IL PASTOR FIDO
Tragicommedia pastorale.
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Libretto di Giovanni Battista GUARINI.
Musica di AUTORI VARI.
Prima esecuzione: gennaio 1602, Venezia.
Le persone che parlano:
ALFEO fiume d'Arcadia |
sconosciuto |
SILVIO figlio di Montano |
sconosciuto |
LINCO vecchio servo di Montano |
sconosciuto |
MIRTILLO amante d'Amarilli |
sconosciuto |
ERGASTO compagno di Mirtilli |
sconosciuto |
CORISCA innamorata di Mirtillo |
sconosciuto |
MONTANO padre di Silvio, sacerdote |
sconosciuto |
TITIRO padre d'Amarilli |
sconosciuto |
DAMETA vecchio servo di Montano |
sconosciuto |
SATIRO vecchio amante già di Corisca |
sconosciuto |
DORINDA innamorata di Silvio |
sconosciuto |
LUPINO capraio servo di Dorinda |
sconosciuto |
AMARILLI figlia di Titiro |
sconosciuto |
NICANDRO ministro maggiore del sacerdote |
sconosciuto |
CORIDONE amante di Corisca |
sconosciuto |
CARINO vecchio padre putativo di Mirtillo |
sconosciuto |
URANIO vecchio compagno di Carino |
sconosciuto |
MESSO |
sconosciuto |
TIRENIO cieco indovino |
sconosciuto |
Coro di Pastori.
Coro di Cacciatori.
Coro di Ninfe.
Coro di Sacerdoti.
La scena è in Arcadia.
Dedica
Hassi per fama celebre, e approvata d'autore non solo antico, ma curioso delle cose mirabili di natura; che la Fenice, stupendo, e unico augello della sua spezie; dopo che dal suo cenere per virtù dei raggi solari meravigliosamente è rinata; col suo primiero volo in verso 'l tempio del Sole forse per adorar l'autore della sua nascita, s'indirizza. Non altrimenti principe sereniss. Il Pastor fido dai chiarissimi raggi della sua grazia tante volte illustrato; e finalmente con apparecchio si sontuoso di tal regina fatto spettacolo, che fu essa spettacolo a tutta Italia: ora in questa solenne forma; quasi vaga Fenice rinovellato a alt. sereniss. come a vero e magnanimo autore della sua gloria, di primo volo se n' viene, con fine di riverirla, di ringraziarla, e esaltare, quant'è per lui possibile, il suo gran nome. Sì che dovunque il Pastor Fido si celebri, cioè per tutte quelle parti d'Europa, dove la nostra lingua si pregia; sia celebrata ancora quella virtù, colla quale l'a. v. secondo l'uso de' veri principi, abbraccia gli uomini valorosi, e con effetti d'animo grande onora l'opere loro. Né già dè ella sdegnare d'esser in pregio per cagion degli studi, che son più nobili della pace, essendo in que' della guerra tanto stimata. Percioché se dell'una, e dell'altra gli opportuni tempi sono distinti, e per ciò non potendo chi è guerriero, e principe insieme obbligato al governo de' popoli, aver sempre occasione di guerra, dov'egli degnamente possa impiegarsi; valoroso per diritta ragione dovrà esser chiamato quello, che nell'ozio non s'ammollisce, e passa con tanta agevolezza dal riposo al travaglio, che la memoria della passata quiete no ‘l renda niente men forte nel tollerare le fatiche presenti. Chi è colui, che oggi non vegga principe sereniss. che per l'addietro al valoroso animo suo l'occasione sola è mancata? Conciosiacosaché essendo ella suta un gran tempo, come macchina senza moto; non così tosto l'ha ricevuto, che non fu mai nell'armi, né Annibale sì feroce, né Pirro sì vivace, né Scipione sì valoroso, come ella in tutti i tempi delle più importanti, e malagevoli imprese di subito s'è mostrata: non senza meraviglia di tutti, e specialmente delle straniere nazioni più bellicose, alle quali ha fatto conoscere, che sorte di guerrieri produca l'ozio in Italia. Qui certo non canto favole, ne porto cose di secoli; né fatti appena vivi nell'altrui carte, e tanto veri quanto creduti: ma parlo cose sì manifeste, e tanto recenti, che s'elle fossero false; dagli eserciti vivi potrebbon essermi rinfacciate: cose da mill'occhi testè vedute, da mille lingue oggi esaltate. E come queste in un concento solo s'accordano, e del nome di lei risuonano; così non è chi sappia ben dire qual sia stato maggiore in lei o l'ardir ne' pericoli, o l'ardor nel combattere, o la sofferenza nelle fatiche, o la vigilanza nelle difficoltà, o l'accortezza nel provvedere, o 'l senno nel discorrere, o la prontezza nell'intraprendere; e finalmente qual parte o d'animoso guerriero, o di gran capitano abbia meglio, e con più lode sempre adempiuta. Ma forse oltre il dovere la troppo ardita mia penna è per soverchio affetto trascorsa. Con tutto ciò ne spero da lei perdono: poiché dovendo io dedicarle quest'opera; e perciò farla alla presenza di lei più bella, e meglio adorna, che per me sia possibile, comparire, qual bellezza, o quale ornamento poteva io procurarle, che fosse tanto nobile, e tanto degno di lei, quant'è 'l riflesso, ch'egli viene a ricever dal suo splendore? Sarà ben temerario colui, ch'adonti il Pastor Fido da tale, e tanto principe si altamente onorato. Dunque s'ella degnò di esaltarlo nella sua scena, degni ancor di gradirlo nella mia stampa la quale vuol'essa ancora splendidamente co' lumi di dottrina, coll'armonia delle muse, e con altre vaghezze d'arte, e d'ingegno rappresentarlo nel teatro del mondo agl'occhi dello 'ntelletto, come fu dinanzi a quelli del senso per opra di v. a. meraviglioso, e ricco spettacolo. Alla quale umilmente inchinandomi prego dio, che le conceda felicissimo fine d'ogni suo desiderio.
Di Venezia li 12 di gennaio MDCII
Di v. alt. serenissima
umilissimo, e devotiss servitore
Gio. Battista Ciotti.
Argomento
Sacrificavano gli Arcadi a Diana loro dèa ciascun'anno una giovane del paese; così gran tempo avanti per cessar assai più gravi pericoli; dall'oracolo consigliati, il quale indi a non molto, ricercato del fine di tanto male, aveva loro in questa guisa risposto.
Non avra prima fin quel, che v'offende,
che duo semi del ciel congiunga Amore,
e di donna infedel l'antico errore
l'alta pietà d'un Pastor Fido ammende.
Mosso da questo vaticinio Montano sacerdote della medesima dèa: si come quegli, che l'origine sua ad Ercole riferiva, procurò che fosse Silvio unico suo figliolo, sì come solennemente fu, in matrimonio promessa Amarilli nobilissima ninfa, e figlia altresì unica di Titiro discendente da Pane, le quali nozze tutto che instantemente i padri loro sollecitassero, non si recavano però al fine desiderato; conciofosse cosa che il giovinetto, il quale niuna maggior vaghezza aveva, che della caccia, dai pensieri amorosi lontanissimo si vivesse. Era in tanto della promessa Amarilli fieramente acceso un pastore nominato Mirtillo, figliolo, come egli si credea, di Carino pastore nato in Arcadia, ma che di lungo tempo nel paese di Elide dimorava, ed ella amava altresì lui, ma non ardiva di discovrirglielo per timor della legge, che con pena di morte la femminile infedeltà, severamente puniva. La qual cosa prestando a Corisca molto comoda occasione di nuocer alla donzella, odiata da lei per amor di Mirtillo, di cui essa capricciosamente s'era invaghita: sperando per la morte della rivale di vincer più agevolmente la costantissima fede di quel pastore: in guisa adopra con sue menzogne, ed inganni, che i miseri amanti incautamente, e con intenzione da quella, che vien loro imputata, molto diversa, si conducono dentro ad una spelonca, dove accusati da un satiro, ambedue sono presi, e Amarilli non potendo giustificare la sua innocenza, alla morte vien condannata, la quale ancora che Mirtillo non dubiti, lei troppo bene aver meritata; ed egli per la legge, che la sola donna castiga, sappia di poterne andar assoluto; delibera nondimeno di voler morire per lei; si come di poter fare dalla medesima legge gli è conceduto. Essendo egli dunque da Montano, a cui per essere sacerdote, questa cura s'appartenea, condotto alla morte, sopraggiunto in questo Carino, che veniva da lui cercando, e vedutolo in atto agli occhi suoi non meno miserabile che improvviso; sì come quegli, che niente meno l'amava, che se figliolo per natura stato gli fosse, mentre si sforza per camparlo da morte, di provare con sue ragioni, ch'egli sia forestiero, e perciò incapace a poter esser vittima per altrui, viene, non accorgendosene egli stesso, a scoprire, che 'l suo Mirtillo è figliolo del sacerdote Montano. Il quale suo vero padre rammaricandosi di dover essere ministro della legge nel proprio sangue, da Tirenio cieco indovino vien fatto chiaro colla interpretazione dell'oracolo stesso, non solo repugnare alla volonta de gli iddii, che quella vittima si consacri: ma essere eziandio delle miserie d'Arcadia quel fin venuto, che fu loro dalla divina voce predetta. Colla quale mentre tutto il successo vanno accordando; conchiudono, che Amarilli d'altrui non possa, ne debba essere sposa, che di Mirtillo. E perché poco innanzi Silvio, credendosi di saettare una fera, avea piagata Dorinda, miseramente accesa di lui; e per cotale accidente la solita sua durezza in amorosa pietà cangiata; poi che già era la piaga di quella ninfa, che fu creduta mortale, ridotta a termine di salute, ed era di Mirtillo divenuta sposa Amarilli; anch'esso già fatto amante, sposa Dorinda. Per cagione de' quali oltre ad ogni loro credenza felicissimi avvenimenti, ravvedutasi alfin Corisca: dopo l'aver trovato da gli amanti sposi perdono, tutta racconsolata, ancor che sazia del mondo, si dispone di cangiar vita.
Alfeo fiume d'Arcadia.
ALFEO
Se per antica, e forse
da noi negletta, e non creduta fama
avete mai d'innamorato fiume
le meraviglie udite,
che per seguir l'onda fugace, e schiva
dell'amata Aretusa
corse (o forza d'amor) le più profonde
viscere della terra;
e del mar penetrando;
là dove sotto alla gran mole etnea
non so se fulminato, o fulminante
vibra il fiero gigante
contra 'l nemico ciel fiamme di sdegno
quel son io: già l'udiste, or ne vedete
prova tal, ch'a noi stessi
fede negar non lice.
Ecco lasciando il corso antico, e noto
per incognito mar l'onda incontrando
del re de' fiumi altero,
qui sorgo, e lieto a rivederne vegno
qual esser già solea libera, e bella,
or desolata, e serva,
quell'antica mia terra, ond'io derivo.
O cara genitrice: o dal tuo figlio
riconosciuta Arcadia:
riconosci il tuo caro,
e già non men di te famoso Alfeo.
Queste son le contrade
sì chiare un tempo: e queste son le selve,
ove 'l prisco valor visse, e morio.
In questo angolo sol del ferreo mondo,
cred'io che ricovrasse il secol d'oro,
quando fuggia le scellerate genti.
Qui non veduta altrove
libertà moderata, e senza invidia
fiorir si vide, in dolce sicurezza
non custodita, e n' disarmata pace.
Cingea popolo inerme
un muro d'innocenza, e di virtute,
assai più impenetrabile di quello,
che d'animati sassi
canoro fabbro alla gran Tebe eresse.
E quando più di guerre, e di tumulti
arse la Grecia, e gli altri suoi guerrieri
popoli armò l'Arcadia,
a questa sola fortunata parte;
a questo sacro asilo
strepito mai non giunse né d'amica
né di nemica tromba.
E sperò tanto sol Tebe, e Corinto,
e Micene, e Megara, e Patra, e Sparta
di trionfar del suo nemico, quanto
l'ebbe cara e guardolla
questa amica del ciel devota gente,
di cui fortunatissimo riparo
fur esse in terra, ella di lor nel cielo:
pugnando altri con l'armi, ella co' prieghi.
E benché qui ciascuno
abito e nome pastorale avesse,
non fu però ciascuno,
né di pensier, né di costumi rozzo:
però ch'altri fu vago
di spiar tra le stelle, e gli elementi
di natura, e del ciel gli alti segreti:
altri di seguir l'orme
di fuggitiva fera.
Altri con maggior gloria
d'atterrar orso o d'assalir cignale.
Questi rapido al corso,
e quegli al duro cesto
fiero mostrossi ed alla lotta invitto.
Chi lanciò dardo, e chi ferì di strale
il destinato segno.
Chi d'altra cosa ebbe vaghezza, come
ciascun suo piacer segue.
La maggior parte amica
fu delle sacre muse: amore, e studio
beato un tempo, or infelice, e vile.
Ma chi mi fa veder dopo tant'anni
qui trasportata, dove
scende la Dora in Po, l'Arcada terra?
Questa la chiostra è pur, questo quel antro
dell'antica Ericina.
E quel, che colà sorge è pur il tempio
alla gran Cintia sacro. Or qual m'appare
miracolo stupendo?
Che 'nsolito valor, che virtù nova
vegg'io di trapiantar popoli e terre?
O fanciulla reale,
d'eta fanciulla, e di saver già donna:
virtù del vostro aspetto.
Valor del vostro sangue,
gran Caterina, (or me n'avveggio), è questa
di quel sublime, e glorioso sangue,
alla cui monarchia nascono i mondi.
Questi sì grandi effetti,
che sembran meraviglie,
opre son vostre usate, opre natie,
come a quel sol, che d'oriente sorge
tante cose leggiadre
produce il mondo: erbe, fior, fronde e tante
in cielo, in terra in mare alme viventi,
così al vostro possente, altero sole,
ch'uscì dal grande, e per voi chiaro occaso
si veggon d'ogni clima
nascer province, e regni,
e crescer palme, e pullular trofei.
A voi dunque m'inchino, altera figlia
di quel monarca, a cui
né anco quando annotta il sol tramonta:
sposa di quel gran duce,
al cui senno, al cui petto, alla cui destra
commise il ciel la cura
dell'italiche mura.
Ma non bisogna più d'alpestre rupi
schermo, o d'orride balze.
Stia pur la bella Italia
per voi sicura, e suo riparo, invece
delle grand'alpi, una grand'alma or sia.
Quel suo tanto di guerra
propugnacolo invitto,
è per voi fatto alle nemiche genti
quasi tempio di pace,
ove novella deità s'adori.
Vivete pur, vivete
lungamente concordi anime grandi,
che da sì glorioso, e santo nodo
spera gran cose il mondo;
ed ha ben anco, ove fondar sua speme.
Se mira in oriente
con tanti scettri il suo perduto impero,
campo sol di voi degno,
o magnanimo Carlo, e dai vestigi
dei grand'avoli vostri ancora impresso:
augusta è questa terra,
augusti i vostri nomi, augusto il sangue,
i sembianti, i pensier, gli animi augusti;
saran ben anco augusti i parti, e l'opre.
Ma voi, mentre v'annunzio
corone d'oro, e le prepara il fato,
non isdegnate queste,
nelle piagge di Pindo
d'erbe e di fior conteste
per man di quelle vergini canore,
che, malgrado di morte altrui dan vita:
picciole offerte sì; ma però tali,
che se con puro affetto il cor le dona,
anco il ciel non le sdegna. E se dal vostro
serenissimo ciel d'aura cortese
qualche spirto non manca,
la cetra, che per voi
vezzosamente or canta
teneri amori, e placidi imenei,
sonerà fatta tromba arme e trofei.
Silvio, Linco.
SILVIO
Ite voi, che chiudeste
l'orribil fera, a dar l'usato segno
de la futura caccia. Ite svegliando
gli occhi col corno, e con la Voce i cori.
Se fu mai nell'Arcadia
pastor di Cintia, e de' suoi studi amico,
cui stimolasse il generoso petto
cura o gloria di selve,
oggi il mostri, e me segua,
là dove in picciol giro,
ma largo campo al valor nostro, è chiuso,
quel terribil cinghiale,
quel mostro di natura, e delle selve;
quel sì vasto, e sì fero,
e per le piaghe altrui
sì noto abitator dell'Erimanto,
strage delle campagne,
e terror de' bifolchi. Ite voi dunque,
e non sol precorrete,
ma provocate ancora
col rauco suon la sonnacchiosa Aurora.
Noi, Linco, andiamo a venerar gli dèi,
con più sicura scorta
seguirem poi la destinata caccia.
Chi ben comincia, ha la meta dell'opra;
né si comincia ben se non dal cielo.
LINCO
Lodo ben Silvio, il venerar gli déi,
ma il dar noia a coloro,
che son ministri degli déi, non lodo.
Tutti dormono ancora
i custodi del tempio, i quai non hanno
più tempestivo, o lucido orizzonte
della cima del monte.
SILVIO
A te, che forse non se' desto ancora,
par ch'ogni cosa addormentata sia.
LINCO
O Silvio, Silvio: a che ti diè natura
ne' più begli anni tuoi
fior di beltà sì delicato, e vago,
se tu se' tanto a calpestarlo intento?
Che s'avess'io cotesta tua sì bella,
e sì fiorita guancia,
addio, selve, direi;
e seguendo altre fere,
e la vita passando in festa, e 'n gioco,
farei la state all'ombra, e 'l verno al foco.
SILVIO
Così fatti consigli
non mi desti mai più: come se' ora
tanto da te diverso?
LINCO
Altri tempi, altre cure.
Così certo farei, se Silvio fossi.
SILVIO
Ed io, se fussi Linco;
ma perché Silvio sono,
oprar da Silvio, e non da Linco i' voglio.
LINCO
O garzon folle; a che cercar lontana
e perigliosa fera,
se l'hai via più d'ogni altra
e vicina e domestica e sicura?
SILVIO
Parli tu da davvero, o pur vaneggi?
LINCO
Vaneggi tu, non io.
SILVIO
Ed è così vicina?
LINCO
Quanto tu di te stesso.
SILVIO
In qual selva s'annida?
LINCO
La selva se' tu, Silvio;
e la fera crudel, che vi s'annida,
è la tua feritate.
SILVIO
Come ben m'avvisai, che vaneggiavi.
LINCO
Una ninfa sì bella e sì gentile,
ma che dissi una ninfa? Anzi una dèa,
più fresca, e più vezzosa,
di mattutina rosa;
e più molle, e più candida del cigno,
per cui non è sì degno
pastor oggi tra noi, che non sospiri,
e non sospiri invano;
a te solo dagli uomini, e dal cielo
destinata si serba;
ed oggi tu, senza sospiri, e pianti,
(o troppo indegnamente
garzon avventuroso) aver la puoi
nelle tue braccia, e tu la fuggi Silvio?
E tu la sprezzi? E non dirò che 'l core
abbi di fera, anzi di ferro il petto?
SILVIO
Se 'l non aver amore è crudeltate,
crudeltate è virtute, e non mi pento,
ch'ella sia nel mio cor, ma me ne pregio;
poiché solo con questa ho vinto Amore,
fera di lei maggiore.
LINCO
E come vinto l'hai
se no 'l provasti mai?
SILVIO
No 'l provando l'ho vinto.
LINCO
Oh s'una sola
volta il provassi, o Silvio,
se sapessi una volta
qual è grazia, e ventura
l'esser amato, il possedere amando
un riamante core,
so ben io che diresti,
dolce vita amorosa
perché sì tardi nel mio cor venisti?
Lascia, lascia le selve,
folle garzon,
lascia le fere, ed ama.
SILVIO
Linco, di' pur se sai,
mille ninfe darei per una fera,
che da Melampo mio cacciata fosse.
Godasi queste gioie,
chi n'ha di me più gusto, io non le sento.
LINCO
E che sentirai tu s'amor non senti,
sola cagion di ciò che sente il mondo?
Ma credimi fanciullo
a tempo il sentirai,
che tempo non avrai.
Vuol una volta Amor ne' cuori nostri
mostrar quant'egli vale.
Credi a me pur, che 'l provo,
non è pena maggiore
che 'n vecchie membra il pizzicor d'Amore.
Che mal si può sanar quel che s'offende,
quanto più di sanarlo altri procura:
se 'l giovinetto core Amor ti pugne,
Amor anco te l'ugne:
se col duol il tormenta,
con la speme il consola;
e s'un tempo l'ancide, alfine il sana:
ma s'e' ti giugne in quella fredda etade,
ove il proprio difetto
più che la colpa altrui spesso si piange,
allora insopportabili, e mortali
son le sue piaghe, allor le pene acerbe;
allora se pietà tu cerchi, male,
se non la trovi, e se la trovi, peggio.
Deh non ti procacciar prima del tempo
i difetti del tempo.
Che se t'assale alla canuta etate
amoroso talento,
avrai doppio tormento,
e di quel, che potendo non volesti,
e di quel, che volendo non potrai.
Lascia lascia le selve,
folle garzon; lascia le fere, ed ama.
SILVIO
Come vita non sia
se non quella, che nutre
amorosa insanabile follia.
LINCO
Dimmi, se 'n questa sì ridente, e vaga
stagion, che 'nfiora, e rinovella il mondo,
vedessi, invece di fiorite piagge,
di verdi prati, e di vestite selve,
starsi il pino, e l'abete, e 'l faggio, e l'orno
senza l'usata lor frondosa chioma,
senz'erbe i prati, e senza fiori i poggi,
non diresti tu Silvio il mondo langue?
La natura vien meno? Or quell'orrore,
e quella meraviglia, che devresti
di novità sì mostruosa avere,
abbila di te stesso. Il ciel n'ha dato
vita agli anni conforme, ed all'etate
somiglianti costumi: e come amore
in canuti pensier si disconviene,
così la gioventù d'amor nemica
contrasta al cielo, e la natura offende.
Mira d'intorno, Silvio,
quanto il mondo ha di vago, e di gentile,
opra è d'amore, amante è il cielo; amante
la terra; amante il mare.
Quella, che lassù miri innanzi all'alba
così leggiadra stella,
ama d'amor anch'ella, e del suo figlio
sente le fiamme: ed essa, che 'nnamora,
innamorata splende.
E questa è forse l'ora
che le furtive sue dolcezze, e 'l seno
del caro amante lassa.
Vedila pur come sfavilla, e ride.
Amano per le selve
le mostruose fere, aman per l'onde
i veloci delfini, e l'orche gravi.
Quell'augellin, che canta
sì dolcemente, e lascivetto vola
or dall'abete al faggio,
ed or dal faggio al mirto,
s'avesse umano spirto,
direbbe, ardo d'amore, ardo d'amore;
ma ben arde nel core,
e parla in sua favella,
sì che l'intende il suo dolce desio:
et odi appunto, Silvio,
il suo dolce desio,
che gli risponde, ardo d'amore anch'io.
Mugge in mandra l'armento, e que' muggiti
sono amorosi inviti.
Rugge il leone al bosco;
né quel ruggito è d'ira,
così d'amor sospira.
Alfine ama ogni cosa
se non tu Silvio, e sarà Silvio solo
in cielo, in terra, in mare
anima senza amore?
Deh lascia omai le selve,
folle garzon, lascia le fere, ed ama.
SILVIO
A te dunque commessa
fu la mia verde età, perché d'amori,
e di pensieri effeminati, e molli
tu l'avessi a nudrir? Né ti sovviene
chi se' tu, chi son io?
LINCO
Uomo sono, e mi pregio
d'esser umano: e teco, che se' uomo,
o che piuttosto esser dovresti, parlo
di cosa umana; e se di cotal nome
forse ti sdegni, guarda
che nel disumanarti
non divenghi una fera, anzi che un dio.
SILVIO
Né sì famoso mai, né mai sì forte
stato sarebbe il domator de' mostri,
dal cui gran fonte il sangue mio deriva,
se' non avesse pria domato Amore.
LINCO
Vedi, cieco fanciul, come vaneggi.
Dove saresti tu, dimmi, s'amante
stato non fosse il tuo famoso Alcide?
Anzi se guerre vinse, e mostri ancise,
gran parte Amor ve n'ebbe. Ancor non sai,
che per piacer ad Onfale, non pure
volle cangiar in femminili spoglie
del feroce leon l'ispido tergo,
ma, della clava noderosa invece
trattare il fuso, e la conocchia imbelle?
Così delle fatiche, e degli affanni
prendea ristoro, e nel bel sen di lei,
quasi in porto d'Amor solea ritrarsi;
che sono i suoi sospir dolci respiri
delle passate noie, e quasi acuti
stimoli al cor nelle future imprese.
E come il rozzo, ed intrattabil ferro,
temprato con più tenero metallo,
affina sì, che sempre e più resiste,
e per uso più nobile s'adopra,
così vigor indomito, e feroce,
che nel proprio furor spesso si rompe,
se con le sue dolcezze Amor il tempra,
diviene all'opra generoso, e forte.
Se d'esser dunque imitator tu brami
d'Ercole invitto, e suo degno nipote,
poi che lasciar non vuoi le selve, almeno
segui le selve, e non lasciar Amore;
un amor sì legittimo, e sì degno,
com'è quel d'Amarilli, che se fuggi
Dorinda, i' te ne scuso, anzi pur lodo,
ch'a te, vago d'onore, aver non lice
di furtivo desio l'animo caldo,
per non far torto alla tua cara sposa.
SILVIO
Che di' tu Linco? Ancor non è mia sposa.
LINCO
Da lei dunque la fede
non ricevesti tu solennemente?
Guarda garzon superbo
non irritar gli dèi.
SILVIO
L'umana libertate è don del cielo;
che non fa forza a chi riceve forza.
LINCO
Anzi se tu l'ascolti, e ben l'intendi,
a questo il ciel ti chiama,
il ciel ch'alle tue nozze
tante grazie promette, e tanti onori.
SILVIO
Altro pensiero appunto
i sommi déi non hanno, appunto questa
l'almo riposo lor cura molesta.
Linco né questo amor, né quel mi piace.
Cacciator non amante al mondo nacqui,
tu che seguisti Amor, torna al riposo.
LINCO
Tu derivi dal cielo,
crudo garzon? Né di celeste seme
ti cred'io, né d'umano;
e se pur se' d'umano, i' giurerei
che tu fussi piuttosto
col velen di Tisifone, e d'Aletto,
che col piacer di Venere concetto.
Mirtillo, Ergasto.
MIRTILLO
Cruda Amarilli, che col nome ancora
d'amar, ahi lasso, amaramente insegni;
Amarilli del candido ligustro
più candida, e più bella;
ma dell'aspido sordo
e più sorda, e più fera, e più fugace,
poi che col dir t'offendo
i' mi morrò tacendo;
ma grideran per me le piagge, e i monti,
e questa selva, a cui
sì spesso il tuo bel nome
di risonare insegno:
per me piangendo i fonti,
e mormorando i venti
diranno i miei lamenti:
parlerà nel mio volto
la pietate, e 'l dolore;
e se fia muta ogn'altra cosa, al fine
parlerà il mio morire,
e ti dirà la morte il mio martìre.
ERGASTO
Mirtillo, Amor fu sempre un fier tormento,
ma più quanto è più chiuso;
però ch'egli dal freno,
ond'è legata un'amorosa lingua,
forza prende, e s'avanza;
e più fiero è prigion, che non è sciolto.
Già non dovevi tu sì lungamente
celarmi la cagion della tua fiamma,
se la fiamma celar non mi potevi.
Quante volte l'ho detto; arde Mirtillo,
ma in chiuso foco e' si consuma, e tace.
MIRTILLO
Offesi me per non offender lei,
cortese Ergasto, e sarei muto ancora;
ma la necessità m'ha fatto ardito.
Odo una voce mormorar d'intorno,
che per l'orecchie mi ferisce il core,
delle vicine nozze d'Amarilli.
Ma chi ne parla ogni altra cosa tace,
ed io più innanzi ricercar non oso;
sì per non dar altrui di me sospetto,
come per non trovar quel, che pavento.
So ben, Ergasto, e non m'inganna Amore,
ch'alla mia bassa, e povera fortuna
sperar non lice in alcun tempo mai,
che ninfa sì leggiadra, e sì gentile,
e di sangue, e di spirto, e di sembiante
veramente divina, a me sia sposa:
ben conosco il tenor della mia stella:
nacqui solo alle fiamme, e 'l mio destino
d'arder mi feo, non di gioirne degno.
Ma poi ch'era ne' fati, ch'io dovessi
amar la morte, e non la vita mia;
vorrei morir almen, sì che la morte
da lei, che n'è cagion, gradita fosse,
né si sdegnasse all'ultimo sospiro
di mostrarmi i begli occhi, e dirmi muori.
Vorrei, prima che passi a far beato
delle sue nozze altrui, ch'ella m'udisse
almen sola una volta. Or se tu m'ami,
ed hai di me pietate, in ciò t'adopra,
cortesissimo Ergasto, in ciò m'aita.
ERGASTO
Giusto desio d'amante, e di chi muore
lieve mercé, ma faticosa impresa.
Misera lei se risapesse il padre,
ch'ella a prieghi furtivi avesse mai
inchinate l'orecchie, o pur ne fosse
al sacerdote suocero accusata.
Per questo forse ella ti fugge, e forse
t'ama, ancorché no 'l mostri, che la donna
nel desiar è ben di noi più frale,
ma nel celar il suo desio, più scaltra.
E se fosse pur ver, ch'ella t'amasse,
che potrebbe altro far se non fuggirti?
Chi non può dar aita, indarno ascolta,
e fugge con pietà, chi non s'arresta
senz'altrui pena: ed è sano consiglio
tosto lasciar quel, che tener non puoi.
MIRTILLO
O se ciò fosse vero, o s'io 'l credessi,
care mie pene, e fortunati affanni.
Ma se ti guardi il ciel, cortese Ergasto,
non mi tacer qual è il pastor tra noi
felice tanto, e delle stelle amico.
ERGASTO
Non conosci tu Silvio, unico figlio
di Montan sacerdote di Diana,
sì famoso pastore oggi e sì ricco?
Quel garzon sì leggiadro? Quegli è desso.
MIRTILLO
Fortunato fanciul, che 'l tuo destino
trovi maturo in così acerba etate;
né te l'invidio no, ma piango il mio.
ERGASTO
E veramente invidiar no 'l déi,
che degno è di pietà più che d'invidia.
MIRTILLO
E perché di pietà?
ERGASTO
Perché non l'ama.
MIRTILLO
Ed è vivo? Ed ha core? E non è cieco?
Benché se dritto miro,
a lei per altro core
non restò fiamma più, quando nel mio
spirò da quei begli occhi
tutte le fiamme sue, tutti gli amori.
Ma perché dar sì preziosa gioia
a chi non la conosce? A chi la sprezza?
ERGASTO
Perché promette a queste nozze il cielo
la salute d'Arcadia. Non sai dunque,
che qui si paga ogn'anno alla gran dèa
dell'innocente sangue d'una ninfa
tributo miserabile, e mortale?
MIRTILLO
Unqua più non l'udii, né ciò m'è nuovo,
che nuovo ancora abitator qui sono,
e come vuol Amore, e 'l mio destino,
quasi pur sempre abitator de' boschi:
ma qual peccato il meritò sì grave?
Come tant'ira un cor celeste accoglie?
ERGASTO
Ti narrerò delle miserie nostre
tutta da capo la dolente istoria,
che trar porria da queste dure querce
pianto, e pietà, nonché dai petti umani.
In quella età, che 'l sacerdozio santo,
e la cura del tempio ancor non era
a sacerdote giovane contesa.
Un nobile pastor chiamato Aminta,
sacerdote in quel tempo, amò Lucrina
ninfa leggiadra a meraviglia, e bella;
ma senza fede a meraviglia, e vana.
Gradì costei gran tempo, o 'l mostrò forse
con simulati, e perfidi sembianti,
del giovane amoroso il puro affetto,
e di false speranze anco nudrillo,
(misero) mentre alcun rival non ebbe.
Ma non sì tosto (or vedi instabil donna)
rustico pastorel l'ebbe guatata;
che i primi sguardi non sostenne, i primi
sospiri, e tutta al nuovo amor si diede,
prima che gelosia sentisse Aminta.
Misero Aminta, che da lei fu poscia
e sprezzato, e fuggito; sì ch'udirlo,
né vederlo mai più l'empia non volle.
Se piangesse il meschin, se sospirasse,
pensa 'l tu, che per prova intendi Amore.
MIRTILLO
Ohimè questo è 'l dolor, ch'ogn'altro avanza.
ERGASTO
Ma poiché dietro al cor perduto, ebbe anco
i sospiri perduti, e le querele;
volto pregando, alla gran dèa: se mai,
disse, con puro cor, Cintia: se mai,
con innocente man fiamma t'accesi,
vendica tu la mia sotto la fede
di bella ninfa, e perfida tradita.
Udì del fido amante, e del suo caro
sacerdote Diana i prieghi, e 'l pianto:
tal che nella pietà l'ira spirando,
fe' lo sdegno più fero; ond'ella prese
l'arco possente, e saettò nel seno
della misera Arcadia non veduti
strali, ed inevitabili di morte.
Perìan senza pietà, senza soccorso
d'ogni sesso le genti, e d'ogni etate:
vani erano i rimedi; il fuggir tardo,
inutil l'arte, e prima che l'infermo,
spesso nell'opra il medico cadea.
Restò solo una speme in tanti mali
del soccorso del cielo e s'ebbe tosto
al più vicino oracolo ricorso,
da cui venne risposta assai ben chiara,
ma sopra modo orribile, e funesta.
Che Cintia era sdegnata, e che placarla
si sarebbe potuto, se Lucrina,
perfida ninfa, ovvero altri per lei
di nostra gente, alla gran dèa si fosse
per man d'Aminta in sacrificio offerta:
la qual, poi ch'ebbe indarno pianto, e 'ndarno
dal suo nuovo amator soccorso atteso,
fu con pompa solenne al sacro altare
vittima lagrimevole condotta:
dove, a quei piè che la seguiro invano
già tanto, ai piè, dell'amator tradito,
le tremanti ginocchia alfin piegando,
dal giovane crudel morte attendea.
Strinse intrepido Aminta il sacro ferro,
e parea ben, che dall'accese labbra
spirasse ira, e vendetta: indi, a lei volto
disse con un sospir nunzio di morte.
Dalla miseria tua, Lucrina, mira
qual amante seguisti; e qual lasciasti
mira'l da questo colpo: e così detto,
ferì sé stesso, e nel sen proprio immerse
tutto 'l ferro, ed esangue in braccio a lei
vittima, e sacerdote in un cadeo.
A sì fero spettacolo, e sì nuovo
instupidì la misera donzella
tra viva, e morta; e non ben certa ancora
s'esser dal ferro, o dal dolor trafitta.
Ma come prima ebbe la voce, e 'l senso,
disse piangendo: o fido, o forte Aminta,
o troppo tardi conosciuto amante,
che m'hai data morendo, e vita, e morte.
Se fu colpa il lasciarti, ecco l'ammendo
con l'unir teco eternamente l'alma.
E questo detto, il ferro stesso, ancora
nel caro sangue tiepido, e vermiglio,
tratto dal morto, e tardi amato petto,
il suo petto trafisse; e sopra Aminta,
che morto ancor non era e sentì forse
quel colpo in braccio si lasciò cadere.
Tal fine ebber gli amanti; a tal miseria
troppo amor, e perfidia ambedue trasse.
MIRTILLO
O misero pastor, ma fortunato,
ch'ebbe sì largo, e sì famoso campo
di mostrar la sua fede, e di far viva
pietà nell'altrui cor con la sua morte.
Ma che seguì della cadente turba?
Trovò fine il suo mal? Placossi Cintia?
ERGASTO
L'ira s'intiepidì, ma non s'estinse;
che dopo l'anno in quel medesmo tempo
con ricaduta più spietata, e fiera,
incrudelì lo sdegno, onde, di nuovo
per consiglio all'oracolo tornando,
si riportò della primiera assai
più dura, e lagrimevole risposta:
che si sacrasse allora, e poscia ogn'anno
vergine, o donna alla sdegnata dèa,
che 'l terzo lustro empiesse, ed oltre al quarto
non s'avanzasse; e così d'una il sangue
l'ira spegnesse apparecchiata a molti.
Impose ancora all'infelice sesso
una molto severa, e, se ben miri
la sua natura, inosservabil legge;
legge scritta col sangue: che qualunque
donna, o donzella abbia la fé d'amore,
come che sia, contaminata o rotta,
s'altri per lei non muore, a morte sia
irremissibilmente condannata.
A questa dunque sì tremenda, e grave
nostra calamità spera il buon padre
di trovar fin con le bramate nozze;
però che dopo alquanto tempo, essendo
ricercato l'oracolo, qual fine
prescritto avesse a nostri danni il cielo,
ciò ne predisse in cotai voci appunto.
Non avrà prima fin quel, che v'offende,
che duo semi del ciel congiunga Amore,
e di donna infedel l'antico errore
l'alta pietà d'un Pastor Fido ammende.
Or nell'Arcadia tutta altri rampolli
di celesti radici oggi non sono,
che Silvio, ed Amarillide; che l'una
vien del seme di Pan, l'altro d'Alcide.
Né per nostra sciagura in altro tempo
s'incontraron giammai femmina, e maschio,
com'or, delle due schiatte; e però quinci
di sperar bene ha gran ragion Montano.
E benché tutto quel, che ci promette
la risposta fatale, ancor non segua;
pur questo è 'l fondamento: il resto poi
ha negli abissi suoi nascosto il fato,
e sarà parto un dì di queste nozze.
MIRTILLO
O sfortunato, e misero Mirtillo:
tanti fieri nemici,
tant'armi, e tanta guerra
contra un cor moribondo?
Non bastava Amor solo,
se non s'armava alle mie pene il fato?
ERGASTO
Mirtillo, il crudo Amore
si pasce ben, ma non si sazia mai,
di lagrime, e dolore.
Andiamo; i' ti prometto
di porre ogni mio ingegno,
perché la bella ninfa oggi t'ascolti:
tu datti pace intanto.
Non son come a te pare,
questi sospiri ardenti
refrigerio del core,
ma son piuttosto impetuosi venti,
che spiran nell'incendio, e 'l fan maggiore:
con turbini d'Amore,
ch'apportan sempre ai miserelli amanti
foschi nembi di duol, piogge di pianti.
Corisca.
Chi vide mai, chi mai udì più strana,
e più folle, e più fera, e più importuna
passione amorosa? Amore ed odio
con sì mirabil tempre in un cor misti,
che l'un per l'altro (e non so ben dir come)
e si strugge, e s'avanza, e nasce, e muore.
S'i' miro alle bellezze di Mirtillo,
dal piè leggiadro al grazioso volto,
il vago portamento, il bel sembiante,
gli atti, i costumi, e le parole, e 'l guardo:
m'assale Amor con sì possente foco,
ch'i' ardo tutta, e par, ch'ogn'altro affetto
da questo sol sia superato, e vinto:
ma se poi penso all'ostinato amore,
ch'ei porta ad altra donna, e che per lei
di me non cura, e sprezza, (il vo' pur dire)
la mia famosa, e da mill'alme, e mille
inchinata beltà, bramata grazia,
l'odio così, così l'aborro, e schivo,
ch'impossibil mi par, ch'unqua per lui
mi s'accendesse al cor fiamma amorosa.
Talor meco ragiono, o, s'i' potessi
gioir del mio dolcissimo Mirtillo,
sì che fosse mio tutto, e ch'altra mai
no 'l potesse godere, o più d'ogn'altra
beata, e felicissima Corisca.
Ed in quel punto in me sorge un talento
verso di lui sì dolce, e sì gentile,
che di seguirlo, e di pregarlo ancora,
e di scoprirgli il cor prendo consiglio:
che più? Così mi stimola il desio,
che se potessi allor l'adorerei:
dall'altra parte, i' mi risento, e dico;
un ritroso? Uno schifo? Un che non degna?
Un che può d'altra donna essere amante?
Un ch'ardisce mirarmi, e non m'adora?
E dal mio volto si difende in guisa;
che per amor non more? Ed io, che lui
devrei veder, come molti altri i' veggio,
supplice, e lagrimoso a' piedi miei.
Supplice, e lagrimosa a' piedi suoi
sosterrò di cadere? Ah non fia mai;
ed in questo pensier tant'ira accoglio
contra di lui, contra di me, che volsi
a seguirlo il pensier gli occhi a mirarlo,
che 'l nome di Mirtillo, e l'amor mio
odio più che la morte, e lui vorrei
vedere il più dolente, il più infelice
pastor che viva, e se potessi allora
con le mie proprie man l'anciderei.
Così sdegno, e desire, odio, ed amore
mi fanno guerra, ed io che stata sono
sempre fin qui di mille cor la fiamma,
di mill'alme il tormento, ardo, e languisco,
e provo nel mio mal le pene altrui;
io che tant'anni in cittadina schiera
di vezzosi, leggiadri, e degni amanti
fui sempre insuperabile, schernendo
tante speranze lor, tanti desiri,
or da rustico amor, da vile amante,
da rozzo pastorel son presa, e vinta.
Oh più d'ogn'altra misera Corisca,
che sarebbe di te, se sprovveduta
ti trovassi or d'amante? Che faresti
per mitigar quest'amorosa rabbia?
Impari alle mie spese oggi ogni donna
a far conserva, e cumulo d'amanti.
S'altro ben non avessi, altro trastullo
che l'amor di Mirtillo, non sarei
ben fornita di vago? O mille volte
mal consigliata donna, che si lascia
ridurre in povertà d'un solo amore.
Sì sciocca mai non sarà già Corisca.
Che fede? Che costanza? Immaginate
favole de' gelosi, e nomi vani
per ingannar le semplici fanciulle.
La fede in cor di donna, se pur fede
in donna alcuna (ch'io no 'l so) si trova,
non è bontà, non è virtù, ma dura
necessità d'Amor, misera legge
di fallita beltà, ch'un sol gradisce,
perché gradita esser non può da molti.
Bella donna, e gentil, sollecitata
da numeroso stuol di degni amanti,
se d'un solo è contenta, e gli altri sprezza,
o non è donna o, se pur donna, è sciocca.
Che val beltà non vista? E, se pur vista,
non vagheggiata? E se pur vagheggiata,
vagheggiata da un solo? E quanti sono
più frequenti gli amanti e di più pregio
tanto ella d'esser gloriosa, e rara,
pegno nel mondo ha più sicuro, e certo.
La gloria, e lo splendor di bella donna
è l'aver molti amanti. Così fanno
nelle cittadi ancor le donne accorte,
e 'l fan più le più belle e le più grandi.
Rifiutare un amante, appresso loro,
è peccato, e sciocchezza; e quel, ch'un solo
far non può, molti fanno. Altri a servire,
altri a donare, altri ad altr'uso è buono;
e spesso avvien, che, no 'l sapendo l'uno
scaccia la gelosia che l'altro diede,
o la risveglia in tal, che pria non l'ebbe.
Così nelle città vivon le donne
amorose, e gentili, ov'io col senno,
e con l'esempio già di donna grande
l'arte di ben amar fanciulla appresi.
Corisca, mi dicea, si vuole appunto
far degli amanti quel che delle vesti:
molti averne, un goderne, e cangiar spesso,
che 'l lungo conversar genera noia,
e la noia disprezzo, e odio alfine.
Né far peggio può donna, che lasciarsi
svogliar l'amante: fa' pur ch'egli parta
fastidito da te, non di te mai.
E così sempre ho fatto. Amo d'averne
gran copia, e li trattengo, e honne sempre
un per mano, un per occhio; ma di tutti
il migliore, e 'l più comodo nel seno,
e quanto posso più nel cor nessuno.
Ma non so come a questa volta (ahi lassa)
v'è pur giunto Mirtillo, e mi tormenta
sì: che a forza sospiro; e quel ch'è peggio,
di me sospiro, e non inganno altrui;
e le membra al riposo, e gli occhi al sonno
furando anch'io, so desiar l'aurora,
felicissimo tempo degli amanti
poco tranquilli: ed ecco io vo per queste
ombrose selve anch'io cercando l'orme
dell'odiato mio dolce desio.
Ma che farai, Corisca? Il pregherai?
No, che l'odio non vuol, bench'io 'l volessi:
il fuggirai? Né questo Amor consente,
benché far il devrei: che farò dunque?
Tenterò prima le lusinghe, e i prieghi,
e scoprirò l'amor, ma non l'amante;
se ciò non giova, adoprerò l'inganno
e se questo non può, farà lo sdegno
vendetta memorabile. Mirtillo,
se non vorrai amor, proverai odio;
ed Amarilli tua farò pentire
d'esser a me rivale, a te sì cara:
e finalmente proverete entrambi
quel, che può sdegno in cor di donna amante.
Titiro, Montano, Dameta.
TITIRO
Vagliami il ver, Montano, i' so che parlo
a chi di me più intende: oscuri sempre
sono assai più gli oracoli di quello,
ch'altri si crede: e le parole loro
sono come il coltel; che, se tu 'l prendi
in quella parte, ove per uso umano
la man s'adatta, a chi l'adopra è buono;
ma chi 'l prende ove fere, è spesso morte.
Ch'Amarillide mia, come argomenti,
sia per alto destin dal cielo eletta
alla salute universal d'Arcadia;
chi più deve bramarlo, e caro averlo
di me, che le son padre? Ma, s'i' miro
a quel, che n'ha l'oracolo predetto,
mal si confanno alla speranza i segni.
S'unir gli deve Amor, come fia questo,
se fugge l'un? Com'esser pon gli stami
d'amoroso ritegno odio, e disprezzo?
Mal si contrasta quel, ch'ordina il cielo;
e se pur si contrasta, è chiaro segno
che non l'ordina il cielo; a cui se pure
piacesse ch'Amarillide consorte
fosse di Silvio tuo, piuttosto amante
lui fatto avria, che cacciator di fere.
MONTANO
Non vedi tu com'è fanciullo? Ancora
non ha fornito il diciottesim'anno,
ben sentirà col tempo anch'egli amore.
TITIRO
E 'l può sentir di fera, e non di ninfa?
MONTANO
A giovinetto cor più si conface.
TITIRO
E non Amor, ch'è naturale affetto?
MONTANO
Ma senza gli anni è natural difetto.
TITIRO
Sempre e' fiorisce alla stagion più verde.
MONTANO
Può ben forse fiorir, ma senza frutto.
TITIRO
Col fior maturo ha sempre il frutto Amore.
Qui non venn'io né per garrir, Montano,
né per contender teco: che né posso,
né fare il debbo; ma son padre anch'io
d'unica, e cara, e, se mi lece dirlo,
meritevole figlia: e con tua pace
da molti chiesta, e desiata ancora.
MONTANO
Titiro, ancor che queste nozze in cielo
non iscorgesse alto destin, le scorge
la fede in terra, e 'l violarla fora
un violar della gran Cintia il nume
a cui fu data: e tu sai pur quant'ella
è disdegnosa, e contra noi sdegnata.
Ma per quel ch'i' ne sento, e quanto puote
mente sacerdotal rapita al cielo
spiar lassù di que' consigli eterni,
per man del fato è questo nodo ordito:
e tutti sortiranno (abbi pur fede)
a suo tempo maturi anco i presagi.
Più ti vo' dir, che questa notte in sogno
veduto ho cosa, onde l'antica speme
più che mai nel mio cor si rinnovella.
TITIRO
Son i sogni alfin sogni: e che vedesti?
MONTANO
Io credo ben, ch'abbi memoria (e quale
sì stupido è tra noi, ch'oggi non l'abbia?)
di quella notte lagrimosa, quando
il tumido Ladon ruppe le sponde,
sì che la dove avean gli augelli il nido,
notaro i pesci, e in un medesmo corso
gli uomini, e gli animali,
e le mandre, e gli armenti
trasse l'onda rapace.
In quella stessa notte
(o dolente memoria) il cor perdei,
anzi quel che del core
m'era più caro assai,
bambin tenero in fasce,
unico figlio allora, e da me sempre
e vivo, e morto unicamente amato:
rapillo il fier torrente
prima che noi potessimo sepolti
nel terror, nelle tenebre, e nel sonno,
provar di dargli alcun soccorso a tempo;
neppur la culla stessa, in cui giacea
trovar potemmo, ed ho creduto sempre
che la culla, e 'l bambin, così com'era,
una stessa voragine inghiottisse.
TITIRO
Che altro su può credere? Ben parmi
d'aver inteso ancora, e da te forse
di questa tua sciagura, veramente
sciagura memorabile, ed acerba:
e puoi ben dir, che di duo figli l'uno
generassi alle selve, e l'altro all'onde.
MONTANO
Forse nel vivo il ciel pietoso ancora
ristorerà la perdita del morto.
Sperar ben si dée sempre: Or tu m'ascolta.
Era quell'ora appunto
che tra la notte, e 'l dì, tenebre, e lume
col fosco raggio ancor l'alba confonde:
quand'io, pur nel pensiero
di queste nozze avendo
vegghiata una gran parte della notte,
alfin lunga stanchezza
recò negli occhi miei placido sonno;
e con quel sonno vision sì certa,
che di vegghiar dormendo
avrei potuto dire.
Sopra la riva del famoso Alfeo
seder pareami all'ombra
d'un platano frondoso,
e con l'amo tentar nell'onda i pesci;
ed uscire in quel punto
di mezzo 'l fiume un vecchio ignudo, e grave,
tutto stillante il crin, stillante il mento,
e con ambe le mani
benignamente porgermi un bambino,
ignudo e lagrimoso,
dicendo: ecco 'l tuo figlio,
guarda, che non l'ancidi:
e questo detto, tuffarsi nell'onde.
Indi tutto repente
di foschi nembi il ciel turbarsi intorno,
e minacciarmi orribile procella;
tal ch'io per la paura
strinsi il bambino al seno,
gridando: ah dunque un'ora
me 'l dona, e me 'l ritoglie?
Ed in quel punto parve,
che d'ogn'intorno il ciel si serenasse,
e cadesser nel fiume
fulmini inceneriti,
ed archi, e strali rotti a mille a mille.
Indi tremasse il tronco
del platano, e n'uscisse,
formato in voce spirito sottile,
che stridendo dicesse in sua favella;
Montano, Arcadia tua sarà ancor bella.
E così m'è rimaso
nel cor, negli occhi, e nella mente impressa
l'immagine gentil di questo sogno,
ch'i' l'ho sempre dinanzi;
e sopra tutto il volto
di quel cortese veglio,
che mi par di vederlo.
Per questo i' me n' venia diritto al tempio
quando tu m'incontrasti,
per quivi far col sacrificio santo
della mia vision l'augurio certo.
TITIRO
Son veramente i sogni
delle nostre speranze,
più che dell'avvenir vane sembianze;
immagini del dì guaste e corrotte
dall'ombre della notte.
MONTANO
Non è sempre co' sensi
l'anima addormentata;
anzi tanto è più desta,
quanto men traviata
dalle fallaci forme
del senso, allor, che dorme.
TITIRO
Insomma quel, che s'abbia il ciel disposto
de' nostri figli, è troppo incerto a noi;
ma certo è ben, che 'l tuo se n' fugge, e contra
la legge di natura amor non sente,
e che la mia fin qui l'obbligo solo
ha della data fé, non la mercede:
né so già dir se senta amor; so bene
ch'a molti il fa sentire;
né possibil mi par, ch'ella no 'l provi,
se 'l fa provar altrui.
Ben mi par di vederla
più dell'usato suo cangiata in vista,
che ridente, e festosa
già tutta esser solea.
Ma l'invaghir donzella
senza nozze alle nozze, è grave offesa:
come in vago giardin rosa gentile,
che nelle verdi sue tenere spoglie
pur dianzi era rinchiusa;
e sotto l'ombra del notturno velo
incolta, e sconosciuta
stava posando in sul materno stelo;
al subito apparir del primo raggio
che spunti in oriente,
si desta, e si risente,
e scopre al sol, che la vagheggia, e mira,
il suo vermiglio, ed odorato seno,
dov'ape sussurrando
nei mattutini albori
vola suggendo i rugiadosi umori;
ma s'allor non si coglie,
sì che del mezzo dì senta le fiamme:
cade al cader del sole
sì scolorita in sulla siepe ombrosa,
ch'appena si può dir questa fu rosa.
Così la verginella,
mentre cura materna
la custodisce, e chiude,
chiude anch'ella il suo petto
all'amoroso affetto:
ma se lascivo sguardo
di cupido amator vien che la miri,
e n'oda ella i sospiri,
gli apre subito il core,
e nel tenero sen riceve amore.
E se vergogna il cela,
o temenza l'affrena,
la misera tacendo,
per soverchio desio tutta si strugge:
così manca beltà, se 'l foco dura,
e perdendo stagion, perde ventura.
MONTANO
Titiro, fa' buon core;
non t'avvilir nelle temenze umane;
che bene inspira il cielo
quel cor, che bene spera,
né può giunger lassù fiacca preghiera;
e s'ognun dée pregare
ove 'l bisogno sia,
e sperar negli dèi,
quanto più ciò conviene
a chi da lor deriva?
Son pure i nostri figli
propaggini celesti:
non spegnerà il suo seme
chi fa crescer l'altrui.
Andiam, Titiro, andiamo
unitamente al tempio, e sacreremo,
tu il capro a Pan, ed io
ad Ercole il torello.
Chi feconda l'armento,
feconderà ben'anco
colui, che con l'armento
feconda i sacri altari.
Tu va', fido Dameta,
scegli tosto un torello,
di quanti n'abbia la feconda mandra,
il più morbido, e bello;
e per la via del monte assai più breve
fa' ch'io l'abbia nel tempio, ov'io t'attendo.
TITIRO
E dalla greggia mia, caro Dameta,
conduci un irco.
DAMETA
I' farò l'uno, e l'altro.
TITIRO
Questo sogno, Montano
piaccia all'alta bontà de' sommi dèi
che fortunato sia quanto tu speri.
So ben io, so ben io
quant'esser può del tuo perduto figlio
la rimembranza a te felice augurio.
Satiro.
Come il gelo alle piante, ai fior l'arsura,
la grandine alle spighe, ai semi il verme,
le reti ai cervi, ed agli augelli il visco,
così nemico all'uom fu sempre Amore.
E chi fuoco chiamollo, intese molto
la sua natura perfida, e malvagia,
che se 'l foco si mira, oh come è vago;
ma se si tocca, oh come è crudo: il mondo
non ha di lui più spaventevol mostro.
Come fera divora, e come ferro
pugne, e trapassa, e come vento vola.
E dove il piede imperioso ferma,
cede ogni forza, ogni poter dà loco.
Non altrimenti Amor; che se tu 'l miri
in duo begl'occhi, in una treccia bionda,
oh come alletta, e piace; oh come pare,
che gioia spiri, e pace altrui prometta:
ma se troppo t'accosti, e troppo il tenti,
sì che serper cominci, e forza acquisti,
non ha tigre l'Ircania e non ha Libia
leon sì fero e sì pestifero angue,
che la sua ferita vinca, o pareggi;
crudo più che l'inferno, e che la morte:
nemico di pietà, ministro d'ira;
è finalmente Amor privo d'amore.
Ma che parlo di lui? Perché l'incolpo?
È forse egli cagion di ciò, che 'l mondo,
amando no; ma vaneggiando pecca?
O femminil perfidia; a te si rechi
la cagion pur d'ogni amorosa infamia.
Da te sola deriva, e non da lui
quanto ha di crudo, e di malvagio Amore;
che 'n sua natura placido, e benigno,
teco ogni sua bontà subito perde.
Tutte le vie di penetrar nel seno,
e di passar al cor tosto li chiudi:
sol di fuor il lusinghi, e fai suo nido,
è tua cura, e tua pompa, e tuo diletto
la scorza sol d'un miniato volto.
Né già son l'opre tue gradir con fede
la fede di chi t'ama, e con chi t'ama
contender nell'amare, ed in duo petti
stringer un core, e 'n duo voleri un'alma;
ma tinger d'oro un'insensata chioma,
e d'una parte in mille nodi attorta
infrascarne la fronte: indi con l'altra
tessuta in rete, e 'n quelle frasche involta
prender'il cor di mille incauti amanti.
Oh come è indegna, e stomachevol cosa
il vederti talor con un pennello
pinger le guance, ed occultar le mende
di natura, e del tempo; e veder come
il livido pallor fai parer d'ostro,
le rughe appiani, e 'l bruno imbianchi, e togli
col difetto il difetto; anzi l'accresci.
Spesso un filo incrocicchi, e l'un de capi
co' denti afferri, e con la man sinistra
l'altro sostieni, e del corrente nodo
con la destra fai giro, e l'apri, e stringi,
quasi radente forfice, e l'adatti
sull'inegual lanuginosa fronte:
indi radi ogni piuma, e svelli insieme
il mal crescente, e temerario pelo
con tal dolor, ch'è penitenza il fallo.
Ma questo è nulla, ancor che tanto: all'opre
sono i costumi somiglianti, e i vezzi.
Qual cosa hai tu, che non sia tutta finta?
S'apri la bocca, menti; e se sospiri,
son mentiti i sospir: se muovi gli occhi,
è simulato il guardo: insomma ogn'atto,
ogni sembiante, è ciò che 'n te si vede;
e ciò che non si vede, o parli o pensi,
o vadi, o miri, o pianga, o rida, o canti
tutto è menzogna: e questo ancora è poco.
Ingannar più chi più si fida, è meno
amar chi più n'è degno odiar la fede
più della morte assai: queste son l'arti
che fan sì crudo, e sì perverso Amore.
Dunque d'ogni suo fallo è tua la colpa.
Anzi pur ella è sol di chi ti crede.
Dunque la colpa è mia, che ti credei.
Malvagia, e perfidissima Corisca,
qui per mio danno sol, cred'io, venuta
dalle contrade scellerate d'Argo,
ove lussuria fa l'ultima prova.
Ma sì ben fingi, e sì sagace, e scorta
se' nel celar altrui l'opre, e i pensieri,
che tra le più pudiche oggi te n' vai,
del nome indegno d'onestate altera.
Oh quanti affanni ho sostenuti, oh quante
per questa cruda indignità sofferte.
Ben me ne pento. Anzi vergogno. Impara
dalle mie pene, o mal'accorto amante:
non far idolo un volto, ed a me credi;
donna adorata un nume è dell'inferno,
di sé tutto presume, e del suo volto,
sovra te che l'inchini, e, quasi dèa,
come cosa mortal ti sdegna, e schiva.
Che d'esser tal per suo valor si vanta,
qual tu per tua viltà la fingi, ed orni.
Che tanta servitù? Che tanti preghi,
tanti pianti, e sospiri? Usin quest'armi
le femmine, e i fanciulli: i nostri petti
sien'anche nell'amar virili, e forti.
Un tempo anch'io credei, che sospirando,
e piangendo, e pregando in cor di donna
si potesse destar fiamma d'amore.
Or me n'avvegio: errai: che s'ella il core
ha di duro macigno; indarno tenti,
che per lagrima molle, o lieve fiato
di sospir, che 'l lusinghi, arda o sfaville,
se rigido focil no 'l batte o sferza.
Lascia, lascia le lagrime, e i sospiri,
s'acquisto far della tua donna vuoi:
e s'ardi pur d'inestinguibil foco,
nel centro del tuo cor quanto più sai
chiudi l'affetto: e poi secondo il tempo
fa' quel ch'Amore, e la natura insegna.
Però che la modestia è nel sembiante
sol virtù della donna: e però seco
il trattar con modestia è gran difetto:
ed ella, che sì ben con altrui l'usa,
seco usata l'ha in odio; e vuol che 'n lei
la miri sì, ma non l'adopri il vago.
Con questa legge naturale, e dritta,
se farai per mio senno amerai sempre.
Me non vedrà, né proverà Corisca
mai più tenero amante; anzi piuttosto
fiero nemico, e sentirà con armi
non di femmina più, ma d'uom virile
assalirsi, e trafiggersi. Due volte
l'ho presa già questa malvagia; e sempre
m'è, (non so come) dalle mani uscita:
ma s'ella giunge anco la terza al varco,
ho ben pensato d'afferrarla in guisa,
che non potrà fuggirmi: appunto suole
tra queste selve capitar sovente;
ed io vo' pur come sagace veltro,
fiutandola per tutto, oh qual vendetta
ne vo' far, se la prendo; e quale strazio.
Ben le farò veder, che talor anco
chi fu cieco, apre gli occhi; e che gran tempo
delle perfidie sue non si dà vanto
femmina ingannatrice, e senza fede.
CORO
O nel seno di Giove alta, e possente
legge scritta: anzi nata:
la cui soave, ed amorosa forza,
verso quel ben, che non inteso sente
ogni cosa creata,
gli animi inchina, e la natura sforza:
neppur la frale scorza,
che 'l senso appena vede, e nasce, e more
al variar dell'ore;
ma i semi occulti, e la cagion interna,
ch'è d'eterno valor, move, e governa.
E se gravido è il mondo e tante belle
sue meraviglie forma,
e se per entro a quanto scalda il sole,
all'ampia luna, alle titanie stelle,
vive spirto, che 'nforma,
col suo maschio valor l'immensa mole:
s'indi l'umana prole
sorge, e le piante, e gli animali han vita;
se la terra è fiorita,
o se canuta ha la rugosa fronte,
vien dal tuo vivo, e sempiterno fonte.
Né questo pur, ma ciò che vaga spera
versa sopra i mortali,
onde quaggiù di ria ventura, o lieta
stella s'addita, or mansueta, or fera,
ond'han le vite frali
del nascer l'ora, e del morir la meta:
ciò che fa vaga, o queta
ne' suoi torbidi affetti umana voglia,
e par che doni, e toglia
fortuna; e 'l mondo vuol ch'à lei s'ascriva,
dall'alto tuo valor tutto deriva.
O detto inevitabile, e verace;
se pur è tuo concetto,
che dopo tanti affanni un dì riposi
l'arcada terra, ed abbia vita, e pace,
se quel che n'hai predetto
per bocca degli oracoli famosi
de' duo fatali sposi,
pur da te viene, e 'n quello eterno abisso,
l'hai stabilito, e fisso,
e se la voce lor non è bugiarda,
deh, chi l'effetto al voler tuo ritarda?
Ecco d'amore, e di pietà nemico
garzon aspro, e crudele,
che vien dal cielo, e pur col ciel contende:
ecco poi chi combatte un cor pudico,
amante invan fedele,
che 'l tuo voler con le sue fiamme offende,
e quanto meno attende
pietà del pianto, e del servir mercede,
tant'ha più foco, e fede;
ed è pur quella a lui fatal bellezza,
ch'è destinata a chi la fugge, e sprezza.
Così dunque in sé stessa è pur divisa
quell'eterna possanza?
E così l'un destin con l'altro giostra:
o non ben forse ancor doma, e conquisa
folle umana speranza
di porre assedio alla superna chiostra;
rubella al ciel si mostra,
ed arma quasi nuovi empi giganti,
amanti, e non amanti?
Qui si può tanto? E di stellato regno
trionferan duo ciechi Amore, e Sdegno?
Ma tu che stai sovra le stelle, e 'l fato,
e con saver divino
indi ne reggi, alto motor del cielo,
mira, ti prego il nostro dubbio stato;
accorda col destino
Amor, e Sdegno; e con paterno zelo
tempra la fiamma e 'l gelo:
chi dée goder, non fugga, e non disami:
chi dée fuggir non ami.
Deh fa' che l'empia, e cieca voglia altrui
la promessa pietà non tolga a nui.
Ma chi sa? Forse quella,
che pare inevitabile sciagura,
sarà lieta ventura.
Oh quanto poco umana mente sale,
che non s'affisa al sol vista mortale.
Ergasto, Mirtillo.
ERGASTO
Oh quanti passi ho fatti: al fiume, al poggio,
al prato, al fonte, alla palestra, al corso
t'ho lungamente ricercato: alfine
qui pur ti trovo, e ne ringrazio il cielo.
MIRTILLO
Ond'hai tu nuova, Ergasto,
degna di tanta fretta? Hai vita, o morte?
ERGASTO
Questa non ti darei, bench'io l'avessi,
e quella spero dar, bench'io non l'abbia.
Ma tu non ti lasciar sì fieramente
vincer al tuo dolor, vinci te stesso,
se vuoi vincer altrui: vivi, e respira
talvolta. Ma per dirti la cagione
del mio venir a te sì ratto, ascolta.
Conosci tu (ma chi non la conosce?)
la sorella d'Ormino? È di persona
anzi grande, che no, di vista allegra,
di bionda chioma, e colorita alquanto.
MIRTILLO
Com'ha nome?
ERGASTO
Corisca.
MIRTILLO
I' la conosco
troppo bene, e con lei alcuna volta
ho favellato ancora.
ERGASTO
Or sappi ch'ella
da un tempo in qua (vedi ventura) è fatta,
non so già come, o con che privilegio,
della bella Amarillide compagna;
ond' a lei tutto ho l'amor tuo scoperto
segretamente; e quel, che da lei brami,
holle mostrato, ed ella prontamente
m'ha la sua fede in ciò promessa, e l'opra.
MIRTILLO
Oh mille volte, e mille,
se questo è vero, e più d'ogn'altro amante
fortunato Mirtillo: ma del modo
t'ha ella detto nulla?
ERGASTO
Appunto nulla,
e ti dirò perché: dice Corisca,
che non può ben deliberar del modo,
prima ch'alcuna cosa ella non sappia
dell'amor tuo più certa, ond'ella possa
meglio spiare, e più sicuramente
l'animo della ninfa; e sappia come
reggersi, o con preghiere, o con inganni,
quel che tentar, quel che lasciar sia buono.
Per questo solo i' ti venia cercando
sì ratto, e sarà ben, che tu da capo
tutta la storia del tuo amor mi narri.
MIRTILLO
Così appunto farò. Ma sappi, Ergasto,
che questa rimembranza
(ah troppo acerba a chi si vive amando
fuori d'ogni speranza)
è quasi un agitar fiaccola al vento;
per cui quanto l'incendio
sempre s'avanza, tanto
all'agitata fiamma ella si strugge;
o scoter pungentissima saetta
altamente confitta:
che se senti di svellerla, maggiore
fai la piaga, e 'l dolore.
Ben cosa ti dirò, che chiaramente
farà veder com'è fallace, e vana
la speme degli amanti; e come Amore
la radice ha soave, il frutto amaro.
Nella bella stagion, che 'l dì s'avanza
sovra la notte (or compie l'anno appunto)
questa leggiadra pellegrina, questo
novo sol di beltade
venne a far di sua vista,
quasi d'un'altra primavera, adorno
il mio solo per lei leggiadro allora,
e fortunato nido Elide, e Pisa,
condotta dalla madre
in que' solenni dì, che del gran Giove
i sacrifici, e i giochi
si soglion celebrar famosi tanto,
per farne a suoi begli occhi
spettacolo beato;
ma furon que' begli occhi
spettacolo d'Amore
d'ogn'altro assai maggiore.
Ond'io, che fin allor fiamma amorosa
non avea più sentita,
ohimè non così tosto
mirato ebbi quel volto,
che di subito n'arsi:
e senza far difesa al primo sguardo,
che mi drizzò negli occhi,
sentii correr nel seno
una bellezza imperiosa, e dirmi,
dammi il tuo cor, Mirtillo.
ERGASTO
Oh quanto può ne' petti nostri Amore,
né ben il può saper, se non chi 'l prova.
MIRTILLO
Mira cio che sa fare anco ne' petti
più semplici, e più molli Amore industre.
Io so del mio pensiero una mia cara
sorella consapevole, compagna
della mia cruda ninfa
que' pochi dì, ch'Elide l'ebbe, e Pisa.
Da questa sola, come Amor m'insegna,
fedel consiglio, ed amoroso aiuto
nel mio bisogno i' prendo:
ella delle sue gonne femminili
vagamente m'adorna,
e d'innestato crin cinge le tempie.
Poi le 'ntreccia, e le 'nfiora,
e l'arco, e la faretra
al fianco mi sospende,
e m'insegna a mentir parole, e sguardi,
e sembianti nel volto, in cui non era
di lanugine ancora
pur un vestigio solo.
E quando ora ne fue,
seco là mi condusse, ove solea
la bella ninfa diportarsi, e dove
trovammo alcune nobili, e leggiadre
vergini di Megara,
e di sangue, e d'amor, sì come intesi,
alla mia dèa congiunte.
Tra queste ella si stava,
sì come suol tra le violette umili
nobilissima rosa;
e poi che 'n quella guisa
state furono alquanto
senz'altro far di più diletto, o cura,
levossi una donzella
di quelle di Megara, e così disse.
Dunque in tempo di giochi,
e di palme sì chiare, e sì famose,
starem noi neghittose?
Dunque non abbiam noi
armi da far tra noi finte contese
così ben, come gl'uomini? Sorelle
se 'l mio consiglio di seguir v'aggrada,
proviam oggi tra noi così da scherzo
noi le nostr'armi, come
contra gli uomini allor, che ne sie tempo,
l'userem da dovero.
Bacianne, e si contenda
tra noi di baci; e quella, che d'ogn'altra
baciatrice più scaltra
li saprà dar più saporiti, e cari,
n'avra per sua vittoria
questa bella ghirlanda.
Risero tutte alla proposta, e tutte
subito s'accordaro;
e si sfidavan molte, e molte ancora,
senza che dato lor fosse alcun segno,
facean guerra confusa.
Il che veggendo allor la Megarese,
ordinò prima la tenzone, e poi
disse: de' nostri baci
meritamente sia giudice quella,
che la bocca ha più bella.
Tutte concordemente
elesser la bellissima Amarilli:
ed ella i suoi begli occhi
dolcemente chinando,
di modesto rossor tutta si tinse;
e mostrò ben, che non men bella è dentro
di quel che sia di fuori:
o fosse che 'l bel volto
avesse invidia all'onorata bocca,
e s'adornasse anch'egli,
della purpurea sua pomposa vesta,
quasi volesse dir, son bello anch'io.
ERGASTO
Oh come a tempo ti cangiasti in ninfa
avventuroso, e quasi
delle dolcezze tue presago amante.
MIRTILLO
Già si sedeva all'amoroso ufficio
la bellissima giudice, e secondo
l'ordine, e l'uso di Megara, andava
ciascheduna per sorte
a far della sua bocca, e de' suoi baci
prova con quel bellissimo, e divino
paragon di dolcezza:
quella bocca beata:
quella bocca gentil, che può ben dirsi
conca d'Indo odorata
di perle orientali, e pellegrine:
e la parte, che chiude,
ed apre il bel tesoro
con dolcissimo mel purpura mista.
Così potess'io dirti, Ergasto mio,
l'ineffabil dolcezza,
ch'i' sentii nel baciarla:
ma tu da questo prendine argomento,
che non la può ridir la bocca stessa,
che l'ha provata: accogli pur insieme
quant'hanno in sé di dolce
o le canne di Cipro, o i favi d'Ibla;
tutto è nulla rispetto
alla soavità, ch'indi gustai.
ERGASTO
Oh furto avventuroso, oh dolci baci.
MIRTILLO
Dolci sì, ma non grati,
perché mancava lor la miglior parte
dell'intero diletto:
davagli Amor, non gli rendeva Amore.
ERGASTO
Ma dimmi: e come ti sentisti allora
che di baciar a te cadde la sorte?
MIRTILLO
Su queste labbra, Ergasto,
tutta se n' venne allor l'anima mia;
e la mia vita chiusa
in così breve spazio,
non era altro che un bacio,
onde restar le membra
quasi senza vigor tremanti e fioche:
e quando i' fui vicino
al folgorante sguardo,
come quel, che sapea,
che pur inganno era quell'atto, e furto,
temei la maestà di quel bel viso.
Ma da un sereno suo vago sorriso
assicurato poi
pur oltre mi sospinsi.
Amor si stava, Ergasto,
com'ape suol, nelle due fresche rose
di quelle labbra ascoso:
e mentre ella si stette
con la baciata bocca
al baciar della mia
immobile, e ristretta;
la dolcezza del mel sola gustai.
Ma poi che mi s'offerse, anch'ella, e porse
l'una e l'altra dolcissima sua rosa,
(fosse o sua gentilezza, o mia ventura,
so ben che non fu Amore),
e sonar quelle labbra,
e s'incontraro i nostri baci (oh caro
e prezioso mio dolce tesoro,
t'ho perduto, e non moro?)
allor sentii dell'amorosa pecchia
la spina pungentissima soave
passarmi il cor; che forse
mi fu renduto allora
per poterlo ferire.
Io, poi ch'a morte mi sentii ferito,
come suol disperato,
poco mancò, che l'omicide labbra
non mordessi, e segnassi:
ma mi ritenne, ohimè, l'aura adorata,
che quasi spirto d'anima divina
risvegliò la modestia,
e quel furore estinse.
ERGASTO
O modestia molestia
degli amanti importuna.
MIRTILLO
Già fornito il su' arringo avea ciascuna,
e con sospension d'animo grande
la sentenza attendea,
quando la leggiadrissima Amarilli
giudicando i miei baci
più di quelli d'ogn'altra saporiti,
di propria man, con quella
ghirlandetta gentil, che fu serbata
premio alla vincitrice, il crin mi cinse.
Ma, lasso, aprica piaggia
così non arse mai sotto la rabbia
del can celeste allor, che latra, e morde;
come ardeva il cor mio
tutto allor di dolcezza, e di desio,
e più che mai nella vittoria vinto.
Pur mi riscossi tanto,
che la ghirlanda trattami di capo
a lei porsi, dicendo.
Questa a te si convien; questa a te tocca,
che festi i baci miei
dolci nella tua bocca.
Ed ella umanamente
presala, al suo bel crin ne feo corona;
ed un'altra, che prima
cingea le tempie a lei, cinse le mie.
Ed è questa, ch'io porto,
e portero fin al sepolcro sempre,
arida come vedi,
per la dolce memoria di quel giorno;
ma molto più per segno
della perduta mia morta speranza.
ERGASTO
Degno se' di pietà più che d'invidia,
Mirtillo; anzi pur Tantalo novello,
che nel gioco d'Amor chi fa da scherzo,
tormenta da dovero: troppe care
ti costar le tue gioie; e del tuo furto
e 'l piacer, e 'l castigo insieme avesti.
Ma s'accorse ella mai di questo inganno?
MIRTILLO
Ciò non so dirti, Ergasto:
so ben ch'ella in que' giorni,
ch'Elide fu della sua vista degno,
mi fu sempre cortese
di quel soave, ed amoroso sguardo.
Ma il mio crudo destino
la 'nvolò sì repente,
che me ne avvidi appena: ond'io lasciando
quanto già di più caro aver solea,
tratto dalla virtù di quel bel guardo;
qui, dove il padre mio,
dopo tant'anni ancor, come t'è noto,
serba l'antico suo povero albergo,
me n' venni, e vidi, (ah misero) già corso
a sempiterno occaso
quell'amoroso mio giorno sereno,
che cominciò da sì beata aurora.
Al mio primo apparir subito sdegno
lampeggiò nel bel viso;
poi chinò gli occhi, e girò il piede altrove.
Misero allor i' dissi,
questi son ben della mia morte i segni.
Avea sentita acerbamente intanto
la non prevista, e subita partita
il mio tenero padre;
e dal dolore oppresso
ne cadde infermo assai vicino a morte;
ond'io costretto fui
di ritornar alle paterne case;
fu il mio ritorno, ahi lasso,
salute al padre, infermitate al figlio:
che d'amorosa febbre
ardendo, in pochi dì languido venni.
E dall'uscir che fe' di Tauro il sole,
fin all'entrar di Capricorno, sempre
in cotal guisa stetti;
e sarei certo ancora,
se non avesse il mio pietoso padre
opportuno consiglio
all'oracolo chiesto; il qual rispose,
che sol potea sanarmi il ciel d'Arcadia.
Così tornaimi, Ergasto,
a riveder colei,
che mi sanò del corpo
(oh voce degli oracoli fallace)
per farmi l'alma eternamente inferma.
ERGASTO
Strano caso nel vero
tu mi narri, Mirtillo; e non può dirsi,
che di molta pietà non ne sii degno.
Ma solo una salute
al disperato è 'l disperar salute.
E tempo è già, ch'io vada a far di quanto
m'hai detto, consapevole Corisca.
Tu vanne al fonte, e là m'attendi, dove
teco sarò quanto più tosto anch'io.
MIRTILLO
Vanne felicemente: il ciel ti dia
di cotesta pietà quella mercede,
che dar non ti poss'io, cortese Ergasto.
Dorinda, Lupino, Silvio.
DORINDA
Oh del mio bello, e dispietato Silvio
cura, e diletto, avventuroso, e fido
foss'io sì cara al tuo signor crudele
come se' tu, Melampo: egli con quella
candida man, ch'a me distringe il core,
te dolcemente lusingando, nutre,
e teco il dì, teco la notte alberga;
mentr'io, che l'amo tanto, invan sospiro,
e 'nvano il prego, e quel che più mi duole;
ti dà sì cari, e sì soavi baci,
ch'un sol, che n'avess'io, n'andrei beata;
e per più non poter, ti bacio anch'io,
fortunato Melampo. Or se benigna
stella forse d'Amore a me t'invia,
perché l'orme di lui mi scorga, andiamo
dove Amor me, te sol natura inchina.
Ma non sent'io tra queste selve un corno
sonar vicino?
SILVIO
Te', Melampo, te'.
DORINDA
Se 'l desio non m'inganna, quella è voce
del bellissimo Silvio, che 'l suo cane
chiama tra queste selve.
SILVIO
Te', Melampo,
te', te'.
DORINDA
Senz'alcun fallo è la sua voce.
Oh felice Dorinda: il ciel ti manda
quel ben, che vai cercando. È meglio, ch'io
serbi il cane in disparte; io farò forse
dell'amor suo con questo mezzo acquisto.
LUPINO
Eccomi.
DORINDA
Va' con questo cane
e ti nascondi in quella fratta. Intendi?
LUPINO
Intendo.
DORINDA
E non uscir s'io non ti chiamo.
LUPINO
Tanto farò.
DORINDA
Va' tosto.
LUPINO
E tu fa' tosto,
che se venisse fame a questa bestia,
in un boccone non mi manicasse.
DORINDA
O come se' da poco: su va' via.
SILVIO
Dove misero me, dove debb'io
volger più il piede a seguitarti, o caro,
o mio fido Melampo? Ho monte, e piano
cercato indarno; e son già molle, e stanco.
Maladetta la fera, che seguisti.
Ma ecco ninfa, che di lui novella
mi darà forse, oh come male inciampo:
questa è colei, che mi dà sempre noia.
Pur soffrir mi bisogna. O bella ninfa,
dimmi vedesti il mio fedel Melampo,
che testé dietro ad una damma sciolsi?
DORINDA
Io bella, Silvio? Io bella?
Perché così mi chiami
crudel, se bella agl'occhi tuoi non sono?
SILVIO
O bella, o brutta, hai tu il mio can veduto?
A questo mi rispondi, o ch'io mi parto.
DORINDA
Tu se' pur aspro a chi t'adora, Silvio:
chi crederia, che 'n sì soave aspetto
fosse sì crudo affetto?
Tu segui per le selve
e per gli alpestri monti
una fera fugace, e dietro l'orme
d'un veltro, ohimè t'affanni, e ti consumi;
e me, che t'amo sì, fuggi, e disprezzi.
Deh non seguir damma fugace; segui
segui amorosa, e mansueta damma,
che, senza esser cacciata
è già presa, e legata.
SILVIO
Ninfa, qui venni a ricercar Melampo,
non a perder il tempo, addio.
DORINDA
Deh Silvio
crudel non mi fuggire,
ch'i' ti darò del tuo Melampo nova.
SILVIO
Tu mi beffi, Dorinda?
DORINDA
Silvio mio,
per quello amor, che mi t'ha fatta ancella,
io so dov'è 'l tuo cane.
No 'l lasciasti testé dietro a una damma?
SILVIO
Lasciailo, e ne perdei tosto la traccia.
DORINDA
Or' il cane, e la damma è in poter mio.
SILVIO
In tuo poter?
DORINDA
In mio poter. Ti duole
d'esser tenuto a chi t'adora, ingrato?
SILVIO
Cara Dorinda mia daglimi tosto.
DORINDA
Ve', mobile fanciullo, a che son giunta,
ch'una fera, ed un can mi ti fa cara.
Ma vedi, core mio, tu non li avrai
senza mercede.
SILVIO
È ben ragion: darotti,
vo' schernirla costei.
DORINDA
Che mi darai?
SILVIO
Due belle poma d'oro, che l'altr'ieri
la bellissima mia madre mi diede.
DORINDA
A me poma non mancano; potrei
a te darne di quelle, che son forse
più saporite, e belle, se i miei doni
tu non avessi a schivo.
SILVIO
E che vorresti?
Un capro od una agnella? Ma il mio padre
non mi concede ancor tanta licenza.
DORINDA
Né di capro ho vaghezza, né d'agnella:
te solo, Silvio, e l'amor tuo vorrei.
SILVIO
Né altro vuoi, che l'amor mio?
DORINDA
Non altro.
SILVIO
Sì sì tutto te 'l dono: or dammi dunque.
Cara ninfa il mio cane, e la mia damma,
DORINDA
Oh se sapessi quanto
vale il tesor, di che sì largo sembri,
e rispondesse alla tua lingua il core.
SILVIO
Ascolta, bella ninfa, tu mi vai
sempre di certo amor parlando, ch'io
non so quel ch'e' si sia. Tu vuoi ch'i' t'ami,
e t'amo quanto posso, e quanto intendo.
Tu di' ch'io son crudele, e non conosco
quel, che sia crudeltà, né so che farti.
DORINDA
O misera Dorinda, ov'hai tu poste
le tue speranze? Onde soccorso attendi?
In beltà che non sente ancor favilla
di quel foco d'amor, ch'arde ogn'amante.
Amoroso fanciullo,
tu se' pur a me foco, e tu non ardi;
e tu, che spiri amore, amor non senti.
Te, sotto umana forma
di bellissima madre
partorì l'alma dèa, che Cipro onora.
Tu hai gli strali, e 'l foco,
ben sallo il petto mio ferito, ed arso.
Giugni agli omeri l'ali
sarai novo Cupido;
se non c'hai ghiaccio il core,
né ti manca d'Amore, altro che amore.
SILVIO
Che cosa è questo amore?
DORINDA
S'i' miro il tuo bel viso.
Amore è un paradiso:
ma s'i' miro il mio core,
è un infernal ardore.
SILVIO
Ninfa, non più parole
dammi il mio cane omai.
DORINDA
Dammi tu prima il pattuito amore.
SILVIO
Dato non te l'ho dunque? Ohimè che pena
è 'l contentar costei: prendilo, fanne
ciò che ti piace. Chi te 'l nega, o vieta?
DORINDA
Tu perdi nell'arena i semi, e l'opra
sfortunata Dorinda.
SILVIO
Che fai? Che pensi ancor mi tieni a bada?
DORINDA
Non così tosto avrai quel, che tu brami
che poi mi fuggirai, perfido Silvio.
SILVIO
No certo, bella ninfa.
DORINDA
Dammi un pegno.
SILVIO
Che pegno vuoi?
DORINDA
Ah che non oso a dirlo.
SILVIO
Perché?
DORINDA
Perc'ho vergogna.
SILVIO
E pur il chiedi.
DORINDA
Vorrei senza parlar esser intesa.
SILVIO
Ti vergogni di dirlo, e non avresti
vergogna di riceverlo?
DORINDA
Se darlo
tu mi prometti, i' te 'l dirò.
SILVIO
Prometto
ma vuò che tu me 'l dica.
DORINDA
Ah non m'intendi
Silvio mio ben: t'intenderei pur io,
s'a me il dicessi tu.
SILVIO
Più scaltra certo
se' tu di me.
DORINDA
Più calda Silvio, e meno
di te crudele io sono.
SILVIO
A dirti il vero
io non son indovin: parla se vuoi
esser intesa.
DORINDA
Oh misera, un di quelli
che ti dà la tua madre.
SILVIO
Una guanciata?
DORINDA
Una guanciata a chi t'adora Silvio?
SILVIO
Ma careggiar con queste ella sovente
mi suole.
DORINDA
Ah so ben io, che non è vero.
E talor non ti bacia.
SILVIO
Né mi bacia,
né vuol che altri mi baci.
Forse vorresti tu per pegno un bacio?
Tu non rispondi. Il tuo rossor t'accusa.
Certo mi son apposto. I' son contento;
ma dammi con la preda il can tu prima.
DORINDA
Me 'l prometti tu, Silvio?
SILVIO
I' te 'l prometto.
DORINDA
E me l'attenderai?
SILVIO
Sì ti dich'io.
Non mi dar più tormento.
DORINDA
Esci, Lupino.
Lupino, ancor non odi?
LUPINO
Oh se' noioso.
Chi chiama? Oh vengo, vengo: io non dormiva,
no certo. Il can dormiva.
DORINDA
Ecco il tuo cane,
Silvio; che più di te cortese in queste.
SILVIO
Oh come son contento.
DORINDA
In queste braccia,
che tanto sprezzi tu, venne a posarsi.
SILVIO
O dolcissimo mio fido Melampo.
DORINDA
Cari avendo i miei baci, e i miei sospiri.
SILVIO
Baciar ti voglio mille volte, e mille.
Ti se' fatto alcun mal forse correndo?
DORINDA
Avventuroso can: perché non posso
cangiar teco mia sorte. A che son giunta,
che sin d'un can la gelosia m'accora
ma tu, Lupin, t'invia verso la caccia,
che fra poco i' ti seguo.
LUPINO
Io vo, padrona.
Silvio, Dorinda.
SILVIO
Tu non hai alcun male. Al rimanente;
ov'è la damma che promessa m'hai?
DORINDA
La vuoi tu viva, o morta?
SILVIO
Io non t'intendo.
Com'esser viva può, se 'l can l'uccise?
DORINDA
Ma se 'l can non l'uccise?
SILVIO
È dunque viva?
DORINDA
Viva.
SILVIO
Tanto più cara, e più gradita
mi fia cotesta preda: e fu sì destro
Melampo mio, che non l'ha guasta, o tocca?
DORINDA
Sol è nel cor d'una ferita punta.
SILVIO
Mi beffi tu, Dorinda, oppur vaneggi?
Com'esser viva può nel cor ferita?
DORINDA
Quella damma son io,
crudelissimo Silvio,
che senza esser attesa,
son da te vinta, e presa;
viva, se tu m'accogli;
morta, se mi ti togli.
SILVIO
E questa è quella damma, e quella preda,
che testé mi dicevi?
DORINDA
Questa, e non altra, ohimè, perché ti turbi?
Non t'è più caro aver ninfa, che fera?
SILVIO
Né t'ho cara, né t'amo; anzi t'ho in odio,
brutta, vile, bugiarda, ed importuna.
DORINDA
È questo il guiderdon, Silvio crudele;
è questa la mercé che tu mi dai,
garzon ingrato? Abbi Melampo in dono,
e me con lui, che tutto,
pur ch'a me torni, i' ti rimetto; e solo
de' tuoi begli occhi il sol non mi si neghi.
Ti seguirò compagna
del tuo fido Melampo assai più fida:
e quando sarai stanco,
ti asciugherò la fronte;
e sovra questo fianco,
che per te mai non posa, avrai riposo.
Porterò l'armi, porterò la preda,
e, se ti mancherà mai fera al bosco,
saetterai Dorinda, in questo petto
l'arco tu sempre esercitar potrai;
che sol come vorrai,
il porterò tua serva,
il proverò tua preda,
e sarò del tuo stral faretra, e segno.
Ma con chi parlo? Ahi lassa
teco che non m'ascolti, e via te n' fuggi;
ma fuggi pur: ti seguirà Dorinda
nel crudo inferno ancor, s'alcun'inferno
più crudo aver poss'io
della fierezza tua, del dolor mio.
Corisca.
Oh, come favorisce i miei disegni
Fortuna molto più, ch'io non sperai.
Ed ha ragion di favorir colei,
che sonnacchiosa il suo favor non chiede.
Ha ben ella gran forza; e non la chiama
possente dèa senza ragione il mondo;
ma bisogna incontrarla, e farle vezzi;
spianandole il sentiero. I neghittosi
saran di rado fortunati mai.
Se non m'avesse la mia industria fatta
compagna di colei, che potrebbe ora
giovarmi una sì comoda, e sicura
occasion di ben condurre a fine
il mio pensiero? Avria qualch'altra sciocca
la sua rival fuggita; e segni aperti
della sua gelosia portando in fronte
di malocchio guatata anco l'avrebbe;
e mal' avrebbe fatto ch'assai meglio
dall'aperto nemico altri si guarda,
che non fa dall'occulto. Il cieco scoglio
è quel ch'inganna i marinari ancora
più saggi: chi non sa finger l'amico,
non è fiero nemico. Oggi vedrassi
quel, che sa far Corisca. Ma sì sciocca
non son io già, che lei non creda amante.
A qualch'un'altro il farà creder forse,
che poco sappia; a me non già, che sono
maestra di quest'arte. Una fanciulla
tenera, e semplicetta, che pur ora
spunta fuor della buccia: in cui pur dianzi
stillò le prime sue dolcezze Amore;
lungamente seguita, e vagheggiata
da sì leggiadro amante; e quel ch'è peggio,
baciata, e ribaciata, e starà salda?
Pazzo è ben chi se 'l crede; io già no 'l credo.
Ma vedi il mio destin come m'aita.
Ecco appunto Amarilli, ah i' vo' far vista
di non vederla, e ritirarmi alquanto.
Amarilli, Corisca.
AMARILLI
Care selve beate,
e voi solinghi, e taciturni orrori,
di riposo, e di pace alberghi veri.
Oh quanto volentieri
a rivedervi i' torno: e se le stelle
m'avesser dato in sorte
di viver a me stessa, e di far vita
conforme alle mie voglie;
i' già co' campi Elisi
fortunato giardin de' semidèi,
la vostr'ombra gentil non cangerei.
Che, se ben dritto miro
questi beni mortali
altro non son che mali.
Meno ha, chi più n'abbonda,
e posseduto è più, che non possede,
ricchezze no, ma lacci
dell'altrui libertate.
Che val ne' più verdi anni
titolo di bellezza,
o fama d'onestate,
e 'n mortal sangue nobiltà celeste;
tante grazie del cielo, e della terra,
qui larghi, e lieti campi,
e la felici piagge,
fecondi paschi, e più fecondo armento,
se 'n tanti beni il cor non è contento?
Felice pastorella,
cui cinge appena il fianco
povera sì, ma schietta,
e candida gonnella:
ricca sol di sé stessa,
e delle grazie di natura adorna,
che 'n dolce povertate
né povertà conosce, né i disagi
delle ricchezze sente;
ma tutto quel possede,
per cui desio d'aver non la tormenta.
Nuda sì, ma contenta.
Co' doni di natura
i doni di natura anco nudrìca,
col latte il latte avviva,
e col dolce dell'api
condisce il mel delle natie dolcezze.
Quel fonte, ond'ella beve,
quel solo anco la bagna, e la consiglia:
paga lei, pago 'l mondo.
Per lei di nembi il ciel s'oscura indarno,
e di grandine s'arma,
che la sua povertà nulla paventa.
Nuda sì, ma contenta.
Sola una dolce, e d'ogn'affanno sgombra
cura le sta nel core.
Pasce le verdi erbette
la greggia a lei commessa, ed ella pasce
de' suo' begli occhi il pastorello amante,
non qual le destinaro
o gli uomini, o le stelle,
ma qual le diede Amore.
E tra l'ombrose piante
d'un favorito lor mirteto adorno
vagheggiata il vagheggia; né per lui
sente foco d'amor, che non gli scopra,
né ella scopre ardor, ch'egli non senta;
nuda sì, ma contenta.
Oh vera vita, che non sa che sia
morire innanzi morte;
potess'io pur cangiar teco mia sorte.
Ma vedi là Corisca. Il ciel ti guardi,
dolcissima Corisca.
CORISCA
Chi mi chiama?
Oh, più degli occhi miei, più della vita
a me cara Amarilli: e dove vai
così soletta?
AMARILLI
In nessun altro loco,
se non dove mi trovi, e dove meglio
capitar non potea, poiché te trovo.
CORISCA
Tu trovi chi da te non parte mai,
Amarilli mia dolce, e di te stava
pur or pensando, e fra mio cor dicea:
s'io son l'anima sua, come può ella
star senza me sì lungamente? E, 'n questo
tu mi s'è sopraggiunta, anima mia.
Ma tu non ami più la tua Corisca.
AMARILLI
E perché ciò?
CORISCA
Come perché? Tu 'l chiedi
oggi tu sposa.
AMARILLI
Io sposa?
CORISCA
Sì tu sposa,
ed a me no 'l palesi?
AMARILLI
E come posso
palesar quel, che non m'è noto?
CORISCA
Ancora
tu t'infingi, e me 'l neghi?
AMARILLI
Ancor mi beffi
CORISCA
Anzi tu beffi me.
AMARILLI
Dunque m'affermi
ciò tu per vero?
CORISCA
Anzi te 'l giuro: e certo
non ne sai nulla tu?
AMARILLI
So che promessa
già fui, ma non so già che sì vicine
sien le mie nozze: e tu da chi 'l sapesti?
CORISCA
Da mio fratello Ormino. Esso l'ha inteso,
dice, da molti, e non si parla d'altro.
Par che tu te ne turbi. È forse questa
novella da turbarsi?
AMARILLI
Gli è un gran passo,
Corisca. E già la madre mia mi disse,
che quel dì si rinasce.
CORISCA
A miglior vita
si rinasce per certo. E tu per questo
viver lieta dovresti. A che sospiri?
Lascia pur sospirar a quel meschino.
AMARILLI
Qual meschino?
CORISCA
Mirtillo, che trovossi
presente a ciò che 'l mio fratel mi disse.
E poco men, che di dolor no 'l vidi
morire: è certo e' si moriva, s'io
non l'avessi soccorso, promettendo
di sturbar queste nozze: e ben che questo
dicessi sol per suo conforto, io pure
sarei donna per farlo.
AMARILLI
E ti darebbe
l'animo di sturbarle?
CORISCA
E di che sorte
AMARILLI
E come ciò faresti?
CORISCA
Agevolmente,
pur che tu ti disponga, e ci consenta.
AMARILLI
Se ciò sperassi, e la tua fé mi dessi
di non l'appalesar, ti scovrirei
un pensier, che nel cor gran tempo ascondo.
CORISCA
Io palesarti mai? Aprasi prima
la terra, e per miracolo m'inghiotta.
AMARILLI
Sappi, Corisca mia, che quand'io penso,
ch'i' debbo ad un fanciullo esser soggetta,
che m'ha in odio, e mi fugge, e ch'altra cura
non ha che i boschi, e ch'una fera e un cane
stima più che l'amor di mille ninfe,
malcontenta ne vivo; e poco meno
che disperata; ma non oso a dirlo,
sì perché l'onestà non me 'l comporta,
sì perché al padre mio n'ho di già data,
e quel ch'è peggio, alla gran dèa, la fede:
che se per opra tua, ma però sempre,
salva la fede mia, salva la vita,
e la religion, e l'onestate,
troncar di questo a me sì grave nodo
si potesser le fila; oggi saresti
tu ben la mia salute, e la mia vita.
CORISCA
Se per questo sospiri hai gran ragione,
Amarilli. Deh quante volte il dissi:
una cosa sì bella a chi la sprezza?
Sì ricca gioia a chi non la conosce?
Ma tu se' troppo savia, a dirti il vero;
anzi pur troppo sciocca. E che non parli?
Che non ti lasci intendere?
AMARILLI
Ho vergogna.
CORISCA
Hai un gran mal, sorella. I' vorrei prima
aver la febbre, il fistolo, la rabbia;
ma, credi a me, la perderai tu ancora,
sorella mia, sì ben basta una sola
volta, che tu la superi, e rinieghi.
AMARILLI
Vergogna, che 'n altrui stampò natura
non si può rinnegar: che se tu tenti
di cacciarla dal cor, fugge nel volto.
CORISCA
O Amarilli mia, chi troppo savia
tace il suo male, alfin da pazza il grida.
Se questo tuo pensiero avessi prima
scoperto a me, saresti fuor d'impaccio.
Oggi vedrai quel che sa far Corisca.
Nelle più sagge man, nelle più fide
tu non potevi capitar. Ma quando
sarai per opra mia già liberata
d'un cattivo marito; non vorrai tu
d'un buon amante provvederti?
AMARILLI
A questo
penseremo a bell'agio.
CORISCA
Veramente
non puoi mancare al tuo fedel Mirtillo.
E tu sai pur s'oggi è pastor di lui,
né per valor, né per sincera fede,
né per beltà dell'amor tuo più degno.
E tu 'l lasci morire (ah troppo cruda)
senza che dir ti possa almeno, io moro.
Ascoltalo una volta.
AMARILLI
Oh quanto meglio
farebbe a darsi pace, e la radice
sveller di quel desio ch'è senza speme.
CORISCA
Dagli questo conforto anzi che mora.
AMARILLI
Sarà piuttosto un raddoppiargli affanno.
CORISCA
Lascia di questo tu la cura a lui.
AMARILLI
E di me che sarebbe, se mai questo
si risapesse?
CORISCA
Oh quanto hai poco core.
AMARILLI
E poco sia, pur ch'a bontà mi vaglia.
CORISCA
Amarilli, se lecito ti fai
di mancarmi tu in questo, anch'io ben posso
giustamente mancarti, addio.
AMARILLI
Corisca,
non ti partir, ascolta.
CORISCA
Una parola
sola non udirei, se non prometti.
AMARILLI
Ti prometto d'udirlo, ma con questo,
ch'ad altro non m'astringa.
CORISCA
Altro non chiede.
AMARILLI
E tu gli facci credere, che nulla
saputo i' n'abbia.
CORISCA
Mostrerò che tutto
abbia portato il caso.
AMARILLI
E ch'indi possa
partirmi a mio piacer, né mi contrasti.
CORISCA
Quando ti piacerà, pur che l'ascolti.
AMARILLI
E brevemente si spedisca.
CORISCA
E questo
ancora si farà.
AMARILLI
Né mi s'accosti,
quanto è lungo il mio dardo.
CORISCA
Ohimè che pena
m'è oggi il riformar cotesta tua
semplicità. Fuor che la lingua ogn'altro
membro gli legherò; sì che sicura
star ne potrai: vuoi altro?
AMARILLI
Altro non voglio.
CORISCA
E quando il farai tu?
AMARILLI
Quando a te piace,
pur che tanto di tempo or mi conceda;
ch'i' torni a casa, ove di queste nozze
mi vo' meglio informar.
CORISCA
Vanne, ma guarda
di farlo accortamente. Or odi quello,
ch'i' vo pensando, ch'oggi sul meriggio
qui sola fra quest'ombre, e senz'alcuna
delle tue ninfe tu te n' venghi; dove
mi troverò per questo effetto anch'io.
Meco saran Nerine, Aglauro, Elisa,
e Fillide, e Licori; tutte mie
non meno accorte, e sagge, che fedeli,
e segrete compagne: ove con loro
facendo tu, come sovente suoli,
il giuoco della cieca, agevolmente
Mirtillo crederà, che non per lui,
ma per diporto tuo ci sii venuta.
AMARILLI
Questo mi piace assai; ma non vorrei
che quelle ninfe fossero presenti
alle parole di Mirtillo sai?
CORISCA
T'intendo; e ben avvisi; e sie mia cura,
che tu di questo alcun timor non aggia;
ch'io le farò sparir quando sia tempo.
Vattene pur, e ti ricorda intanto
d'amar la tua fidissima Corisca.
AMARILLI
Se posto ho il cor nelle sue mani, a lei
starà di farsi amar quanto le piace.
CORISCA
Parti ch'ella stia salda? A questa rocca
maggior forza bisogna. S'all'assalto
delle parole mie può far difesa,
a quelle di Mirtillo certamente
resister non potrà. So ben'anch'io
quel che nel cor di tenera fanciulla
possano i preghi di gradito amante.
Se ridur ci si lascia, a tal partito
la stringerò ben' io con questo giuoco,
che non l'avrà da giuoco. Ed io non solo
dalle parole sue, voglia, o non voglia,
potrò spiar, ma penetrar ancora
fin nell'interne viscere il suo core.
Come questo abbia in mano, e già padrona
sia del segreto suo, farò di lei
ciò che vorrò, senza fatica alcuna,
e condurrolla a quel che bramo, in guisa,
ch'ella stessa, non ch'altri, agevolmente
creder potrà, che l'abbia a ciò condotta
il suo sfrenato amor, non l'arte mia.
Corisca, Satiro.
CORISCA
Ohimè, son morta.
SATIRO
Ed io son vivo.
CORISCA
Torna,
torna, Amarilli mia, che presa sono.
SATIRO
Amarilli non t'ode: ah questa volta
ti converrà star salda.
CORISCA
Ohimè le chiome.
SATIRO
T'ho pur sì lungamente attesa al varco,
che nella rete se' caduta. E sai,
questo non è il mantello, è 'l crin, sorella.
CORISCA
A me Satiro?
SATIRO
A te. Non se' tu quella
Corisca sì famosa, ed eccellente
maestra di menzogne, che mentite
parolette, e speranze, e finti sguardi
vendi a sì caro prezzo? Che tradito
m'ha' in tanti modi, e dileggiato sempre,
ingannatrice, e pessima Corisca?
CORISCA
Corisca son ben' io; ma non già quella,
Satiro mio gentil, ch'agli occhi tuoi
un tempo fu sì cara.
SATIRO
Or son gentile
sì, scellerata, ma gentil non fui,
quando per Coridon tu mi lasciasti.
CORISCA
Te per altrui?
SATIRO
Or odi meraviglia,
e cosa nuova all'animo sincero.
E quando l'arco a Lilla, e 'l velo a Clori,
la veste a Dafne, ed i coturni a Silvia
m'inducesti a rubar, perché 'l mio furto
fosse di quell'amor poscia mercede,
ch'a me promesso fu donato altrui:
e quando la bellissima ghirlanda,
che donata i' t'avea, donasti a Niso;
e quando alla caverna, al bosco, al fonte
facendomi vegghiar le fredde notti
m'hai schernito, e beffato: allor ti parvi
gentile, ah scellata? Or pagherai,
credimi, or pagherai di tutto il fio.
CORISCA
Tu mi strascini, ohimè, come s'i' fussi
una giovenca.
SATIRO
Tu 'l dicesti appunto.
Scotiti pur, se sai: già non tem'io,
che quinci or tu mi fugga: a questa presa
non ti varranno inganni. Un'altra volta
te n' fuggisti, malvagia. Ma se 'l capo
qui non mi lasci, indarno t'affatichi
d'uscirmi oggi di man.
CORISCA
Deh non negarmi
tanto di tempo almen, che teco i' possa
dir mia ragion comodamente.
SATIRO
Parla.
CORISCA
Come vuoi tu ch'io parli essendo presa?
Lasciami.
SATIRO
Ch'i' ti lasci?
CORISCA
I' ti prometto
la fede mia di non fuggir.
SATIRO
Qual fede,
perfidissima femmina? Ancor osi
parlar meco di fede? I' v' condurti
nella più spaventevole caverna
di questo monte, ove non giunga mai
raggio di Sol, nonché vestigio umano.
Del resto non ti parlo, il sentirai.
Farò con mio diletto, e con tuo scorno
quello strazio di te, che meritasti.
CORISCA
Puoi tu dunque, crudele, a questa chioma
che ti legò già il core; a questo volto,
che fu già il tuo diletto, a questa un tempo
più della vita tua cara Corisca,
per cui giuravi che ti fora stato
anco dolce il morire; a questa puoi
soffrir di far oltraggio? Oh cielo, oh sorte
in cui pos'io speranza? A cui debb'io
creder mai più, meschina?
SATIRO
Ah, scellerata
pensi ancor d'ingannarmi? Ancor mi tenti
con le lusinghe tue, con le tue frodi?
CORISCA
Deh, Satiro gentil, non far più strazio
di chi t'adora. Ohimè non se' già fera,
non hai già il cor di marmo, o di macigno.
Eccomi a' piedi tuoi. Se mai t'offesi,
idolo del mio cor, perdon ti cheggio.
Per queste nerborute, e sovrumane
tue ginocchia, ch'abbraccio, a cui m'inchino,
per quello amor, che mi portasti un tempo,
per quella soavissima dolcezza,
che trar solevi già dagli occhi miei,
che tue stelle chiamavi, or son duo fonti;
per queste amare lagrime ti prego,
abbi pietà di me, lasciami omai.
SATIRO
La perfida m'ha mosso; e, s'io credessi
solo all'affetto, affé che sarei vinto.
Ma insomma io non ti credo. Tu se' troppo
malvagia, e 'nganni più, chi più si fida.
Sotto quell'umiltà, sotto que' preghi
si nasconde Corisca: tu non puoi
esser da te diversa. Ancor contendi?
CORISCA
Ohimè il mio capo, ah crudo; ancor un poco
fermati prego, ed una sola grazia
non mi negar' almen.
SATIRO
Che grazia è questa?
CORISCA
Che tu m'ascolti ancor un poco.
SATIRO
Forse
ti pensi tu con parolette finte,
e mendicate lagrime piegarmi?
CORISCA
Deh, Satiro cortese, e pur tu vuoi
far di me strazio?
SATIRO
Il proverai, vien pure.
CORISCA
Senza avermi pietà?
SATIRO
Senza pietate.
CORISCA
E 'n ciò se' tu ben fermo?
SATIRO
In ciò ben fermo.
Hai tu finito ancor questo incantesmo?
CORISCA
O villano, indiscreto, ed importuno;
mezz'uomo, e mezzo capra, e tutto bestia:
carogna fracidissima, e difetto
di natura nefando; se tu credi
che Corisca non t'ami, il vero credi.
Che vuoi tu ch'ami in te? Quel tuo bel ceffo?
Quella succida barba? Quell'orecchie
caprigne? E quella putrida e bavosa
isdentata caverna?
SATIRO
Oh scellerata:
a me questo?
CORISCA
A te questo.
SATIRO
A me, ribalda?
CORISCA
A te caprone.
SATIRO
Ed io con queste mani
non ti trarrò cotesta tua canina,
ed importuna lingua?
CORISCA
Se t'accosti,
e fossi tanto ardito.
SATIRO
In tale stato
una vil femminuzza? In queste mani?
E non teme? E m'oltraggia? E mi dispregia?
Io ti farò.
CORISCA
Cosa mi farai, villano?
SATIRO
I' ti mangerò viva.
CORISCA
E con quai denti,
se tu non gli hai?
SATIRO
Oh ciel, come il comporti.
Ma s'io non te ne pago vien pur via.
CORISCA
Non vo' venir.
SATIRO
Non ci verrai, malvagia?
CORISCA
No, mal tuo grado, no.
SATIRO
Tu ci verrai,
se mi credessi di lasciarci queste
braccia.
CORISCA
Non ci verrò, se questo capo
di lasciarci credessi.
SATIRO
Orsù veggiamo
chi di noi ha più forte, e più tenace,
tu il collo, od io le braccia. Tu ci metti
le mani; né con questo anco potrai
difenderti, perversa.
CORISCA
Or il vedremo.
SATIRO
Sì certo.
CORISCA
Tira ben. Satiro, addio,
fiaccati il collo.
SATIRO
Ohimè dolente, ahi lasso,
ohimè il capo, ohimè il fianco, ohimè la schiena.
O che fiera caduta. Appena i' posso
movermi, e rilevarmene: è pur vero
è ch'ella fugga, e qui rimanga il teschio?
Oh meraviglia inusitata: o ninfe,
o pastori, accorrete, e rimirate
il magico stupor di chi se n' fugge,
e vive senza capo. Oh come è lieve:
quanto ha poco cervello; e come il sangue
fuor non ne spiccia? Ma che miro? Oh sciocco,
oh mentecatto: senza capo lei?
Senza capo se' tu: chi vide mai
uom di te più schernito? Or mira s'ella
ha saputo fuggir, quando tu meglio
la pensavi tener? Perfida maga;
non ti bastava aver mentito il core,
e 'l volto, e le parole, e 'l riso, e 'l guardo,
s'anco il crin non mentivi? Ecco, poeti,
questo è l'oro nativo, e l'ambra pura,
che pazzamente voi lodate. Omai
arrossite, insensati, e ricantando,
vostro soggetto in quella vece sia
l'arte d'una impurissima, e malvagia
incantatrice, che i sepolcri spoglia,
e dai fracidi teschi il crin furando,
al suo l'intesse; e così ben l'asconde,
che v'ha fatto lodar quel, che aborrire
dovevate assai più, che di Megera
le viperine, e mostruose chiome.
Amanti, or non son questi i vostri nodi?
Mirate, e vergognatevi, meschini.
E se come voi dite, i vostri cori
son pur qui ritenuti, omai ciascuno
potrà senza sospiri, e senza pianto
ricoverar il suo. Ma che più tardo
a pubblicar le sue vergogne? Certo
non fu mai sì famosa, né sì chiara
la chioma, ch'è lassù con tante stelle
ornamento del ciel, come fie questa
per la mia lingua, e molto più colei,
che la portava, eternamente infame.
CORO
Ah ben fu di colei grave l'errore,
(cagion del nostro male)
che le leggi santissime d'Amore,
di fé mancando, offese:
poscia ch'indi s'accese
degli immortali dèi l'ira mortale,
che per lagrime, e sangue
di tante alme innocenti ancor non langue.
Così la fé, d'ogni virtù radice,
e d'ogn'alma ben nata unico fregio
lassù si tiene in pregio.
Così di farci amanti, onde felice
si fa nostra natura,
l'eterno amante ha cura.
Ciechi mortali voi, che tanta sete
di possedere avete:
l'urna amata guardando
d'un cadavero d'or, quasi nud'ombra,
che vada intorno al suo sepolcro errando;
qual amore, o vaghezza
d'una morta bellezza il cor v'ingombra?
Le ricchezze, e i tesori
son insensati amori. Il vero, e vivo
amor dell'alma, è l'alma: ogn'altro oggetto,
perché d'amare è privo,
degno non è dell'amoroso affetto.
L'anima perché sola è riamante,
sola è degna d'amor, degna d'amante.
Ben è soave cosa
quel bacio, che si prende
da una vermiglia, e delicata rosa
di bella guancia. E pur chi 'l vero intende,
com' intendete vui,
avventurosi amanti, che 'l provate;
dirà che quello è morto bacio, a cui
la baciata beltà bacio non rende.
Ma i colpi di due labbra innamorate,
quando a ferir si va bocca con bocca,
e che in un punto scocca
Amor con soavissima vendetta
l'una, e l'altra saetta,
son veri baci; ove con giuste voglie
tanto si dona altrui, quanto si toglie.
Baci pur bocca curiosa, e scaltra
o seno, o fronte, o mano; unqua non fia
che parte alcuna in bella donna baci,
che baciatrice sia,
se non la bocca: ove l'un'alma, e l'altra
corre, e si bacia anch'ella: e con vivaci
spiriti pellegrini
da vita al bel tesoro
de' bacianti rubini:
sì che parlan tra loro
gran cose in picciol suono,
e segreti dolcissimi, che sono
a lor solo palesi, altrui celati.
Tal gioia amando prova, anzi tal vita
alma con alma unita:
e son come d'amor baci baciati
gli incontri di due cori amanti amati.
Mirtillo.
Oh primavera gioventù dell'anno,
bella madre di fiori,
d'erbe novelle, e di novelli amori:
tu torni ben, ma teco
non tornano i sereni,
e fortunati dì delle mie gioie:
tu torni ben, tu torni,
ma teco altro non torna,
che del perduto mio caro tesoro
la rimembranza misera, e dolente:
tu quella se', tu quella,
ch'eri pur dianzi sì vezzosa, e bella.
Ma non son io già quel, ch'un tempo fui
sì caro agli occhi altrui.
Oh dolcezze amarissime d'amore,
quanto è più duro perdervi, che mai
non v'aver o provate, o possedute.
Come saria l'amar felice stato,
se 'l già goduto ben non si perdesse;
o quando egli si perde,
ogni memoria ancora
del dileguato ben si dileguasse.
Ma se le mie speranze oggi non sono,
com'è l'usato lor, di fragil vetro,
o se maggior del vero
non fa la speme il desiar soverchio,
qui pur vedrò colei,
ch'è 'l sol degli occhi miei:
e s'altri non m'inganna,
qui pur vedrolla al suon de' miei sospiri
fermar il piè fugace.
Qui pur dalle dolcezze
di quel bel volto avrà soave cibo
nel suo lungo digiun l'avida vista:
qui pur vedrò quell'empia
girar inverso me le luci altere,
se non dolci, almen fere;
e se non carche d'amorosa gioia,
sì crude almen, ch'i' moia.
Oh lungamente sospirato invano
avventuroso dì, se dopo tanti
foschi giorni di pianti
tu mi concedi, Amor, di veder oggi
ne' begli occhi di lei
girar sereno il sol degli occhi miei.
Ma qui mandommi Ergasto, ove mi disse,
ch'esser doveano insieme
Corisca, e la bellissima Amarilli,
per fare il gioco della cieca; eppure
qui non veggio altra cieca,
che la mia cieca voglia,
che va con l'altrui scorta
cercando la sua luce, e non la trova,
oppur frapposto alle dolcezze mie
un qualche amaro intoppo
non abbia il mio destino invido, e crudo.
Questa lunga dimora,
di paura, e d'affanno il cor m'ingombra.
Ch'un secolo agli amanti
par ogn'ora che tardi, ogni momento
quell'aspettato ben, che fa contento.
Ma chissa? troppo tardi
son fors'io giunto; e qui m'avrà Corisca
fors'anco indarno lungamente atteso.
Fui pur anco sollecito a partirmi.
Ohimè se questo è vero, i' vo' morire.
Amarilli, Mirtillo, coro di Ninfe, Corisca.
AMARILLI
Ecco la cieca.
MIRTILLO
Eccola appunto, ahi vista.
AMARILLI
Or che si tarda?
MIRTILLO
Ahi voce che m'hai punto,
e sanato in un punto.
AMARILLI
Ove sete? Che fate? E tu, Lisetta,
che sì bramavi il gioco della cieca,
che badi? E tu Corisca ove se' ita?
MIRTILLO
Or sì, che si può dire,
ch'Amor è cieco, ed ha bendati gli occhi.
AMARILLI
Ascoltatemi voi,
che 'l sentier mi scorgete, e quinci, e quindi
mi tenete per man; come sien giunte
l'altre nostre compagne,
guidatemi lontan da queste piante,
ov'è maggior il vano: e quivi sola
lasciandomi nel mezzo,
ite con l'altre in schiera: e tutte insieme
fatemi cerchio, e s'incominci il gioco.
MIRTILLO
Ma che sarà di me? Fin qui non veggio
qual mi possa venir da questo gioco
comodità, che 'l mio desire adempia:
né so veder Corisca,
ch'è la mia tramontana. Il ciel m'aiti.
AMARILLI
Alfin sete venute: e che pensaste
di non far altro, che bendarmi gli occhi?
Pazzerelle che sete. Or cominciamo.
CORO
Cieco Amor non ti cred'io,
ma fai cieco 'l desio
di chi ti crede;
che, s'hai pur poca vista, hai minor fede.
Cieco, oh no mi tenti invano,
e per girti lontano
ecco m'allargo:
che così cieco ancor vedi più d'Argo,
così cieco m'annodasti,
e cieco m'ingannasti,
or che vo sciolto,
se ti credessi più, sarei ben stolto.
Fuggi, e scherza pur se sai,
già non sara' tu mai,
che 'n te mi fidi:
perché non sai scherzar se non ancidi.
AMARILLI
Ma voi giocate troppo largo, e troppo
vi guardate da rischio:
fuggir bisogna sì, ma ferir prima.
Toccatemi, accostatevi, che sempre
non ve n'andrete sciolte.
MIRTILLO
Oh sommi dèi, che miro? Oh dove sono?
In cielo, o in terra? Oh cieli,
i vostri eterni giri
han sì dolce armonia? Le vostre stelle
han sì leggiadri aspetti?
CORO
Ma tu, pur perfido cieco
mi chiami a scherzar teco,
ed ecco scherzo,
e col piè fuggo, e con la man ti sferzo.
E corro, e ti percoto,
e tu t'aggiri a voto.
Ti pungo ad ora ad ora,
né tu mi prendi ancora
o cieco Amore,
perché libero ho 'l core.
AMARILLI
In bona fé, Licori,
ch'i mi pensai d'averti presa, e trovo
d'aver presa una pianta.
Sento ben che tu ridi.
MIRTILLO
Deh foss'io quella pianta.
Or non veggio Corisca
tra quelle fratte ascosa? È dessa certo:
e non so che m'accenna,
che non intendo. E pur m'accenna ancora.
CORO
Sciolto cor fa piè fugace:
o lusinghier fallace
ancor m'alletti
a' tuoi vezzi mentiti, a' tuo' diletti?
E pur di nuovo i' riedo,
e giro, e fuggo, e siedo,
e torno, e non mi prendi,
e sempre invan m'attendi.
Oh cieco Amore, perché libero ho il core.
AMARILLI
Oh fosti svelta, maladetta pianta,
che pur anco ti prendo,
quantunque un'altra al brancolar mi sembri:
forse ch'i' non credei
d'averti franca a questa volta Elisa?
MIRTILLO
E pur anco non cessa
d'accennarmi Corisca: e sì sdegnosa,
che sembra minacciar. Vorrebbe forse,
che mi mischiassi anch'io tra quelle ninfe?
AMARILLI
Dunque giocar debb'io
tutt'oggi con le piante?
CORO
Bisogna pur che mal mio grado i' parli,
ed esca della buca.
Prendila, da pochissimo, che badi?
Ch'ella ti corra in braccio?
O lasciati almen prendere. Su dammi
cotesto dardo, e valle incontra sciocco.
MIRTILLO
Oh come mal s'accorda
l'animo col desio,
sì poco ardisce il cor, che tanto brama.
AMARILLI
Per questa volta ancor tornisi al gioco:
che son già stanca: e per mia fé voi sete
troppo indiscrete a farmi correr tanto.
CORO
Mira nume trionfante,
a cui dà il mondo amante
empio tributo,
eccol oggi deriso, eccol battuto.
Siccome ai rai del sole
cieca nottola suole,
c'ha mille augei d'intorno,
che le fan guerra, e scorno,
ed ella picchia
col becco invano, e s'erge, e si rannicchia:
così se' tu beffato,
Amore in ogni lato,
chi 'l tergo, e chi le gote
ti stimola, e percote.
E poco vale;
perché stendi gli artigli, o batti l'ale.
Gioco dolce ha pania amara,
e ben l'impara
augel, che vi s'invesca.
Non sa fuggir Amor chi seco tresca.
Amarilli, Corisca, Mirtillo.
AMARILLI
Affé t'ho colta, Aglauro:
tu vuoi fuggir? T'abbraccerò sì stretta.
CORISCA
Certamente se contra
non gliel'avessi all'improvviso spinto
con sì grand'urto, i' faticava invano
per far, ch'egli vi gisse.
AMARILLI
Tu non parli: se' dessa o non se' dessa?
CORISCA
Qui ripongo il suo dardo, e nel cespuglio
torno per osservar ciò che ne segue.
AMARILLI
Or ti conosco sì; tu se' Corisca,
che se' sì grande e senza chioma; appunto
altra che te non volev'io per darti
delle pugna a mio senno.
Or te' questo, e quest'altro,
e quest'anco, e poi questo: ancor non parli?
Ma se tu mi legasti, anco mi sciogli.
E fa' tosto, cor mio,
ch'i' vo' poi darti il più soave bacio,
ch'avessi mai. Che tardi?
Par che la man ti tremi? Se' sì stanca?
Mettici i denti, se non puoi con l'ugna.
Oh quanto se' melensa.
Ma lascia far a me, che da me stessa
mi leverò d'impaccio.
Or ve' con quanti nodi
mi legasti tu stretta?
Se può toccar a te l'esser la cieca.
Son pur ecco sbendata. Ohimè, che veggio?
Lasciami, traditor. Ohimè, son morta.
MIRTILLO
Sta' cheta, anima mia.
AMARILLI
Lasciami dico,
lasciami. Così dunque
si fa forza alle ninfe? Aglauro, Elisa;
ah perfide, ove sete?
Lasciami, traditore.
MIRTILLO
Ecco ti lascio.
AMARILLI
Quest'è un inganno di Corisca. Or togli
quel che n'hai guadagnato.
MIRTILLO
Dove fuggi, crudele?
Mira almen la mia morte. Ecco, mi passo
con questo dardo il petto.
AMARILLI
Ohimè, che fai?
MIRTILLO
Quel che forse ti pesa,
ch'altri faccia per te, ninfa crudele.
AMARILLI
Ohimè, son quasi morta.
MIRTILLO
E se quest'opra alla tua man si deve,
ecco il ferro, ecco 'l petto.
AMARILLI
Ben il meriteresti. E chi t'ha dato
cotanto ardir, presuntuoso?
MIRTILLO
Amore.
AMARILLI
Amor non è cagion d'atto villano.
MIRTILLO
Dunque in me credi amore,
poiché discreto fui; che se prendesti
tu prima me, son io tanto men degno
d'esser da te di villania notato,
quanto con sì vezzosa
comodità d'esser ardito, e quando
potei le leggi usar teco d'Amore,
fui però sì discreto,
che quasi mi scordai d'esser amante.
AMARILLI
Non mi rimproverar quel, che fei cieca.
MIRTILLO
Ah che tanto più cieco
son io di te, quanto più sono amante.
AMARILLI
Preghi, e lusinghe, e non insidie, e furti
usa il discreto amante.
MIRTILLO
Come selvaggia fera
cacciata dalla fame
esce dal bosco, e 'l peregrino assale;
tal io, che sol de' tuo' begli occhi i' vivo;
poiché l'amato cibo,
o tua fierezza, o mio destin mi nega,
se famelico amante,
uscendo oggi de' boschi, ov'io soffersi
digiun misero, e lungo,
quello scampo tentai per mia salute,
che mi dettò necessità d'amore;
non incolpar già me, ninfa crudele:
te sola pur incolpa;
che se' co' preghi sol, come dicesti,
s'ama discretamente, e con lusinghe,
e ciò da me non aspettasti mai,
tu sola, tu m'hai tolto
con la durezza tua, con la tua fuga
l'esser discreto amante.
AMARILLI
Assai discreto amante esser potevi,
lasciando di seguir chi ti fuggiva.
Pur sai, che 'nvan mi segui.
Che voi da me?
MIRTILLO
Ch'una sola fiata
degni almen d'ascoltarmi anzi, ch'io moia.
AMARILLI
Buon per te che la grazia,
prima che l'abbia chiesta, hai ricevuta.
Vattene dunque.
MIRTILLO
Ah ninfa,
quel che t'ho detto, appena
è una minuta stilla
dell'infinito mar del pianto mio.
Deh, se non per pietade,
almen per tuo diletto ascolta, cruda,
di chi si vuol morir, gli ultimi accenti.
AMARILLI
Per levar te d'errore, e me d'impaccio,
son contenta d'udirti:
ma ve', con queste leggi:
di' poco, e tosto parti, e più non torna.
MIRTILLO
In troppo picciol fascio,
crudelissima ninfa,
stringer tu mi comandi
quell'immenso desio, che se con altro,
misurar si potesse,
che con pensiero umano,
a pena il capiria, cio che capire
puote in pensiero umano.
Ch'i' t'ami, e t'ami più della mia vita,
se tu no 'l sai, crudele,
chiedilo a queste selve,
che te 'l diranno; e te 'l diran con esse
le fere loro, e i duri sterpi, e i sassi
di questi alpestri monti;
ch'i' ho sì spesse volte
inteneriti al suon de' miei lamenti.
Ma che bisogna far cotanta fede
dell'amor mio, dov'è bellezza tanta?
Mira quante vaghezze ha 'l ciel sereno;
quante la terra; e tutte
raccogli in picciol giro, indi vedrai
l'alta necessità dell'arder mio.
E come l'acqua scende, e 'l foco sale
per sua natura, e l'aria
vaga, e posa la terra, e 'l ciel s'aggira;
così naturalmente a te s'inchina,
come a suo bene il mio pensiero, e corre
alle bellezze amate
con ogni affetto suo l'anima mia:
e chi di traviarla
dal caro oggetto suo forse pensasse,
prima torcer potria
dall'usato cammino, e cielo, e terra,
ed acqua, ed aria, e foco,
e tutto trar dalle sue sedi il mondo.
Ma perché mi comandi,
ch'io dica poco (ah cruda)
poco dirò, s'io dirò sol, ch'io moro;
e men farò morendo,
s'io miro a quel, che del mio strazio brami.
Ma farò quello, ohimè, che sol m'avanza
miseramente amando.
Ma poi che sarò morto, anima cruda,
avrai tu almen pietà delle mie pene?
Deh bella, e cara, e sì soave un tempo
cagion del viver mio, mentre a Dio piacque,
volgi una volta, volgi
quelle stelle amorose,
come le vidi mai così tranquille,
e piene di pietà prima ch'i' moia,
che 'l morir mi sia dolce.
E dritto è ben, che se mi furo un tempo
dolci segni di vita, or sien di morte
que' begli occhi amorosi.
E quel soave sguardo,
che mi scorse ad amare,
mi scorga anco a morire;
e chi fu l'alba mia,
del mio cadente dì l'Espero or sia.
Ma tu, più che mai dura,
favilla di pietà non senti ancora,
anzi t'innaspri più, quanto più prego.
Così senza parlar dunque m'ascolti?
A chi parlo, infelice, a un muto marmo?
S'altro non mi vuoi dir, dimmi almen mori,
e morir mi vedrai.
Questa è ben'empio amor, miseria estrema,
che sì rigida ninfa
e del mio fin sì vaga,
perché grazia di lei
non sia la morte mia, morte mi neghi,
né mi risponda, e l'armi
d'una sola sdegnosa, e cruda voce
sdegni di proferire
al mio morire.
AMARILLI
Se dianzi t'avess'io
promesso di risponderti, sì come
d'ascoltar ti promisi,
qualche giusta cagion di lamentarti
del mio silenzio avresti.
Tu mi chiami crudele, immaginando,
che dalla ferità rimproverata
agevole ti sia forse il ritrarmi
al suo contrario affetto.
Né sai tu, che l'orecchie
così non mi lusinga il suon di quelle
da me sì poco meritate, e molto
meno gradite lodi,
che mi dai di beltà, come mi giova
il sentirmi chiamar da te crudele.
L'esser cruda ad ogn'altro,
(già no 'l nego) è peccato;
all'amante è virtute;
ed è vera onestate
quella, che 'n bella donna
chiami tu feritate.
Ma sia come tu vuoi peccato, e biasmo
l'esser cruda all'amante; or quando mai
ti fu cruda Amarilli?
Forse allor, che giustizia
stato sarebbe il non usar pietate?
E pur teco l'usai
tanto, ch'a dura morte i' ti sottrassi:
io dico allor, che tu fra nobil coro
di vergini pudiche
libidinoso amante,
sotto abito mentito di donzella,
ti mescolasti, e i puri scherzi altrui
contaminando ardisti
mischiar tra finti, ed innocenti baci
baci impuri, e lascivi,
che la memoria ancor se ne vergogna.
Ma sallo il ciel, ch'allor non ti conobbi,
e che poi conosciuto,
sdegno n'ebbi; e serbai
dalle lascivie tue l'animo intatto:
né lasciai che corresse
l'amoroso veneno al cor pudico,
ch'alfin non violasti
se non la sommità di queste labbra.
Bocca baciata a forza,
se 'l bacio sputa, ogni vergogna ammorza.
Ma dimmi tu, qual frutto avresti allora
dal temerario tuo furto raccolto,
se t'avess'io scoperto a quelle ninfe?
Non fu sull'Ebro mai
sì fieramente lacerato, e morto
dalle donne di Tracia, il tracio Orfeo,
come stato da loro
saresti tu, se non ti dava aita
la pietà di colei, che cruda or chiami
ma non è cruda già quanto bisogna;
che se cotanto ardisci
quanto ti son crudele,
che faresti tu poi,
se pietosa ti fussi?
Quella sana pietà, che dar potei,
quella t'ho dato. In altro modo è vano
che tu la chiedi, o speri.
Che pietate amorosa
mal si dà per colei,
che per sé non la trova,
poi che l'ha data altrui.
Ama l'onesta mia, s'amante sei
ama la mia salute, ama la vita
troppo lunge se' tu da quel che brami.
Il proibisce il ciel, la terra il guarda,
e 'l vendica la morte.
Ma più d'ogn'altro, e con più saldo scudo,
l'onestate il difende.
Che sdegna alma ben nata
più fido guardatore
aver del proprio onore. Or datti pace
dunque, Mirtillo, e guerra
non far a me. Fuggi lontano, e vivi
se saggio se', ch'abbandonar la vita
per soverchio dolore
non è atto, o pensiero
di magnanimo core.
Ed è vera virtute
il sapersi astener da quel che piace,
se quel che piace offende.
MIRTILLO
Non è in man di chi perde
l'anima, il non morire.
AMARILLI
Chi s'arma di virtù, vince ogni affetto.
MIRTILLO
Virtù non vince, ove trionfa Amore.
AMARILLI
Chi non può quel che vuol, quel che può voglia.
MIRTILLO
Necessità d'amor legge non have.
AMARILLI
La lontananza ogni gran piaga salda.
MIRTILLO
Quel che nel cor si porta, invan si fugge:
AMARILLI
Scaccerà vecchio amor novo desio.
MIRTILLO
Sì s'un'altra alma, e un altro core avessi.
AMARILLI
Consuma il tempo finalmente amore.
MIRTILLO
Ma prima il crudo amor l'alma consuma.
AMARILLI
Così dunque il tuo mal non ha rimedio?
MIRTILLO
Non ha rimedio alcun, se non la morte.
AMARILLI
La morte? Or tu m'ascolta, e fa' che legge
ti sian queste parole: ancor ch'i' sappia,
che 'l morir degli amanti è piuttosto uso
d'innamorata lingua, che desio
d'animo in ciò deliberato, e fermo;
pur se talento mai
e sì strano, e sì folle a te venisse;
sappi, che la tua morte,
non men della mia fama,
che della vita tua morte sarebbe.
Vivi dunque se m'ami:
vattene, e da qui innanzi avrò per chiaro
segno, che tu sii saggio,
se con ogni tuo ingegno
ti guarderai di capitarmi innanzi.
MIRTILLO
Oh sentenza crudele.
Come viver poss'io
senza la vita; o come
dar fin senza la morte al mio tormento?
AMARILLI
Orsù, Mirtillo, è tempo
che tu te n' vada, e troppo lungamente
hai dimorato ancora.
Partiti, e ti consola,
ch'infinita è la schiera
degli infelici amanti.
Vive ben'altri in pianti
sì come tu, Mirtillo: ogni ferita
ha seco il suo dolore,
né se' tu solo a lagrimar d'amore.
MIRTILLO
Misero infra gli amanti
già solo non son io; ma son ben solo
miserabile esempio
e de' vivi, e de' morti, non potendo
né viver, né morire.
AMARILLI
Orsù partiti omai.
MIRTILLO
Ah dolente partita,
ah fin della mia vita.
Da te parto, e non moro? E pur i' provo
la pena della morte,
e sento nel partire
un vivace morire,
che dà vita al dolore
per far che moia immortalmente il core.
Amarilli.
Oh Mirtillo, Mirtillo, anima mia,
se vedessi qui dentro,
come sta il cor di questa,
che chiami crudelissima Amarilli
so ben; che tu di lei
quella pietà, che da lei chiedi, avresti.
Oh anime in amor troppo infelici.
Che giova a te, cor mio, l'esser amato?
Che giova a me l'aver sì caro amante?
Perché crudo destino,
ne disunisci tu, s'Amor ne strigne?
E tu perché ne strigni,
se ne parte il destin, perfido Amore?
Oh fortunate voi fere selvagge,
a cui l'alma natura
non diè legge in amar, se non d'amore:
legge umana inumana,
che dai per pena dell'amar la morte.
Se 'l peccar è sì dolce,
e 'l non peccar sì necessario, oh troppo
imperfetta natura,
che repugni alla legge;
oh troppo dura legge,
che la natura offendi.
Ma che? Poco ama altrui, chi 'l morir teme.
Piacesse pur al ciel, Mirtillo mio,
che sol pena al peccar fusse la morte.
Santissima onestà, che sola sei
d'alma ben nata inviolabil nume:
quest'amorosa voglia,
che svenata ho col ferro
del tuo santo rigor, qual innocente
vittima a te consacro.
E tu, Mirtillo (anima mia) perdona
a chi t'è cruda sol, dove pietosa
esser non può: perdona a questa solo
nei detti, e nel sembiante
rigida tua nemica; ma nel core
pietosissima amante:
e se pur hai desio di vendicarti;
deh qual vendetta aver puoi tu maggiore
del tuo proprio dolore?
Che se tu se' 'l cor mio,
come se' pur malgrado
del cielo, e della terra,
qualor piangi, e sospiri,
quelle lagrime tue sono il mio sangue,
que' sospiri il mio spirto, e quelle pene,
e quel dolor, che senti,
son miei, non tuoi, tormenti.
Corisca, Amarilli.
CORISCA
Non t'asconder già più, sorella mia.
AMARILLI
Meschina me son discoperta.
CORISCA
Il tutto
ho troppo ben inteso. Or non m'apposi?
Non ti diss'io, ch'amavi? Or ne son certa.
E da me tu ti guardi? A me l'ascondi?
A me che t'amo sì? Non t'arrossire,
non t'arrossir, che questo è mal comune.
AMARILLI
Io son vinta, Corisca, e te 'l confesso.
CORISCA
Or che negar no 'l puoi, tu me 'l confessi.
AMARILLI
E ben m'avveggio, (ahi lassa)
che troppo angusto vaso è debil core
a traboccante amore.
CORISCA
O cruda al tuo Mirtillo,
e più cruda a te stessa.
AMARILLI
Non è fierezza quella,
che nasce da pietate.
CORISCA
Aconito, e cicuta
nascer da salutifera radice
non si vide giammai.
Che differenza fai
da crudeltà, ch'offende,
a pietà, che non giova?
AMARILLI
Ohimè, Corisca.
CORISCA
Il sospirar, sorella,
è debolezza, e vanità di core,
e proprio è delle femmine da poche.
AMARILLI
Non sarei più crudele
se 'n lui nudrissi amor senza speranza?
Il fuggirlo è pur segno
ch'i' ho compassione
del suo male, e del mio.
CORISCA
Perché senza speranza?
AMARILLI
Non sai tu che promessa a Silvio sono?
Non sai tu che la legge
condanna a morte ogni donzella, ch'aggia
violata la fede?
CORISCA
O semplicetta: ed altro non t'arresta?
Qual è tra noi più antica,
la legge di Diana, oppur d'amore?
Questa ne' nostri petti
nasce, Amarilli, e con l'età s'avanza,
né s'apprende, o s'insegna,
ma negli umani cuori,
senza maestro la natura stessa
di propria man l'imprime:
e dov'ella comanda,
ubbidisce anco il ciel, non che la terra.
AMARILLI
E pur se questa legge
mi togliesse la vita,
quella d'amor non mi darebbe aita.
CORISCA
Tu se' troppo guardinga: se cotali
fusser tutte le donne,
e cotali rispetti avesser tutte,
buon tempo addio. Soggette a questa pena
stimo le poche pratiche, Amarilli.
Per quelle, che son sagge
non è fatta la legge.
Se tutte le colpevoli uccidesse,
credimi, senza donne
resterebbe il paese: e se le sciocche
v'inciampano, è ben dritto,
che 'l rubar sia vietato
a chi leggiadramente
non sa celare il furto.
Ch'altro alfin l'onestate
non è che un'arte di parere onesta.
Creda ognun a suo modo, io così credo.
AMARILLI
Queste son vanità, Corisca mia.
Gran senno è lasciar tosto
quel, che non può tenersi.
CORISCA
E chi te 'l vieta, sciocca?
Troppo breve è la vita
da trapassarla con un solo amore.
Troppo gli uomini avari
(o sia difetto, o pur fierezza loro)
ci son delle lor grazie.
E sai? Tanto siam care,
tanto gradite altrui, quanto siam fresche.
Levaci la beltà, la giovinezza,
come alberghi di pecchie
restiamo, senza favi, e senza mele
negletti aridi tronchi.
Lascia gracchiar agli uomini Amarilli,
però ch'essi non sanno,
né sentono i disagi delle donne.
E troppo differente
dalla condizion dell'uomo è quella
della misera donna.
Quanto più invecchia l'uomo,
diventa più perfetto;
e se perde bellezza, acquista senno.
Ma in noi con la beltate,
e con la gioventù, da cui sì spesso
il viril senno, e la possanza è vinta,
manca ogni nostro ben, né si può dire,
né pensar la più sozza
cosa, né la più vil di donna vecchia.
Or prima che tu giunga
a questa nostra universal miseria,
conosci i pregi tuoi.
Se t'è la vita destra,
non l'usar a sinistra.
Che varrebbe al leone
la sua ferocità, se non l'usasse?
Che gioverebbe all'uomo,
l'ingegno suo, se non l'usasse a tempo?
Così noi la bellezza,
ch'è virtù nostra così propria, come
la forza del leone,
e l'ingegno dell'uomo
usiam mentre l'abbiamo:
godiam, sorella mia,
godiam, che 'l tempo vola, e posson gl'anni
ben ristorar i danni
della passata lor fredda vecchiezza,
ma s'in noi giovinezza
una volta si perde,
mai più non si rinverde.
Ed a canuto, e livido sembiante
può ben tornar amor, ma non amante.
AMARILLI
Tu, come credo, in questa guisa parli
per tentarmi, Corisca,
piuttosto che per dir quel, che senti.
E però sii pur certa,
che se tu non mi mostri agevol modo,
e soprattutto onesto,
di fuggir queste nozze,
ho fatto irrevocabile pensiero
di piuttosto morir, che macchiar mai
l'onestà mia, Corisca.
CORISCA
Non ho veduto mai la più ostinata
femmina di costei.
Poi che questo conchiudi, eccomi pronta.
Dimmi un poco, Amarilli,
credi tu forse, che 'l tuo Silvio sia
tanto di fede amico,
quanto tu d'onestate?
AMARILLI
Tu mi farai ben ridere: di fede
amico Silvio? E come?
s'è nemico d'amore?
CORISCA
Silvio d'amor nemico? Oh semplicetta;
tu no 'l conosci: e' sa far e tacere,
ti so dir io. Quest'anime sì schife eh?
Non ti fidar di loro.
Non è furto d'amor tanto sicuro,
né di tanta finezza,
quanto quel, che s'asconde
sotto il vel d'onestate.
Ama dunque il tuo Silvio,
ma non già te, sorella.
AMARILLI
E quale è questa dèa,
(che certo esser non può donna mortale)
che l'ha d'amore acceso?
CORISCA
Né dèa, né anco ninfa.
AMARILLI
Oh che mi narri.
CORISCA
Conosci tu la mia Lisetta?
AMARILLI
Quale
Lisetta tua, la pecoraia?
CORISCA
Quella.
AMARILLI
Di' tu vero, Corisca?
CORISCA
Questa è dessa,
questa è l'anima sua.
AMARILLI
Or vedi se lo schifo,
s'è d'un leggiadro amor ben provveduto
CORISCA
E sai come ne spasima, e ne muore?
Ogni giorno s'infinge
d'ire alla caccia.
AMARILLI
Ogni mattina appunto
sento sull'alba il maladetto corno.
CORISCA
E sul fitto meriggio,
mentre che gli altri sono
più fervidi nell'opra; ed egli allotta
da' compagni s'invola, e vien soletto
per via non trita al mio giardino, ov'ella
tra le fessure d'una siepe ombrosa,
che 'l giardin chiude, i suoi sospiri ardenti,
i suoi prieghi amorosi ascolta, e poi
a me li narra, e ride. Or odi quello,
che pensato ho di fare; anzi ho già fatto
per tuo servigio. Io credo ben, che sappi
che la medesma legge, che comanda
alla donna il servar fede al suo sposo,
ha comandato ancor, che ritrovando
ella il suo sposo in atto di perfidia,
possa, mal grado de' parenti suoi,
negar d'essergli sposa, e d'altro amante
onestamente provvedersi.
AMARILLI
Questo
so molto bene; e anco alcuno esempio
veduto n'ho, Leucippe a Ligurino,
Egle a Licota, ed a Turingo Armilla,
trovati senza fé la data fede
ricoveraron tutte.
CORISCA
Or tu m'ascolta.
Lisetta mia così da me avvertita,
ha col fanciullo amante e poco cauto
d'esser in quello speco oggi con lei
ordine dato. Ond'egli è 'l più contento
garzon, che viva; e sol n'attende l'ora.
Quivi vo' che tu 'l colga: i' sarò teco
per testimon del tutto; che senz'esso
vana sarebbe l'opra e così sciolta
sarai senza periglio, e con tuo onore,
e con onor del padre tuo, da questo
sì noioso legame.
AMARILLI
Oh quanto bene
hai pensato, Corisca. Or che ci resta?
CORISCA
Quel ch'ora intenderai. Tu bene osserva
le mie parole. A mezzo dello speco,
ch'è di forma assai lunga, e poco larga;
sulla man dritta, è nel cavato sasso
una, non so ben dir, se fatta sia
o per natura, o per industria umana,
picciola cavernetta, d'ogni intorno
tutta vestita d'edera tenace;
a cui dà lume un picciolo pertugio,
che d'alto s'apre; assai grato ricetto,
ed a furti d'amor comodo molto.
Or tu gli amanti prevenendo, quivi
fa' che t'ascondi, e 'l venir loro attendi:
invierò la mia Lisetta intanto;
poi le vestigia di lontan seguendo
di Silvio, come pria sceso nell'antro
vedrollo, entrando anch'io subitamente,
il prenderò, perché non fugga; e 'nsieme
farò (che così seco ho divisato)
con Lisetta grandissimi rumori:
a' quali tosto accorrerai tu ancora,
e secondo 'l costume, eseguirai
contra Silvio la legge, e poi n'andremo
ambedue con Lisetta al sacerdote:
e così il marital nodo sciorrai.
AMARILLI
Dinanzi al padre suo?
CORISCA
Che 'mporta questo?
Pensi tu che Montano il suo privato
comodo debba al pubblico anteporre?
Ed al sacro il profano?
AMARILLI
Or dunque, gli occhi
chiudendo, fedelissima mia scorta,
a te regger mi lascio.
CORISCA
Ma non tardar; entra, ben mio.
AMARILLI
Vo' prima
girmene al tempio a venerar gli dèi,
che fortunato fin non può sortire,
se non la scorge il ciel, mortale impresa.
CORISCA
Ogni loco; Amarilli, è degno tempio
di ben devoto core.
Perderai troppo tempo.
AMARILLI
Non si può perder tempo
nel far preghi a coloro,
che comandano al tempo.
CORISCA
Vanne dunque, e vien' tosto.
Or s'io non erro, a buon cammin son volta.
Mi turba sol questa tardanza. Pure
potrebbe anco giovarmi. Or mi bisogna
tesser novello inganno, a Coridone
amante mio creder farò, che seco
trovar mi voglia, e nel medesim'antro
dopo Amarilli il manderò, là dove
farò venir per più segreta strada
di Diana i ministri a prender lei,
la qual come colpevole a morire
sarà senz'alcun dubbio condannata.
Spenta la mia rivale, alcun contrasto
non avrò più per ispugnar Mirtillo,
che per lei m'è crudele. Eccolo appunto.
Oh come a tempo. I' vo' tentarlo alquanto,
mentre Amarilli mi dà tempo. Amore
vien nella lingua mia tutto, e nel volto.
Mirtillo, Corisca.
MIRTILLO
Udite, lagrimosi
spirti d'Averno, udite
nova sorte di pena, e di tormento.
Mirate crudo affetto
in sembiante pietoso.
La mia donna crudel più dell'inferno,
perch'una sola morte
non può far sazia la sua ingorda voglia,
e la mia vita è quasi
una perpetua morte,
mi comanda, ch'i' viva,
perché la vita mia
di mille morti il dì ricetto sia.
CORISCA
M'infingerò di non l'aver veduto.
Sento una voce querula, e dolente
sonar d'intorno, e non so dir di cui.
Oh se' tu, il mio Mirtillo?
MIRTILLO
Così foss'io nud'ombra, e poca polve.
CORISCA
Ebben, come ti senti
da poi che lungamente ragionasti
con l'amata tua donna?
MIRTILLO
Come assetato infermo,
che bramò lungamente
il vietato licor, se mai vi giunge,
meschin, beve la morte,
e spegne anzi la vita, che la sete:
tal io, gran tempo infermo,
e d'amorosa sete arso, e consunto,
in duo bramati fonti,
che stillan ghiaccio dall'alpestre vena
d'un indurato core,
ho bevuto il veleno,
e spento il viver mio,
piuttosto, che 'l desio.
CORISCA
Tanto è possente amore,
quanto dai nostri cor forza riceve
caro Mirtillo. E come l'orsa suole
con la lingua dar forma
all'informe suo parto,
che per sé fora inutilmente nato,
così l'amante al semplice desire,
che nel suo nascimento
era infermo, ed informe,
dando forma, e vigore,
ne fa nascere amore.
Il qual prima nascendo
è delicato, e tenero bambino:
e mentre è tale in noi, sempre è soave.
Ma se troppo s'avanza,
divien'aspro, e crudele:
ch'alfin Mirtillo un invecchiato affetto
si fa pena, e difetto.
Che s'in un sol pensiero
l'anima immaginando, si condensa,
e troppo in lui s'affisa,
l'amor ch'esser dovrebbe
pura gioia, e dolcezza;
si fa malinconia,
e quel, ch'è peggio, alfin morte, o pazzia.
Però saggio è quel core,
che spesso cangia amore.
MIRTILLO
Prima che mai cangiar voglia, o pensiero,
cangerò vita in morte:
però, che la bellissima Amarilli
così com'è crudel, com'è spietata,
e sola è la vita mia,
né può già sostener corporea salma
più d'un cor, più d'un'alma.
CORISCA
O misero pastore
come sai mal usare
per lo suo dritto amore.
Amar chi m'odia, e seguir chi mi fugge eh?
I' mi morrei ben prima.
MIRTILLO
Come l'oro nel foco,
così la fede nel dolor s'affina,
Corisca mia, né può senza fierezza
dimostrar sua possanza
amorosa invincibile costanza.
Questo solo mi resta,
fra tanti affanni miei dolce conforto.
Arda pur sempre, o mora
o languisca il cor mio,
a lui sien lievi pene
per sì bella cagion pianti, e sospiri,
strazio, pene, tormenti, esilio, e morte,
purché prima la vita,
che questa fé, si scioglia:
ch'assai peggio di morte è il cangiar voglia.
CORISCA
Oh bella impresa, oh valoroso amante,
come ostinata fera,
come insensato scoglio
rigido, e pertinace.
Non è la maggior peste,
né 'l più fero, e mortifero veleno
a un'anima amorosa della fede.
Infelice quel core,
che si lascia ingannar da questa vana
fantasima d'errore, e de' più cari
amorosi diletti
turbatrice importuna.
Dimmi povero amante
con cotesta tua folle
virtù della costanza,
che cosa ami in colei, che ti disprezza?
Ami tu la bellezza,
che non è tua? La gioia che non hai?
La pietà che sospiri?
La mercé che non speri?
Altro non ami alfin, se dritto miri,
che 'l tuo mal, che 'l tuo duol, che la tua morte.
E se' sì forsennato,
ch'amar vuoi sempre, e non esser amato?
Deh risorgi Mirtillo.
Riconosci te stesso.
Forse ti mancheran gli amori? Forse
non troverai chi ti gradisca, e pregi?
MIRTILLO
M'è più dolce il penar per Amarilli,
che il gioir di mill'altre;
e se gioir di lei
mi vieta il mio destino, oggi si moia
per me pure ogni gioia.
Viver io fortunato
per altra donna mai, per altro amore?
Né volendo il potrei,
né potendo il vorrei.
E s'esser può che 'n alcun tempo mai
ciò voglia il mio volere,
o possa il mio potere,
prego il cielo, ed Amor che tolto pria
ogni voler, ogni poter mi sia.
CORISCA
Oh core ammaliato
per una cruda, dunque,
tanto sprezzi te stesso?
MIRTILLO
Chi non spera pietà, non teme affanno,
Corisca mia.
CORISCA
Non t'ingannar Mirtillo,
che forse da dovero
non credi ancor, ch'ella non t'ami, e ch'ella
da dovero ti sprezzi.
Se tu sapessi quello
che sovente di te meco ragiona.
MIRTILLO
Tutti questi pur sono
amorosi trofei della mia fede:
trionferò con questa
del cielo, e della terra,
della sua cruda voglia,
delle mie pene, e della dura sorte,
di fortuna, del mondo, e della morte.
CORISCA
Che farebbe costui, quando sapesse
d'esser da lei sì grandemente amato?
Oh qual compassione
t'ho io, Mirtillo, di cotesta tua
misera frenesia.
Dimmi amasti tu mai
altra donna che questa?
MIRTILLO
Primo amor del cor mio
fu la bella Amarilli,
e la bella Amarilli
sarà l'ultimo ancora.
CORISCA
Dunque, per quel ch'i' veggia,
non provasti tu mai
se non crudele amor, se non sdegnoso.
Deh s'una volta sola
il provassi soave,
e cortese, e gentile.
Provalo un poco, provalo; e vedrai;
com'è dolce il gioire
per gratissima donna, che t'adori,
quanto sai tu la tua
crudele ed amarissima Amarilli.
Com'è soave cosa
tanto goder quanto ami,
tanto aver quanto brami:
sentir, che la tua donna
ai tuoi caldi sospiri
caldamente sospiri.
E dica poi: ben mio,
quanto son, quanto miri,
tutto è tuo, s'io son bella,
a te solo son bella: a te s'adorna
questo viso, quest'oro e questo seno:
in questo petto mio
alberghi tu, caro mio cor, non io.
Ma questo è un picciol rivo
rispetto all'ampio mar delle dolcezze,
che fa gustar'amore.
Ma non le sa ben dir, chi non le prova.
MIRTILLO
Oh mille volte fortunato, e mille,
chi nasce in tale stella.
CORISCA
Ascoltami, Mirtillo
(quasi m'uscì di bocca, anima mia)
una ninfa gentile
fra quante o spieghi al vento, o 'n treccia annodi
chioma d'oro leggiadra,
degna dell'amor tuo
come se' tu del suo,
onor di queste selve;
amor di tutti i cori:
dai più degni pastori
invan sollecitata, invan seguita,
te solo adora, ed ama
più della vita sua, più del suo core.
Se saggio se', Mirtillo,
tu non la sprezzerai.
Come l'ombra del corpo,
così questa fia sempre
dell'orme tue seguace;
al tuo detto, al tuo cenno
ubbidiente ancella, a tutte l'ore
della notte, e del dì teco l'avrai.
Deh non lasciar, Mirtillo,
questa rara ventura.
Non è piacere al mondo
più soave di quel, che non ti costa
né sospiri, né pianto,
né periglio, né tempo.
Un comodo diletto,
una dolcezza alle tue voglie pronta,
all'appetito tuo sempre, al tuo gusto
apparecchiata. Ohimè non è tesoro
che la possa pagar; Mirtillo lascia,
lascia di piè fugace
la disperata traccia,
e chi ti cerca, abbraccia.
Né di speranze vane
ti pascerò, Mirtillo.
A te sta comandare.
Non è molto lontan chi ti desia,
se vuoi ora, ora sia.
MIRTILLO
Non è il mio cor soggetto
d'amoroso diletto.
CORISCA
Proval sola una volta,
e poi torna al tuo solito tormento.
Perché sappi almen dire
com'è fatto il gioire.
MIRTILLO
Corrotto gusto ogni dolcezza aborre.
CORISCA
Fallo almen per dar vita
a chi del sol de' tuo' begli occhi vive,
crudel; tu sai pur anco
che cosa è povertate,
e l'andar mendicando. Ah se tu brami
per te stesso pietate,
non la negare altrui.
MIRTILLO
Che pietà posso dare,
non la potendo avere?
Insomma io son fermato
di serbar fin ch'io viva
fede a colei, ch'adoro, o cruda, o pia
ch'ella sia stata, e sia.
CORISCA
Oh veramente cieco, ed infelice;
oh stupido Mirtillo.
A chi serbi tu fede?
Non volea già contaminarti, e pena
giugner alla tua pena.
Ma troppo se' tradito;
ed io, che t'amo, sofferir no 'l posso.
Credi tu ch'Amarilli
ti sia cruda per zelo
o di religione, o d'onestate?
Folle se' ben se 'l credi.
Occupata è la stanza,
misero; ed a te tocca
pianger, quand'altri ride.
Tu non parli? Se' muto?
MIRTILLO
Sta la mia vita in forse
tra 'l viver, e 'l morire,
mentre sta in dubbio il core
se ciò creda, o non creda;
però son io così stupido, e muto.
CORISCA
Dunque tu non me 'l credi?
MIRTILLO
S'io te 'l credessi, certo
mi vedresti morire; e s'egli è vero,
i' vo' morire or'ora.
CORISCA
Vivi, meschino, vivi,
serbati alla vendetta.
MIRTILLO
Ma non te 'l credo, e so che non è vero.
CORISCA
Ancor non credi, e pur cercando vai;
ch'io dica quel, che d'ascoltar ti duole:
vedi tu là quell'antro?
quello è fido custode
della fé, dell'onor della tua donna.
Quivi di te si ride;
quivi con le tue pene
si condiscon le gioie
del fortunato tuo lieto rivale.
Quivi, per dirti insomma,
molto sovente suole
la tua fida Amarilli
a rozzo pastorel recarsi in braccio.
Or va' piangi, e sospira; or serva fede,
tu n'hai cotal mercede.
MIRTILLO
Ohimè, Corisca dunque,
il ver mi narri, e pur convien ch' il creda?
CORISCA
Quanto più vai cercando,
tanto peggio udirai,
e peggio troverai.
MIRTILLO
E l'hai veduto tu, Corisca? Ahi lasso.
CORISCA
Non pur l'ho vedut'io,
ma tu ancor il potrai
per te stesso vedere: ed oggi appunto,
ch'oggi l'ordine è dato. E questa è l'ora.
Talché se tu t'ascondi
tra qualch'una di queste
fratte vicine, la vedrai tu stesso
scender nell'antro ed indi a poco il vago.
MIRTILLO
Sì tosto ho da morir?
CORISCA
Vedila appunto,
che per la via del tempio
vien pian piano scendendo.
La vedi tu, Mirtillo?
E non ti par, che mova
furtivo il piè, com'ha furtivo il core?
Or qui l'attendi, e ne vedrai l'effetto.
Ci rivedrem da poi.
MIRTILLO
Già ch'io son sì vicino
a chiarirmi del vero,
sospenderò con la credenza mia
e la vita, e la morte.
Amarilli.
Non cominci mortale alcuna impresa
senza scorta divina, Assai confusa
e con incerto cor quinci partimmi
per gire al tempio, onde, (mercé del cielo)
e ben disposta, e consolata, i' torno.
Ch'alle preghiere mie pure, e devote
m'è paruto sentir moversi dentro
un animoso spirito celeste,
e rincorarmi, e quasi dir, che temi?
Va' sicura Amarilli, e così voglio
sicuramente andar, che 'l ciel mi guida.
Bella madre d'amore,
favorisci colei,
che 'l tuo soccorso attende.
Donna del terzo giro,
se mai provasti di tuo figlio il foco,
abbi del mio pietate.
Scorgi, cortese dèa,
con piè veloce, e scaltro
il pastorello, a cui la fede ho data.
E tu cara spelonca,
sì chiusamente nel tuo sen ricevi
questa serva d'Amor, ch'in te fornire
possa ogni suo desire.
Ma che tardi, Amarilli?
Qui non è chi mi vegga, o chi m'ascolti.
Entra sicuramente.
Oh Mirtillo, Mirtillo;
se di trovarmi qui sognar potessi.
Mirtillo.
Ah purtroppo son desto e troppo miro.
Così nato senz'occhi
foss'io piuttosto, o piuttosto non nato
a che fero destin serbarmi in vita,
per condurmi a vedere
spettacolo sì crudo, e sì dolente?
O più d'ogni infernale
anima tormentata,
tormentato Mirtillo.
Non stare in dubbio no; la tua credenza
non sospender già più; tu l'hai veduta
con gli occhi propri, e con gli orecchi udita;
la tua donna è d'altrui:
non per legge del mondo,
che la toglie ad ogni altro;
ma per legge d'Amore,
che la toglie a te solo.
Oh crudele Amarilli;
dunque non ti bastava
di dar'a questo misero la morte,
s'anco non lo schernivi?
Con quella insidiosa, ed incostante
bocca, che le dolcezze di Mirtillo
gradì pur una volta:
or l'odiato nome,
che forse ti sovvenne,
per tuo rimordimento
non hai voluto a parte
delle dolcezze tue, delle tue gioie,
e 'l vomitasti fuore,
ninfa crudel, per non l'aver nel core.
Ma che tardi, Mirtillo?
Colei, che ti dà vita
a te l'ha tolta, e l'ha donata altrui,
e tu vivi meschino? E tu non mori?
Mori, Mirtillo, mori
al tormento, al dolore,
com'al tuo ben, com'al gioir se' morto.
Mori morto Mirtillo.
Hai finita la vita,
finisci anco il tormento.
Esci, misero amante,
di questa dura, ed angosciosa morte,
che per maggior tuo mal ti tiene in vita.
Ma che? Debb'io morir senza vendetta?
Farò prima morir, chi mi dà morte.
Tanto in me si sospenda
il desio di morire,
che giustamente abbia la vita tolta
a chi m'ha tolto ingiustamente il core.
Ceda il dolore alla vendetta, ceda
la pietate allo sdegno,
e la morte alla vita,
fin ch'abbia con la vita
vendicato la morte.
Non beva questo ferro
del suo signor l'invendicato sangue,
e questa man non sia
ministra di pietate,
che non sia prima d'ira.
Ben ti farò sentire,
chiunque se', che del mio ben gioisci,
nel precipizio mio la tua ruina.
M'appiatterò qui dentro
nel medesmo cespuglio: e come prima
alla caverna avvicinar vedrollo,
improvviso assalendolo, nel fianco
il ferirò con questo acuto dardo.
Ma non sarà vilta ferir altrui
nascosamente? Sì, sfidalo dunque
a singolar contesa; ove virtute
del tuo giusto dolor possa far fede.
No, che potrebbon di leggeri in questo
loco a tutti sì noto, e sì frequente,
accorrere i pastori, ed impedirci;
e ricercar'ancor, che peggio fora,
la cagion, che mi move: e s'io la nego,
malvagio, e s'io la fingo, senza fede
ne sarò riputato: e s'io la scopro,
d'eterna infamia rimarrà macchiato
della mia donna il nome: in cui, ben ch'io
non ami quel che veggio, almen quell'amo,
che sempre volli, e vorrò fin ch'i' viva,
e che sperai, e che veder devrei.
Moia dunque l'adultero malvagio,
ch'a lei l'onore, a me la vita invola.
Ma se l'uccido qui, non sarà il sangue
chiaro indizio del fatto? E che tem'io
la pena del morir, se morir bramo?
Ma l'omicidio alfin fatto palese,
scoprirà la cagione, onde cadrai
nel medesmo periglio dell'infamia,
che può venirne a questa ingrata. Or entra
nella spelonca, e qui l'assali. È buono,
questo mi piace; entrerò cheto cheto
sì ch'ella non mi senta: e credo bene,
che nella più segreta, e chiusa parte,
come accennò di far ne' detti suoi,
si sarà ricovrata: ond'io non voglio
penetrar molto addentro. Una fessura
fatta nel sasso, e di frondosi rami
tutta coperta a man sinistra appunto
si trova a piè dell'alta scesa; quivi,
più che si può tacitamente entrando
il tempo attenderò di dar effetto
a quel che bramo. Il mio nemico morto
alla nemica mia porterò innanzi:
così d'ambiduo lor farò vendetta:
indi trapasserò col ferro stesso
a me medesmo il petto: e tre saranno
gli estinti, duo dal ferro, una dal duolo.
Vedrà questa crudele
dell'amante gradito
non men che del tradito
tragedia miserabile, e funesta.
E sarà questo speco,
ch'esser dovea delle sue gioie albergo,
dell'un, e l'altro amante,
e quel che più desio,
delle vergogne sue tomba, e sepolcro.
Ma voi orme già tanto invan seguite,
così fido sentiero
voi mi segnate? A così caro albergo
voi mi scorgete? Eppur v'inchino, e seguo.
O Corisca, Corisca,
or sì m'hai detto il vero, or sì ti credo.
Satiro.
Costui crede a Corisca? E segue l'orme
di lei nella spelonca d'Ericina?
Stupido è ben chi non intende il resto.
Ma certo e' ti bisogna aver gran pegno
della sua fede in man, se tu le credi,
e stretta lei con più tenaci nodi;
che non ebb'io quando nel crin la presi.
Ma nodi più possenti in lei dei doni
certo avuto non hai. Questa malvagia,
nemica d'onestate, oggi a costui
s'è venduta al suo solito, e qui dentro
si paga il prezzo del mercato infame.
Ma forse costà giù ti mandò il cielo
per tuo castigo, e per vendetta mia.
Dalle parole di costui si scorge
ch'egli non crede invano, e le vestigia,
che vedute ha di lei, son chiari indizi
ch'ella è già nello speco. Or fa' un bel colpo,
chiudi il foro dell'antro con quel grave,
e soprastante sasso; acciò che quinci
sia lor negata di fuggir l'uscita.
Poi vanne, al sacerdote, e' suoi ministri,
per la strada del colle a pochi nota,
conduci, e falla prendere; e secondo
la legge, e i suoi misfatti alfin morire.
E so ben' io che data a Coridone
ha la fé maritale, il qual si tace,
perché teme di me, che minacciato
l'ho molte volte. Oggi farò ben io,
ch'egli di due vendicherà l'oltraggio.
Non vo' perder più tempo. Un sodo tronco
schianterò da quest'elce. Appunto questo
fia buono, ond'io potrò più prontamente
smover'il sasso. Oh com'è grave. Oh come
è ben affisso. Qui bisogna il tronco
spinger di forza, e penetrar sì dentro,
che questa mole alquanto si divella.
Il consiglio fu buono. Anco si faccia
il medesmo di qua. Come s'appoggia
tenacemente, è più dura l'impresa
di quel che mi pensava. Ancor non posso
svellerlo, né per urto anco piegarlo.
Forse il mondo è qui dentro? Oppur mi manca
il solito vigor? Stelle perverse,
che macchinate? Il moverò malgrado.
Maledetta Corisca, e quasi dissi
quante femmine ha il mondo. O Pan Liceo,
o Pan, che tutto se', che tutto puoi,
moviti a' prieghi miei:
fosti amante ancor tu di cor protervo.
Vendica nella perfida Corisca
i tuoi scherniti amori.
Così in virtù del tuo gran nume il movo,
così in virtù del tuo gran nume e' cade.
La mala volpe è nella tana chiusa,
or le troppo largo si darà il foco, ov'io vorrei
veder quante son femmine malvage
in un incendio solo arse, e distrutte.
CORO
Come se' grande, Amore,
di natura miracolo, e del mondo.
Qual cor sì rozzo, o qual sì fiera gente
il tuo valor non sente?
Ma qual sì scaltro ingegno, e sì profondo
il tuo valor intende?
Chi sa gli ardori che 'l tuo foco accende
importuni, e lascivi,
dirà spirto mortal tu regni, e vivi
nella corporea salma.
Ma chi sa poi come a virtù l'amante
si desti, e come soglia
farsi al suo foco (ogni sfrenata voglia
subito spenta) pallido, e tremante;
dirà spirto immortale, hai tu nell'alma
il tuo solo, e santissimo ricetto.
Raro mostro, e mirabile d'umano
e di divino aspetto,
di veder cieco, e di saver insano,
di senso, e d'intelletto,
di ragion, e desio confuso affetto.
E tale hai tu l'impero
della terra, e del ciel, ch'a te soggiace.
Ma (dirò 'l con tua pace)
miracolo più altero
ha di te il mondo, e più stupendo assai.
Però che quanto fai
di meraviglia, e di stupor tra noi,
tutto in virtù di bella donna puoi.
Oh donna, oh don del cielo,
anzi pur di colui,
che 'l tuo leggiadro velo
fe', d'ambo creator più bel di lui.
Qual cosa non hai tu del ciel più bella?
Nella sua vasta fronte
mostruoso Ciclope un occhio ei gira,
non di luce a chi 'l mira,
ma d'alta cecità cagione e fonte.
Se sospira, o favella,
com'irato leon rugge, e spaventa;
e non più ciel, ma campo
di tempestosa, ed orrida procella
col fiero lampeggiar folgori avventa.
Tu col soave lampo,
e con la vista angelica amorosa
di duo soli visibili, e sereni,
l'anima tempestosa
di chi ti mira acqueti, e rassereni:
e suono, e moto, e lume,
e valor, e bellezza, e leggiadria
fan sì dolce armonia nel tuo bel viso,
che 'l cielo invan presume,
(se 'l cielo è pur men bel del paradiso)
di pareggiarsi a te cosa divina.
Ebben ha gran ragione
quell'altero animale,
ch'uomo s'appella, ed a cui pur s'inchina
ogni cosa mortale;
se mirando di te l'alta cagione,
t'inchina, e cede, e s'ei trionfa, e regna,
non è perché di scettro, o di vittoria
sii tu di lui men degna,
ma per maggior tua gloria.
Che quanto il vinto è di più pregio, tanto
più glorioso è di chi vince il vanto.
Ma che la tua beltate
vinca con l'uomo ancor l'umanitate,
oggi ne fa Mirtillo a chi no 'l crede
meravigliosa fede.
E mancava ben questo al tuo valore
donna di far senza speranza Amore.
Corisca.
Tanto in condur la semplicetta al varco
ebbi pur dianzi il cor fisso, e la mente,
che di pensar non mi sovvenne mai
della mia cara, chioma, che rapita
m'ha quel brutto villano, e com'io possa
ricoverarla. Oh quanto mi fu grave
d'avermi a riscattar con sì gran prezzo,
e con sì caro pegno. Ma fu forza
uscir di man dell'indiscreta bestia:
che quantunque egli sia più d'un coniglio
pusillanimo assai, m'avria potuto
far nondimeno mille oltraggi, e mille
fiere vergogne. Io l'ho schernito sempre,
e fin che sangue ha nelle vene avuto,
come sansuga l'ho succhiato. Or duolsi
che più non l'ami, e di dolersi avrebbe;
giusta cagion, se mai l'avessi amato.
Amar cosa inamabile non puossi.
Com'erba, che fu dianzi a chi la colse
per uso salutifero sì cara;
poi che ‘l succo n'è tratto, inutil resta,
e come cosa fracida s'aborre,
così costui; poi che spremuto ho quanto
era di buono in lui, che far ne debbo;
se non gettarne il fracidume al ciacco?
Or vo' veder se Coridone è sceso
ancor nella spelonca. Oh che fia questo?
Che novità vegg'io? Son desta o sogno?
O son ebbra o traveggio? So pur certo,
ch'era la bocca di quest'antro aperta
guari non ha. Com'ora è chiusa? E come
questa pietra sì grave, e tanto antica
allo ‘mprovviso è ruinata a basso?
Non s'è già scossa di tremuoto udita.
Sapessi almen, se Coridon v'è chiuso
con Amarilli, ché del resto poi
poco mi curerei. Dovria pur egli
esser giunto oggimai, sì buona pezza
è che partì, se ben Lisetta intesi.
Chissà che non sia dentro, e che Mirtillo
così non li abbia ambedue chiusi. Amore
punto da sdegno, il mondo anco potrebbe
scuoter, non ch'una pietra. Se ciò fosse,
già non avria potuto far Mirtillo
più secondo il mio cor, se nel suo core
fosse Corisca invece d'Amarilli.
Meglio sarà che per la via del monte
mi conduca nell'antro, e ‘l ver n'intenda.
Dorinda, Linco.
DORINDA
E conosciuta certo
tu non m'avevi, Linco?
LINCO
Chi ti conoscerebbe
sotto queste sì rozze orride spoglie
per Dorinda gentile?
S'io fossi un fiero can, come son Linco,
malgrado tuo t'avrei
troppo ben conosciuta.
Oh che veggio oh, che veggio.
DORINDA
Un affetto d'amor tu vedi, Linco,
un effetto d'amare
misero, e singolare.
LINCO
Una fanciulla come tu sì molle,
e tenerella ancora;
ch'eri pur dianzi (si può dir) bambina,
e mi par che pur ieri
t'avessi tra le braccia pargoletta,
e le tenere piante
reggendo t'insegnassi
a formar babbo, e mamma,
quando ai servigi del tuo padre i' stava.
Tu che qual damma timida solevi,
prima ch'amor sentissi,
paventar d'ogni cosa,
ch'allo 'mprovviso si movesse; ogn'aura,
ogn'augellin, che ramo
scotesse; ogni lucertola, che fuori
della fratta corresse;
ogni tremante foglia
ti facea sbigottire;
or vai soletta errando
per montagne, e per boschi,
né di fera hai paura, né di veltro?
DORINDA
Chi è ferito d'amoroso strale,
d'altra piaga non teme.
LINCO
Ben ha potuto in te, Dorinda, amore,
poi che di donna in uomo,
anzi di donna in lupo ti trasforma.
DORINDA
Oh se qui dentro, Linco,
scorger tu mi potessi,
vedresti un vivo lupo
quasi agnella innocente
l'anima divorarmi.
LINCO
E qual è il lupo? Silvio?
DORINDA
Ah tu l'hai detto.
LINCO
E tu, poich'egli è lupo,
in lupa volentier ti se' cangiata;
perché se non l'ha mosso il viso umano,
il mova almen questo ferino, e t'ami.
Ma, dimmi, ove trovasti
questi ruvidi panni?
DORINDA
I' ti dirò. Mi mossi
stamani assai per tempo
verso là dove inteso avea, che Silvio,
a piè dell'Erimanto
nobilissima caccia
al fier cignale apparecchiata avea,
e nell'uscir de l'Eliceto appunto
quinci non molto lunge
verso il rigagno, che dal poggio scende,
trovai Melampo il cane
del bellissimo Silvio, che la sete
quivi, come cred'io, s'avea già tratta,
e nel prato vicin posando stava.
Io, ch'ogni cosa del mio Silvio ho cara,
e l'ombra ancor del suo bel corpo, e l'orma
del piè leggiadro, non che 'l can da lui
cotanto amato, inchino,
subitamente il presi:
ed ei senza contrasto,
qual mansueto agnel meco ne venne.
E mentre i' vo pensando
di ricondurlo al suo signore, e mio;
sperando far con dono a lui sì caro
della sua grazia acquisto;
eccolo appunto, che venia diritto
cercandone i vestigi, e qui fermossi.
Caro Linco, non voglio
perder tempo in narrarti
minutamente quello
ch'è passato tra noi.
Ma dirò ben per ispedirmi in breve,
che dopo un lungo giro
di mentite promesse, e di parole,
mi s'è involato il crudo,
pien d'ira, e di disdegno,
col suo fido Melampo,
e con la cara mia dolce mercede.
LINCO
Oh dispietato Silvio, oh garzon fiero.
E tu che festi allor? Non ti sdegnasti
della sua fellonia?
DORINDA
Anzi, come s'appunto,
il foco del suo sdegno
fosse stato al mio cor foco amoroso,
crebbe per l'ira sua l'incendio mio,
e, tuttavia seguendone i vestigi,
e pur verso la caccia
l'interrotto cammin continuando,
non molto lunge il mio Lupin raggiunsi
che quinci poco prima
di me s'era partito. Onde mi venne
tosto pensier di travestirmi e 'n questi
abiti suoi servili
nascondermi sì ben, che tra pastori
potessi per pastore esser tenuta,
e seguir e mirar comodamente
il mio bel Silvio.
LINCO
E 'n sembianza di lupo
tu se' ita alla caccia,
e t'han veduta i cani e quinci salva
se' ritornata? Hai fatto assai, Dorinda.
DORINDA
Non ti meravigliar Linco, che i cani
non potean far'offesa
a chi del signor loro
è destinata preda.
Quivi confusa infra la spessa turba
de' vicini pastori,
ch'eran concorsi alla famosa caccia,
stav'io fuor delle tende
spettatrice amorosa
via più del cacciator che della caccia.
A ciascun moto della fera alpestre
palpitava il cor mio:
a ciascun atto del mio caro Silvio
correa subitamente
con ogni affetto suo l'anima mia.
Ma il mio sommo diletto
turbava assai la paventosa vista
del terribil cignale,
smisurato di forza, e di grandezza.
Come rapido turbo
d'impetuosa, e subita procella,
che tetti, e piante, e sassi, e ciò ch'incontra
in poco giro, in poco tempo atterra,
così a un solo rotar di quelle zanne
e spumose, e sanguigne,
si vedean tutti insieme
cani uccisi, aste rotte, uomini offesi.
Quante volte bramai
di patteggiar con la rabbiosa fera
per la vita di Silvio il sangue mio?
Quante volte d'accorrervi e di fare
con questo petto al suo buon petto scudo?
Quante volte dicea
fra me stessa. Perdona,
fiero cignal, perdona
al delicato sen del mio bel Silvio.
Così meco parlava,
sospirando, e pregando.
Quand'egli di squamosa, e dura scorza
il suo Melampo armato
contra la fera impetuoso spinse,
che più superba ogn'ora
s'avea fatta d'intorno
di molti uccisi cani, e di feriti
pastori orrida strage.
Linco, non potrei dirti
il valor di quel cane;
e ben ha gran ragion Silvio se l'ama.
Come irato leon, che 'l fiero corno
dell'indomito tauro
ora incontri, ora fugga,
una sola fiata,
che nel tergo l'afferri
con le robuste branche,
il ferma sì, ch'ogni poter n'emunge,
tale il forte Melampo
fuggendo accortamente
gli spessi giri, e le mortali rote
di quella fera mostruosa; alfine
l'azzannò nell'orecchia;
e dopo averla impetuosamente
prima crollata alquante volte, e scossa,
ferma la tenne sì, che potea farsi
nel vasto corpo suo, quantunque altrove
leggermente ferito,
di ferita mortal certo disegno.
Allor subitamente il mio bel Silvio,
invocando Diana,
drizza tu questo colpo,
disse, ch'a te fo voto
di sacrar, santa dèa, l'orribil teschio.
E 'n questo dir dalla faretra d'oro
tratto un rapido strale,
fin dall'orecchia al ferro
tese l'arco possente,
e nel medesmo punto
restò piagato, ove confina, il collo
con l'omero sinistro il fier cinghiale;
il qual subito cadde. I' respirai
vedendo Silvio mio fuor di periglio.
O fortunata fera,
degna d'uscir di vita
per quella man, che 'nvola
sì dolcemente il cor dai petti umani.
LINCO
Ma che sarà di quella fera uccisa?
DORINDA
No 'l so, perché me n' venni,
per non esser veduta, innanzi a tutti:
ma crederò, che porteranno in breve,
secondo il voto del mio Silvio, il teschio
solennemente al tempio.
LINCO
E tu non vuoi uscir di questi panni?
DORINDA
Sì voglio, ma Lupino
ebbe la veste mia con l'altro arnese,
e disse d'aspettarmi
con essi al fonte, e non ve l'ho trovato.
Caro Linco, se m'ami,
va' tu per queste selve
di lui cercando, che non può già molto
esser lontano. Poserò frattanto
là in quel cespuglio. Il vedi? Ivi t'attendo,
ch'io son dalla stanchezza
vinta, e dal sonno, e ritornar non voglio
con queste spoglie a casa.
LINCO
Io vo. Tu non partire
di là fin ch'io non torni.
Coro, Ergasto.
CORO
Pastori, avete inteso
che 'l nostro semideo, figlio ben degno
del gran Montano, e degno
discendente d'Alcide,
oggi n'ha liberati
dalla fera terribile, che tutta
infestava l'Arcadia;
e che già si prepara
di sciorne il voto al tempio.
Se grati esser vogliamo
fi tanto beneficio,
andiamo tutti ad incontrarlo; e come
nostro liberatore
sia da noi onorato
con la lingua, e col core:
e benché d'alma valorosa, e bella
l'onor sia poco pregio, è però quello
che si può dar maggiore
alla virtute in terra.
ERGASTO
Oh sciagura dolente, oh caso amaro;
oh piaga immedicabile, e mortale;
oh sempre acerbo, e lagrimevol giorno.
CORO
Qual voce odo d'orror piena, di pianto?
ERGASTO
Stelle nemiche alla salute nostra,
così la fé schernite?
Così il nostro sperar levaste in alto,
perché poscia cadendo,
con maggior pena il precipizio avesse?
CORO
Questi mi par Ergasto: e certo è desso.
ERGASTO
Ma perché il cielo accuso?
Te pur accusa, Ergasto.
Tu solo avvicinasti
l'esca pericolosa
al focile d'amor, tu il percotesti,
e tu sol ne traesti
le faville, ond' è nato
l'incendio inestinguibile, e mortale.
Ma sallo il ciel, se da buon fin mi mossi,
e se fu sol pietà, che mi c'indusse.
Oh sfortunati amanti,
oh misera Amarilli,
oh Titiro infelice, oh orbo padre,
oh dolente Montano,
oh desolata Arcadia, oh noi meschini:
oh, finalmente, misero, e infelice
quant'ho veduto, e veggio,
quanto parlo, quant'odo, e quanto penso.
CORO
Ohimè, qual fia cotesto
sì misero accidente,
che 'n sé comprende ogni miseria nostra?
Andiam, pastori, andiamo
verso di lui, ch'appunto
egli ci vien incontra. Eterni numi,
ah non è tempo ancora
di rallentar lo sdegno?
Dinne Ergasto gentile,
qual fiero caso a lamentar ti mena?
Che piangi?
ERGASTO
Amici cari,
piango la mia, piango la vostra, piango
la ruina d'Arcadia.
CORO
Ohimè che narri?
ERGASTO
È caduto il sostegno
d'ogni nostra speranza.
CORO
Deh parlaci più chiaro.
ERGASTO
La figliuola di Titiro; quel solo
del suo ceppo cadente, e del cadente
padre appoggio, e rampollo;
quell'unica speranza
della nostra salute,
ch'al figlio di Montano era dal cielo
destinata, e promessa,
per liberar con le sue nozze Arcadia;
quella Ninfa celeste,
quella saggia Amarilli,
quell'esempio d'onore,
quel fior di castitate,
ohimè quella; ah mi scoppia
il core a dirlo.
CORO
È morta?
ERGASTO
No; ma sta per morire.
CORO
Ohimè che intendo?
ERGASTO
E nulla ancor intendi;
peggio è che more infame.
CORO
Amarillide infame? E come? Ergasto.
ERGASTO
Trovata con l'adultero, e se quinci
non partite sì tosto,
la vedrete condurre
cattiva al tempio.
CORO
Oh, bella e singolare;
ma troppo malagevole virtute
del sesso femminile. Oh pudicizia
come oggi se' sì rara.
Dunque non si dirà donna pudica
se non quella, che mai
non fu sollecitata?
Oh secolo infelice.
ERGASTO
Veramente potrassi
con gran ragione avere
d'ogn'altra donna l'onestà sospetta,
se disonesta l'onestà si trova.
CORO
Deh, cortese pastor, non ti sia grave
di raccontarci il tutto.
ERGASTO
Io vi dirò. Stamane assai per tempo
venne (come sapete)
il sacerdote al tempio,
con l'infelice padre
della misera ninfa,
da un medesmo pensier ambedue mossi,
d'agevolar co' prieghi
le nozze de' lor figli
da lor bramate tanto.
Per questo solo in un medesmo tempo
fur le vittime offerte,
e fatto il sacrificio
solennemente, e con sì lieti auspici,
che non fur viste mai
né viscere più belle,
né fiamma più sincera, o men turbata,
onde da questi segni
mosso il cieco indovino,
oggi, disse, a Montano.
Sarà il tuo Silvio amante, e la tua figlia
oggi, Titiro, sposa.
Vanne tu tosto preparar le nozze.
Oh insensate, e vane
menti degli indovini; e tu di dentro
non men, che di fuor cieco.
S'a Titiro l'esequie
invece delle nozze avessi detto,
ti potevi ben dir certo indovino.
Già tutti consolati
erano i circostanti, e i vecchi padri
piangean di tenerezza,
e partito era già Titiro, quando
furon nel tempio orribilmente uditi
di subito, e veduti
sinistri auguri, e paventosi segni,
nunzi dell'ira sacra.
Ai quali, ohimè, sì repentini, e fieri,
s'attonito e confuso
restasse ogn'un, dopo sì lieti auguri,
pensate 'l voi, cari pastori. Intanto
s'erano i sacerdoti
nel sacrario maggior soli rinchiusi,
e mentre essi di dentro, e noi di fuori,
lagrimosi, e divoti,
stavamo intenti alle preghiere sante,
ecco il malvagio satiro, che chiede
con molta fretta, e per instante caso
al sacerdote udienza. E perché questa
è, come voi sapete,
mia cura, fui quell'io, che l'introdussi.
Ed egli (ah, ben ha ceffo
da non portar altra novella) disse.
Padri; s'ai vostri voti
non rispondon le vittime, e gli incensi:
se sopra i vostri altari
splende fiamma non pura,
non vi meravigliate: impuro ancora
è quel, che si commette
oggi contra la legge
nell'antro d'Ericina.
Una perfida ninfa
con l'adultero infame ivi profana
a voi la legge, altrui la fede rompe.
Vengan meco i ministri,
mostrerò lor di prenderli sul fatto
agevolmente il modo.
Allora (o mente umana,
come nel tuo destino
se' tu stupida e cieca)
respirarono alquanto
gli afflitti, e buoni padri,
parendo lor, che fosse
trovata la cagion, che pria sospesi
li ebbe a tener nel sacro ufficio infausto:
onde subitamente il sacerdote
al ministro maggior Nicandro impose,
che se n' gisse col Satiro, e cattivi
conducesse ambedue gli amanti al tempio.
Ond'egli accompagnato
da tutto il nostro coro
de' ministri minori,
per quella via, che 'l Satiro avea mostra
tenebrosa, ed obliqua,
si condusse nell'antro.
La giovane infelice
forse dallo splendor delle facelle
d'improvviso assalita, e spaventata,
uscendo fuor d'una riposta cava,
ch'è nel mezzo dell'antro,
di provò di fuggir, come cred'io,
verso cotesta uscita, che fu dianzi
dal Satiro malvagio,
com'e' ci disse, chiusa.
CORO
Ed egli intanto, che facea?
ERGASTO
Partissi
subito che 'l sentiero
ebbe scorto a Nicandro.
Non si può dir, fratelli,
quanto rimase ognuno
stupefatto, ed attonito, vedendo,
che quella era la figlia
di Titiro; la quale
non fu sì tosto presa,
che subito v'accorse;
ma non saprei già dirvi, onde s'uscisse,
l'animoso Mirtillo,
e per ferir Nicandro,
il dardo, ond'era armato,
impetuoso spinse;
e se giungeva il ferro
là 've la mano il destinò, Nicandro
oggi vivo non fora.
Ma in quel medesmo punto,
che drizzò l'uno il colpo,
s'arretrò l'altro; o fosse caso, o fosse
avvedimento accorto,
sfuggì il ferro mortale,
lasciando il petto, che diè luogo, intatto,
e nell'irsuta spoglia
non pur finì quel periglioso colpo;
ma s'intricò, non so dir come, in modo,
che no 'l potendo ricovrar, Mirtillo
restò cattivo anch'egli.
CORO
E di lui che seguì?
ERGASTO
Per altra via
nel condussero al tempio.
CORO
E per far che?
ERGASTO
Per meglio trar da lui
di questo fatto il vero. E chissà? Forse
non merta impunità l'aver tentato
di por man ne' ministri, e 'ncontra loro
la maestà sacerdotale offesa.
Avessi almen potuto
consolarlo, il meschino.
CORO
E perché non potesti?
ERGASTO
Perché vieta la legge
ai ministri minori
di favellar co' rei.
Per questo sol mi sono
dilungato dagli altri;
e per altro sentiero
mi vo condurre al tempio;
e con prieghi, e con lagrime devote
chieder al ciel, ch'a più sereno stato
giri questa oscurissima procella.
Addio, cari pastori,
restate in pace e voi co' prieghi nostri
accompagnate i vostri.
CORO
Così farem, poi che per noi fornito
sarà verso il buon Silvio il nostro a lui
così devoto ufficio.
O dèi del sommo cielo,
deh mostratevi omai
con la pietà, non col furore eterni.
Corisca.
Cingetemi d'intorno
o trionfanti allori
le vincitrici, e gloriose chiome.
Oggi felicemente
ho nel campo d'Amor pugnato, e vinto.
Oggi il cielo, e la terra,
e la natura, e l'arte,
e la fortuna, e 'l fato,
e gli amici, e i nemici
han per me combattuto.
Anco il perverso Satiro, che tanto
m'ha pur in odio; hammi giovato, come
se parte anch'egli in favorirmi avesse,
quanto meglio dal caso
Mirtillo fu nella spelonca tratto,
che non fu Coridon dal mio consiglio,
per far più verisimile, e più grave
la colpa d'Amarilli: e benché seco
sia preso anco Mirtillo,
ciò non importa; e' fiè ben anco sciolto;
che solo è dell'adultera la pena.
Oh vittoria solenne, oh bel trionfo.
Drizzatemi un trofeo,
amorose menzogne.
Voi sete in questa lingua, in questo petto
forze sopra natura onnipotenti.
Ma che tardi, Corisca?
Non è tempo da starsi.
Allontanati pur, finché la legge
contra la tua rivale oggi s'adempia.
Però che del suo fallo
graverà te per iscolpar sé stessa;
e vorrà forse il sacerdote, prima
che far altro di lei,
saper di ciò per la tua lingua il vero.
Fuggi dunque, Corisca. A gran periglio
va per lingua mendace,
chi non ha il piè fugace.
M'asconderò tra queste selve, e quivi
starò, fin che sia tempo
di venir a goder delle mie gioie.
Oh beata Corisca,
chi vide mai più fortunata impresa?
Nicandro, Amarilli.
NICANDRO
Ben duro cor avrebbe; o non avrebbe
piuttosto cor, né sentimento umano,
chi non avesse del tuo mal pietate,
misera ninfa; e non sentisse affanno
della sciagura tua tanto maggiore,
quanto men la pensò, chi più la intende.
Che 'l veder sol cattiva una donzella
venerabile in vista, e di sembiante
celeste; e degna a cui consacri il mondo,
per divina beltà, vittime, e tempi,
condur vittima al tempio, è cosa certo
da non veder se non con occhi molli.
Ma chissà poi di te, come se' nata,
ed che fin se' nata; e che se' figlia
di Titiro; e che nuora di Montano
esser dovevi; e ch'ambidue pur sono
questi d'Arcadia i più pregiati, e chiari,
non so se debba dir pastori, o padri,
e che tale, e che tanta, e sì famosa,
e sì vaga donzella, e sì lontana
dal natural confin della tua vita,
così t'appressi al rischio della morte;
chi sa questo, e non piange, e non se n' duole
uomo non è, ma fera in volto umano.
AMARILLI
Se la miseria mia fosse mia colpa,
Nicandro, e fosse, come credi, effetto
di malvagio pensiero,
siccome in vista par d'opra malvagia;
men grave assai mi fora,
che di grave fallire,
fosse pena il morire:
che ben giusto sarebbe,
che dovesse il mio sangue
lavar l'anima immonda,
placar l'ira del cielo,
e dar suo dritto, alla giustizia umana.
Così pur i' potrei
quetar l'anima afflitta,
e con un giusto sentimento interno
di meritata morte,
mortificando i sensi,
avvezzarmi al morire,
e con tranquillo varco
passar fors'anco a più tranquilla vita.
Ma troppo, ohimè, Nicandro,
troppo mi pesa in sì giovane etate,
in sì alta fortuna,
il dover così subito morire,
e morir innocente.
NICANDRO
Piacesse al ciel, che gli uomini piuttosto
avesser contra te, ninfa, peccato,
che tu peccato incontra 'l cielo avessi:
ch'assai più agevolmente oggi potremmo
ristorar te del violato nome,
che lui placar del violato nume.
Ma non so già veder chi t'abbia offesa,
se non te stessa tu, misera ninfa.
Dimmi, non se' tu stata in loco chiuso
trovata con l'adultero? E con lui
sola con solo? E non se' tu promessa
al figlio di Montano? E tu per questo
non hai la fede marital tradita?
Come dunque innocente?
AMARILLI
Eppur in tanto,
e sì grave fallir, contra la legge
non ho peccato, ed innocente sono.
NICANDRO
Contra la legge di natura forse
non hai, ninfa, peccato; ama, se piace;
ma ben hai tu peccato incontra quella
degli uomini, e del cielo; ama, se lice.
AMARILLI
Han peccato per me gli uomini, e 'l cielo,
se pur è ver, che di lassù derivi
ogni nostra ventura:
ch'altri che 'l mio destino
non può voler, che sia
il peccato d'altrui la pena mia.
NICANDRO
Ninfa, che parli? Frena,
frena la lingua da soverchio sdegno
trasportata là, dove
mente devota a gran fatica sale.
Non incolpar le stelle:
che noi soli a noi stessi
fabbri siam pur delle miserie nostre.
AMARILLI
Già nel ciel non accuso
altro, che 'l mio destino empio, e crudele;
ma più del mio destino,
chi m'ha ingannata accuso.
NICANDRO
Dunque te sol, che t'ingannasti, accusa.
AMARILLI
M'ingannai sì, ma nell'inganno altrui.
NICANDRO
Non si fa inganno a cui l'inganno è caro.
AMARILLI
Dunque m'hai tu per impudica tanto?
NICANDRO
Ciò non so dirti; all'opra pure il chiedi.
AMARILLI
Spesso del cor segno fallace è l'opra.
NICANDRO
Pur l'opra solo, e non il cor si vede.
AMARILLI
Con gli occhi della mente il cor si vede.
NICANDRO
Ma ciechi son, se non gli scorge il senso.
AMARILLI
Se ragion no 'l governa, ingiusto è il senso.
NICANDRO
E ingiusta è la ragion, se dubbio è il fatto.
AMARILLI
Comunque sia, so ben che 'l core ho giusto.
NICANDRO
E chi ti trasse altri che tu nell'antro?
AMARILLI
La mia semplicitate, e 'l creder troppo.
NICANDRO
Dunque all'amante l'onestà credesti?
AMARILLI
All'amica infedel, non all'amante.
NICANDRO
A qual amica? All'amorosa voglia?
AMARILLI
Alla suora d'Ormin, che m'ha tradita.
NICANDRO
Oh dolce con l'amante esser tradita.
AMARILLI
Mirtillo entrò, che no 'l sepp'io, nell'antro.
NICANDRO
Come dunque v'entrasti? Ed a qual fine?
AMARILLI
Basta che per Mirtillo io non v'entrai.
NICANDRO
Convinta sei, s'altra cagion non rechi.
AMARILLI
Chiedasi a lui dell'innocenza mia.
NICANDRO
A lui, che fu cagion della tua colpa?
AMARILLI
Ella che mi tradì fede ne faccia.
NICANDRO
E qual fede può far chi non ha fede?
AMARILLI
Io giurerò nel nome di Diana.
NICANDRO
Spergiurato purtroppo hai tu con l'opre,
ninfa; non ti lusingo, e parlo chiaro,
perché poscia confusa al maggior uopo
non abbi a restar tu. Questi son sogni.
Onda di fiume torbido non lava,
né torto cor fa parlar dritto; e dove
il fatto accusa, ogni difesa offende.
Tu la tua castità guardar dovevi
più della luce assai degli occhi tuoi.
Che pur vaneggi? A che te stessa inganni?
AMARILLI
Così dunque morire, ohimè, Nicandro,
così morir debb'io?
Né sarà chi m'ascolti, o mi difenda?
Così da tutti abbandonata, e priva
d'ogni speranza? Accompagnata solo
da un'estrema infelice,
e funesta pietà, che non m'aita?
NICANDRO
Ninfa, queta il tuo core;
e se 'n peccar sì poco saggia fusti,
mostra almen senno in sostener l'affanno
della fatal tua pena.
Drizza gli occhi nel cielo,
se derivi dal cielo.
Tutto quel, che c'incontra,
o di bene, o di male,
sol di lassù deriva; come fiume
nasce da fonte, o da radice pianta;
e quanto qui par male,
dove ogni ben con molto male è misto,
è ben lassù, dov'ogni ben s'annida.
Sallo il gran Giove, a cui pensiero umano
non è nascosto; sallo
il venerabil nume
di quella dèa, di cui ministro i' sono,
quanto di te m'incresca.
E se t'ho col mio dir così trafitta,
ho fatto come suol medica mano
pietosamente acerba,
che va con ferro, o stilo
le latebre tentando
di profonda ferita,
ov'ella è più sospetta, e più mortale.
Quetati dunque omai,
né voler contrastar più lungamente
a quel, ch'è già di te scritto nel cielo.
AMARILLI
Oh sentenza crudele,
ovunque ella sia scritta o 'n cielo, o 'n terra.
Ma in ciel già non è scritta,
ché lassù nota è l'innocenza mia.
Ma che mi val, se pur convien ch'i' mora?
Ahi questo è pure il duro passo: ahi questo
è pur l'amaro calice, Nicandro.
Deh per quella pietà, che tu mi mostri,
non mi condur, ti prego,
sì tosto al tempio: aspetta ancora, aspetta.
NICANDRO
O ninfa, ninfa; a chi 'l morir è grave
ogni momento è morte.
Che tardi tu il tuo male?
Altro mal non ha morte,
che 'l pensar a morire.
E chi morir pur deve,
quanto più tosto more,
tanto più tosto al suo morir s'invola.
AMARILLI
Mi verrà forse alcun soccorso intanto.
Padre mio, caro padre,
e tu ancor m'abbandoni?
Padre d'unica figlia,
così morir mi lasci, e non m'aiti?
Almen non mi negar gli ultimi baci.
Ferirà pur duo petti un ferro solo.
Verserà pur la piaga
di tua figlia il tuo sangue.
Padre un tempo sì dolce, e caro nome,
ch'invocar non soleva indarno mai,
così le nozze fai
della tua cara figlia?
Sposa il mattino, e vittima la sera?
NICANDRO
Deh non penar più, ninfa.
A che tormenti indarno
e te stessa, ed altrui?
È tempo omai, che ti conduca al tempio,
né 'l mio debito vuol, che più s'indugi.
AMARILLI
Dunque addio, care selve,
care mie selve, addio,
ricevete questi ultimi sospiri,
finché sciolta da ferro ingiusto, e crudo
torni la mia fredd'ombra
alle vostr'ombre amate.
Che nel penoso inferno
non può gir innocente,
né può star tra beati
disperata, e dolente.
Oh Mirtillo, Mirtillo,
ben fu misero il dì, che pria ti vidi,
e 'l dì; che pria ti piacqui;
poi che la vita mia,
più cara a te, che la tua vita assai:
così pur non dovea
per altro esser tua vita,
che per esser cagion della mia morte.
Così (chi 'l crederia)
per te dannata more
colei, che ti fu cruda
per viver innocente.
O per me troppo ardente,
e per te poco ardito. Era pur meglio
o peccar, o fuggire.
In ogni modo i' moro, e senza colpa,
e senza frutto; e senza te, cor mio.
Mi moro, ohimè, Mirtillo.
NICANDRO
Certo ella more.
Oh meschina: accorrete,
sostenetela meco. Oh fiero caso,
nel nome di Mirtillo
ha finito il suo corso,
e l'amor, e 'l dolor nella sua morte
ha prevenuto il ferro.
Oh misera donzella.
Pur vive ancora; e sento
al palpitante cor segni di vita.
Portiamla al fonte qui vicino: forse
rivocheremo in lei,
con l'onda fresca gli smarriti spirti.
Ma chissà, che non sia
opra di crudeltà l'esser pietoso,
a chi muor di dolore
per non morir di ferro?
Comunque sia, pur si soccorra; e quello
facciasi, che conviene
alla pietà presente,
che del futuro sol presago è 'l cielo.
Coro di Cacciatori, coro di Pastori con Silvio.
CORO DI CACCIATORI
O fanciul glorioso,
vera stirpe d'Alcide,
che fere già sì mostruose ancide.
CORO DI PASTORI
O fanciul glorioso,
per cui dell'Erimanto
giace la fera superata, e spenta,
che parea viva insuperabil tanto.
Ecco l'orribil teschio,
che così morto par che morte spiri.
Questo è 'l chiaro trofeo;
questa la nobilissima fatica
del nostro semideo.
Celebrate, pastori, il suo gran nome,
e questo dì tra noi
sempre solenne sia, sempre festoso.
CORO DI CACCIATORI
O fanciul glorioso,
vera stirpe d'Alcide,
che fere già sì mostruose ancide.
CORO DI PASTORI
O fanciul glorioso,
che sprezzi per altrui la propria vita,
questo, è 'l vero cammino
di poggiar a virtute;
però ch'innanzi a lei,
la fatica, e 'l sudor poser gli dèi.
Chi vuol goder degli agi,
soffra prima i disagi.
Né da riposo infruttuoso, e vile,
che 'l faticar aborre;
ma da fatica, che virtù precorre,
nasce il vero riposo.
CORO DI CACCIATORI
O fanciul glorioso,
vera stirpe d'Alcide,
che fere già sì mostruose ancide.
CORO DI PASTORI
O fanciul glorioso,
per cui le ricche piagge,
prive già di cultura, e di cultori,
han ricovrati i lor fecondi onori.
Va' pur sicuro, e prendi
omai, bifolco, il neghittoso aratro.
Spargi il gravido seme,
e 'l caro frutto in sua stagione attendi.
Fiero piè, fiero dente,
non fiè più che te 'l tronchi, o te 'l calpesti,
né sarai per sostegno
della vita a te grave, altrui noioso.
CORO DI CACCIATORI
O fanciul glorioso,
vera stirpe d'Alcide,
che fere già sì mostruose ancide.
CORO DI PASTORI
O fanciul glorioso,
come presago di tua gloria il cielo
alla cui gloria arride. Era tal forse,
il famoso cignale,
che vivo Ercole vinse. E tal l'avresti
forse ancor tu, s'egli di te non fosse
così prima fatica,
come fu già del tuo grand'avo terza.
Ma con le fere scherza
la virtude giovinetta ancora,
per far de' mostri in più matura etate
strazio poi sanguinoso.
CORO DI CACCIATORI
O fanciul glorioso,
vera stirpe d'Alcide,
che fere già sì mostruose ancide.
CORO DI PASTORI
O fanciul glorioso,
come il valor con la pietate accoppi.
Ecco, Cintia, ecco il voto
del tuo Silvio devoto.
Mira il capo superbo,
che quinci, e quindi in tuo disprezzo s'arma
di curvo, e bianco dente,
ch'emulo par delle tue corna altere.
Dunque, possente dèa,
se tu drizzasti del garzon lo strale,
ben dessi a te di sua vittoria il pregio,
per te vittorioso.
CORO DI CACCIATORI
O fanciul glorioso,
vera stirpe d'Alcide,
che fere già sì mostruose ancide.
Coridone.
Son ben io stato infin' a qui sospeso,
me 'l prestar fede a quel, che di Corisca
testé m'ha detto il Satiro: temendo
non sua favola fosse a danno mio,
così da lui malignamente finta:
troppo dal ver parendomi lontano,
che nel medesmo loco, ov'ella meco
esser dovea (se non è falso quello,
che da sua parte mi recò Lisetta)
sì repentinamente oggi sia stata
con l'adultero colta. Ma, nel vero
mi par gran segno, e mi perturba assai
la bocca di quest'antro, in quella guisa,
ch'egli appunto m'ha detto, e che si vede
da sì grave petron turata, e chiusa.
Oh Corisca, Corisca. I' t'ho sentita
troppo bene alla mano, che 'incappando
tu così spesso, alfin ti conveniva
cader senza rilievo. Tanti inganni,
tante perfidie tue, tante menzogne,
certo dovean di sì mortal caduta
esser veri presagi, a chi non fosse
stato privo di mente, e d'amor cieco
buon per me, che tardai. Fu gran ventura
che 'l padre mio mi trattenesse (sciocco)
quel, che mi parve un fiero intoppo allora.
Che se veniva al tempo, che prescritto
da Lisetta mi fu, certo poteva
qualche strano incidente oggi incontrarmi.
Ma che farò? Debb'io di sdegno armato
ricorrer'agli oltraggi? Alle vendette?
No, che troppo l'onoro. Anzi, se voglio
discorrer sanamente, è caso degno
piuttosto di pietà che di vendetta.
Avrai dunque pietà di chi t'inganna?
Ingannata ha sé stessa; che lasciando
un, che con pura fé l'ha sempre amata,
ad un vil pastorel s'è data in preda
vagabondo, e straniero; che domani
sarà di lei più perfido, e bugiardo.
Che? Debb'io dunque vendicar l'oltraggio,
che seco porta la vendetta? E l'ira
supera sì, che fa pietà lo sdegno?
Pur t'ha schernito: anzi onorato; ed io
ho ben onde pregiarmi, or che mi sprezza
femmina, ch'al suo mal sempre s'appiglia,
e le leggi non sa né dell'amare,
né dell'esser amata; e che 'l men degno
sempre gradisce, e 'l più gentile aborre.
Ma dimmi, Coridon, se non ti move
lo sdegno del disprezzo a vendicarti,
com'esser può, che non ti mova almeno
il dolor della perdita, e del danno?
Non ho perduta lei, che mia non era;
ho ricovrato me, ch'era d'altrui.
Né il restar senza femmina sì vana,
e sì pronta, e sì agevole a cangiarsi,
perdita si può dire. E finalmente
che cosa ho io perduto? Una bellezza
senza onestate; un volto senza senno,
un petto senza core; un cor senz'alma;
un'alma senza fede; un'ombra vana;
una larva; un cadavero d'Amore,
che doman sarà fracido, e putente.
E questa si dée dir perdita? Acquisto
molto ben caro, e fortunato ancora.
Mancheranno le femmine, se manca
Corisca? Mancheranno a Coridone
ninfe di lei più degne, e più leggiadre?
Mancherà ben a lei fedele amante
com'era Coridon, di cui fu indegna.
Or se volessi far quel che di lei
m'ha consigliato il Satiro, so certo,
che se la fede a me già da lei data
oggi accusassi, i' la farei morire
ma non ho già sì basso cor, che basti
mobilità di femmina a turbarlo.
Troppo felice, ed onorata fora
la femminil perfidia, se con pena
di cor virile, e con turbar la pace,
e la felicità d'alma ben nata,
s'avesse a vendicar. Oggi Corisca
per me dunque si viva, o, per dir meglio,
per me non moia, e per altrui si viva,
sarà la vita sua vendetta mia,
viva l'infamia sua, viva al suo drudo.
Poi ch'è tal, ch'io non l'odio; ed ho piuttosto
pietà di lei, che gelosia di lui.
Silvio.
Oh dèa, che non se' dèa se non di gente
vana, oziosa, e cieca,
che con impura mente,
e con religion stolta, e profana,
ti sacra altari, e tempi.
Ma che tempi diss'io? Piuttosto asili
d'opre sozze, e nefande,
per onestar la loro
empia disonestate,
col titolo famoso
della tua deitate.
E tu, sordida dèa;
perché le tue vergogne,
nelle vergogne altrui si veggan meno,
rallenti lor d'ogni lascivia il freno.
Nemica di ragione:
macchinatrice sol d'opre furtive:
corruttela dell'alme:
calamità degli uomini, e del mondo.
Figlia del mar ben degna,
e degnamente nata
di quel perfido mostro;
che con aura di speme allettatrice,
prima lusinghi, e poi
movi ne' petti umani
tante fiere procelle
d'impetuosi, e torbidi desiri,
di pianti, e di sospiri,
che madre di tempeste, e di furore
devria chiamarti il mondo,
e non madre d'Amore.
Ecco in quanta miseria
tu hai precipitati
que' duo miseri amanti.
Or va' tu, che ti vanti
d'esser onnipotente:
va' tu, perfida dèa; salva se puoi
la vita a quella ninfa,
che tu con tue dolcezze
avvelenate hai pur condotta a morte.
Oh per me fortunato
quel dì, che ti sacrai l'animo casto,
Cintia, mia sola dèa:
santa mia deità, mio vero nume;
e così nume in terra
dell'anime più belle,
come lume del cielo,
più bel dell'altre stelle.
Quanto son più lodevoli, e sicuri
de' cari amici tuoi l'opre, e gli studi,
che non son quei degli infelici servi
di Venere impudica.
Uccidono i cinghiali i tuoi devoti;
ma i devoti di lei, miseramente
son dai cinghiali uccisi.
Oh arco mia possanza, e mio diletto:
strali, invitte mie forze:
or venga in prova; venga
quella vana fantasima d'Amore
con le sue armi effeminate: venga
al paragon di voi,
che ferite, e pungete.
Ma che? Troppo t'onoro,
vil pargoletto imbelle;
e perché tu m'intenda,
ad alta voce il dico:
la ferza a castigarti
sola mi basta.
ECO
Basta.
SILVIO
Chi se' tu che rispondi?
Eco, o piuttosto Amor, che così d'Eco
imita il sono?
ECO
Sono.
SILVIO
Appunto i' ti volea: ma dimmi, certo
se' tu poi desso?
ECO
Esso.
SILVIO
Il figlio di colei, che per Adone
già si miseramente ardea?
ECO
Dèa.
SILVIO
Come ti piace, su: di quella dèa
concubina di Marte, che le stelle
di sua lascivia ammorba,
e gli elementi?
ECO
Menti.
SILVIO
Oh quanto è lieve il cinguettare al vento.
Vien' fuori, vien'; né star ascoso.
ECO
Oso.
SILVIO
Ed io t'ho per vigliacco: ma di lei
se' legittimo figlio,
oppur bastardo?
ECO
Ardo.
SILVIO
Oh buon: né figlio di Vulcan per questo
già ti cred'io.
ECO
Dio.
SILVIO
E dio di che? Del core immondo?
ECO
Mondo.
SILVIO
Gnaffé, del'universo?
Quel terribil garzon: di chi ti sprezza
vindice sì possente
e sì severo?
ECO
Vero.
SILVIO
E quali son le pene,
ch'a' tuoi rubelli, e contumaci dai
cotanto amare?
ECO
Amare.
SILVIO
E di me, che ti sprezzo, che farai,
se 'l cor più duro ho di diamante?
ECO
Amante.
SILVIO
Amante me? Se' folle.
Quando sarà che 'n questo cor pudico
Amor alloggi?
ECO
Oggi.
SILVIO
Dunque sì tosto s'innamora?
ECO
Ora.
SILVIO
E qual sarà colei,
che far potrà, ch'oggi l'adori?
ECO
Dori.
SILVIO
Dorinda forse, o bambo
vuoi dir in tua mozza favella.
ECO
Ella.
SILVIO
Dorinda ch'odio più, che lupo agnella.
Chi farà forza in questo
al voler mio?
ECO
Io.
SILVIO
E come? E con qual armi? E con qual arco?
Forse col tuo?
ECO
Col tuo.
SILVIO
Come col mio? Vuoi dir quando l'avrai
con la lascivia tua corrotto?
ECO
Rotto.
SILVIO
E le mie armi rotte
mi faran guerra? E romperailo tu?
ECO
Tu.
SILVIO
Oh questo sì mi fa veder affatto
che tu se' ubriaco.
Va' dormi va': ma dimmi,
dove fien queste meraviglie? Qui?
ECO
Qui.
SILVIO
Oh sciocco ed io mi parto.
Vedi come se' stato oggi indovino,
pien di vino.
ECO
Divino.
SILVIO
Ma veggio, o veder parmi,
colà posando in quel cespuglio, starsi
un non so che di bigio,
ch'a lupo s'assomiglia.
Ben mi par desso; ed è per certo il lupo.
Oh, come è smisurato: oh per me giorno
destinato alle prede: oh dèa cortese,
che favori son questi? In un dì solo
trionfar di due fere?
Ma che tardo, mia dèa?
Ecco, nel nome tuo questa saetta
scelgo per la più rapida, e pungente
di quante n'abbia la faretra mia.
A te la raccomando:
levala tu, saettatrice eterna,
ci man della fortuna; e nella fera,
col tuo nume infallibile la drizza;
a cui fo' voto di sacrar la spoglia.
E nel tuo nome scocco.
Oh bellissimo colpo.
Colpo caduto appunto,
dove l'occhio, e la man l'ha destinato.
Deh avessi il mio dardo,
per ispedirlo a un tratto
prima, che mi s'involi, e si rinselvi;
ma non avendo altr'arme,
il ferirò con quelle della terra.
Ben rari sono in questa chiostra i sassi,
ch'a pena un qui ne trovo:
ma che vo io cercando
armi, s'armato sono?
Se quest'altro quadrello
il va a ferir nel vivo. Ohimè che veggio?
Ohimè, Silvio infelice,
ohimè, che hai tu fatto?
Hai ferito un pastor sotto la scorza
d'un lupo. Oh fiero caso; oh caso acerbo
da viver sempre misero, e dolente:
e mi par di conoscerlo il meschino,
e Linco è seco, che 'l sostene, e regge.
Oh funesta saetta, oh voto infausto;
e tu, che la scorgesti,
e tu, che l'esaudisti,
nume di lei più infausto, e più funesto.
Io dunque reo dell'altrui sangue? Io dunque
cagion de l'altrui morte? Io che fui dianzi,
per la salute altrui,
sì largo sprezzator della mia vita,
sprezzator del mio sangue?
Va', getta l'armi, e senza gloria vivi,
profano cacciator, profano arciero.
Ma ecco lo infelice,
di te però men infelice assai.
Linco. Silvio. Dorinda.
LINCO
Reggiti, figlia mia,
reggiti tutta pur su queste braccia
infelice Dorinda.
SILVIO
Ohimè. Dorinda?
Son morto.
DORINDA
Oh Linco, Linco,
oh mio secondo padre.
SILVIO
È Dorinda per certo; ahi voce, ahi vista.
DORINDA
Ben era, Linco, il sostener Dorinda
ufficio a te fatale.
Accogliesti i singulti
primi del mio natale,
accorrai tu fors'anco
gli ultimi della morte.
E coteste tue braccia, che pietose,
mi fur già culla, or mi saran feretro.
LINCO
Oh figlia a me più cara,
che se figlia mi fussi; io non ti posso
risponder; che 'l dolore
ogni mio detto in lagrime dissolve.
SILVIO
Oh terra, che non t'apri, e non m'inghiotti?
DORINDA
Deh ferma il passo, e 'l pianto,
pietosissimo Linco;
che l'un cresce il dolor, l'altro la piaga.
SILVIO
Ahi che dura mercede
ricevi del tuo amor, misera Ninfa.
LINCO
Fa' buon animo, figlia,
che la tua piaga non sarà mortale.
DORINDA
Ma Dorinda mortale
sarà ben tosto morta.
Sapessi almen, chi m'ha così piagata.
LINCO
Curiam pur la ferita, e non l'offesa,
che per vendetta mai non sanò piaga.
SILVIO
Ma che fai qui? Che tardi?
Soffrirai tu ch'ella ti veggia? Avrai
tanto cor, tanta fronte?
Fuggi la pena meritata, Silvio,
di quella vista ultrice.
Fuggi il giusto coltel della sua voce.
Ah che non posso, e non so come, o quale
necessità fatale
a forza mi ritegna, e mi sospinga
più verso quel, che più fuggir devrei.
DORINDA
Così dunque debb'io
morir senza saper, chi mi dà morte?
LINCO
Silvio t'ha dato morte.
DORINDA
Silvio? Ohimè, che ne sai?
LINCO
Riconosco il suo strale.
DORINDA
O dolce uscir di vita,
se Silvio m'ha ferita.
LINCO
Eccolo appunto in atto,
ed in sembiante tal, che da sé stesso
par che s'accusi. Or sia lodato il cielo,
Silvio, che se' pur ito
dimenandoti sì per queste selve
con cotesto tuo arco,
e cotesti tuoi strali onnipotenti,
ch'hai fatto un colpo da maestro. Dimmi,
tu, che vivi da Silvio, e non da Linco,
questo colpo, che hai fatto sì leggiadro,
è fors'egli da Linco, oppur da Silvio?
Oh fanciul troppo savio,
avessi tu creduto
a questo pazzo vecchio.
Rispondimi, infelice,
qual vita fia la tua, se costei more?
So ben, che tu dirai.
Ch'errasti, e di ferir credesti un lupo,
quasi non sia tua colpa il saettare
da fanciul vagabondo, e non curante,
senza veder s'uomo saetti, o fera.
Qual caprar, per tua vita, o qual bifolco
non vedesti coperto
di così fatte spoglie? Eh Silvio, Silvio,
chi coglie acerbo il senno,
maturo sempre ha d'ignoranza il frutto.
Credi tu, garzon vano,
che questo caso, a caso oggi ti sia
così incontrato? Oh male avvisi.
Senza nume divin questi accidenti
sì mostruosi, e novi
non avvengono agli uomini. Non vedi
che 'l cielo è fastidito
di cotesto tuo tanto
fastoso, insopportabile disprezzo
d'amor, del mondo, e d'ogn'affetto umano?
Non piace ai sommi dèi
l'aver compagni in terra,
né piace lor nella virtute ancora
tanta alterezza. Or tu se' muto sì?
Ch'eri pur dianzi intollerabil tanto.
DORINDA
Silvio, lascia dir Linco;
ch'egli non sa quale in virtù d'Amore,
tu abbi signoria sovra Dorinda
e di vita, e di morte.
Se tu mi saettasti,
quel ch'è tuo saettasti,
e feristi quel segno,
ch'è proprio del tuo strale.
Quelle mani a ferirmi,
han seguito lo stil de' tuo' begli occhi.
Ecco, Silvio, colei ch'in odio hai tanto;
eccola in quella guisa,
che la volevi appunto.
Bramastila ferir, ferita l'hai;
bramastila tua preda, eccola preda;
bramastila alfin morta, eccola a morte.
Che vuoi più tu da lei? Che ti può dare
più di questo Dorinda? Ah garzon crudo:
ah cor senza pietà. Tu non credesti
la piaga, che per te mi fece Amore,
puoi questa or tu negar della tua mano?
Non hai creduto il sangue,
ch'i' versava dagli occhi;
crederai questo, che 'l mio fianco versa?
Ma se con la pietà non è in te spenta
gentilezza, e valor, che teco nacque,
non mi negar, ti prego
(anima cruda sì, ma però bella)
non mi negar all'ultimo sospiro
un tuo solo sospir. Beata morte;
se l'addolcissi tu con questa sola
voce cortese, e pia,
va' in pace, anima mia.
SILVIO
Dorinda, ah dirò mia, se mia non sei,
se non quando ti perdo? E quando morte
da me ricevi; e mia non fosti allora,
ch'i' ti potei dar vita?
Pur mia dirò; che mia
sarai malgrado di mia dura sorte:
e se mia non sarai con la tua vita,
sarai con la mia morte:
tutto quel ch'in me vedi
a vendicarti è pronto.
Con quest'armi t'ancisi,
e tu con queste ancor m'anciderai.
Ti fui crudele, ed io
altro da te, che crudeltà non bramo.
Ti disprezzai superbo;
ecco, piegando le ginocchia a terra,
riverente t'adoro,
e ti cheggio perdon, ma non già vita.
Ecco gli strali, e l'arco;
ma non ferir già tu gli occhi, o le mani
colpevoli ministri
d'innocente voler; ferisci il petto,
ferisci questo mostro
di pietate, e d'Amor aspro nemico,
ferisci questo cor, che ti fu crudo:
eccoti il petto ignudo.
DORINDA
Ferir quel petto, Silvio?
Non bisognava agli occhi miei scovrirlo,
s'avevi pur desio, ch'io te 'l ferissi.
Oh bellissimo scoglio,
già dall'onda, e dal vento
delle lagrime mie, de' miei sospiri
sì spesso in van percosso.
È pur ver, che tu spiri?
E che senti pietate? Oppur m'inganno?
Ma sii tu pure o petto molle, o marmo,
già non vo', che m'inganni
d'un candido alabastro il bel sembiante,
come quel d'una fera
oggi ingannato ha il tuo signore, e mio.
Ferir io te? Te pur ferisca Amore:
che vendetta maggiore
non so bramar, che di vederti amante.
Sia benedetto il dì, che da prima arsi:
benedette le lagrime, e i martìri:
di voi lodar, non vendicar mi voglio.
Ma tu, Silvio cortese,
che t'inchini a colei,
di cui tu signor sei,
deh non istar in atto
di servo, o se pur servo
di Dorinda esser vuoi,
ergiti a' i cenni suoi.
Questo sia di tua fede il primo pegno;
il secondo, che vivi.
Sia pur di me quel che nel cielo è scritto;
in te vivrà il cor mio,
né pur che vivi tu, morir poss'io.
E se 'ngiusto ti par, ch'oggi impunita
resti la mia ferita,
chi la fe' si punisca:
fella quell'arco: e sol quell'arco pera.
Sovra quell'omicida
cada la pena, ed egli sol s'ancida.
LINCO
Oh sentenza giustissima, e cortese.
SILVIO
E così fia, tu dunque
la pena pagherai legno funesto.
E perché tu dell'altrui vita il filo
mai più non rompa, ecco te rompo, e snervo;
e qual fosti alla selva
ti rendo inutil tronco.
E voi, strali di lui, che 'l fianco aperse
della mia cara donna; e per natura,
e per malvagità forse fratelli,
non rimarrete interi,
non più strali, o quadrella,
ma verghe invan pennute, invano armate
ferri tarpati, e disarmati vanni.
Ben me 'l dicesti, Amor, tra quelle frondi
in suon d'Eco indovina.
Oh nume domator d'uomini, e dèi,
già nemico, or signore
di tutti i pensier miei;
se la tua gloria stimi
d'aver domato un cor superbo, e duro,
difendimi, ti prego,
dall'empio stral di morte,
che con un colpo solo
anciderà Dorinda, e con Dorinda
Silvio da te pur vinto:
così morte crudel, se costei more
trionferà del trionfante Amore.
LINCO
Così feriti ambedue sete. Oh piaghe,
e fortunate, e care,
ma senza fine amare,
se questa di Dorinda oggi non sana:
dunque andiamo a sanarla.
DORINDA
Deh, Linco mio, non mi condur, ti prego,
con queste spoglie alle paterne case.
SILVIO
Tu dunque in altro albergo,
Dorinda, poserai, che 'n quel di Silvio?
Certo nelle mie case
o viva, o morta, oggi sarai mia sposa;
e teco sarà Silvio o vivo, o morto.
LINCO
E come a tempo, or ch'Amarilli ha spento
e le nozze, e la vita, e l'onestate.
Oh coppia benedetta: oh sommi dèi,
date con una sola
salute a duo la vita.
DORINDA
Silvio, come son lassa, appena posso
reggermi, ohimè, su questo fianco offeso.
SILVIO
Sta' di buon cor, ch'a questo
si troverà rimedio: a noi sarai
tu cara soma, e noi a te sostegno.
Linco, dammi la mano.
LINCO
Eccola pronta.
SILVIO
Tienla ben ferma, e del tuo braccio, e mio
a lei si faccia seggio.
Tu, Dorinda, qui posa:
e quinci col tuo destro
braccio il collo di Linco, e quindi il mio
cingi col tuo sinistro: e sì t'adatta
soavemente, che 'l ferito fianco
non se ne dolga.
DORINDA
Ahi punta
crudel, che mi trafigge.
SILVIO
A tuo bell'agio
acconciati, ben mio.
DORINDA
Or mi par di star bene.
SILVIO
Linco, va' col piè fermo.
LINCO
E tu col braccio
non vacillar; ma va' diritto, e sodo,
che ti bisogna, sai? Questo è ben altro
trionfar, che d'un teschio.
Dimmi, Dorinda mia: come ti pugne
forte lo stral?
DORINDA
Mi pugne, sì, cor mio
ma nelle braccia tue
l'esser punta m'è caro, e 'l morir dolce.
CORO
Oh bella età dell'oro,
quand'era cibo il latte
del pargoletto mondo, e culla il bosco;
e i cari parti loro
godean le greggi intatte,
né temea il mondo ancor ferro, né tosco.
Pensier torbido, e fosco
allor non facea velo
al sol di luce eterna.
Or la ragion, che verna
tra le nubi del senso, ha chiuso il cielo;
ond'è ch'il peregrino
va l'altrui terra, e 'l mar turbando il pino.
Quel suon fastoso, e vano:
quell'inutil soggetto
di lusinghe, di titoli, e d'inganno,
c'onor dal volgo insano
indegnamente è detto;
non era ancor degli animi tiranno.
Ma sostener affanno
per le vere dolcezze,
tra i boschi, e tra le gregge
la fede aver per legge,
fu di quell'alme al ben oprar avvezze.
Cura d'onor felice,
cui dettava onestà, piaccia se lice.
Allor tra prati, e linfe
gli scherzi, e le carole
di legittimo amor furon le faci.
Avean pastori, e ninfe
il cor nelle parole;
dava lor Imeneo le gioie, e i baci
più dolci, e più tenaci.
Un sol godeva ignude
d'Amor le vive rose:
furtivo amante ascose
le trovò sempre, ed aspre voglie, e crude,
o in antro, o in selva, o in lago,
ed era un nome sol marito, e vago.
Secol rio, che velasti,
co' tuoi sozzi diletti,
il bel dell'alma; ed a nudrir la sete
dei desiri insegnasti
co' sembianti ristretti,
sfrenando poi l'impurità segrete.
Così qual tesa rete
tra fiori, e fronde sparte,
celi pensier lascivi
con atti santi, e schivi;
bontà stimi il parer, la vita un'arte:
né curi (e parti onore)
che furto sia, pur che s'asconda, amore.
Ma tu, deh spirti egregi
forma ne' petti nostri
verace ONOR, delle grand'alme donno.
Oh regnator de' regi,
deh torna in questi chiostri,
che senza te beati esser non ponno.
Destin dal mortal sonno
tuoi stimoli potenti
chi per indegna, e bassa
voglia seguir te lassa,
e lassa il pregio dell'antiche genti.
Speriam, che 'l mal fa tregua
talor, se speme in noi non si dilegua.
Speriam, che 'l sol cadente anco rinasce.
E 'l ciel quando men luce
l'aspettato seren spesso n'adduce.
Uranio. Carino.
URANIO
Per tutto è buona stanza, ov'altri goda,
ed ogni stanza al valent'uomo è patria.
CARINO
Gli è vero, Uranio, e troppo ben per prova
te 'l so dir io, che le paterne case
giovinetto lasciando, e d'altro vago,
che di pascer armenti, o fender solco,
or qua, or là peregrinando; alfine
torno canuto, onde partii già biondo.
Pur è soave cosa a chi del tutto
non è privo di senso il patrio nido:
che diè natura al nascimento umano
verso il caro paese, ov'altri è nato
un non so che di non inteso affetto,
che sempre vive, e non invecchia mai.
Come la calamita, ancor che lunge
il sagace nocchier la porti errando,
or dove nasce, or dove more il sole,
quell'occulta virtute ond'ella mira
la tramontana sua, non perde mai:
così chi va lontan dalla sua patria;
benché molto s'aggiri, e spesse volte
in peregrina terra ancor s'annidi;
quel naturale amor sempre ritiene,
che pur l'inchina alle natie contrade.
Oh da me più d'ogn'altra amata, e cara
più d'ogn'altra gentil terra d'Arcadia,
che col piè tocco, e con la mente inchino:
se ne' confini tuoi, madre gentile,
foss'io giunto a chiusi occhi, anco t'avrei
troppo ben conosciuto. Così tosto
m'è corso per le vene un certo amico
consentimento incognito, e latente,
sì pien di tenerezza, e di diletto,
che l'ha sentito in ogni fibra il sangue.
Tu dunque, Uranio mio, se del cammino
mi se' stato compagno, e del disagio,
ben è ragion, che nel gioire ancora
delle dolcezze mie tu m'accompagni.
URANIO
Del disagio compagno, e non del frutto
stato ti son, che tu se' giunto omai
nella tua terra; ove posar le stanche
membra potrai, e più la stanca mente.
Ma io, che giungo peregrino, e tanto
dal mio povero albergo, e dalla mia
più povera, e smarrita famigliuola
dilungato mi son, teco traendo
per lunga via l'affaticato fianco;
posso ben ristorar l'afflitte membra,
ma non l'afflitta mente, a quel pensando,
che m'ho lasciato addietro; e quanto ancora
d'aspro cammin per riposar m'avanza.
Né so qual altro in questa età canuta
m'avesse se non tu, d'Elide tratto,
senza saper della cagion, che mosso
t'abbia a condurmi in sì remota parte.
CARINO
Tu sai, che 'l mio dolcissimo Mirtillo,
che 'l ciel mi diè per figlio, infermo venne
qui per sanarsi: e già passati sono
duo mesi, e più fors'anco, il mio consiglio,
anzi quel dell'oracolo, seguendo,
che sol potea sanarlo il ciel d'Arcadia.
Io, che veder lontan pegno sì caro
lungamente non posso, a quella stessa
fatal voce ricorsi, a quella chiesi:
del bramato ritorno anco consiglio:
la qual rispose in cotal guisa appunto.
Torna all'antica patria, ove felice
sarai col tuo dolcissimo Mirtillo:
però, ch'ivi a gran cose il ciel sortillo;
ma fuor d'Arcadia il ciò ridir non lice.
Tu dunque, o fedelissimo compagno,
diletto Uranio mio, che meco a parte
d'ogni fortuna mia se' stato sempre;
posa le membra pur, ch'avrai ben onde
posar anco la mente. Ogni mia sorte,
s'ella pur fia, come l'addita il cielo,
teco sarà comune. Indarno fora
di sua felicità lieto Carino,
se si dolesse Uranio.
URANIO
Ogni fatica,
che sia fatta per te, pur che t'aggradi,
sempre, Carino mio, seco ha il suo premio.
Ma qual fu la cagion, che fe' lasciarti,
se t'è sì caro, il tuo natio paese?
CARINO
Musico spirto in giovanil vaghezza
d'acquistar fama, ov'è più chiaro il grido,
ch'avido anch'io di peregrina gloria,
sdegnai, che sola mi lodasse, e sola
m'udisse Arcadia, la mia terra; quasi
del mio crescente stil termine angusto.
E colà venni, ov'è sì chiaro il nome
d'Elide, e Pisa, e fa sì chiaro altrui.
Quivi il famoso EGON di lauro adorno
vidi: poi d'ostro, e di virtù pur sempre:
sì che Febo sembrava: ond'io devoto
al suo nome sacrai la cetra, e 'l core.
E 'n quella parte, ove la gloria alberga,
ben mi dovea bastar d'esser omai
giunto a quel segno, ov'aspirò il mio core;
se come il ciel mi feo felice in terra,
così conoscitor, così custode
di mia felicità fatto m'avesse.
Come poi per veder Argo, e Micene
lasciassi Elide, e Pisa; e quivi fussi
adorator di deità terrena,
con tutto quel, che 'n servitù soffersi;
troppo noiosa istoria a te l'udirlo,
a me dolente il raccontarlo fora.
Ti dirò sol, che perdei l'opra, e 'l frutto.
Scrissi, piansi, cantai, arsi, gelai,
corsi, stetti, sostenni, or tristo, or lieto,
or alto, or basso, or vilipeso, or caro.
E come il ferro delfico strumento,
or d'impresa sublime, or d'opra vile,
non temei risco, e non schivai fatica.
Tutto fei, nulla fui. Per cangiar loco,
stato, vita, pensier, costumi, e pelo,
mai non cangiai fortuna. Alfin conobbi,
e sospirai la libertà primiera.
E dopo tanti strazi Argo lasciando,
e le grandezze di miseria piene,
tornai di Pisa ai riposati alberghi:
dove, mercé di provvidenza eterna,
del mio caro Mirtillo acquisto fei,
consolator d'ogni passata noia.
URANIO
Oh mille volte fortunato, e mille
chi sa por meta a suoi pensieri in tanto,
che per vana speranza immoderata,
di moderato ben non perde il frutto.
CARINO
Ma chi creduto avria di venir meno
tra le grandezze, e 'mpoverir nell'oro?
I' mi pensai, che ne' reali alberghi
fossero tanto più le genti umane,
quant'esse han più di tutto quel dovizia,
ond'è l'umanità sì nobil fregio.
Ma vi trovai tutto 'l contrario, Uranio.
Gente di nome, e di parlar cortese;
ma d'opre scarsa, e di pietà nemica.
Gente placida in vista, e mansueta;
ma più del cupo mar tumida, e fera.
Gente sol d'apparenza; in cui se miri
viso di carità, mente d'invidia
poi trovi; e 'n dritto sguardo animo bieco;
e minor fede allor, che più lusinga.
Quel, ch'altrove è virtù, quivi è difetto
dir vero: oprar non torto; amar non finto,
pietà sincera; inviolabil fede;
e di core, e di man vita innocente,
stiman d'animo vil, di basso ingegno,
sciocchezza, e vanità degna di riso.
L'ingannare: il mentir; la frode; il furto
e la rapina di pietà vestita;
crescer col danno, e precipizio altrui,
e far a sé dell'altrui biasmo onore,
son le virtù di quella gente infida.
Non merto; non valor; non riverenza,
né d'età, né di grado. Né di legge;
non freno di vergogna; non rispetto,
né d'amor, né di sangue non memoria
di ricevuto ben; né finalmente
cosa sì venerabile, o sì santa,
o sì giusta esser può, ch'a quella vasta
cupidigia d'onori; a quella ingorda
fame d'avere inviolabil sia.
Or io, ch'incauto, e di lor arti ignaro
sempre mi vissi; e portai scritto in fronte
il mio pensiero, e disvelato il core,
tu puoi pensar s'a non sospetti strali
d'invida gente fui scoperto segno.
URANIO
Or chi dirà d'esser felice in terra,
se tanto alla virtù noce l'invidia?
CARINO
Uranio mio, se da quel dì, che meco
passò la musa mia d'Elide in Argo,
avessi avuto di cantar tant'agio,
quanta cagion di lagrimar sempr'ebbi,
con sì sublime stil forse cantato
avrei del mio signor l'armi, e gli onori,
ch'or non avria de la meonia tromba
da invidiar Achille; e la mia patria,
madre di cigni sfortunati, andrebbe
già per me cinta del secondo alloro.
Ma oggi è fatta (oh secolo inumano)
l'arte del poetar troppo infelice.
Lieto nido, esca dolce; aura cortese
bramano i cigni; e non si va in Parnaso
con le cure mordaci: e chi pur garre
sempre col suo destino, e col disagio,
vien roco, e perde il canto, e la favella.
Ma tempo è già di ricercar Mirtillo,
benché sì nuove, e sì cangiate i' trovi,
da quel ch'esser solean, queste contrade,
che 'n esse a pena i' riconosco Arcadia.
Con tutto ciò vien lietamente, Uranio.
Scorta non manca a peregrin, c'ha lingua.
Ma forse è ben ch'al più vicino ostello,
poiché se' stanco, a riposar ti resti.
Titiro. Messo.
TITIRO
Che piangerò di te prima, mia figlia,
la vita, o l'onestate?
Piangerò l'onestate;
che di padre mortal se' tu ben nata,
ma non di padre infame:
e 'nvece della tua,
piangerò la mia vita; oggi serbata
a veder in te spenta
la vita, e l'onestate.
Oh Montano, Montano,
tu sol co' tuoi fallaci,
e mali intesi oracoli, e col tuo
d'amore, e di mia figlia
disprezzator superbo, a cotal fine
l'hai tu condotta. Ahi quanto meno incerti,
degli oracoli tuoi,
son oggi stati i miei.
Ch'onestà contr'Amore
è troppo frale schermo
in giovinetto core.
E donna scompagnata
è sempre mal guardata.
MESSO
Se non è morto; o se per l'aria i venti
non l'han portato, i' devrei pur trovarlo:
ma eccol, s'io non erro,
quando meno il pensai.
Oh da me tardi, e per te troppo a tempo,
vecchio padre infelice, alfin trovato.
Che novelle t'arreco.
TITIRO
Che rechi tu nella tua lingua? Il ferro
che svenò la mia figlia?
MESSO
Questo non già; ma poco meno: e come
l'hai tu per altra via sì tosto inteso?
TITIRO
Vive ella dunque?
MESSO
Vive, e 'n man di lei
sta il vivere, e 'l morire.
TITIRO
Benedetto sii tu, che m'hai da morte
tornato in vita. Or come non è salva,
s'a lei sta il non morire?
MESSO
Perché viver non vuole.
TITIRO
Viver non vuole? E qual follia l'induce
a sprezzar sì la vita?
MESSO
L'altrui morte.
E se tu non la smovi,
ha così fisso il suo pensiero in questo,
che spende ogn'altro in van preghi, e parole.
TITIRO
Or che si tarda? Andiamo.
MESSO
Fermati, che le porte
del tempio ancor son chiuse.
Non sai tu, che toccar la sacra soglia,
se non a piè sacerdotal non lice;
finché non esca del sacrario adorna
la destinata vittima agli altari?
TITIRO
E s'ella desse intanto
al fiero suo proponimento effetto?
MESSO
Non può, ch'è custodita.
TITIRO
In questo mezzo dunque
narrami il tutto; e senza velo omai
fa', che 'l vero n'intenda.
MESSO
Giunta dinanzi al sacerdote (ahi vista
piena d'orror) la tua dolente figlia;
che trasse, non dirò dai circostanti;
ma, per mia fé, dalle colonne ancora
del tempio stesso, e dalle dure pietre,
che senso aver parean, lagrime amare,
fu quasi in un sol punto
accusata, convinta, e condannata.
TITIRO
Misera figlia. E perché tanta fretta?
MESSO
Perché della difesa eran gli indici
troppo maggiori; e certa
sua ninfa, ch'ella in testimon recava
dell'innocenza sua,
né quivi era presente, né fu mai
chi trovar la sapesse.
I fieri segni intanto,
e gli accidenti mostruosi, e pieni
di spavento, e d'orror, che son nel tempio
non pativano indugio:
tanto più gravi a noi, quanto più nuovi,
e più mai non sentiti
dal dì, che minacciar l'ira celeste,
vendicatrice dei traditi amori
del sacerdote Aminta:
sola cagion d'ogni miseria nostra.
Suda sangue la dèa; trema la terra;
e la caverna sacra
mugge tutta, e risuona
d'insoliti ululati, e di funesti
gemiti; e fiato sì putente spira,
che dall'immonde fauci
più grave non cred'io, l'esali Averno.
Già con l'ordine sacro,
per condur la tua figlia a cruda morte,
il sacerdote s'inviava; quando,
vedendola Mirtillo (oh che stupendo
caso udirai), s'offerse
di dar con la sua morte a lei la vita:
gridando ad alta voce.
Sciogliete quelle mani: ah lacci indegni;
ed invece di lei, ch'esser dovea
vittima di Diana;
me traete agli altari,
vittima d'Amarilli.
TITIRO
Oh di fedele amante,
e di cor generoso atto cortese.
MESSO
Or odi meraviglia.
Quella, che fu pur dianzi
sì dalla tema del morire oppressa;
fatta allor di repente,
alle parole di Mirtillo invitta,
con intrepido cor così rispose.
Pensi dunque, Mirtillo,
di dar col tuo morire
vita a chi di te vive?
Oh miracolo ingiusto. Su ministri:
su, che si tarda? Omai
menatemi agli altari.
Ah che tanta pietà non volev'io,
soggiunse allor Mirtillo.
Torna cruda Amarilli,
che cotesta pietà sì dispietata,
troppo di me la miglior parte offende.
A me tocca il morire. Anzi a me pure
rispondeva Amarilli, che per legge
son condannata. E quivi
si contendea tra lor, come s'appunto
fosse vita il morire, il viver morte.
Oh anime ben nate: oh coppia degna
di sempiterni onori:
oh vivi, e morti gloriosi amanti.
Se tante lingue avessi, e tante voci,
quant'occhi il cielo, e quante arene il mare
perderien tutte il suono, e la favella
nel dir appien le vostre lodi immense.
Figlia del cielo eterna,
e gloriosa donna,
che l'opre de' mortali al tempo involi,
accogli tu la bella istoria, e scrivi
con lettere d'oro in solido diamante
l'alta pietà dell'uno, e l'altro amante.
TITIRO
Ma qual fin ebbe poi
quella mortal contesa?
MESSO
Vinse Mirtillo. Oh che mirabil guerra,
dove del vivo ebbe vittoria il morto.
Però che 'l sacerdote
disse alla figlia tua. Quetati, Ninfa
che campar per altrui
non può, chi per altrui s'offerse a morte:
così la legge nostra a noi prescrive.
Poi comandò, che la donzella fosse
sì ben guardata, che 'l dolore estremo
a disperato fin non la traesse.
In tale stato eran le cose, quando
di te mandommi a ricercar Montano.
TITIRO
Insomma egli è pur vero,
senz' odorati fiori
le rive, e i poggi, e senza i verdi onori
vedrai le selve alla stagion novella,
prima che senza amor vaga donzella:
ma, se qui dimoriam, come sapremo
l'ora di gir al tempio?
MESSO
Qui meglio assai, ch'altrove;
che questo appunto è 'l loco, ov'esser deve
il buon pastore in sacrificio offerto.
TITIRO
E perché non nel Tempio?
MESSO
Perché si dà la pena, ove fu il fallo.
TITIRO
E perché no nell'antro,
se nell'antro fu il fallo?
MESSO
Perché a scoperto ciel sacrar si deve.
TITIRO
Ed onde hai tu questi misteri intesi?
MESSO
Dal ministro maggior. Così dic'egli
dall'antico Tirenio aver inteso,
che 'l fido Aminta, e l'infedel Lucrina
sacrificati furo.
Ma tempo è di partire. Ecco che scende
la sacra pompa al piano.
Sarà forse ben fatto,
che per quest'altra via
ce n'andiam noi per la tua figlia al tempio.
Coro di Pastori. Coro di Sacerdoti. Montano. Mirtillo.
CORO DI PASTORI
Oh figlia del gran Giove:
oh sorella del Sol, ch'al cieco mondo
splendi nel primo ciel Febo secondo.
CORO DI SACERDOTI
Tu, che col tuo vitale,
e temperato raggio,
scemi l'ardor della fraterna luce,
onde quaggiù produce
felicemente poi l'alma natura
tutti i suoi parti; e fa d'erbe, e di piante,
d'uomini, e d'animai ricca, e feconda
l'aria, la terra, e l'onda:
deh, sì come in altrui tempri l'arsura,
così spegni in te l'ira,
ond'oggi Arcadia tua piange, e sospira.
CORO DI PASTORI
Oh figlia del gran Giove;
oh sorella del sol, ch'al cieco mondo
splendi nel primo ciel Febo secondo.
MONTANO
Drizzate omai gli altari,
sacri ministri; e voi,
o devoti pastori alla gran dèa,
reiterando le canore voci,
invocate il suo nome.
CORO DI PASTORI
Oh figlia del gran Giove;
oh sorella del sol, ch'al cieco mondo
splendi nel primo ciel Febo secondo.
MONTANO
Traetevi in disparte,
pastori, e servi miei: né qua venite,
se dalla voce mia non sete mossi.
Giovane valoroso,
che, per dar vita altrui, vita abbandoni,
mori pur consolato.
Tu con un breve sospirar, che morte
sembra agli animi vili,
immortalmente al tuo morir t'involi.
E quando avrà già fatto
l'invida età dopo mill'anni, e mille
di tanti nomi altrui l'usato scempio,
vivrai tu allor di vera fede esempio.
Ma perché vuol la legge,
che taciturna vittima tu moia,
prima, che pieghi le ginocchia a terra,
se cosa hai qui da dir, dilla, e poi taci.
MIRTILLO
Padre, che padre di chiamarti, ancora
che morir debbia per tua man, mi giova,
lascio il corpo alla terra,
e lo spirto a colei ch'è la mia vita.
Ma s'avvien ch'ella moia,
come di far minaccia, ohimè qual parte
di me resterà viva?
Oh che dolce morir, quando sol meco
il mio mortal moria,
né bramava morir l'anima mia.
Ma se merta pietà; colui che more
per soverchia pietà; padre cortese,
provvedi tu, ch'ella non moia; e ch'io
con questa speme a miglior vita i' passi.
Paghisi il mio destin della mia morte;
sfoghisi col mio strazio.
Ma poi ch'io sarò morto, ah non mi tolga,
ch'i' viva almeno in lei
con l'alma dalle membra disunita,
se d'unirmi con lei mi tolse in vita.
MONTANO
A gran pena le lagrime ritegno.
Oh nostra umanità quanto se' frale.
Figlio, sta' di buon cor; che quanto brami
di far prometto: e ciò per questo capo
ti giuro: e questa man ti do per pegno.
MIRTILLO
Or consolato moro, e consolato
a te vengo, Amarilli.
Ricevi il tuo Mirtillo,
del tuo fido pastor l'anima prendi,
che nell'amato nome d'Amarilli
terminando la vita, e le parole,
qui piego a morte le ginocchia; e taccio.
MONTANO
Or non s'indugi più, sacri ministri
suscitate la fiamma;
e spargendovi sopra incenso, e mirra,
traetene vapor: ch'in alto ascenda.
CORO DI PASTORI
Oh figlia del gran Giove;
oh sorella del sol ch'al cieco mondo,
splendi nel primo ciel Febo secondo.
Carino. Montano. Nicandro, Mirtillo.
Coro di Pastori.
CARINO
Chi vide mai sì rari abitatori
in sì spessi abituri? Or s'io non erro,
eccone la cagione.
Velli qua tutti in un drappel ridotti.
Oh quanta turba; oh quanta;
com'è ricca, e solenne: veramente
qui si fa sacrificio.
MONTANO
Porgimi il vasel d'oro,
Nicandro, ov'è riposto
l'almo licor di Bacco.
NICANDRO
Eccote 'l pronto.
MONTANO
Così il sangue innocente
ammollisca il tuo petto, o santa dèa,
come rammorbidisce
l'incenerita, ed arida favilla
questa, d'almo licor, cadente stilla.
Or tu riponi il vasel d'oro, e poscia
dammi il nappo d'argento.
NICANDRO
Eccoti il nappo.
MONTANO
Così l'ira sia spenta,
che destò nel tuo cor, perfida ninfa,
come spegne la fiamma
questa cadente linfa.
CARINO
Pur questo è sacrificio,
né vittima ci veggio.
MONTANO
Or tutto è preparato,
né manca altro che 'l fin. Dammi la scure.
CARINO
Vegg'io forse, o m'inganno: un che nel tergo
ad uom si rassomiglia,
con le ginocchia a terra?
È forse egli la vittima? Oh meschino,
egli è per certo: e gli tien già la mano
il Sacerdote in capo.
Infelice mia patria: ancor non hai
l'ira del ciel dopo tant'anni estinta?
CORO DI PASTORI
Oh figlia del gran Giove;
oh sorella del sol, ch'al cieco mondo,
splendi nel primo ciel Febo secondo.
MONTANO
Vindice dèa, che la privata colpa,
con pubblico flagello in noi punisci
(così ti piace, e forse
così sta nell'abisso
dell'immutabil provvidenza eterna)
poi, che l'impuro sangue
dell'infedel Lucrina in te non valse
a dissetar quella giustizia ardente,
che del ben nostro ha sete,
bevi questo innocente
di volontaria vittima, e d'amante
non men d'Aminta fido,
ch'al sacro altare in tua vendetta uccido.
CORO DI PASTORI
Oh figlia del gran Giove;
oh sorella del sol, ch'al cieco mondo,
splendi nel primo ciel Febo secondo.
MONTANO
Deh come di pietà pur ora il petto
intenerirmi sento:
che 'nsolito stupor mi lega i sensi.
Par che non osi il cor, né la man possa
levar questa bipenne.
CARINO
Vorrei prima nel viso
veder quell'infelice, e poi partirmi,
che non posso mirar cosa sì fiera.
MONTANO
Chissà, che 'n faccia al sol, ben che tramonti
non sia fallo il sacrar vittima umana?
E perciò la fortezza
languisca in me dell'animo, e del corpo?
Volgiti alquanto: e gira
la moribonda faccia inverso il monte.
Così sta ben.
CARINO
Misero me; che veggio?
Non è quello il mio figlio?
Il mio caro Mirtillo?
MONTANO
Or posso.
CARINO
È troppo desso.
MONTANO
E 'l colpo libro.
CARINO
Che fai, sacro ministro?
MONTANO
E tu, uomo profano,
perché ritieni il sacro ferro, ed osi
di por tu qui la temeraria mano?
CARINO
Oh Mirtillo, ben mio:
già d'abbracciarti in sì dolente guisa.
NICANDRO
Va' in malora insolente, e pazzo vecchio.
CARINO
Non mi credev'io mai.
NICANDRO
Scostati dico,
che con impura man toccar non lice
cosa sacra agli dèi.
CARINO
Caro agli dèi
son ben anch'io; che con la scorta loro
qui mi condussi.
MONTANO
Cessa,
Nicandro. Udiamlo prima, e poi si parta.
CARINO
Deh, ministro cortese,
prima, che sopra il capo
di quel garzon cada il tuo ferro, dimmi
perché more il meschino. Io te ne prego
per quella dèa ch'adori.
MONTANO
Per nume tal tu mi scongiuri, ch'empio
sarei, se te 'l negassi:
ma che t'importa ciò?
CARINO
Più che non credi.
MONTANO
Perch'egli stesso a volontaria morte
s'è per altrui donato.
CARINO
Dunque per altrui more?
Anch'io morrò per lui. Deh per pietate
drizza invece di quello
a questo capo già cadente il colpo.
MONTANO
Amico, tu vaneggi.
CARINO
E perché a me si nega,
quel ch'a lui si concede?
MONTANO
Perché se' forestiero.
CARINO
E s'io non fussi?
MONTANO
Né fare anco il potresti:
che campar per altrui
non può, chi per altrui s'offerse a morte.
Ma dimmi chi se' tu? Se pur è vero
che non sii forestiero:
all'abito tu certo
arcade non mi sembri.
CARINO
Arcade sono.
MONTANO
In questa terra già non mi sovviene
d'averti io mai veduto.
CARINO
In questa terra nacqui, e son Carino,
padre di quel meschino.
MONTANO
Padre tu di Mirtillo? Oh come giugni
a te stesso, ed a noi troppo importuno,
scostati immantenente,
che col paterno affetto
render potresti infruttuoso, e vano
il sacrificio nostro.
CARINO
Ah, se tu fussi padre.
MONTANO
Son padre, e padre ancor d'unico figlio;
e pur tenero padre: nondimeno,
se questo fosse del mio Silvio il capo,
già non sarei men pronto
a far di lui quel, che del tuo far deggio.
Che sacro manto indegnamente veste
chi per pubblico ben del suo privato
comodo non si spoglia.
CARINO
Lascia ch'i 'l baci almen prima che mora.
MONTANO
E questo molto meno.
CARINO
O sangue mio,
e tu ancor se' sì crudo,
che non rispondi al tuo dolente padre?
MIRTILLO
Deh padre omai t'acqueta.
MONTANO
Oh noi meschini
contaminato è 'l sacrificio. Oh dèi.
MIRTILLO
Che spender non potrei più degnamente
la vita, che m'hai data.
MONTANO
Troppo ben m'avvisai,
ch'alle paterne lagrime costui
romperebbe il silenzio.
MIRTILLO
Misero, qual errore
ho io commesso: o come
la legge del tacer m'uscì di mente?
MONTANO
Ma che si tarda? Su ministri: al tempio
rimenatelo tosto;
e nella sacra cella un'altra volta
da lui si prenda il volontario voto.
Qui poscia ritornandolo, portate
con esso voi per sacrificio novo,
nov'acqua, novo vino, e novo foco.
Su speditevi tosto,
che già s'inchina il sole.
Montano. Carino. Dameta.
MONTANO
Ma tu, vecchio importuno,
ringrazia pur il ciel che padre sei
se ciò non fosse, i' ti farei (per questa
sacra testa te 'l giuro) oggi sentire
quel che può l'ira in me, poiché sì male
usi la sofferenza.
Sai tu forse chi sono?
Sai tu che qui con una sola verga
reggo l'umane e le divine cose?
CARINO
Per domandar mercede
signoria non s'offende.
MONTANO
Troppo t'ho io sofferto; e tu per questo
se' venuto insolente.
Né sai tu, che se l'ira in giusto petto
lungamente si coce,
quanto più tarda fu, tanto più noce.
CARINO
Tempestoso furor non fu mai l'ira
in magnanimo petto;
ma un fiato sol di generoso affetto,
che spirando nell'alma,
quand'ella è più con la ragione unita,
la desta, e rende alle bell'opre ardita.
Dunque se grazia non impetro, almeno
fa', che giustizia i' trovi; e ciò negarmi
per debito non puoi:
che chi dà legge altrui,
non è da legge in ogni parte sciolto:
e quanto se' maggiore
nel comandar, tanto più d'ubbidire
se' tenut'anco a chi giustizia chiede:
ed ecco i' te la chieggio:
s'a me far non la vuoi, falla a te stesso,
che Mirtillo uccidendo, ingiusto sei.
MONTANO
E come ingiusto son? Fa' che l'intenda.
CARINO
Non mi dicesti tu, che qui non lice
sacrificar d'uomo straniero il sangue?
MONTANO
Dissilo, e dissi quel, che 'l ciel comanda.
CARINO
Pur quello è forestier, che sacrar vuoi.
MONTANO
E come forestier? Non è tuo figlio?
CARINO
Bastiti questo, e non cercar più innanzi.
MONTANO
Forse perché tra noi no 'l generasti?
CARINO
Spesso men sa, chi troppo intender vuole.
MONTANO
Ma qui s'attende il sangue, e non il loco.
CARINO
Perché no 'l generai, straniero il chiamo.
MONTANO
Dunque è tuo figlio, e tu no 'l generasti?
CARINO
E se no 'l generai, non è mio figlio.
MONTANO
Non mi dicesti tu, ch'è di te nato?
CARINO
Dissi ch'è figlio mio, non di me nato.
MONTANO
Il soverchio dolor t'ha fatto insano.
CARINO
Non sentirei dolor, se fussi insano.
MONTANO
Non puoi fuggir d'esser malvagio, o stolto.
CARINO
Come può star malvagità col vero?
MONTANO
Come può star in un figlio, e non figlio?
CARINO
Può star, figlio d'amor, non di natura.
MONTANO
Dunque s'è figlio tuo, non è straniero;
e se non è, non hai ragione in lui:
così convinto se' padre, o non padre.
CARINO
Sempre di verità non è convinto
chi di parole è vinto.
MONTANO
Sempre convinta è di colui la fede,
che nel suo favellar si contraddice.
CARINO
Ti torno a dir, che tu fai opra ingiusta.
MONTANO
Sopra questo mio capo,
e sopra il capo di mio figlio cada
tutta questa ingiustizia.
CARINO
Tu te ne pentirai.
MONTANO
Ti pentirai ben tu, se non mi lasci
fornir l'ufficio mio.
CARINO
In testimon ne chiamo uomini, e dèi.
MONTANO
Chiami tu forse i dèi ch'hai disprezzati?
CARINO
E poiché tu non m'odi,
odami cielo, e terra,
odami la gran dèa, che qui s'adora,
che Mirtillo è straniero,
e che non è mio figlio, e che profani
il sacrificio santo.
MONTANO
Il ciel m'aiuti
con quest'uomo importuno.
Chi è dunque suo padre,
se non è figlio tuo?
CARINO
Non te 'l so dire.
So ben, che non son io.
MONTANO
Vedi come vacilli?
È egli del tuo sangue?
CARINO
Né questo ancora.
MONTANO
E perché figlio il chiami?
CARINO
Perché l'ho come figlio,
dal primo dì, ch'i' l'ebbi,
per fin a questa età sempre nudrito
nelle mie case, e come figlio amato.
MONTANO
Il comprasti? Il rapisti? Onde l'avesti?
CARINO
In Elide l'ebb'io, cortese dono
d'uomo straniero.
MONTANO
E quell'uomo straniero
donde l'ebb'egli?
CARINO
A lui l'avea dat'io.
MONTANO
Sdegno tu movi in un sol punto, e riso.
Dunque avesti tu in dono
quel, che donato avevi?
CARINO
Quel ch'era suo gli diedi,
ed egli a me ne fe' cortese dono.
MONTANO
E tu (poi ch'oggi a vaneggiar mi tiri)
onde avuto l'avevi?
CARINO
In un cespuglio d'odorato mirto
poco prima i' l'aveva
nella foce d'Alfeo trovato a caso;
per questo solo il nominai Mirtillo.
MONTANO
Oh come ben favole fingi, ed orni.
Han fere i vostri boschi?
CARINO
E di che sorte?
MONTANO
Come no 'l divoraro?
CARINO
Un rapido torrente
l'avea portato in quel cespuglio, e quivi
lasciatolo, nel seno
di picciola isoletta,
che d'ogn'intorno il difendea con l'onda.
MONTANO
Tu certo ordisci ben menzogne, e fole;
ed era stata sì pietosa l'onda,
che non l'avea sommerso?
Son sì discreti in tuo paese i fiumi,
che nudriscon gl'infanti?
CARINO
Posava entr'una culla: e questa quasi
discreta navicella,
d'altra soda materia,
che soglion ragunar sempre i torrenti,
accompagnata, e cinta,
l'avea portato in quel cespuglio a caso.
MONTANO
Posava entro una culla?
CARINO
Entr'una culla.
MONTANO
Bambino in fasce?
CARINO
E ben vezzoso ancora.
MONTANO
E quanto ha, che fu questo?
CARINO
Fa' tuo conto,
che son passati già diciannove anni
dal gran diluvio. E son tant'anni appunto.
MONTANO
Oh qual mi sento orror vagar per l'ossa.
CARINO
Egli non sa che dire.
Oh superbo costume
delle grand'alme: oh pertinace ingegno,
che vinto anco non cede;
e pensa d'avanzar così di senno,
come di forze avanza.
Questi certo è convinto, e se ne duole.
S'io bene al mal inteso
suo mormorar l'intendo: e 'n qualche modo
ch'avesse pur di verità sembianza,
coprir vorrebbe il fallo
dell'ostinata mente.
MONTANO
Ma che ragione in quel bambino avea
quell'uom, di cui tu parli? Era suo figlio?
CARINO
Questo non ti so dir.
MONTANO
Né mai di lui
notizia avesti tu maggior di questa?
CARINO
Tanto appunto ne so. Vedi novelle.
MONTANO
Conosceresti 'l?
CARINO
Sol ch'io 'l vedessi,
rozzo pastor all'abito, ed al viso.
Di mezzana statura, e di pel nero;
d'ispida barba, e di setose ciglia.
MONTANO
Venite a me, pastori, e servi miei.
DAMETA
Eccoci pronti.
MONTANO
Or mira
a qual di questi più si rassomiglia
l'uom di cui parli.
CARINO
A quel, che teco parla,
non sol si rassomiglia,
ma quegli appunto è desso:
e mi par quello stesso,
ch'era vent'anni già; ch'un pelo solo
non ha canuto, ed io son tutto bianco.
MONTANO
Tornatevi in disparte; e tu qui meco
resta, Dameta, e dimmi:
conosci tu costui?
DAMETA
Mi par di sì; ma dove
già non so dirti, o come.
CARINO
Or io di tutto
ben ricordar farollo.
MONTANO
A me tu prima
lascia favellar seco; e non t'incresca
d'allontanarti alquanto.
CARINO
E volentieri
fo quanto mi comandi.
MONTANO
Or mi rispondi,
Dameta, e guarda ben di non mentire.
CARINO
Che sarà questo, o dèi?
MONTANO
Tornando tu da ricercar (già sono
vent'anni) il mio bambin; che con la culla
rapì il fiero torrente;
non mi dicesti tu, che le contrade
tutte, che bagna Alfeo, cercate avevi
senz'alcun frutto?
DAMETA
E perché ciò mi chiedi?
MONTANO
Rispondi a questo pur. Non mi dicesti,
che ritrovato non l'avevi?
DAMETA
Il dissi.
MONTANO
Or che bambino è quello,
ch'allor donasti in Elide a colui,
che qui t'ha conosciuto?
DAMETA
Or son vent'anni,
e vuoi ch'un vecchio si ricordi tanto?
MONTANO
Ed egli è vecchio, eppur se ne ricorda.
DAMETA
Piuttosto egli vaneggia.
MONTANO
Or il vedremo.
Dove se', peregrino?
CARINO
Eccomi.
DAMETA
Oh fossi
tanto sotterra.
MONTANO
Dimmi,
non è questo il pastor, che ti f' il dono?
CARINO
Questo per certo.
DAMETA
E di qual dono parli?
CARINO
Non ti ricordi tu, quando nel tempio
dell'olimpico Giove; avendo quivi
dall'Oracolo avuta
già la risposta; e stando
tu per partire, i' mi ti feci incontro,
chiedendoti di quello,
che ricercavi i segni, e tu li desti:
indi poi ti condussi
alle mie case, e quivi il tuo bambino
trovasti in culla, e me ne festi il dono?
DAMETA
Che vuoi tu dir per questo?
CARINO
Or quel bambino,
ch'allor tu mi donasti, e ch'io poi sempre
ho come figlio appresso me nudrito,
è 'l misero garzon, ch'a questi altari
vittima è destinato.
DAMETA
Oh forza del destino.
MONTANO
Ancor t'infingi?
È vero tutto ciò, ch'egli t'ha detto?
DAMETA
Così morto fuss'io, com'è ben vero
MONTANO
Ciò t'avverrà, s'anco nel resto menti.
E qual cagion ti mosse
a donar quello altrui, che tuo non era?
DAMETA
Deh non cercar più innanzi,
padron; deh non per dio, bastiti questo.
MONTANO
Più sete or me ne viene.
Ancor mi tieni a bada? Ancor non parli?
Morto, se' tu, s'un'altra volta il chiedo.
DAMETA
Perché m'avea l'oracolo predetto,
che 'l trovato bambin correa periglio,
se mai tornava alle paterne case,
d'esser dal padre ucciso.
CARINO
E questo è vero,
che mi trovai presente.
MONTANO
Ohimè, che tutto
già troppo è manifesto. Il caso è chiaro.
Col sogno, e col destin s'accorda il fatto.
CARINO
Or che ti resta più? Vuoi tu chiarezza
di questa anco maggior?
MONTANO
Troppo son chiaro.
Troppo dicesti tu. Troppo intes'io.
Cercato avess'io men. Tu men saputo.
O Carino, Carino,
come teco dolor cangio, e fortuna.
Come gli affetti tuoi son fatti miei.
Questo è mio figlio. Oh figlio
troppo infelice d'infelice padre:
figlio dall'onde assai più fieramente
salvato, che rapito:
poiché cader per le paterne mani
dovevi ai sacri altari,
e bagnar del tuo sangue il patrio suolo.
CARINO
Padre tu di Mirtillo? Oh meraviglia.
In che modo il perdesti?
MONTANO
Rapito fu da quel diluvio orrendo,
che testé mi dicevi. Oh caro pegno,
tu fusti salvo allor, che ti perdei;
ed or solo ti perdo,
perché trovato sei.
CARINO
Oh provvidenza eterna,
con qual alto consiglio,
tanti accidenti hai fin'a qui sospesi,
per farli poi cader tutti in un punto.
Gran cosa hai tu concetta;
gravida se' di mostruoso parto,
o gran bene, o gran male
partorirai tu certo.
MONTANO
Questo fu quel, che mi predisse il sogno.
Ingannevole sogno;
nel mal troppo verace;
nel ben troppo bugiardo:
questa fu quella insolita pietate:
quell'improvviso orrore,
che nel mover del ferro
sentii scorrer per l'ossa:
ch'aborriva natura un così fiero,
per man del padre, abominevol colpo.
CARINO
Ma che? Darai tu dunque
a sì nefando sacrificio effetto?
MONTANO
Non può per altra man vittima umana
cader a questi altari.
CARINO
Il padre al figlio
darà dunque la morte?
MONTANO
Così comanda a noi la nostra legge.
E qual sarà di perdonarla altrui
carità sì possente, se non volle
perdonar a sé stesso il fido Aminta?
CARINO
Oh malvagio destino,
dove m'hai tu condotto?
MONTANO
A veder di duo padri
la soverchia pietà fatta omicida;
la tua verso Mirtillo,
la mia verso gli dèi.
Tu credesti salvarlo
col negar d'esser padre, e l'hai perduto.
Io cercando, e credendo
d'uccider il tuo figlio,
il mio trovo, e l'uccido.
CARINO
Ecco l'orribil mostro,
che partorisce il fato. Oh caso atroce;
oh Mirtillo mia vita. È questo quello,
che m'ha di te l'oracolo predetto?
Così nella mia terra
mi fai felice? Oh figlio,
figlio di questo sventurato vecchio
già sostegno, e speranza; or pianto, e morte.
MONTANO
Lascia a me queste lagrime, Carino,
che piango il sangue mio.
Ah perché sangue mio,
se l'ho da sparger io? Misero figlio,
perché ti generai? Perché nascesti?
A te dunque la vita
salvò l'onda pietosa,
perché te la togliesse il crudo padre?
Santi numi immortali,
senz'il cui alto intendimento eterno,
neppur in mar un'onda
si move, o in aria spirto, o in terra fronda,
qual sì grave peccato
ho contra voi commesso, ond'io sia degno
di venir col mio seme in ira al cielo?
Ma s'ho pur peccat'io,
in che peccò il mio figlio?
Ché non perdoni a lui?
E con un soffio del tuo sdegno ardente
me folgorando, non ancidi, o Giove?
Ma se cessa il tuo strale,
non cesserà il mio ferro.
Rinnoverò d'Aminta
il doloroso esempio;
e vedrà prima il figlio estinto il padre,
che 'l padre uccida di sua mano il figlio.
Mori dunque, Montano. Oggi morire
a te tocca, a te giova.
Numi, non so s'io dica
del cielo, o dell'inferno,
che col duolo agitate
la disperata mente;
ecco, il vostro furore;
poiché così vi piace, ho già concetto.
Non bramo altro che morte: altra vaghezza
non ho, che del mio fine.
Un funesto desio d'uscir di vita
tutto m'ingombra, e par che mi conforte.
Alla morte, alla morte.
CARINO
Oh infelice vecchio;
come il lume maggiore
la minor luce abbaglia,
così il dolor, che del tuo male i' sento,
il mio dolore ha spento.
Certo se' tu d'ogni pietà ben degno.
Tirenio. Montano. Carino.
TIRENIO
Affrettati, mio figlio,
ma con sicuro passo,
sì ch'i' possa seguirti, e non inciampi
per questo dirupato, e torto calle,
col piè cadente, e cieco.
Occhio se' tu di lui, come son io
occhio della tua mente:
e quando sarai giunto
innanzi al sacerdote, ivi ti ferma.
MONTANO
Ma non è quel, che colà veggio il nostro
venerando Tirenio,
ch'è cieco in terra, e tutto vede in cielo?
Qualche gran cosa il move:
che da molt'anni in qua non s'è veduto
fuor della sacra cella.
CARINO
Piaccia all'alta bontà de' sommi dèi
che per te lieto, ed opportuno giunga.
MONTANO
Che novità vegg'io, padre Tirenio?
Tu fuor del tempio? Ove ne vai? Che porti?
TIRENIO
A te solo ne vengo;
e nuove cose porto, e nuove cerco.
MONTANO
Come teco non è l'ordine sacro?
Che tarda? Ancor non torna
con la purgata vittima, e col resto,
ch'all'interrotto sacrificio manca?
TIRENIO
Oh quanto spesso giova
la cecità degli occhi al veder molto.
Ch'allor non traviata
l'anima, ed in sé stessa
tutta raccolta, suole
aprir nel cieco senso occhi lincei.
Non bisogna, Montano,
passar sì leggermente alcuni gravi
non aspettati casi,
che tra l'opere umane han del divino.
Però che i sommi dèi
non conversano in terra,
né favellan con gli uomini mortali;
ma tutto quel di grande, o di stupendo,
ch'al cieco caso il cieco volgo ascrive,
altro non è che favellar celeste:
così parlan tra noi gli eterni numi:
queste son le lor voci;
mute all'orecchie, e risonanti al core
di chi le 'ntende. Oh quattro volte, e sei
fortunato colui, che ben le 'ntende.
Stava già per condur l'ordine sacro,
come tu comandasti, il buon Nicandro;
ma il ritenn'io per accidente nuovo
nel tempio occorso: ed è ben tal, che mentre
vo con quello accoppiandolo, che quasi
in un medesmo tempo
è oggi a te incontrato:
un non so che d'insolito, e confuso
tra speranza, e timor tutto m'ingombra,
che non intendo: e quanto men l'intendo,
tanto maggior concetto
o buono, o rio ne prendo.
MONTANO
Quel che tu non intendi,
troppo intend'io miseramente, e 'l provo.
Ma dimmi. A te, che puoi
penetrar del destin gli alti segreti,
cosa alcuna s'asconde?
TIRENIO
Oh figlio, figlio:
se volontario fosse
del profetico lume il divin'uso,
saria don di natura, e non del cielo.
Sento ben io nell'indigesta mente,
che 'l ver m'asconde il fato,
e si riserba alto segreto in seno.
Questa sola cagione a te mi mosse,
vago d'intender meglio,
chi è colui, che s'è scoperto padre
(se da Nicandro ho ben inteso il fatto)
di quel garzon, ch'è destinato a morte.
MONTANO
Troppo il conosci. Oh quanto
ti dorrà poi, Tirenio,
ch'ei ti sia tanto noto, e tanto caro.
TIRENIO
Lodo la tua pietà, ch'umana cosa
è l'aver degli afflitti
compassione, oh figlio. Nondimeno
fa' pur, che seco i' parli.
MONTANO
Veggio ben'or, che 'l cielo,
quanto aver già solevi,
di presaga virtute, in te sospende.
Quel padre, che tu chiedi,
e con cui brami di parlar, son io.
TIRENIO
Tu padre di colui, ch'è destinato
vittima alla gran dèa?
MONTANO
Son quel misero padre
di quel misero figlio.
TIRENIO
Di quel fido pastore,
che, per dar vita altrui, s'offerse a morte?
MONTANO
Di quel, che fa morendo
viver, chi gli dà morte;
morir, chi gli diè vita.
TIRENIO
E questo è vero?
MONTANO
Eccone il testimonio.
CARINO
Ciò che t'ha detto è vero.
TIRENIO
E chi se' tu, che parli?
CARINO
Io son Carino,
padre fin qui di quel garzon creduto.
TIRENIO
Sarebbe questo mai quel tuo bambino,
che ti rapì il diluvio?
MONTANO
Ah tu l'hai detto,
Tirenio.
TIRENIO
E tu per questo
ti chiami padre misero, Montano?
Oh cecità delle terrene menti;
in qual profonda notte,
in qual fosca caligine d'errore
son le nostr'alme immerse,
quando tu non le illustri, oh sommo sole.
A che del saper vostro
insuperbite, oh miseri mortali?
Questa parte di noi, che 'ntende, e vede,
non è nostra virtù, ma vien dal cielo.
Esso la dà come a lui piace, e toglie.
O Montano, di mente assai più cieco,
che non son io di vista,
qual prestigio, qual demone t'abbaglia,
sì, che s'egli è pur vero,
che quel nobil garzon sia di te nato,
non ti lasci veder, ch'oggi se' pure
il più felice padre,
il più caro agli dèi di quanti al mondo
generasser mai figli?
Ecco l'alto segreto,
che m'ascondeva il fato.
Ecco il giorno felice,
con tanto nostro sangue,
e tante nostre lagrime aspettato.
Ecco il beato fin de' nostri affanni.
Oh Montano, ove se'? Torna in te stesso.
Come a te solo è della mente uscito
l'oracolo famoso?
Il fortunato oracolo nel core
di tutta Arcadia impresso?
Come, col lampeggiar, ch'oggi ti mostra
inaspettatamente il caro figlio,
non senti il tuon della celeste voce?
Non avrà prima fin quel, che v'offende
che duo semi del ciel congiunga Amore.
(Scaturiscon dal core
lagrime di dolcezza in tanta copia,
ch'io non posso parlar). Non avrà prima
non avrà prima fin quel, che v'offende,
che duo semi del ciel congiunga Amore;
e di donna infedel l'antico errore,
l'alta pietà d'un PASTOR FIDO ammende.
Or dimmi tu, Montan; questo pastore,
di cui si parla; e che dovea morire,
non è seme del ciel, s'è di te nato?
Non è seme del cielo anco Amarilli?
E chi gli ha insieme avvinti altro che Amore?
Silvio fu dai parenti e fu per forza
con Amarilli in matrimonio stretto.
Ed è tanto lontan, che gli strignesse
nodo amoroso; quanto
l'aver in odio è dall'amar lontano.
Ma s'esamini il resto, apertamente
vedrai, che di Mirtillo ha solo inteso
la fatal voce. E qual si vide mai,
dopo il caso d'Aminta,
fede d'amor, che s'agguagliasse a questa
chi ha voluto mai per la sua donna,
dopo il fedele Aminta,
morir se non Mirtillo?
Questa è l'alta pietà del Pastor fido,
degna di cancellar l'antico errore
dell'infedele, e misera Lucrina.
Con quest'atto mirabile, e stupendo,
più, che col sangue umano,
l'ira del ciel si placa,
e quel si rende alla giustizia eterna,
che già le tolse il femminile oltraggio.
Questa fu la cagion, che non sì tosto
giuns'egli al tempio a rinnovar il voto,
che cessar tutti i mostruosi segni.
Non stilla più dal simulacro eterno
sudor di sangue: e più non trema il suolo,
né strepitosa più, né più putente
è la caverna sacra: anzi da lei
vien sì dolce armonia, sì grato odore,
che non l'avrebbe più soave il cielo,
se voce, o spirto aver potesse il cielo.
Oh alta provvidenza, oh sommi dèi;
se le parole mie
fosser anime tutte,
e tutte al vostro onore
oggi le consacrassi; alle dovute
grazie non basterian di tanto dono
ma come posso, ecco le rendo: oh santi
numi del ciel, con le ginocchia a terra
umilemente. Oh quanto
vi son io debitor, perch'oggi vivo.
Ho di mia vita corsi
cent'anni già, né seppi mai che fosse
viver, né mi fu mai
la cara vita, se non oggi cara.
Oggi a viver comincio; oggi rinasco.
Ma che perd'io con le parole il tempo,
che si dée dar'all'opre?
Ergimi figlio, che levar non posso
già senza te queste cadenti membra.
MONTANO
Un'allegrezza ho nel mio cor, Tirenio,
con sì stupenda meraviglia unita,
che son lieto, e no 'l sento.
Né può l'alma confusa
mostrar di fuor la ritenuta gioia.
Sì tutti lega alto stupore i sensi.
Oh non veduto mai, né mai più inteso
miracolo del cielo:
oh grazia senza esempio:
oh pietà singolar de' sommi dèi.
Oh fortunata Arcadia:
oh sovra quante il sol ne vede, e scalda,
terra gradita al ciel, terra beata.
Così il tuo ben m'è caro,
che 'l mio non sento: e del mio caro figlio,
che due volte ho perduto,
e due volte trovato; e di me stesso,
che da un abisso di dolor trapasso
a un abisso di gioia,
mentre penso di te; non mi sovviene,
e si disperde il mio diletto; quasi
poca stilla insensibile confusa
nell'ampio mar delle dolcezze tue.
Oh benedetto sogno,
sogno non già, ma vision celeste:
ecco ch'Arcadia mia,
come dicesti tu, sarà ancor bella.
TIRENIO
Ma che tardi, Montano?
Da noi più non attende
vittima umana il cielo.
Non è più tempo di vendetta, e d'ira;
ma di grazia, e d'amore. Oggi comanda
la nostra dèa, che 'nvece
di sacrificio orribile, e mortale,
si faccian liete, e fortunate nozze.
Ma dimmi tu, quant'ha di vivo il giorno.
MONTANO
Un'ora, o poco più.
TIRENIO
Così vien sera?
Torniamo al tempio; e quivi immantinente
la figliuola di Titiro, e 'l tuo figlio
si dian la fede maritale, e sposi
divengano d'amanti; e l'un conduca
l'altra ben tosto alle paterne case,
dove convien prima che 'l sol tramonti,
che sian congiunti i fortunati eroi.
Così comanda il ciel. Tornami, figlio,
onde m'hai tolto: e tu, Montan, mi segui:
MONTANO
Ma guarda ben, Tirenio,
che senza violar la santa legge,
non può ella a Mirtillo
dar quella fé, che fu già data a Silvio.
CARINO
Ed a Silvio fiè data
parimente la fede: che Mirtillo
fin dal suo nascimento ebbe tal nome,
se dal tuo servo mi fu detto il vero:
ed egli si compiacque,
ch'io 'l nomassi Mirtillo, anzi che Silvio.
MONTANO
Gli è vero. Or mi sovviene, e cotal nome
rinnovai nel secondo,
per consolar la perdita del primo.
TIRENIO
Il dubbio era importante. Or tu mi segui.
MONTANO
Carino, andiamo al tempio. E da qui innanzi
duo padri avrà Mirtillo. Oggi ha trovato
Montano un figlio, ed un fratel Carino.
CARINO
D'amor padre a Mirtillo; a te fratello;
di riverenza all'un servo, ed all'altro
sarà sempre Carino.
E poi che verso me se' tanto umano,
ardirò di pregarti,
che ti sia caro il mio compagno ancora,
senza cui non sarei caro a me stesso.
MONTANO
Fanne quel, ch'a te piace.
CARINO
Eterni numi: oh come son diversi
quegli alti inaccessibili sentieri,
onde scendono a noi le vostre grazie
da que' fallaci, e torti,
onde i nostri pensier salgono al cielo.
Corisca. Linco.
CORISCA
E così Linco il dispietato Silvio,
quando men se 'l pensò, divenne amante.
Ma che seguì di lei?
LINCO
Noi la portammo
alle case di Silvio, ove la madre
con lagrime l'accolse,
non so se di dolcezza, o di dolore.
Lieta sì, che 'l suo figlio
già fosse amante, e sposo; ma del caso
della ninfa dolente, e di due nuore
suocera mal fornita,
l'una morta piangea, l'altra ferita.
CORISCA
Pur è morta Amarilli?
LINCO
Dovea morir. Così portò la fama.
Per questo sol mi mossi inverso 'l tempio
a consolar Montano, che perduta
s'oggi ha una nuora, ecco ne trova un'altra.
CORISCA
Dunque Dorinda non è morta?
LINCO
Morta?
Fossi sì viva tu; fossi sì lieta.
CORISCA
Non fu dunque mortal la sua ferita?
LINCO
Alla pietà di Silvio,
se morta fosse stata,
viva saria tornata.
CORISCA
E con qual arte
sanò sì tosto?
LINCO
I' ti dirò da capo
tutta la cura: e meraviglie udrai.
Stavan d'intorno alla ferita ninfa
tutti con pronta mano,
e con tremante core uomini e donne:
ma ch'altri la toccasse
non volle mai, che Silvio suo: dicendo,
la man, che mi ferì, quella mi sani.
Così soli restammo,
Silvio, la madre, ed io,
duo col consiglio, un con la mano oprando.
Quell'ardito garzon, poi che levata
ebbe soavemente
dal nudo avorio ogni sanguigna spoglia,
tentò di trar dalla profonda piaga
la confitta saetta: ma cedendo,
non so come, alla mano
l'insidioso calamo, nascosto
tutto lasciò nelle latebre il ferro.
Qui daddovero incominciar l'angosce.
Non fu possibil mai,
né con maestra mano,
né con ferrigno rostro,
né con altro argomento indi spiantarlo.
Forse con altra assai più larga piaga
la piaga aprendo, alle segrete vie
del ferro penetrar con altro ferro
si poteva, o doveva;
ma troppo era pietosa, e troppo amante,
per sì cruda pietà la man di Silvio.
Con sì fieri strumenti,
certo non sana i suoi feriti Amore.
Quantunque alla fanciulla innamorata
sembrasse che 'l dolor si raddolcisse
tra le mani di Silvio;
il qual perciò nulla smarrito, disse:
«quinci uscirai ben tu, ferro malvagio,
e con pena minor, che tu non credi».
Chi t'ha spinto qui dentro,
è ben anco di trartene possente:
ristorerò con l'uso della caccia
quel danno, che per l'uso
della caccia patisco.
D'un'erba or mi sovviene,
ch'è molto nota alla silvestre capra,
quand'ha lo stral nel saettato fianco:
essa a noi la mostrò, natura a lei.
Né gran fatto è lontana. Indi partissi,
e nel colle vicin subitamente,
coltone un fascio, a noi se n' venne; e quivi
trattone succo, e misto
con seme di verbena; e la radice
giuntavi del centauro; un molle impiastro
ne feo sopra la piaga.
Oh mirabil virtù. Cessa il dolore
subitamente, e si ristagna il sangue;
e 'l ferro indi a non molto,
senza fatica, o pena
la man seguendo, ubbidiente n'esce.
Tornò il vigor nella donzella, come
se non avesse mai piaga sofferta.
La qual però mortale
veramente non fu: però che 'ntatto
quinci l'alvo lasciando, e quindi l'ossa,
nel muscoloso fianco
era sol penetrata.
CORISCA
Gran virtù d'erba, e via maggior ventura
di donzella mi narri.
LINCO
Quel che tra lor sia succeduto poi,
si può piuttosto immaginar, che dire.
Certo è sana Dorinda; ed or si regge
sì ben sul fianco, che di lui servirsi
ad ogn'uso ella può. Con tutto questo,
credo, Corisca, e tu fors'anco il credi,
che di più d'uno stral ferita sia
ma come l'han trafitta arme diverse,
così diverse ancor le piaghe sono.
D'altra è fero il dolor, d'altra è soave:
l'una saldando si fa sana, e l'altra
quanto si salda men, tanto più sana:
e quel fero garzon di saettare,
mentr'era cacciator, fu così vago,
che non perde costume; ed or ch'egli ama,
di ferir anco ha brama.
CORISCA
Oh Linco: ancor se' pure
quell'amoroso Linco,
che fosti sempre.
LINCO
Oh Corisca mia cara,
d'animo Linco, e non di forze sono;
e 'n questo vecchio tronco
è più che fosse mai verde il desio.
CORISCA
Or ch'è morta Amarilli
mi resta di veder quel ch'è seguito
del mio caro Mirtillo.
Ergasto. Corisca.
ERGASTO
Oh giorno pien di meraviglie: oh giorno
tutt'amor, tutto grazie, e tutto gioia:
oh terra avventurosa, oh ciel cortese.
CORISCA
Ma ecco Ergasto. Oh come viene a tempo.
ERGASTO
Oggi ogni cosa si rallegri: terra,
cielo, aria, foco, e 'l mondo tutto rida.
Passi il nostro gioire
anco fin nell'inferno,
né oggi e' sia luogo di pene eterno.
CORISCA
Quanto è lieto costui.
ERGASTO
Selve beate;
se sospirando in flebili sussurri,
al nostro lamentar vi lamentaste,
gioite anco al gioire; e tante lingue
sciogliete, quante frondi
scherzano al suon di queste,
piene del gioir nostro aure ridenti.
Cantate le venture, e le dolcezze
de' duo beati amanti.
CORISCA
Egli per certo
parla di Silvio, e di Dorinda. Insomma,
viver bisogna. Tosto
il fonte delle lagrime si secca;
ma il fiume della gioia abbonda sempre.
Della morta Amarilli,
ecco più non si parla; e sol s'ha cura
di goder con chi gode. Ed è ben fatto.
Purtroppo è pien di guai la vita umana.
Ove si va sì consolato, Ergasto?
A nozze forse?
ERGASTO
E tu l'hai detto appunto.
Inteso hai tu l'avventurosa sorte
de' duo felici amanti? Udisti mai
caso maggior, Corisca?
CORISCA
I' l'ho da Linco,
con molto mio piacer, pur ora udito.
E quel dolor ho mitigato in parte,
che per la morte d'Amarilli i' sento.
ERGASTO
Morta Amarilli? E come? E di qual caso
parli tu ora? O pensi tu ch'io parli?
CORISCA
Di Dorinda, e di Silvio.
ERGASTO
Che Dorinda, che Silvio.
Nulla dunque sai tu. La gioia mia
nasce da più stupenda,
e più alta, e più nobile radice.
D'Amarilli ti parlo, e di Mirtillo:
coppia di quante oggi ne scaldi Amore,
la più contenta, e lieta.
CORISCA
Non è morta
dunque Amarilli?
ERGASTO
Come morta? È viva
e lieta, e bella, e sposa.
CORISCA
Eh tu mi beffi.
ERGASTO
Ti beffo? Il vedrai tosto.
CORISCA
A morir dunque
condannata non fu?
ERGASTO
Fu condannata,
ma tosto anche assoluta.
CORISCA
Narri tu sogni, oppur sognando ascolto?
ERGASTO
Tosto la vedrai tu, se qui ti fermi,
col fortunato suo fedel Mirtillo
uscir dal tempio, ov'ora sono; e data
s'hanno la fe' già maritale; e verso
le case di Montano ir li vedrai,
per cor di tante, e di sì lunghe loro
amorose fatiche, il dolce frutto.
Oh se vedessi l'allegrezza immensa;
s'udissi il suon delle gioiose voci,
Corisca. Già d'innumerabil turba
è tutto pieno il tempio: uomini, e donne
quivi vedresti tu; vecchi, e fanciulli:
sacri, e profani in un confusi, e misti;
e poco men che per letizia insani.
Ognun con meraviglia
corre a veder la fortunata coppia.
Ognun la riverisce, ognun l'abbraccia:
chi loda la pietà, chi la costanza;
chi le grazie del ciel, chi di natura.
Risuona il monte, e 'l pian, le valli e i poggi
del Pastor fido il glorioso nome.
Oh ventura d'amante,
il divenir sì tosto
di povero pastore un semideo.
Passar in un momento
da morte a vita; e le vicine esequie
cangiar con sì lontane,
e disperate nozze;
ancor che molto sia,
Corisca, è però nulla.
Ma goder di colei, per cui morendo,
anco godeva? Di colei, che seco
volle sì prontamente
concorrer di morir, non che d'amare?
Correr in braccio di colei, per cui
dianzi sì volentier correva a morte?
Questa è ventura tal, questa è dolcezza,
ch'ogni pensiero avanza.
E tu non ti rallegri? E tu non senti
per Amarilli tua quella letizia,
che sent'io per Mirtillo?
CORISCA
Anzi sì pur, Ergasto;
mira come son lieta.
ERGASTO
Oh se tu avessi
veduta la bellissima Amarilli;
quando la man per pegno della fede
a Mirtillo ella porse;
e per pegno d'amor Mirtillo a lei,
un dolce sì, ma non inteso bacio,
non so se dir mi debbia, o diede, o tolse,
saresti certo di dolcezza morta,
che purpura? Che rose?
Ogni colore o di natura, o d'arte
vincean le belle guance;
che vergogna copriva
con vago scudo di beltà sanguigna,
che forza di ferirle
al feritor giungeva;
ed ella in atto ritrosetta, e schiva,
mostrava di fuggire
per incontrar più dolcemente il colpo;
e lasciò in dubbio, se quel bacio fosse
o rapito, o donato,
con sì mirabil arte
fu conceduto, e tolto. E quel soave
mostrarsene ritrosa,
era un no, che voleva: un atto misto
di rapina, e d'acquisto;
un negar sì cortese, che bramava
quel che negando, dava:
un vietar, ch'era invito,
sì dolce d'assalire,
ch'a rapir, chi rapiva, era rapito:
un restar, e fuggire,
ch'affrettava il rapire.
Oh dolcissimo bacio.
Non posso più Corisca.
Vo diritto, diritto
a trovarmi una sposa:
che 'n sì alte dolcezze,
non si può ben gioir, se non amando.
CORISCA
Se costui dice il vero;
questo è quel dì, Corisca,
che tutto perdi, o tutto acquisti il senno.
Coro di Pastori. Corisca. Amarilli. Mirtillo.
CORO
Vieni santo Imeneo;
seconda i nostri voti, e i nostri canti,
scorgi i beati amanti,
l'uno, e l'altro celeste semideo;
stringi il nodo fatal santo Imeneo.
CORISCA
Ohimè che troppo è vero. E cotal frutto
dalle tue vanità, misera, mieti.
Oh pensieri, oh desiri
non meno ingiusti, che fallaci, e vani.
Dunque d'una innocente
ho bramata la morte,
per adempir le mie sfrenate voglie?
Sì cruda fui? Sì cieca?
Chi m'apre or gli occhi? Ah misera che veggio?
L'orror del mio peccato,
che di felicità sembianza avea.
CORO
Vieni santo Imeneo;
seconda i nostri voti, e i nostri canti,
scorgi i beati amanti,
l'uno, e l'altro celeste semideo;
stringi il nodo fatal santo Imeneo,
deh mira, o Pastor fido,
dopo lagrime tante,
e dopo tanti affanni ove se' giunto.
Non è questa colei, che t'era tolta
dalle leggi del cielo, e della terra?
Dal tuo crudo destino?
Dalle sue caste voglie?
Dal tuo povero stato?
Dalla sua data fede, e dalla morte?
Eccola tua, Mirtillo.
Quel volto amato tanto, e que' begli occhi:
quel seno, e quelle mani,
e quel tutto, che miri, ed odi, e tocchi,
da te già tanto sospirato invano,
sarà ora mercede
della tua invitta fede. E tu non parli?
MIRTILLO
Come parlar poss'io,
se non so d'esser vivo?
Né so s'io veggia, o senta
quel, che pur di vedere,
e di sentir mi sembra?
Dica la mia dolcissima Amarilli;
però che tutta in lei
vive l'anima mia, gli affetti miei.
CORO
Vieni santo Imeneo;
seconda i nostri voti, e i nostri canti,
scorgi i beati amanti,
l'uno, e l'altro celeste semideo;
stringi il nodo fatal santo Imeneo.
CORISCA
Ma che fate voi meco,
vaghezze insidiose, e traditrici;
fregi del corpo vil, macchie dell'alma?
Itene. Assai m'avete
ingannata, e schernita.
E perché terra sete, itene a terra.
D'amor lascivo un tempo arme vi fei,
or vi fo d'onestà spoglie, e trofei.
CORO
Vieni santo Imeneo;
seconda i nostri voti, e i nostri canti,
scorgi i beati amanti,
l'uno, e l'altro celeste semideo;
stringi il nodo fatal santo Imeneo.
CORISCA
Ma che badi, Corisca?
Comodo tempo è di trovar perdono:
che fai? Temi la pena?
Ardisci pur: che pena
non puoi aver maggior della tua colpa.
Coppia beata, e bella,
tanto del cielo, e della terra amica
s'al vostro altero fato oggi s'inchina
ogni terrena forza;
ben'è ragion, che vi s'inchini ancora
colei, che contra il vostro fato, e voi
ha posto in opra ogni terrena forza.
Già no 'l nego, Amarilli, anch'io bramai
quel, che bramasti tu: ma tu te 'l godi,
perché degna ne fusti.
Tu godi il più leale
pastor, che viva, e tu, Mirtillo, godi
la più pudica ninfa
di quante n'abbia, o mai n'avesse il mondo
credete'l pur a me, che cote fui
di fede all'uno, e d'onestate all'altra.
Ma tu, ninfa cortese,
prima che l'ira tua sopra me scenda;
mira nel volto del tuo caro sposo:
quivi del mio peccato,
e del perdono tuo vedrai la forza.
In virtù di sì caro
amoroso tuo pegno
all'amoroso fallo oggi perdona,
amorosa Amarilli: ed è ben dritto,
ch'oggi perdon delle sue colpe trovi
Amore in te, se le sue fiamme provi.
AMARILLI
Non solo i' ti perdono.
Corisca, ma t'ho cara:
l'effetto sol, non la cagion mirando:
che 'l ferro, e 'l foco, ancor che doglia apporti,
pur che risani, a chi fu sano, è caro,
qualunque mi sii stata
oggi amica, o nemica,
basta a me, che 'l destino
t'usò per felicissimo strumento
d'ogni mia gioia. Avventurosi inganni,
tradimenti felici, E se ti piace
d'esser lieta ancor tu, vientene, e godi
delle nostre allegrezze.
CORISCA
Assai lieta son io
del perdon ricevuto, e del cor sano.
MIRTILLO
Ed io pur ti perdono
ogni offesa, Corisca, se non questa
troppo importuna tua lunga dimora.
CORISCA
Vivete lieti: addio.
CORO
Vieni santo Imeneo,
seconda i nostri voti, e i nostri canti,
scorgi i beati amanti,
l'uno, e l'altro celeste semideo,
stringi il nodo fatal santo Imeneo.
Mirtillo. Amarilli. Coro di Pastori.
MIRTILLO
Così dunque son io
avvezzo di penar, che mi conviene
in mezzo delle gioie anco languire?
Assai non ci tardava
di questa pompa il neghittoso passo,
se tra' piè non mi dava anco quest'altro
intoppo di Corisca?
AMARILLI
Ben se' tu frettoloso.
MIRTILLO
O mio tesoro,
ancor non son sicuro, ancor'i' tremo,
né sarò certo mai di possederti,
perfin che nelle mie case
non se' del padre mio fatta mia donna.
Questi mi paion sogni,
a dirti il vero, e mi par d'ora in ora
che 'l sonno mi si rompa,
e che tu mi t'involi, anima mia.
Vorrei pur ch'altra prova
mi fesse omai sentire
che 'l mio dolce vegghiar non è dormire.
CORO DI PASTORI
Vieni santo Imeneo,
seconda i nostri voti, e i nostri canti,
scorgi i beati amanti,
l'uno, e l'altro celeste semideo,
stringi il nodo fatal santo Imeneo.
CORO ULTIMO
Oh fortunata coppia,
che pianto ha seminato, e riso accoglie;
con quante amare doglie
hai raddolciti tu gli affetti tuoi.
Quinci imparate voi,
o ciechi, e troppo teneri mortali
i sinceri diletti, e i veri mali.
Non è sana ogni gioia,
né mal ciò che v'annoia.
Quello è vero gioire,
che nasce da virtù dopo il soffrire.
Fine del libretto.
Generazione pagina: 17/09/2017
Pagina: ridotto, rid
Versione H: 3.00.40
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