grandezze, e 'mpoverir nell'oro?

I' mi pensai, che ne' reali alberghi

fossero tanto più le genti umane,

quant'esse han più di tutto quel dovizia,

ond'è l'umanità sì nobil fregio.

Ma vi trovai tutto 'l contrario, Uranio.

Gente di nome, e di parlar cortese;

ma d'opre scarsa, e di pietà nemica.

Gente placida in vista, e mansueta;

ma più del cupo mar tumida, e fera.

Gente sol d'apparenza; in cui se miri

viso di carità, mente d'invidia

poi trovi; e 'n dritto sguardo animo bieco;

e minor fede allor, che più lusinga.

Quel, ch'altrove è virtù, quivi è difetto

dir vero: oprar non torto; amar non finto,

pietà sincera; inviolabil fede;

e di core, e di man vita innocente,

stiman d'animo vil, di basso ingegno,

sciocchezza, e vanità degna di riso.

L'ingannare: il mentir; la frode; il furto

e la rapina di pietà vestita;

crescer col danno, e precipizio altrui,

e far a sé dell'altrui biasmo onore,

son le virtù di quella gente infida.

Non merto; non valor; non riverenza,

né d'età, né di grado. Né di legge;

non freno di vergogna; non rispetto,

né d'amor, né di sangue non memoria

di ricevuto ben; né finalmente

cosa sì venerabile, o sì santa,

o sì giusta esser può, ch'a quella vasta

cupidigia d'onori; a quella ingorda

fame d'avere inviolabil sia.

Or io, ch'incauto, e di lor arti ignaro

sempre mi vissi; e portai scritto in fronte

il mio pensiero, e disvelato il core,

tu puoi pensar s'a non sospetti strali

d'invida gente fui scoperto segno.

URANIO

Or chi dirà d'esser felice in terra,

se tanto alla virtù noce l'invidia?

CARINO

Uranio mio, se da quel dì, che meco

passò la musa mia d'Elide in Argo,

avessi avuto di cantar tant'agio,

quanta cagion di lagrimar sempr'ebbi,

con sì sublime stil forse cantato

avrei del mio signor l'armi, e gli onori,

ch'or non avria de la meonia tromba

da invidiar Achille; e la mia patria,

madre di cigni sfortunati, andrebbe

già per me cinta del secondo alloro.

Ma oggi è fatta (oh secolo inumano)

l'arte del poetar troppo infelice.

Lieto nido, esca dolce; aura cortese

bramano i cigni; e non si va in Parnaso

con le cure mordaci: e chi pur garre

sempre col suo destino, e col disagio,

vien roco, e perde il canto, e la favella.

Ma tempo è già di ricercar Mirtillo,

benché sì nuove, e sì cangiate i' trovi,

da quel ch'esser solean, queste contrade,

che 'n esse a pena i' riconosco Arcadia.

Con tutto ciò vien lietamente, Uranio.

Scorta non manca a peregrin, c'ha lingua.

Ma forse è ben ch'al più vicino ostello,

poiché se' stanco, a riposar ti resti.

Scena seconda

Titiro. Messo.

TITIRO

Che piangerò di te prima, mia figlia,

la vita, o l'onestate?

Piangerò l'onestate;

che di padre mortal se' tu ben nata,

ma non di padre infame:

e 'nvece della tua,

piangerò la mia vita; oggi serbata

a veder in te spenta

la vita, e l'onestate.

Oh Montano, Montano,

tu sol co' tuoi fallaci,

e mali intesi oracoli, e col tuo

d'amore, e di mia figlia

disprezzator superbo, a cotal fine

l'hai tu condotta. Ahi quanto meno incerti,

degli oracoli tuoi,

son oggi stati i miei.

Ch'onestà contr'Amore

è troppo frale schermo

in giovinetto core.

E donna scompagnata

è sempre mal guardata.

MESSO

Se non è morto; o se per l'aria i venti

non l'han portato, i' devrei pur trovarlo:

ma eccol, s'io non erro,

quando meno il pensai.

Oh da me tardi, e per te troppo a tempo,

vecchio padre infelice, alfin trovato.

Che novelle t'arreco.

TITIRO

Che rechi tu nella tua lingua? Il ferro

che svenò la mia figlia?

MESSO

Questo non già; ma poco meno: e come

l'hai tu per altra via sì tosto inteso?

TITIRO

Vive ella dunque?

MESSO

Vive, e 'n man di lei

sta il vivere, e 'l morire.

TITIRO

Benedetto sii tu, che m'hai da morte

tornato in vita. Or come non è salva,

s'a lei sta il non morire?

MESSO

Perché viver non vuole.

TITIRO

Viver non vuole? E qual follia l'induce

a sprezzar sì la vita?

MESSO

L'altrui morte.

E se tu non la smovi,

ha così fisso il suo pensiero in questo,

che spende ogn'altro in van preghi, e parole.

TITIRO

Or che si tarda? Andiamo.

MESSO

Fermati, che le porte

del tempio ancor son chiuse.

Non sai tu, che toccar la sacra soglia,

se non a piè sacerdotal non lice;

finché non esca del sacrario adorna

la destinata vittima agli altari?

TITIRO

E s'ella desse intanto

al fiero suo proponimento effetto?

MESSO

Non può, ch'è custodita.

TITIRO

In questo mezzo dunque

narrami il tutto; e senza velo omai

fa', che 'l vero n'intenda.

MESSO

Giunta dinanzi al sacerdote (ahi vista

piena d'orror) la tua dolente figlia;

che trasse, non dirò dai circostanti;

ma, per mia fé, dalle colonne ancora

del tempio stesso, e dalle dure pietre,

che senso aver parean, lagrime amare,

fu quasi in un sol punto

accusata, convinta, e condannata.

TITIRO

Misera figlia. E perché tanta fretta?

MESSO

Perché della difesa eran gli indici

troppo maggiori; e certa

sua ninfa, ch'ella in testimon recava

dell'innocenza sua,

né quivi era presente, né fu mai

chi trovar la sapesse.

I fieri segni intanto,

e gli accidenti mostruosi, e pieni

di spavento, e d'orror, che son nel tempio

non pativano indugio:

tanto più gravi a noi, quanto più nuovi,

e più mai non sentiti

dal dì, che minacciar l'ira celeste,

vendicatrice dei traditi amori

del sacerdote Aminta:

sola cagion d'ogni miseria nostra.

Suda sangue la dèa; trema la terra;

e la caverna sacra

mugge tutta, e risuona

d'insoliti ululati, e di funesti

gemiti; e fiato sì putente spira,

che dall'immonde fauci

più grave non cred'io, l'esali Averno.

Già con l'ordine sacro,

per condur la tua figlia a cruda morte,

il sacerdote s'inviava; quando,

vedendola Mirtillo (oh che stupendo

caso udirai), s'offerse

di dar con la sua morte a lei la vita:

gridando ad alta voce.

Sciogliete quelle mani: ah lacci indegni;

ed invece di lei, ch'esser dovea

vittima di Diana;

me traete agli altari,

vittima d'Amarilli.

TITIRO

Oh di fedele amante,

e di cor generoso atto cortese.

MESSO

Or odi meraviglia.

Quella, che fu pur dianzi

sì dalla tema del morire oppressa;

fatta allor di repente,

alle parole di Mirtillo invitta,

con intrepido cor così rispose.

Pensi dunque, Mirtillo,

di dar col tuo morire

vita a chi di te vive?

Oh miracolo ingiusto. Su ministri:

su, che si tarda? Omai

menatemi agli altari.

Ah che tanta pietà non volev'io,

soggiunse allor Mirtillo.

Torna cruda Amarilli,

che cotesta pietà sì dispietata,

troppo di me la miglior parte offende.

A me tocca il morire. Anzi a me pure

rispondeva Amarilli, che per legge

son condannata. E quivi

si contendea tra lor, come s'appunto

fosse vita il morire, il viver morte.

Oh anime ben nate: oh coppia degna

di sempiterni onori:

oh vivi, e morti gloriosi amanti.

Se tante lingue avessi, e tante voci,

quant'occhi il cielo, e quante arene il mare

perderien tutte il suono, e la favella

nel dir appien le vostre lodi immense.

Figlia del cielo eterna,

e gloriosa donna,

che l'opre de' mortali al tempo involi,

accogli tu la bella istoria, e scrivi

con lettere d'oro in solido diamante

l'alta pietà dell'uno, e l'altro amante.

TITIRO

Ma qual fin ebbe poi

quella mortal contesa?

MESSO

Vinse Mirtillo. Oh che mirabil guerra,

dove del vivo ebbe vittoria il morto.

Però che 'l sacerdote

disse alla figlia tua. Quetati, Ninfa

che campar per altrui

non può, chi per altrui s'offerse a morte:

così la legge nostra a noi prescrive.

Poi comandò, che la donzella fosse

sì ben guardata, che 'l dolore estremo

a disperato fin non la traesse.

In tale stato eran le cose, quando

di te mandommi a ricercar Montano.

TITIRO

Insomma egli è pur vero,

senz' odorati fiori

le rive, e i poggi, e senza i verdi onori

vedrai le selve alla stagion novella,

prima che senza amor vaga donzella:

ma, se qui dimoriam, come sapremo

l'ora di gir al tempio?

MESSO

Qui meglio assai, ch'altrove;

che questo appunto è 'l loco, ov'esser deve

il buon pastore in sacrificio offerto.

TITIRO

E perché non nel Tempio?

MESSO

Perché si dà la pena, ove fu il fallo.

TITIRO

E perché no nell'antro,

se nell'antro fu il fallo?

MESSO

Perché a scoperto ciel sacrar si deve.

TITIRO

Ed onde hai tu questi misteri intesi?

MESSO

Dal ministro maggior. Così dic'egli

dall'antico Tirenio aver inteso,

che 'l fido Aminta, e l'infedel Lucrina

sacrificati furo.

Ma tempo è di partire. Ecco che scende

la sacra pompa al piano.

Sarà forse ben fatto,

che per quest'altra via

ce n'andiam noi per la tua figlia al tempio.

Scena terza

Coro di Pastori. Coro di Sacerdoti. Montano. Mirtillo.

CORO DI PASTORI

Oh figlia del gran Giove:

oh sorella del Sol, ch'al cieco mondo

splendi nel primo ciel Febo secondo.

CORO DI SACERDOTI

Tu, che col tuo vitale,

e temperato raggio,

scemi l'ardor della fraterna luce,

onde quaggiù produce

felicemente poi l'alma natura

tutti i suoi parti; e fa d'erbe, e di piante,

d'uomini, e d'animai ricca, e feconda

l'aria, la terra, e l'onda:

deh, sì come in altrui tempri l'arsura,

così spegni in te l'ira,

ond'oggi Arcadia tua piange, e sospira.

CORO DI PASTORI

Oh figlia del gran Giove;

oh sorella del sol, ch'al cieco mondo

splendi nel primo ciel Febo secondo.

MONTANO

Drizzate omai gli altari,

sacri ministri; e voi,

o devoti pastori alla gran dèa,

reiterando le canore voci,

invocate il suo nome.

CORO DI PASTORI

Oh figlia del gran Giove;

oh sorella del sol, ch'al cieco mondo

splendi nel primo ciel Febo secondo.

MONTANO

Traetevi in disparte,

pastori, e servi miei: né qua venite,

se dalla voce mia non sete mossi.

Giovane valoroso,

che, per dar vita altrui, vita abbandoni,

mori pur consolato.

Tu con un breve sospirar, che morte

sembra agli animi vili,

immortalmente al tuo morir t'involi.

E quando avrà già fatto

l'invida età dopo mill'anni, e mille

di tanti nomi altrui l'usato scempio,

vivrai tu allor di vera fede esempio.

Ma perché vuol la legge,

che taciturna vittima tu moia,

prima, che pieghi le ginocchia a terra,

se cosa hai qui da dir, dilla, e poi taci.

MIRTILLO

Padre, che padre di chiamarti, ancora

che morir debbia per tua man, mi giova,

lascio il corpo alla terra,

e lo spirto a colei ch'è la mia vita.

Ma s'avvien ch'ella moia,

come di far minaccia, ohimè qual parte

di me resterà viva?

Oh che dolce morir, quando sol meco

il mio mortal moria,

né bramava morir l'anima mia.

Ma se merta pietà; colui che more

per soverchia pietà; padre cortese,

provvedi tu, ch'ella non moia; e ch'io

con questa speme a miglior vita i' passi.

Paghisi il mio destin della mia morte;

sfoghisi col mio strazio.

Ma poi ch'io sarò morto, ah non mi tolga,

ch'i' viva almeno in lei

con l'alma dalle membra disunita,

se d'unirmi con lei mi tolse in vita.

MONTANO

A gran pena le lagrime ritegno.

Oh nostra umanità quanto se' frale.

Figlio, sta' di buon cor; che quanto brami

di far prometto: e ciò per questo capo

ti giuro: e questa man ti do per pegno.

MIRTILLO

Or consolato moro, e consolato

a te vengo, Amarilli.

Ricevi il tuo Mirtillo,

del tuo fido pastor l'anima prendi,

che nell'amato nome d'Amarilli

terminando la vita, e le parole,

qui piego a morte le ginocchia; e taccio.

MONTANO

Or non s'indugi più, sacri ministri

suscitate la fiamma;

e spargendovi sopra incenso, e mirra,

traetene vapor: ch'in alto ascenda.

CORO DI PASTORI

Oh figlia del gran Giove;

oh sorella del sol ch'al cieco mondo,

splendi nel primo ciel Febo secondo.

Scena quarta

Carino. Montano. Nicandro, Mirtillo.
Coro di Pastori.

CARINO

Chi vide mai sì rari abitatori

in sì spessi abituri? Or s'io non erro,

eccone la cagione.

Velli qua tutti in un drappel ridotti.

Oh quanta turba; oh quanta;

com'è ricca, e solenne: veramente

qui si fa sacrificio.

MONTANO

Porgimi il vasel d'oro,

Nicandro, ov'è riposto

l'almo licor di Bacco.

NICANDRO

Eccote 'l pronto.

MONTANO

Così il sangue innocente

ammollisca il tuo petto, o santa dèa,

come rammorbidisce

l'incenerita, ed arida favilla

questa, d'almo licor, cadente stilla.

Or tu riponi il vasel d'oro, e poscia

dammi il nappo d'argento.

NICANDRO

Eccoti il nappo.

MONTANO

Così l'ira sia spenta,

che destò nel tuo cor, perfida ninfa,

come spegne la fiamma

questa cadente linfa.

CARINO

Pur questo è sacrificio,

né vittima ci veggio.

MONTANO

Or tutto è preparato,

né manca altro che 'l fin. Dammi la scure.

CARINO

Vegg'io forse, o m'inganno: un che nel tergo

ad uom si rassomiglia,

con le ginocchia a terra?

È forse egli la vittima? Oh meschino,

egli è per certo: e gli tien già la mano

il Sacerdote in capo.

Infelice mia patria: ancor non hai

l'ira del ciel dopo tant'anni estinta?

CORO DI PASTORI

Oh figlia del gran Giove;

oh sorella del sol, ch'al cieco mondo,

splendi nel primo ciel Febo secondo.

MONTANO

Vindice dèa, che la privata colpa,

con pubblico flagello in noi punisci

(così ti piace, e forse

così sta nell'abisso

dell'immutabil provvidenza eterna)

poi, che l'impuro sangue

dell'infedel Lucrina in te non valse

a dissetar quella giustizia ardente,

che del ben nostro ha sete,

bevi questo innocente

di volontaria vittima, e d'amante

non men d'Aminta fido,

ch'al sacro altare in tua vendetta uccido.

CORO DI PASTORI

Oh figlia del gran Giove;

oh sorella del sol, ch'al cieco mondo,

splendi nel primo ciel Febo secondo.

MONTANO

Deh come di pietà pur ora il petto

intenerirmi sento:

che 'nsolito stupor mi lega i sensi.

Par che non osi il cor, né la man possa

levar questa bipenne.

CARINO

Vorrei prima nel viso

veder quell'infelice, e poi partirmi,

che non posso mirar cosa sì fiera.

MONTANO

Chissà, che 'n faccia al sol, ben che tramonti

non sia fallo il sacrar vittima umana?

E perciò la fortezza

languisca in me dell'animo, e del corpo?

Volgiti alquanto: e gira

la moribonda faccia inverso il monte.

Così sta ben.

CARINO

Misero me; che veggio?

Non è quello il mio figlio?

Il mio caro Mirtillo?

MONTANO

Or posso.

CARINO

È troppo desso.

MONTANO

E 'l colpo libro.

CARINO

Che fai, sacro ministro?

MONTANO

E tu, uomo profano,

perché ritieni il sacro ferro, ed osi

di por tu qui la temeraria mano?

CARINO

Oh Mirtillo, ben mio:

già d'abbracciarti in sì dolente guisa.

NICANDRO

Va' in malora insolente, e pazzo vecchio.

CARINO

Non mi credev'io mai.

NICANDRO

Scostati dico,

che con impura man toccar non lice

cosa sacra agli dèi.

CARINO

Caro agli dèi

son ben anch'io; che con la scorta loro

qui mi condussi.

MONTANO

Cessa,

Nicandro. Udiamlo prima, e poi si parta.

CARINO

Deh, ministro cortese,

prima, che sopra il capo

di quel garzon cada il tuo ferro, dimmi

perché more il meschino. Io te ne prego

per quella dèa ch'adori.

MONTANO

Per nume tal tu mi scongiuri, ch'empio

sarei, se te 'l negassi:

ma che t'importa ciò?

CARINO

Più che non credi.

MONTANO

Perch'egli stesso a volontaria morte

s'è per altrui donato.

CARINO

Dunque per altrui more?

Anch'io morrò per lui. Deh per pietate

drizza invece di quello

a questo capo già cadente il colpo.

MONTANO

Amico, tu vaneggi.

CARINO

E perché a me si nega,

quel ch'a lui si concede?

MONTANO

Perché se' forestiero.

CARINO

E s'io non fussi?

MONTANO

Né fare anco il potresti:

che campar per altrui

non può, chi per altrui s'offerse a morte.

Ma dimmi chi se' tu? Se pur è vero

che non sii forestiero:

all'abito tu certo

arcade non mi sembri.

CARINO

Arcade sono.

MONTANO

In questa terra già non mi sovviene

d'averti io mai veduto.

CARINO

In questa terra nacqui, e son Carino,

padre di quel meschino.

MONTANO

Padre tu di Mirtillo? Oh come giugni

a te stesso, ed a noi troppo importuno,

scostati immantenente,

che col paterno affetto

render potresti infruttuoso, e vano

il sacrificio nostro.

CARINO

Ah, se tu fussi padre.

MONTANO

Son padre, e padre ancor d'unico figlio;

e pur tenero padre: nondimeno,

se questo fosse del mio Silvio il capo,

già non sarei men pronto

a far di lui quel, che del tuo far deggio.

Che sacro manto indegnamente veste

chi per pubblico ben del suo privato

comodo non si spoglia.

CARINO

Lascia ch'i 'l baci almen prima che mora.

MONTANO

E questo molto meno.

CARINO

O sangue mio,

e tu ancor se' sì crudo,

che non rispondi al tuo dolente padre?

MIRTILLO

Deh padre omai t'acqueta.

MONTANO

Oh noi meschini

contaminato è 'l sacrificio. Oh dèi.

MIRTILLO

Che spender non potrei più degnamente

la vita, che m'hai data.

MONTANO

Troppo ben m'avvisai,

ch'alle paterne lagrime costui

romperebbe il silenzio.

MIRTILLO

Misero, qual errore

ho io commesso: o come

la legge del tacer m'uscì di mente?

MONTANO

Ma che si tarda? Su ministri: al tempio

rimenatelo tosto;

e nella sacra cella un'altra volta

da lui si prenda il volontario voto.

Qui poscia ritornandolo, portate

con esso voi per sacrificio novo,

nov'acqua, novo vino, e novo foco.

Su speditevi tosto,

che già s'inchina il sole.

Scena quinta

Montano. Carino. Dameta.

MONTANO

Ma tu, vecchio importuno,

ringrazia pur il ciel che padre sei

se ciò non fosse, i' ti farei (per questa

sacra testa te 'l giuro) oggi sentire

quel che può l'ira in me, poiché sì male

usi la sofferenza.

Sai tu forse chi sono?

Sai tu che qui con una sola verga

reggo l'umane e le divine cose?

CARINO

Per domandar mercede

signoria non s'offende.

MONTANO

Troppo t'ho io sofferto; e tu per questo

se' venuto insolente.

Né sai tu, che se l'ira in giusto petto

lungamente si coce,

quanto più tarda fu, tanto più noce.

CARINO

Tempestoso furor non fu mai l'ira

in magnanimo petto;

ma un fiato sol di generoso affetto,

che spirando nell'alma,

quand'ella è più con la ragione unita,

la desta, e rende alle bell'opre ardita.

Dunque se grazia non impetro, almeno

fa', che giustizia i' trovi; e ciò negarmi

per debito non puoi:

che chi dà legge altrui,

non è da legge in ogni parte sciolto:

e quanto se' maggiore

nel comandar, tanto più d'ubbidire

se' tenut'anco a chi giustizia chiede:

ed ecco i' te la chieggio:

s'a me far non la vuoi, falla a te stesso,

che Mirtillo uccidendo, ingiusto sei.

MONTANO

E come ingiusto son? Fa' che l'intenda.

CARINO

Non mi dicesti tu, che qui non lice

sacrificar d'uomo straniero il sangue?

MONTANO

Dissilo, e dissi quel, che 'l ciel comanda.

CARINO

Pur quello è forestier, che sacrar vuoi.

MONTANO

E come forestier? Non è tuo figlio?

CARINO

Bastiti questo, e non cercar più innanzi.

MONTANO

Forse perché tra noi no 'l generasti?

CARINO

Spesso men sa, chi troppo intender vuole.

MONTANO

Ma qui s'attende il sangue, e non il loco.

CARINO

Perché no 'l generai, straniero il chiamo.

MONTANO

Dunque è tuo figlio, e tu no 'l generasti?

CARINO

E se no 'l generai, non è mio figlio.

MONTANO

Non mi dicesti tu, ch'è di te nato?

CARINO

Dissi ch'è figlio mio, non di me nato.

MONTANO

Il soverchio dolor t'ha fatto insano.

CARINO

Non sentirei dolor, se fussi insano.

MONTANO

Non puoi fuggir d'esser malvagio, o stolto.

CARINO

Come può star malvagità col vero?

MONTANO

Come può star in un figlio, e non figlio?

CARINO

Può star, figlio d'amor, non di natura.

MONTANO

Dunque s'è figlio tuo, non è straniero;

e se non è, non hai ragione in lui:

così convinto se' padre, o non padre.

CARINO

Sempre di verità non è convinto

chi di parole è vinto.

MONTANO

Sempre convinta è di colui la fede,

che nel suo favellar si contraddice.

CARINO

Ti torno a dir, che tu fai opra ingiusta.

MONTANO

Sopra questo mio capo,

e sopra il capo di mio figlio cada

tutta questa ingiustizia.

CARINO

Tu te ne pentirai.

MONTANO

Ti pentirai ben tu, se non mi lasci

fornir l'ufficio mio.

CARINO

In testimon ne chiamo uomini, e dèi.

MONTANO

Chiami tu forse i dèi ch'hai disprezzati?

CARINO

E poiché tu non m'odi,

odami cielo, e terra,

odami la gran dèa, che qui s'adora,

che Mirtillo è straniero,

e che non è mio figlio, e che profani

il sacrificio santo.

MONTANO

Il ciel m'aiuti

con quest'uomo importuno.

Chi è dunque suo padre,

se non è figlio tuo?

CARINO

Non te 'l so dire.

So ben, che non son io.

MONTANO

Vedi come vacilli?

È egli del tuo sangue?

CARINO

Né questo ancora.

MONTANO

E perché figlio il chiami?

CARINO

Perché l'ho come figlio,

dal primo dì, ch'i' l'ebbi,

per fin a questa età sempre nudrito

nelle mie case, e come figlio amato.

MONTANO

Il comprasti? Il rapisti? Onde l'avesti?

CARINO

In Elide l'ebb'io, cortese dono

d'uomo straniero.

MONTANO

E quell'uomo straniero

donde l'ebb'egli?

CARINO

A lui l'avea dat'io.

MONTANO

Sdegno tu movi in un sol punto, e riso.

Dunque avesti tu in dono

quel, che donato avevi?

CARINO

Quel ch'era suo gli diedi,

ed egli a me ne fe' cortese dono.

MONTANO

E tu (poi ch'oggi a vaneggiar mi tiri)

onde avuto l'avevi?

CARINO

In un cespuglio d'odorato mirto

poco prima i' l'aveva

nella foce d'Alfeo trovato a caso;

per questo solo il nominai Mirtillo.

MONTANO

Oh come ben favole fingi, ed orni.

Han fere i vostri boschi?

CARINO

E di che sorte?

MONTANO

Come no 'l divoraro?

CARINO

Un rapido torrente

l'avea portato in quel cespuglio, e quivi

lasciatolo, nel seno

di picciola isoletta,

che d'ogn'intorno il difendea con l'onda.

MONTANO

Tu certo ordisci ben menzogne, e fole;

ed era stata sì pietosa l'onda,

che non l'avea sommerso?

Son sì discreti in tuo paese i fiumi,

che nudriscon gl'infanti?

CARINO

Posava entr'una culla: e questa quasi

discreta navicella,

d'altra soda materia,

che soglion ragunar sempre i torrenti,

accompagnata, e cinta,

l'avea portato in quel cespuglio a caso.

MONTANO

Posava entro una culla?

CARINO

Entr'una culla.

MONTANO

Bambino in fasce?

CARINO

E ben vezzoso ancora.

MONTANO

E quanto ha, che fu questo?

CARINO

Fa' tuo conto,

che son passati già diciannove anni

dal gran diluvio. E son tant'anni appunto.

MONTANO

Oh qual mi sento orror vagar per l'ossa.

CARINO

Egli non sa che dire.

Oh superbo costume

delle grand'alme: oh pertinace ingegno,

che vinto anco non cede;

e pensa d'avanzar così di senno,

come di forze avanza.

Questi certo è convinto, e se ne duole.

S'io bene al mal inteso

suo mormorar l'intendo: e 'n qualche modo

ch'avesse pur di verità sembianza,

coprir vorrebbe il fallo

dell'ostinata mente.

MONTANO

Ma che ragione in quel bambino avea

quell'uom, di cui tu parli? Era suo figlio?

CARINO

Questo non ti so dir.

MONTANO

Né mai di lui

notizia avesti tu maggior di questa?

CARINO

Tanto appunto ne so. Vedi novelle.

MONTANO

Conosceresti 'l?

CARINO

Sol ch'io 'l vedessi,

rozzo pastor all'abito, ed al viso.

Di mezzana statura, e di pel nero;

d'ispida barba, e di setose ciglia.

MONTANO

Venite a me, pastori, e servi miei.

DAMETA

Eccoci pronti.

MONTANO

Or mira

a qual di questi più si rassomiglia

l'uom di cui parli.

CARINO

A quel, che teco parla,

non sol si rassomiglia,

ma quegli appunto è desso:

e mi par quello stesso,

ch'era vent'anni già; ch'un pelo solo

non ha canuto, ed io son tutto bianco.

MONTANO

Tornatevi in disparte; e tu qui meco

resta, Dameta, e dimmi:

conosci tu costui?

DAMETA

Mi par di sì; ma dove

già non so dirti, o come.

CARINO

Or io di tutto

ben ricordar farollo.

MONTANO

A me tu prima

lascia favellar seco; e non t'incresca

d'allontanarti alquanto.

CARINO

E volentieri

fo quanto mi comandi.

MONTANO

Or mi rispondi,

Dameta, e guarda ben di non mentire.

CARINO

Che sarà questo, o dèi?

MONTANO

Tornando tu da ricercar (già sono

vent'anni) il mio bambin; che con la culla

rapì il fiero torrente;

non mi dicesti tu, che le contrade

tutte, che bagna Alfeo, cercate avevi

senz'alcun frutto?

DAMETA

E perché ciò mi chiedi?

MONTANO

Rispondi a questo pur. Non mi dicesti,

che ritrovato non l'avevi?

DAMETA

Il dissi.

MONTANO

Or che bambino è quello,

ch'allor donasti in Elide a colui,

che qui t'ha conosciuto?

DAMETA

Or son vent'anni,

e vuoi ch'un vecchio si ricordi tanto?

MONTANO

Ed egli è vecchio, eppur se ne ricorda.

DAMETA

Piuttosto egli vaneggia.

MONTANO

Or il vedremo.

Dove se', peregrino?

CARINO

Eccomi.

DAMETA

Oh fossi

tanto sotterra.

MONTANO

Dimmi,

non è questo il pastor, che ti f' il dono?

CARINO

Questo per certo.

DAMETA

E di qual dono parli?

CARINO

Non ti ricordi tu, quando nel tempio

dell'olimpico Giove; avendo quivi

dall'Oracolo avuta

già la risposta; e stando

tu per partire, i' mi ti feci incontro,

chiedendoti di quello,

che ricercavi i segni, e tu li desti:

indi poi ti condussi

alle mie case, e quivi il tuo bambino

trovasti in culla, e me ne festi il dono?

DAMETA

Che vuoi tu dir per questo?

CARINO

Or quel bambino,

ch'allor tu mi donasti, e ch'io poi sempre

ho come figlio appresso me nudrito,

è 'l misero garzon, ch'a questi altari

vittima è destinato.

DAMETA

Oh forza del destino.

MONTANO

Ancor t'infingi?

È vero tutto ciò, ch'egli t'ha detto?

DAMETA

Così morto fuss'io, com'è ben vero

MONTANO

Ciò t'avverrà, s'anco nel resto menti.

E qual cagion ti mosse

a donar quello altrui, che tuo non era?

DAMETA

Deh non cercar più innanzi,

padron; deh non per dio, bastiti questo.

MONTANO

Più sete or me ne viene.

Ancor mi tieni a bada? Ancor non parli?

Morto, se' tu, s'un'altra volta il chiedo.

DAMETA

Perché m'avea l'oracolo predetto,

che 'l trovato bambin correa periglio,

se mai tornava alle paterne case,

d'esser dal padre ucciso.

CARINO

E questo è vero,

che mi trovai presente.

MONTANO

Ohimè, che tutto

già troppo è manifesto. Il caso è chiaro.

Col sogno, e col destin s'accorda il fatto.

CARINO

Or che ti resta più? Vuoi tu chiarezza

di questa anco maggior?

MONTANO

Troppo son chiaro.

Troppo dicesti tu. Troppo intes'io.

Cercato avess'io men. Tu men saputo.

O Carino, Carino,

come teco dolor cangio, e fortuna.

Come gli affetti tuoi son fatti miei.

Questo è mio figlio. Oh figlio

troppo infelice d'infelice padre:

figlio dall'onde assai più fieramente

salvato, che rapito:

poiché cader per le paterne mani

dovevi ai sacri altari,

e bagnar del tuo sangue il patrio suolo.

CARINO

Padre tu di Mirtillo? Oh meraviglia.

In che modo il perdesti?

MONTANO

Rapito fu da quel diluvio orrendo,

che testé mi dicevi. Oh caro pegno,

tu fusti salvo allor, che ti perdei;

ed or solo ti perdo,

perché trovato sei.

CARINO

Oh provvidenza eterna,

con qual alto consiglio,

tanti accidenti hai fin'a qui sospesi,

per farli poi cader tutti in un punto.

Gran cosa hai tu concetta;

gravida se' di mostruoso parto,

o gran bene, o gran male

partorirai tu certo.

MONTANO

Questo fu quel, che mi predisse il sogno.

Ingannevole sogno;

nel mal troppo verace;

nel ben troppo bugiardo:

questa fu quella insolita pietate:

quell'improvviso orrore,

che nel mover del ferro

sentii scorrer per l'ossa:

ch'aborriva natura un così fiero,

per man del padre, abominevol colpo.

CARINO

Ma che? Darai tu dunque

a sì nefando sacrificio effetto?

MONTANO

Non può per altra man vittima umana

cader a questi altari.

CARINO

Il padre al figlio

darà dunque la morte?

MONTANO

Così comanda a noi la nostra legge.

E qual sarà di perdonarla altrui

carità sì possente, se non volle

perdonar a sé stesso il fido Aminta?

CARINO

Oh malvagio destino,

dove m'hai tu condotto?

MONTANO

A veder di duo padri

la soverchia pietà fatta omicida;

la tua verso Mirtillo,

la mia verso gli dèi.

Tu credesti salvarlo

col negar d'esser padre, e l'hai perduto.

Io cercando, e credendo

d'uccider il tuo figlio,

il mio trovo, e l'uccido.

CARINO

Ecco l'orribil mostro,

che partorisce il fato. Oh caso atroce;

oh Mirtillo mia vita. È questo quello,

che m'ha di te l'oracolo predetto?

Così nella mia terra

mi fai felice? Oh figlio,

figlio di questo sventurato vecchio

già sostegno, e speranza; or pianto, e morte.

MONTANO

Lascia a me queste lagrime, Carino,

che piango il sangue mio.

Ah perché sangue mio,

se l'ho da sparger io? Misero figlio,

perché ti generai? Perché nascesti?

A te dunque la vita

salvò l'onda pietosa,

perché te la togliesse il crudo padre?

Santi numi immortali,

senz'il cui alto intendimento eterno,

neppur in mar un'onda

si move, o in aria spirto, o in terra fronda,

qual sì grave peccato

ho contra voi commesso, ond'io sia degno

di venir col mio seme in ira al cielo?

Ma s'ho pur peccat'io,

in che peccò il mio figlio?

Ché non perdoni a lui?

E con un soffio del tuo sdegno ardente

me folgorando, non ancidi, o Giove?

Ma se cessa il tuo strale,

non cesserà il mio ferro.

Rinnoverò d'Aminta

il doloroso esempio;

e vedrà prima il figlio estinto il padre,

che 'l padre uccida di sua mano il figlio.

Mori dunque, Montano. Oggi morire

a te tocca, a te giova.

Numi, non so s'io dica

del cielo, o dell'inferno,

che col duolo agitate

la disperata mente;

ecco, il vostro furore;

poiché così vi piace, ho già concetto.

Non bramo altro che morte: altra vaghezza

non ho, che del mio fine.

Un funesto desio d'uscir di vita

tutto m'ingombra, e par che mi conforte.

Alla morte, alla morte.

CARINO

Oh infelice vecchio;

come il lume maggiore

la minor luce abbaglia,

così il dolor, che del tuo male i' sento,

il mio dolore ha spento.

Certo se' tu d'ogni pietà ben degno.

Scena sesta

Tirenio. Montano. Carino.

TIRENIO

Affrettati, mio figlio,

ma con sicuro passo,

sì ch'i' possa seguirti, e non inciampi

per questo dirupato, e torto calle,

col piè cadente, e cieco.

Occhio se' tu di lui, come son io

occhio della tua mente:

e quando sarai giunto

innanzi al sacerdote, ivi ti ferma.

MONTANO

Ma non è quel, che colà veggio il nostro

venerando Tirenio,

ch'è cieco in terra, e tutto vede in cielo?

Qualche gran cosa il move:

che da molt'anni in qua non s'è veduto

fuor della sacra cella.

CARINO

Piaccia all'alta bontà de' sommi dèi

che per te lieto, ed opportuno giunga.

MONTANO

Che novità vegg'io, padre Tirenio?

Tu fuor del tempio? Ove ne vai? Che porti?

TIRENIO

A te solo ne vengo;

e nuove cose porto, e nuove cerco.

MONTANO

Come teco non è l'ordine sacro?

Che tarda? Ancor non torna

con la purgata vittima, e col resto,

ch'all'interrotto sacrificio manca?

TIRENIO

Oh quanto spesso giova

la cecità degli occhi al veder molto.

Ch'allor non traviata

l'anima, ed in sé stessa

tutta raccolta, suole

aprir nel cieco senso occhi lincei.

Non bisogna, Montano,

passar sì leggermente alcuni gravi

non aspettati casi,

che tra l'opere umane han del divino.

Però che i sommi dèi

non conversano in terra,

né favellan con gli uomini mortali;

ma tutto quel di grande, o di stupendo,

ch'al cieco caso il cieco volgo ascrive,

altro non è che favellar celeste:

così parlan tra noi gli eterni numi:

queste son le lor voci;

mute all'orecchie, e risonanti al core

di chi le 'ntende. Oh quattro volte, e sei

fortunato colui, che ben le 'ntende.

Stava già per condur l'ordine sacro,

come tu comandasti, il buon Nicandro;

ma il ritenn'io per accidente nuovo

nel tempio occorso: ed è ben tal, che mentre

vo con quello accoppiandolo, che quasi

in un medesmo tempo

è oggi a te incontrato:

un non so che d'insolito, e confuso

tra speranza, e timor tutto m'ingombra,

che non intendo: e quanto men l'intendo,

tanto maggior concetto

o buono, o rio ne prendo.

MONTANO

Quel che tu non intendi,

troppo intend'io miseramente, e 'l provo.

Ma dimmi. A te, che puoi

penetrar del destin gli alti segreti,

cosa alcuna s'asconde?

TIRENIO

Oh figlio, figlio:

se volontario fosse

del profetico lume il divin'uso,

saria don di natura, e non del cielo.

Sento ben io nell'indigesta mente,

che 'l ver m'asconde il fato,

e si riserba alto segreto in seno.

Questa sola cagione a te mi mosse,

vago d'intender meglio,

chi è colui, che s'è scoperto padre

(se da Nicandro ho ben inteso il fatto)

di quel garzon, ch'è destinato a morte.

MONTANO

Troppo il conosci. Oh quanto

ti dorrà poi, Tirenio,

ch'ei ti sia tanto noto, e tanto caro.

TIRENIO

Lodo la tua pietà, ch'umana cosa

è l'aver degli afflitti

compassione, oh figlio. Nondimeno

fa' pur, che seco i' parli.

MONTANO

Veggio ben'or, che 'l cielo,

quanto aver già solevi,

di presaga virtute, in te sospende.

Quel padre, che tu chiedi,

e con cui brami di parlar, son io.

TIRENIO

Tu padre di colui, ch'è destinato

vittima alla gran dèa?

MONTANO

Son quel misero padre

di quel misero figlio.

TIRENIO

Di quel fido pastore,

che, per dar vita altrui, s'offerse a morte?

MONTANO

Di quel, che fa morendo

viver, chi gli dà morte;

morir, chi gli diè vita.

TIRENIO

E questo è vero?

MONTANO

Eccone il testimonio.

CARINO

Ciò che t'ha detto è vero.

TIRENIO

E chi se' tu, che parli?

CARINO

Io son Carino,

padre fin qui di quel garzon creduto.

TIRENIO

Sarebbe questo mai quel tuo bambino,

che ti rapì il diluvio?

MONTANO

Ah tu l'hai detto,

Tirenio.

TIRENIO

E tu per questo

ti chiami padre misero, Montano?

Oh cecità delle terrene menti;

in qual profonda notte,

in qual fosca caligine d'errore

son le nostr'alme immerse,

quando tu non le illustri, oh sommo sole.

A che del saper vostro

insuperbite, oh miseri mortali?

Questa parte di noi, che 'ntende, e vede,

non è nostra virtù, ma vien dal cielo.

Esso la dà come a lui piace, e toglie.

O Montano, di mente assai più cieco,

che non son io di vista,

qual prestigio, qual demone t'abbaglia,

sì, che s'egli è pur vero,

che quel nobil garzon sia di te nato,

non ti lasci veder, ch'oggi se' pure

il più felice padre,

il più caro agli dèi di quanti al mondo

generasser mai figli?

Ecco l'alto segreto,

che m'ascondeva il fato.

Ecco il giorno felice,

con tanto nostro sangue,

e tante nostre lagrime aspettato.

Ecco il beato fin de' nostri affanni.

Oh Montano, ove se'? Torna in te stesso.

Come a te solo è della mente uscito

l'oracolo famoso?

Il fortunato oracolo nel core

di tutta Arcadia impresso?

Come, col lampeggiar, ch'oggi ti mostra

inaspettatamente il caro figlio,

non senti il tuon della celeste voce?

Non avrà prima fin quel, che v'offende

che duo semi del ciel congiunga Amore.

(Scaturiscon dal core

lagrime di dolcezza in tanta copia,

ch'io non posso parlar). Non avrà prima

non avrà prima fin quel, che v'offende,

che duo semi del ciel congiunga Amore;

e di donna infedel l'antico errore,

l'alta pietà d'un PASTOR FIDO ammende.

Or dimmi tu, Montan; questo pastore,

di cui si parla; e che dovea morire,

non è seme del ciel, s'è di te nato?

Non è seme del cielo anco Amarilli?

E chi gli ha insieme avvinti altro che Amore?

Silvio fu dai parenti e fu per forza

con Amarilli in matrimonio stretto.

Ed è tanto lontan, che gli strignesse

nodo amoroso; quanto

l'aver in odio è dall'amar lontano.

Ma s'esamini il resto, apertamente

vedrai, che di Mirtillo ha solo inteso

la fatal voce. E qual si vide mai,

dopo il caso d'Aminta,

fede d'amor, che s'agguagliasse a questa

chi ha voluto mai per la sua donna,

dopo il fedele Aminta,

morir se non Mirtillo?

Questa è l'alta pietà del Pastor fido,

degna di cancellar l'antico errore

dell'infedele, e misera Lucrina.

Con quest'atto mirabile, e stupendo,

più, che col sangue umano,

l'ira del ciel si placa,

e quel si rende alla giustizia eterna,

che già le tolse il femminile oltraggio.

Questa fu la cagion, che non sì tosto

giuns'egli al tempio a rinnovar il voto,

che cessar tutti i mostruosi segni.

Non stilla più dal simulacro eterno

sudor di sangue: e più non trema il suolo,

né strepitosa più, né più putente

è la caverna sacra: anzi da lei

vien sì dolce armonia, sì grato odore,

che non l'avrebbe più soave il cielo,

se voce, o spirto aver potesse il cielo.

Oh alta provvidenza, oh sommi dèi;

se le parole mie

fosser anime tutte,

e tutte al vostro onore

oggi le consacrassi; alle dovute

grazie non basterian di tanto dono

ma come posso, ecco le rendo: oh santi

numi del ciel, con le ginocchia a terra

umilemente. Oh quanto

vi son io debitor, perch'oggi vivo.

Ho di mia vita corsi

cent'anni già, né seppi mai che fosse

viver, né mi fu mai

la cara vita, se non oggi cara.

Oggi a viver comincio; oggi rinasco.

Ma che perd'io con le parole il tempo,

che si dée dar'all'opre?

Ergimi figlio, che levar non posso

già senza te queste cadenti membra.

MONTANO

Un'allegrezza ho nel mio cor, Tirenio,

con sì stupenda meraviglia unita,

che son lieto, e no 'l sento.

Né può l'alma confusa

mostrar di fuor la ritenuta gioia.

Sì tutti lega alto stupore i sensi.

Oh non veduto mai, né mai più inteso

miracolo del cielo:

oh grazia senza esempio:

oh pietà singolar de' sommi dèi.

Oh fortunata Arcadia:

oh sovra quante il sol ne vede, e scalda,

terra gradita al ciel, terra beata.

Così il tuo ben m'è caro,

che 'l mio non sento: e del mio caro figlio,

che due volte ho perduto,

e due volte trovato; e di me stesso,

che da un abisso di dolor trapasso

a un abisso di gioia,

mentre penso di te; non mi sovviene,

e si disperde il mio diletto; quasi

poca stilla insensibile confusa

nell'ampio mar delle dolcezze tue.

Oh benedetto sogno,

sogno non già, ma vision celeste:

ecco ch'Arcadia mia,

come dicesti tu, sarà ancor bella.

TIRENIO

Ma che tardi, Montano?

Da noi più non attende

vittima umana il cielo.

Non è più tempo di vendetta, e d'ira;

ma di grazia, e d'amore. Oggi comanda

la nostra dèa, che 'nvece

di sacrificio orribile, e mortale,

si faccian liete, e fortunate nozze.

Ma dimmi tu, quant'ha di vivo il giorno.

MONTANO

Un'ora, o poco più.

TIRENIO

Così vien sera?

Torniamo al tempio; e quivi immantinente

la figliuola di Titiro, e 'l tuo figlio

si dian la fede maritale, e sposi

divengano d'amanti; e l'un conduca

l'altra ben tosto alle paterne case,

dove convien prima che 'l sol tramonti,

che sian congiunti i fortunati eroi.

Così comanda il ciel. Tornami, figlio,

onde m'hai tolto: e tu, Montan, mi segui:

MONTANO

Ma guarda ben, Tirenio,

che senza violar la santa legge,

non può ella a Mirtillo

dar quella fé, che fu già data a Silvio.

CARINO

Ed a Silvio fiè data

parimente la fede: che Mirtillo

fin dal suo nascimento ebbe tal nome,

se dal tuo servo mi fu detto il vero:

ed egli si compiacque,

ch'io 'l nomassi Mirtillo, anzi che Silvio.

MONTANO

Gli è vero. Or mi sovviene, e cotal nome

rinnovai nel secondo,

per consolar la perdita del primo.

TIRENIO

Il dubbio era importante. Or tu mi segui.

MONTANO

Carino, andiamo al tempio. E da qui innanzi

duo padri avrà Mirtillo. Oggi ha trovato

Montano un figlio, ed un fratel Carino.

CARINO

D'amor padre a Mirtillo; a te fratello;

di riverenza all'un servo, ed all'altro

sarà sempre Carino.

E poi che verso me se' tanto umano,

ardirò di pregarti,

che ti sia caro il mio compagno ancora,

senza cui non sarei caro a me stesso.

MONTANO

Fanne quel, ch'a te piace.

CARINO

Eterni numi: oh come son diversi

quegli alti inaccessibili sentieri,

onde scendono a noi le vostre grazie

da que' fallaci, e torti,

onde i nostri pensier salgono al cielo.

Scena settima

Corisca. Linco.

CORISCA

E così Linco il dispietato Silvio,

quando men se 'l pensò, divenne amante.

Ma che seguì di lei?

LINCO

Noi la portammo

alle case di Silvio, ove la madre

con lagrime l'accolse,

non so se di dolcezza, o di dolore.

Lieta sì, che 'l suo figlio

già fosse amante, e sposo; ma del caso

della ninfa dolente, e di due nuore

suocera mal fornita,

l'una morta piangea, l'altra ferita.

CORISCA

Pur è morta Amarilli?

LINCO

Dovea morir. Così portò la fama.

Per questo sol mi mossi inverso 'l tempio

a consolar Montano, che perduta

s'oggi ha una nuora, ecco ne trova un'altra.

CORISCA

Dunque Dorinda non è morta?

LINCO

Morta?

Fossi sì viva tu; fossi sì lieta.

CORISCA

Non fu dunque mortal la sua ferita?

LINCO

Alla pietà di Silvio,

se morta fosse stata,

viva saria tornata.

CORISCA

E con qual arte

sanò sì tosto?

LINCO

I' ti dirò da capo

tutta la cura: e meraviglie udrai.

Stavan d'intorno alla ferita ninfa

tutti con pronta mano,

e con tremante core uomini e donne:

ma ch'altri la toccasse

non volle mai, che Silvio suo: dicendo,

la man, che mi ferì, quella mi sani.

Così soli restammo,

Silvio, la madre, ed io,

duo col consiglio, un con la mano oprando.

Quell'ardito garzon, poi che levata

ebbe soavemente

dal nudo avorio ogni sanguigna spoglia,

tentò di trar dalla profonda piaga

la confitta saetta: ma cedendo,

non so come, alla mano

l'insidioso calamo, nascosto

tutto lasciò nelle latebre il ferro.

Qui daddovero incominciar l'angosce.

Non fu possibil mai,

né con maestra mano,

né con ferrigno rostro,

né con altro argomento indi spiantarlo.

Forse con altra assai più larga piaga

la piaga aprendo, alle segrete vie

del ferro penetrar con altro ferro

si poteva, o doveva;

ma troppo era pietosa, e troppo amante,

per sì cruda pietà la man di Silvio.

Con sì fieri strumenti,

certo non sana i suoi feriti Amore.

Quantunque alla fanciulla innamorata

sembrasse che 'l dolor si raddolcisse

tra le mani di Silvio;

il qual perciò nulla smarrito, disse:

«quinci uscirai ben tu, ferro malvagio,

e con pena minor, che tu non credi».

Chi t'ha spinto qui dentro,

è ben anco di trartene possente:

ristorerò con l'uso della caccia

quel danno, che per l'uso

della caccia patisco.

D'un'erba or mi sovviene,

ch'è molto nota alla silvestre capra,

quand'ha lo stral nel saettato fianco:

essa a noi la mostrò, natura a lei.

Né gran fatto è lontana. Indi partissi,

e nel colle vicin subitamente,

coltone un fascio, a noi se n' venne; e quivi

trattone succo, e misto

con seme di verbena; e la radice

giuntavi del centauro; un molle impiastro

ne feo sopra la piaga.

Oh mirabil virtù. Cessa il dolore

subitamente, e si ristagna il sangue;

e 'l ferro indi a non molto,

senza fatica, o pena

la man seguendo, ubbidiente n'esce.

Tornò il vigor nella donzella, come

se non avesse mai piaga sofferta.

La qual però mortale

veramente non fu: però che 'ntatto

quinci l'alvo lasciando, e quindi l'ossa,

nel muscoloso fianco

era sol penetrata.

CORISCA

Gran virtù d'erba, e via maggior ventura

di donzella mi narri.

LINCO

Quel che tra lor sia succeduto poi,

si può piuttosto immaginar, che dire.

Certo è sana Dorinda; ed or si regge

sì ben sul fianco, che di lui servirsi

ad ogn'uso ella può. Con tutto questo,

credo, Corisca, e tu fors'anco il credi,

che di più d'uno stral ferita sia

ma come l'han trafitta arme diverse,

così diverse ancor le piaghe sono.

D'altra è fero il dolor, d'altra è soave:

l'una saldando si fa sana, e l'altra

quanto si salda men, tanto più sana:

e quel fero garzon di saettare,

mentr'era cacciator, fu così vago,

che non perde costume; ed or ch'egli ama,

di ferir anco ha brama.

CORISCA

Oh Linco: ancor se' pure

quell'amoroso Linco,

che fosti sempre.

LINCO

Oh Corisca mia cara,

d'animo Linco, e non di forze sono;

e 'n questo vecchio tronco

è più che fosse mai verde il desio.

CORISCA

Or ch'è morta Amarilli

mi resta di veder quel ch'è seguito

del mio caro Mirtillo.

Scena ottava

Ergasto. Corisca.

ERGASTO

Oh giorno pien di meraviglie: oh giorno

tutt'amor, tutto grazie, e tutto gioia:

oh terra avventurosa, oh ciel cortese.

CORISCA

Ma ecco Ergasto. Oh come viene a tempo.

ERGASTO

Oggi ogni cosa si rallegri: terra,

cielo, aria, foco, e 'l mondo tutto rida.

Passi il nostro gioire

anco fin nell'inferno,

né oggi e' sia luogo di pene eterno.

CORISCA

Quanto è lieto costui.

ERGASTO

Selve beate;

se sospirando in flebili sussurri,

al nostro lamentar vi lamentaste,

gioite anco al gioire; e tante lingue

sciogliete, quante frondi

scherzano al suon di queste,

piene del gioir nostro aure ridenti.

Cantate le venture, e le dolcezze

de' duo beati amanti.

CORISCA

Egli per certo

parla di Silvio, e di Dorinda. Insomma,

viver bisogna. Tosto

il fonte delle lagrime si secca;

ma il fiume della gioia abbonda sempre.

Della morta Amarilli,

ecco più non si parla; e sol s'ha cura

di goder con chi gode. Ed è ben fatto.

Purtroppo è pien di guai la vita umana.

Ove si va sì consolato, Ergasto?

A nozze forse?

ERGASTO

E tu l'hai detto appunto.

Inteso hai tu l'avventurosa sorte

de' duo felici amanti? Udisti mai

caso maggior, Corisca?

CORISCA

I' l'ho da Linco,

con molto mio piacer, pur ora udito.

E quel dolor ho mitigato in parte,

che per la morte d'Amarilli i' sento.

ERGASTO

Morta Amarilli? E come? E di qual caso

parli tu ora? O pensi tu ch'io parli?

CORISCA

Di Dorinda, e di Silvio.

ERGASTO

Che Dorinda, che Silvio.

Nulla dunque sai tu. La gioia mia

nasce da più stupenda,

e più alta, e più nobile radice.

D'Amarilli ti parlo, e di Mirtillo:

coppia di quante oggi ne scaldi Amore,

la più contenta, e lieta.

CORISCA

Non è morta

dunque Amarilli?

ERGASTO

Come morta? È viva

e lieta, e bella, e sposa.

CORISCA

Eh tu mi beffi.

ERGASTO

Ti beffo? Il vedrai tosto.

CORISCA

A morir dunque

condannata non fu?

ERGASTO

Fu condannata,

ma tosto anche assoluta.

CORISCA

Narri tu sogni, oppur sognando ascolto?

ERGASTO

Tosto la vedrai tu, se qui ti fermi,

col fortunato suo fedel Mirtillo

uscir dal tempio, ov'ora sono; e data

s'hanno la fe' già maritale; e verso

le case di Montano ir li vedrai,

per cor di tante, e di sì lunghe loro

amorose fatiche, il dolce frutto.

Oh se vedessi l'allegrezza immensa;

s'udissi il suon delle gioiose voci,

Corisca. Già d'innumerabil turba

è tutto pieno il tempio: uomini, e donne

quivi vedresti tu; vecchi, e fanciulli:

sacri, e profani in un confusi, e misti;

e poco men che per letizia insani.

Ognun con meraviglia

corre a veder la fortunata coppia.

Ognun la riverisce, ognun l'abbraccia:

chi loda la pietà, chi la costanza;

chi le grazie del ciel, chi di natura.

Risuona il monte, e 'l pian, le valli e i poggi

del Pastor fido il glorioso nome.

Oh ventura d'amante,

il divenir sì tosto

di povero pastore un semideo.

Passar in un momento

da morte a vita; e le vicine esequie

cangiar con sì lontane,

e disperate nozze;

ancor che molto sia,

Corisca, è però nulla.

Ma goder di colei, per cui morendo,

anco godeva? Di colei, che seco

volle sì prontamente

concorrer di morir, non che d'amare?

Correr in braccio di colei, per cui

dianzi sì volentier correva a morte?

Questa è ventura tal, questa è dolcezza,

ch'ogni pensiero avanza.

E tu non ti rallegri? E tu non senti

per Amarilli tua quella letizia,

che sent'io per Mirtillo?

CORISCA

Anzi sì pur, Ergasto;

mira come son lieta.

ERGASTO

Oh se tu avessi

veduta la bellissima Amarilli;

quando la man per pegno della fede

a Mirtillo ella porse;

e per pegno d'amor Mirtillo a lei,

un dolce sì, ma non inteso bacio,

non so se dir mi debbia, o diede, o tolse,

saresti certo di dolcezza morta,

che purpura? Che rose?

Ogni colore o di natura, o d'arte

vincean le belle guance;

che vergogna copriva

con vago scudo di beltà sanguigna,

che forza di ferirle

al feritor giungeva;

ed ella in atto ritrosetta, e schiva,

mostrava di fuggire

per incontrar più dolcemente il colpo;

e lasciò in dubbio, se quel bacio fosse

o rapito, o donato,

con sì mirabil arte

fu conceduto, e tolto. E quel soave

mostrarsene ritrosa,

era un no, che voleva: un atto misto

di rapina, e d'acquisto;

un negar sì cortese, che bramava

quel che negando, dava:

un vietar, ch'era invito,

sì dolce d'assalire,

ch'a rapir, chi rapiva, era rapito:

un restar, e fuggire,

ch'affrettava il rapire.

Oh dolcissimo bacio.

Non posso più Corisca.

Vo diritto, diritto

a trovarmi una sposa:

che 'n sì alte dolcezze,

non si può ben gioir, se non amando.

CORISCA

Se costui dice il vero;

questo è quel dì, Corisca,

che tutto perdi, o tutto acquisti il senno.

Scena nona

Coro di Pastori. Corisca. Amarilli. Mirtillo.

CORO

Vieni santo Imeneo;

seconda i nostri voti, e i nostri canti,

scorgi i beati amanti,

l'uno, e l'altro celeste semideo;

stringi il nodo fatal santo Imeneo.

CORISCA

Ohimè che troppo è vero. E cotal frutto

dalle tue vanità, misera, mieti.

Oh pensieri, oh desiri

non meno ingiusti, che fallaci, e vani.

Dunque d'una innocente

ho bramata la morte,

per adempir le mie sfrenate voglie?

Sì cruda fui? Sì cieca?

Chi m'apre or gli occhi? Ah misera che veggio?

L'orror del mio peccato,

che di felicità sembianza avea.

CORO

Vieni santo Imeneo;

seconda i nostri voti, e i nostri canti,

scorgi i beati amanti,

l'uno, e l'altro celeste semideo;

stringi il nodo fatal santo Imeneo,

deh mira, o Pastor fido,

dopo lagrime tante,

e dopo tanti affanni ove se' giunto.

Non è questa colei, che t'era tolta

dalle leggi del cielo, e della terra?

Dal tuo crudo destino?

Dalle sue caste voglie?

Dal tuo povero stato?

Dalla sua data fede, e dalla morte?

Eccola tua, Mirtillo.

Quel volto amato tanto, e que' begli occhi:

quel seno, e quelle mani,

e quel tutto, che miri, ed odi, e tocchi,

da te già tanto sospirato invano,

sarà ora mercede

della tua invitta fede. E tu non parli?

MIRTILLO

Come parlar poss'io,

se non so d'esser vivo?

Né so s'io veggia, o senta

quel, che pur di vedere,

e di sentir mi sembra?

Dica la mia dolcissima Amarilli;

però che tutta in lei

vive l'anima mia, gli affetti miei.

CORO

Vieni santo Imeneo;

seconda i nostri voti, e i nostri canti,

scorgi i beati amanti,

l'uno, e l'altro celeste semideo;

stringi il nodo fatal santo Imeneo.

CORISCA

Ma che fate voi meco,

vaghezze insidiose, e traditrici;

fregi del corpo vil, macchie dell'alma?

Itene. Assai m'avete

ingannata, e schernita.

E perché terra sete, itene a terra.

D'amor lascivo un tempo arme vi fei,

or vi fo d'onestà spoglie, e trofei.

CORO

Vieni santo Imeneo;

seconda i nostri voti, e i nostri canti,

scorgi i beati amanti,

l'uno, e l'altro celeste semideo;

stringi il nodo fatal santo Imeneo.

CORISCA

Ma che badi, Corisca?

Comodo tempo è di trovar perdono:

che fai? Temi la pena?

Ardisci pur: che pena

non puoi aver maggior della tua colpa.

Coppia beata, e bella,

tanto del cielo, e della terra amica

s'al vostro altero fato oggi s'inchina

ogni terrena forza;

ben'è ragion, che vi s'inchini ancora

colei, che contra il vostro fato, e voi

ha posto in opra ogni terrena forza.

Già no 'l nego, Amarilli, anch'io bramai

quel, che bramasti tu: ma tu te 'l godi,

perché degna ne fusti.

Tu godi il più leale

pastor, che viva, e tu, Mirtillo, godi

la più pudica ninfa

di quante n'abbia, o mai n'avesse il mondo

credete'l pur a me, che cote fui

di fede all'uno, e d'onestate all'altra.

Ma tu, ninfa cortese,

prima che l'ira tua sopra me scenda;

mira nel volto del tuo caro sposo:

quivi del mio peccato,

e del perdono tuo vedrai la forza.

In virtù di sì caro

amoroso tuo pegno

all'amoroso fallo oggi perdona,

amorosa Amarilli: ed è ben dritto,

ch'oggi perdon delle sue colpe trovi

Amore in te, se le sue fiamme provi.

AMARILLI

Non solo i' ti perdono.

Corisca, ma t'ho cara:

l'effetto sol, non la cagion mirando:

che 'l ferro, e 'l foco, ancor che doglia apporti,

pur che risani, a chi fu sano, è caro,

qualunque mi sii stata

oggi amica, o nemica,

basta a me, che 'l destino

t'usò per felicissimo strumento

d'ogni mia gioia. Avventurosi inganni,

tradimenti felici, E se ti piace

d'esser lieta ancor tu, vientene, e godi

delle nostre allegrezze.

CORISCA

Assai lieta son io

del perdon ricevuto, e del cor sano.

MIRTILLO

Ed io pur ti perdono

ogni offesa, Corisca, se non questa

troppo importuna tua lunga dimora.

CORISCA

Vivete lieti: addio.

CORO

Vieni santo Imeneo,

seconda i nostri voti, e i nostri canti,

scorgi i beati amanti,

l'uno, e l'altro celeste semideo,

stringi il nodo fatal santo Imeneo.

Scena decima

Mirtillo. Amarilli. Coro di Pastori.

MIRTILLO

Così dunque son io

avvezzo di penar, che mi conviene

in mezzo delle gioie anco languire?

Assai non ci tardava

di questa pompa il neghittoso passo,

se tra' piè non mi dava anco quest'altro

intoppo di Corisca?

AMARILLI

Ben se' tu frettoloso.

MIRTILLO

O mio tesoro,

ancor non son sicuro, ancor'i' tremo,

né sarò certo mai di possederti,

perfin che nelle mie case

non se' del padre mio fatta mia donna.

Questi mi paion sogni,

a dirti il vero, e mi par d'ora in ora

che 'l sonno mi si rompa,

e che tu mi t'involi, anima mia.

Vorrei pur ch'altra prova

mi fesse omai sentire

che 'l mio dolce vegghiar non è dormire.

CORO DI PASTORI

Vieni santo Imeneo,

seconda i nostri voti, e i nostri canti,

scorgi i beati amanti,

l'uno, e l'altro celeste semideo,

stringi il nodo fatal santo Imeneo.

CORO ULTIMO

Oh fortunata coppia,

che pianto ha seminato, e riso accoglie;

con quante amare doglie

hai raddolciti tu gli affetti tuoi.

Quinci imparate voi,

o ciechi, e troppo teneri mortali

i sinceri diletti, e i veri mali.

Non è sana ogni gioia,

né mal ciò che v'annoia.

Quello è vero gioire,

che nasce da virtù dopo il soffrire.

Fine del libretto.

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Locandina Prologo Scena unica Atto primo Scena prima Scena seconda Scena terza Scena quarta Scena quinta Atto secondo Scena prima Scena seconda Scena terza Scena quarta Scena quinta Scena sesta Atto terzo Scena prima Scena seconda Scena terza Scena quarta Scena quinta Scena sesta Scena settima Scena ottava Scena nona Atto quarto Scena prima Scena seconda Scena terza Scena quarta Scena quinta Scena sesta Scena settima Scena ottava Scena nona Atto quinto Scena prima Scena seconda Scena terza Scena quarta Scena quinta Scena sesta Scena settima Scena ottava Scena nona Scena decima