Atto terzo

 

Scena prima

Didone, Anna.

Didone

 

DIDONE

Qual violenza interna,  

qual forza sconosciuta

mi fa tremar le viscere innocenti,

e mi toglie, e mi ruba

di me stessa il dominio,

e mette in schiavitù l'anima mia?

Qual mano, o dio, qual mano

soavemente cruda,

dolcemente superba

con coltello invisibile, e fatale

senza avermi pietà svena il cor mio,

e mentre me lo svena

vuol ch'al dispetto della morte io viva?

Chi queste membra afflitte

disabitò di spirti, e di calori?

Chi mi sforza a singulti,

chi spreme, chi distilla

dall'anima infiammata acque di pianto?

Chi al cor mio diede l'ali, ond'ei mi vola

fuor del petto, e si ferma

dopo corsi raminghi in un bel viso,

son in terra, in abisso, o in paradiso?

 
Qui sopraggiunge Anna.

<- Anna

 

 

Anna sorella, e segretaria fida  

custode dell'archivio più riposto

de' miei pensier più cupi, e più profondi,

ecco t'apro le porte,

ti riveli i secreti

degl'arcani dell'anima traffitta,

piangi i martir d'una sorella afflitta.

Quel troiano signor, quel cavaliero,

che poco dianzi con armati legni

reliquie miserabili dell'onde,

delle tempeste avanzo, è qui venuto,

m'ha ferito nel core,

Anna pietà, la tua Didon si more.

Mi circonda la mente

l'orribile sepolcro

del mio già morto sposo,

d'amor l'acuto dardo

trotta ne' miei pensieri

la falce, che recise il mio marito.

Temo se m'innamoro

oltraggiar quelle ceneri gelate.

Mi par di far dispetto

a quell'ossa, se corro ad altri amori.

Il rispetto d'un morto

il desire d'un vivo

fan guerra nel mio petto;

d'un sole tramontato

mi fastidiscon l'ombre;

d'un sole a mezzo giorno

m'infiamma il dolce raggio.

Con un oggetto spento

mi seppellisco viva,

ma con un vivo oggetto

io risorgo, e festeggio,

l'uno mi spira orror, l'altro diletto,

l'un mi chiama alla tomba, e l'altro al letto.

Anna però tu senti,

che un'arteria frequente,

un polso inordinato

le mie febbri amorose a te palesa.

Mira i miei precipiti,

ripensa a miei perigli,

l'oracolo attend'io de' tuoi consigli.

 

ANNA

O regina, o mia Didone,  

o degl'occhi miei pupilla,

se il tuo cor d'amor sfavilla,

non guardar legge, o ragione;

ama, godi a tuo senno, e ti ricrea

col sempre grande, e glorioso Enea.

Ritornello

 

S'è sepolto il tuo marito,

più non sente ingiurie, o torti,

son di mente privi i morti,

niente sa chi è seppellito;

fa' ch'ogni dubbio dal tuo cor disgombre

trastulla il corpo, e non pensar all'ombre.

Ritornello

 

Giovanezza senza amori

è una notte senza stelle,

degne son tue guance belle

d'aver servi mille cori,

vada la castità co' suoi compassi

a misurar le voglie ai freddi sassi.

Ritornello

 

Sangue vivo, età fiorita

mal s'accorda col digiuno,

lascia omai l'abito bruno,

se il destino, e amor t'invita.

Son morte al mondo le giornate triste,

la vita solo nel goder consiste.

Ritornello

 

Verde incalmo in bella pianta

agghiacciato talor more,

non però l'agricoltore

la radice viva spianta,

ma con inserti novi apre gl'umori,

e più odorosi rivagheggia i fiori.

Ritornello
 

 

Così tu Didon consenti  

novo innesto peregrino

nel segreto tuo giardino,

che i tuoi fior non sian mai spenti.

Opra, sorella, tu quel ch'io favello,

e apri gl'orti al giardinier novello.

Alla caccia andar potrai,

e nel sen d'un cavo speco

con l'eroe troiano teco

trasformar in gioie i guai.

Vanne, che 'l ciel t'assista, e pro ti faccia,

se gioverà l'esser andata a caccia.

DIDONE

Ministri, e servi miei

ordinate i destrieri,

apparecchiate i cani,

si circondino i boschi,

s'attraversino i colli,

vadansi a ritrovar covili, e tane.

Su, castigate gli ozi,

rinunciate gl'indugi,

dimostri questo giorno

della Tiria virtù gl'usati segni.

Disubbidiente al moto

agl'inciampi s'estenda, e non ai passi.

Gelo, e foco in un punto,

la dubbia volontà raffrena, e spinge:

batte l'alma sul core, e stride, e cerca,

e pur non sa perché soccorso, e pace.

Vado, o non vado, o dèi,

scorgete a buon cammino i passi miei.

Didone, Anna ->

 

Scena seconda

Iarba, due Damigelle.

Iarba, due Damigelle

 

IARBA

Pur t'ho colta, assassina.  

PRIMA DAMIGELLA

Alle dame di corte,

serve della regina?

IARBA

La tua vigliaccheria, ch'è sopraffina,

che mi pone in dispreggio,

merita questo, e peggio.

SECONDA DAMIGELLA

Questo è l'amor, che porti, o re fellone,

alla nostra Didone?

IARBA

Che dici di Didone?

Didon, che nome è questo?

PRIMA DAMIGELLA

Or t'è uscito di mente il nome amato,

pazzarel smemorato?

IARBA

Io non so di Didone, anzi pur so,

ch'ella il sen mi piagò.

Ma guarda quante mosche per quest'aria

battono la canaria.

SECONDA DAMIGELLA

È il tuo cervel che vola,

e batte con le piume una chiaccona.

IARBA

Care le mie giovenche dolci, e belle,

amate pecorelle,

se il ciel vi guardi d'ogni mal le groppe,

dite se queste sono spade, o coppe.

PRIMA DAMIGELLA

E che ti par sorella

di questo sì elegante, e caro pazzo?

SECONDA DAMIGELLA

In quanto a me direi,

se contenta tu sei,

che 'l facessimo entrar solo soletto

nel nostro gabinetto,

per servirsene, sai:

tempo perduto non si acquista mai.

PRIMA DAMIGELLA

Pazzarello amoroso,

forsennato vezzoso

vuoi tu venir con noi?

IARBA

Verrò, ma due son troppo: io non vorrei

por fra due rompicolli i casi miei.

PRIMA DAMIGELLA

Vientene meco pur.

SECONDA DAMIGELLA

Vientene meco omai.

IARBA

Ma giocamo alla mora

con chi debbo venire.

TUTTI TRE

Cinque, sett', otto, nove.

IARBA

Ohimè, che piove.

Deh non vedete voi,

che m'entrano le nuvole nel capo?

Copritemi sorelle,

guardatemi da rischi.

PRIMA DAMIGELLA

O questa ci vorrebbe,

che fossimo trovate in questo impaccio

col bambozzo nel sen, col matto in braccio.

IARBA

O mirate, mirate

quante spade, e celate

formano il rompicollo alle brigate.

Osservate ignoranza,

che un asino cavalca,

e alla virtù, ch'è a piedi

dà la fuga, e la calca;

ma nel mezzo mirate, o vista rea,

Didon, ch'abbraccia il fortunato Enea.

SECONDA DAMIGELLA

Infelice ei vaneggia,

e nella mente insana

l'ostinato fantasma ancor passeggia.

IARBA

Sapete voi gli avvisi di Parnaso?

Venere è uscita a trastullarsi al fresco,

e ha incontrato per l'amene strade

diversi beccafichi,

che l'han confusa in inviluppi e intrichi;

onde non v'è dubitazione alcuna,

tosto vedrem l'eclissi della luna.

PRIMA DAMIGELLA

O bel pensiero, o curioso avviso.

IARBA

Guardate, deh guardate

con quanta gravità

riposato si sta con piedi pari

il censor del paese,

il gran fiuta popone modenese,

che sopra del quantunque, e sopra il cui

fa del censor delle faccende altrui,

e dice questo certo io non lo voglio,

quest'altro non mi piace,

e questo non l'ammetto in alcun modo,

ch'io non so poetar, se non al sodo:

e aggiunge il sputa tondo,

cotesto io no 'l vorrei,

né quest'altro giammai l'apponerei;

e non s'accorge il povero meschino,

che il pesce grosso si mangia il piccino.

SECONDA DAMIGELLA

Orsù finiamla, pazzerel mio caro,

vogliam partir di qua?

IARBA

Ma dove starò meglio,

o mie zitelle in questi caldi estivi,

che tra gli ameni colli,

de' vostri seni amorosetti, e molli?

PRIMA DAMIGELLA

Andiamo omai, che 'l ballo si finisce.

IARBA

Al ballo eccomi pronto.

Iarba, due Damigelle ->

 

Scena terza

Cacciatori.

<- cacciatori

 
[La caccia]

 N 

 

 

Tu tu tu al cingiale, al cingiale,  

ve' Melampo, che l'afferra,

ve' Licisca, che l'atterra,

dal destrier scendiamo a' piedi,

siamli addosso con gli spiedi;

or la lena, e 'l braccio vale

tu tu tu al cingiale, al cingiale,

ve' che gridi orrendi, e strani,

come fan spavento ai cani,

da quel dente incrudelito

già Tigrin resta ferito,

né si move a pena più

al cingiale, al cingiale tu tu tu.

Ve' che ruote infuriate,

ve' che zanne insanguinate,

par che morte avventi, e scocchi

dalla rabbia di quegl'occhi,

com'è fiero, com'è forte

tu tu tu al cingial date la morte.

Già piagato in mille bande

con il sangue l'alma spande,

ecco il piè gli cade sotto,

ecco a morte egli è condotto,

suona suona il corno acuto

il cingial tu tu tu langue caduto.

Ma qual orrida tempesta

strage annuncia alla foresta;

qual ruine avranno i campi,

odi i tuoni, e vedi i lampi,

già da monti verran torrenti, e fiumi,

il dì s'annotta, e 'l sol ha spenti i lumi.

Suona il corno, e diamo volta

qui per questa selva folta;

vedi il fulmine, che straccia

a quell'arbore le braccia;

s'impetuoso turbo urta le selve,

e fa negl'antri inorridir le belve.

Fogli partitura

 
Qui passa la Regina con Enea.

<- Didone, Enea

Didone, Enea ->

 

 

Vedi vedi la regina

col troian, che s'avvicina

là del monte al cupo grembo,

per scappar sì fiero nembo;

or per i men difficili sentieri

salviamci a tutto corso, o cavalieri.

cacciatori ->

 

Scena quarta

Giove, Mercurio.

Giove

 
Recitativo

GIOVE

Mercurio vedi tu, come caduto  

da' suoi titoli illustri, e immortali

il valoroso Enea giaccia perduto,

scopo infelice agl'amorosi strali?

Della sua fama eccelsa il grido è muto,

la di lui gloria ha indebolite l'ali.

Egli è notte a sé stesso, e sue bell'opre

disonorata nube involve, e copre.

Vola a lui, di', ch'ei parta, e non ritardi

con sozzi indugi il corso alle sue stelle,

scacci da sé i pensier vili, e codardi,

e faccia alla ragion sue voglie ancelle;

fugga il velen degl'amorosi sguardi,

scampi il malor delle sembianze belle,

vinca sé stesso, e parta, e i propri errori

sconti coi pentimenti, e coi rossori.

Di bella donna un lusinghiero volto

a seppellire i scettri suoi lo guida,

e in laberinto femminile involto

fa' che l'ozio, e l'oblio sue glorie ancida,

vanne, e guarisci in lui l'arbitrio stolto,

ammonisci l'errante, anzi lo sgrida.

L'uom, che sopra sé stesso non ha forza,

tutti del suo decoro i lumi ammorza.

 

Giove ->

Qui Mercurio scende dal cielo.

<- Mercurio

 

Scena quinta

Mercurio, Enea.

<- Enea

 

MERCURIO

Enea, che fai, che pensi? Enea tu dormi?  

L'incenerita Troia omai ti desti

l'imperatrice Italia i tuoni appresti,

onde abbian fine i tuoi letarghi enormi.

Giove dio delle cose a te mi manda

perch'io sgridi i tuoi falli, i tuoi furori,

alla mensa degli ozi, e degli amori

hai trangoiata una mortal bevanda.

Lascivia folle, e smoderato affetto

effeminaro il brando tuo feroce.

Tu non rispondi no? scampa tua voce

a seppellirsi entro all'avel del petto.

Tu quel troiano, tu quel pio, quel forte,

che di gloria alla cote aguzzò l'armi,

che fu decoro ai bronzi, e pompa ai marmi,

e per trionfo incatenò la morte.

Or imbelle guerriero, e drudo vile

le libidini stanchi, e 'l nome guasti,

e obliati i militar contrasti

soffri in brutto sudor giogo servile.

Ascanio il tuo figliuol, che in sé racchiude

de' posteri gli scettri, e le corone,

fraudato oggi vien per tua cagione,

e l'error tuo le di lui glorie esclude.

Non affetto di padre, o di monarca

ti chiama a comandar province, e mondi;

dai ciechi abissi, e dagli orror profondi

a luminoso porto or meco varca.

Arma il cor di fortezza, e ti rammenta,

ch'altrove il ciel l'altezze tue destina,

tronca il filo agli indugi, alta ruina

già ti s'appresta, se tua fuga è lenta.

 
[Aria]

 N 

Leva l'ancore, e in alto al gran passaggio  

la tua falange spieghi al vento i lini;

per tuoi nocchier s'accordano i destini,

Nettun sarà il pilota al gran viaggio.

Ritornello

 

Vanne in Italia, ch'a te sol fa voti,

per partorire alla tua prole i regni;

la terra, e 'l ciel saranno angusti segni,

le palme per capir de' tuoi nipoti.

Ritornello

 

Or vigoroso movi e 'l core, e 'l piede,

e da ceppi l'arbitrio discatena;

del vano lagrimar chiudi la vena,

così t'impon chi 'l tutto intende, e vede.

Mercurio ->

 

Scena sesta

Enea, coro di Troiani, Acate.

<- troiani, Acate

 
Recitativo

ENEA

Acate, Ilionèo, compagni, amici,  

ohimè qual vision l'alma m'abbaglia?

Qual scalpello divin nel cor m'intaglia

sentenze eterne, e de' miei falli ultrici?

Il ciel fulminator de' petti rei

chiama dal core i pentimenti miei.

Acceleriam l'andata, e taciturni

lasciam di Libia i minacciati lidi,

ci prometton le stelle alti sussidi,

su via dal porto usciam cheti, e notturni,

sicché il rumor non giunga alla magione

dell'infelice mia dolce Didone.

Fierissimo contrasto, aspro conflitto;

Amor m'induce ai pianti a viva forza,

onor trova le lagrime, e le sforza

a soffocarsi in mezzo il core afflitto.

Son pianta combattuta da due venti,

e vengon da due inferni i miei tormenti.

Me la pietà di padre, e verso i divi

religione or chiama alla partita,

ma Didone il mio core, ahi la mia vita

come abbandono in lagrimosi rivi?

In fiamme già lasciai la patria antica,

lascio in acque di pianti ora l'amica.

 

Dormi cara Didone, il ciel cortese  

non ti faccia sognar l'andata mia,

il corpo in nave, e l'alma a te s'invia,

non sien mai spente le mie voglie accese,

ite sotto al guancial del mio tesoro,

o miei sospiri, e dite, ch'io mi moro.

Ritornello

 

Peregrin moriente il piede movo,

ma vivace amator il core ho fermo,

dal voler degli dèi non trovo schermo,

e in ubbidire al ciel l'inferno provo,

se svegliata vedrai lunge mie vele,

bella Didon non mi chiamar crudele.

Perché fisso destin colà mi vuole,

ove spargendo bellicosi i semi,

corrà frutti di scettri, e diademi

la mia del ciel predestinata prole.

Già il vento spira, il ciel mi chiama, o Dido,

a dio parto, e veleggio ad altro lido...

 

CORO DI TROIANI

Al lido amici,  

correndo andiamo,

sarem felici,

se noi partiamo.

 

ACATE

Cheti, o là, che dic'io?  

supprimete le voci,

e frettolosi in nave ite, e volate.

Agl'uffici espediti,

ordinate i navili,

e precorrete i venti,

e provocate il mare alla partita.

ENEA

Così v'impongo, andate,

né palesate del partire un cenno,

ch'io sarò tosto a voi.

troiani, Acate ->

 

Scena settima

Didone, Enea.

<- Didone

 

DIDONE

Perfido, misleale,  

così la fuga tenti,

e ordisci i tradimenti?

E perché non lo sappia, empio, volesti

sceglier la notte oscura,

seppellirne la fama,

far muto il mondo, e trar le lingue ai venti?

Sai tu chi me l'ha detto?

Me l'ha detto l'inferno,

che per empirti di perfidia il petto

ha privato sé stesso

delle furie, e de' mostri:

tratti così gli abbracciamenti nostri?

Abbracciamenti, oh dio,

come volesti, oh cielo

di pestilenze influitor maligno

umanare l'aspetto ad una serpe,

solo perch'io me la covassi in seno?

Diedi la vita in preda,

diedi l'onor in mano

all'assassin delle fortune mie.

Enea, spietato Enea,

tu mi rendi così con cambio ingiusto

per dolcezze veleni,

e svenando la fede, e la ragione

la morte affretti della tua Didone.

Ti fo libero dono

dell'immensa Cartagine, che sorge,

e con le torri eccelse

ha vinta l'aria, e ingelosito il cielo.

Tributari vassalli

dell'oro, e della fede

ti saran tutti i miei:

l'Africa tutta produrrà trionfi,

germoglierà trofei

delle tue glorie al carro, e finalmente

sarà l'anima mia

alla bella, e divina tramontana

del tuo viso gentile

calamita servile.

Ecco abbasso a' tuoi piedi

il nome di regina:

umilio al tuo cospetto

questa corona mia.

Atterro alle tue piante

la porpora, e lo scettro;

piego alla tua grandezza

i singulti, i pensieri,

e prostro a te davanti,

e le ginocchia, e 'l viso,

e se sotto la terra, e sotto al centro

ha sito l'umiltade, o casa il pianto

colà giù profondata

mando agli orecchi tuoi

sol questo prego lagrimoso, e pio.

Non mi tradir, non mi lasciar, ben mio.

ENEA

Regina, omai rasciuga

quella pioggia d'argento,

che dalle stelle tue sul cor mi cade.

Regina, omai raccogli

le preziose perle,

i tepidi diamanti

di questi tuoi mal consigliati pianti.

Non val la mia fortuna,

non costa la mia vita

di così ricche lagrime una stilla.

Deh bellissima Dido

non siano i tuoi dolori

prodighi sì nel dissipar tesori.

Teco mi strinsi, è vero,

e nelle braccia tue provai, non nego,

in coppa di delizie un mar d'amore.

Tu per ogni mio senso

hai tentata la strada

per sorprendermi il core, e l'hai sorpreso;

onde l'arbitrio mio

con la catena al collo

mostrava il suo servaggio a' tuoi begl'occhi;

e io del cor incatenato, e stretto

ero prigion andante, e carcer vivo.

Così la patria in foco,

i compagni nell'onde,

la libertate in Libia,

l'anima nel tuo volto

o regina io perdei,

la sorte si stancò ne' casi miei.

Ma da Giove mandato,

Mercurio il glorioso,

interprete de' dèi,

mi sgrida, e mi comanda,

ch'io parta, e non ricusi

del destino gl'inviti,

che chiamano il mio figlio

per volger d'astri incognito, e profondo

all'imperio d'Italia, anzi del mondo.

Ti lascio queste lagrime, e dolente

parto dalle tue rive.

Correrà mia memoria innamorata,

a baciar questa terra,

ove mi raccogliesti;

e dell'anima mia la miglior parte

sarà perpetuo tempio

alla divinità del tuo bel viso.

Navigherà per l'onde

inaufragabilmente

riposto nel mio cor il tuo ritratto.

Verran dentro al mio petto

alla tua deità gli eretti altari

a placar gl'euri, e implacidire i mari.

Consola i tuoi cordogli,

richiama a te la pace,

manda il duolo in oblio.

E da me prendi omai l'estremo a dio.

DIDONE

Dunque sordo a miei preghi,

cieco alle mie ruine,

anzi delle mie ceneri infelici

dissipator feroce,

del mio nascente regno

sovversor dispettoso

l'imperio di Cartagine rifiuti?

E per gl'ondosi campi

vai cercando gli scettri, e le corone,

e stimi onor l'assassinar Didone?

E io fui così stolta,

ch'ad un profugo errante

avanzato alle fiamme, anzi da quelle

rifiutato, aborrito, come indegno

di macular, di profanar col sangue,

le sacre mura della patria ardente,

diedi ospizio, e soccorso, e don gli fei

del mio decoro, e de' tesori miei?

Io, io, fui sì crudele

contro l'ossa innocenti,

del sepolto marito,

ch'a te mendico ignoto,

fuoruscito, e ramingo il cor piegai,

e da te la mia morte cominciai.

Giove ti dà consiglio

di tradir l'innocente?

Mercurio t'ammonisce

a lacerar la fede?

Un dio ti persuade

perfidie, e fellonie?

Il ciel qui ti condusse

a calcar i diademi all'onor mio,

per comandarti poi

con oltraggiose, e barbare ragioni,

che qui disonorata or m'abbandoni?

Scellerato troian de' tuoi misfatti

osi imputar, e incolpar il cielo?

Sacrilego tiranno,

mostro d'insidie, adopri

religioso manto

per mascherar di volto pio l'inganno,

e mentre le tue frodi addossi al fato

metti il manto di Giove al tuo peccato?

Menti bugiardo, menti:

scopro l'insidie, e riconosco l'arti.

Ottimo è il ciel, son pessimi i mortali,

la deità non autorizza i mali.

Vanne, vattene pur, stanca, e aggrava

delle balene i ventri

con le tue navi; e sforza

la pietà degli dèi

a incrudelir contro il tuo capo; e vada

a cader tra ruine

delle tue colpe insanguinato il fine.

Ti sprezzi ogni memoria,

l'oblio ti vilipenda;

per spavento de' tempi,

per terrore de' secoli venturi

resti il tuo nome; e per racchiuder tutte

l'empie brutture in una voce rea

sol si pronunci, Enea.

E poiché nulla curi i regni miei,

va' cercando nei mari Italia: oh dio,

cerchi regni per l'onde, e qui tu lasci

nel mar delle mie lagrime la fede

del vero amore, e il regno della fede.

Sfondo schermo ()

 

Vanne, ch'io qui delibero    

chiuder le luci languide,

finir l'angosce, e i gemiti.

Venga la morte squallida,

segni il punto al periodo

di mie giornate flebili,

e la parca terribile

con la fatal sua forbice

recida il filo tenue

della mia vita debole.

Qui chiudo gl'occhi miseri

della luce vitale ai dolci rai;

ingrato Enea, non gli aprirò più mai.

S

Sfondo schermo () ()

 
Qui Didon tramortisce.

Enea ->

 

Scena ottava

Sicheo in ombra, Didone tramortita.

<- Sicheo

 

SICHEO

Queste sono l'esequie, e le memorie,  

che tu celebri a me, donna impudica?

Son questi i funerali,

in cui pietà, religion risplende?

Così sul marmo del sepolcro mio

scrivi infamie alle ceneri gelate,

stampi obbrobri su l'ossa

dell'innocente tuo spento marito?

A sozzure sì enormi,

a sì laide brutture

precipita, e ruina

il titolo di moglie, e di regina?

Prendi uno specchio, e guarda

di te stessa l'imago,

e trema di spavento

al simulacro orrendo

della tua colpa infame,

mira la tua coscienza,

e troverai là dentro

il misfatto, e 'l flagello,

che la ragione, e l'anima diventa

carnefice del corpo,

e con macello interno

i colpevoli sensi uccide, e sbrana.

Lacera pur te stessa

con le torture de' tuoi propri falli.

A chi vive nel mondo

una morte sovrasta,

ma per castigo tuo consenta il cielo

moltiplicati generi d'angosce

alla tua morte rinascente, e in tanto

il tuo sangue, e 'l tuo pianto

eternamente sia

bagno, e bevanda alla vendetta mia.

 
Didon rivenuta parte.

Didone, Sicheo ->

 

Scena nona

Tre Dame di corte.

tre dame di corte

 

PRIMA

Enea rivolto ha 'l piede  

da queste spiagge apriche;

donna, che in uom pon fede

perde le sue fatiche,

ché son più vani i cor de' cavalieri,

che le piume non son de' lor cimieri.

SECONDA

Però se ingegno avremo

nell'amoroso tresco,

consolate vivremo

sempre di fresco in fresco;

bisogna variar disegno, e volo,

perché fa troppa nausea un cibo solo.

TERZA

Fedeltate, e costanza

son belle da contarsi,

ma per porle in usanza

son mostri da scamparsi.

È ben pazza colei, che s'innamora,

se in un solo pensier sta più d'un'ora.

tre dame di corte ->

 

Scena decima

Iarba, Mercurio.

Iarba, Mercurio

 

IARBA

O che vita consolata,  

o che mondo ben composto,

mangiar stelle in insalata,

e 'l zodiaco aver arrosto,

così la complession ben sì mantiene,

né si può dubitar di mal di rene.

Deh vita mia sentite,

non ve n'andate ancora,

Amor per voi m'accora,

e mette fuor de' gangheri il mio petto;

sapete pur, ch'io spando

lagrime per le nari, e per li orecchi,

e l'ombelico mio non può lavarsi

nell'onda dell'oblio,

sapete ch'io son quello,

che per farvi l'amore,

cavalco alla ridossa un mongibello,

o bell'ore, o chiar'ore,

o bene mio squartato

deh consolate il vostro innamorato,

che se mi siete cruda

il ciel vi metta ignuda

in arbitrio, e in braccio

all'ebbro popolaccio,

e vi faccia mostrar al mondo tutto,

quanto il cielo vi diè di bello, e brutto.

MERCURIO

Ecco Iarba impazzito.

O natura creata

ai casi destinata.

O caduci mortali

calamite de' mali,

vo' sanar la pazzia, ma non l'amore

di questo infermo core;

vuò che saggio ritorni,

ma non si scordi mai

dell'amata Didone i dolci rai.

IARBA

Ma, che panni son questi,

che novità ved'io?

Ohimè da quali abissi

l'intelletto risorge.

Cilenio a te prostrato

adoro la tua man, la tua virtute.

O somma deità, che tutto puoi,

il mio genio s'atterra ai piedi tuoi.

MERCURIO

Vivi felice Iarba;

l'adorata da te bella regina,

così il cielo permette,

fatto ha l'influsso reo l'ultime prove,

or il ciel sovra te delizie piove.

 

IARBA

O benefico dio,  

o dator delle grazie, e de' favori,

felicità mi doni,

che soprafà

l'umanità;

chi più lieto di me nel mondo sia,

se Didon finalmente sarà mia.

Ritornello

 

O secreti profondi,

non arrivati dal pensiero umano;

per contemplarli

forza non ha

l'umanità;

chi più lieto di me nel mondo sia,

se Didon finalmente sarà mia.

Iarba, Mercurio ->

Ritornello
 

Scena undicesima

Didone.

Didone

 

 

Porgetemi la spada    

del semideo troiano.

Ritiratevi tutte, o fide ancelle;

appartatevi, o servi;

io regina, io Didone?

Né Didon, né regina

io son più, ma un portento

di sorte disperata, e di tormento;

vilipesa dai vivi,

minacciata dai morti,

ludibrio uguale agl'uomini, e all'ombre.

Pur troppo io t'ho tradito,

o infelice marito;

pur troppo da miei falli

la dignità real resta macchiata.

Disonorata adunque,

come respiro, come

movo il piè, movo il capo?

Anima mia sei dunque un'alma infame,

se presti il tuo vigore

a chi non ha più onore;

m'additeranno i sudditi per vile

concubina di Enea;

mormoreran le genti

la mia dissolutezza.

Ma se fosser pur anco

le genti senza lingua,

le penne senza inchiostri,

muta la fama, e i secoli venturi

senza notizia degli obbrobri miei,

basta la mia coscienza,

che sempre alza i patiboli al mio fallo.

Ho soddisfatto al senso,

alla ragione si soddisfi ancora;

e se me stessa offesi,

or vendico me stessa.

Ferro passami il core,

e se trovi nel mezzo al core istesso

del tuo padrone il nome

no 'l punger, no 'l offender, ma ferisci

il mio cor solo, e nella strage mia

sgorghi il sangue, esca il fiato,

resti ogni membro lacerato, e offeso,

ma il bel nome d'Enea,

per cui finir convengo i giorni afflitti

vada impunito pur de' suoi delitti.

Cartagine ti lascio.

Spada vanne coll'elsa e 'l pomo in terra,

e nel giudizio della morte mia

chiama ogn'ombra infernal fuor degli abissi.

E tu punta cortese

svena l'angosce mie,

finisci i miei tormenti,

manda il mio spirto al tenebroso rio

empio Enea, cara luce, io moro, a dio.

S

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Fogli partitura

 
Qui Didone vuol ferirsi, e vi sopraggiunge Iarba, che ne la impedisce.
 

Scena dodicesima

Iarba, Didone.

<- Iarba

 

IARBA

O dèi, che veggio? o dèi, questi non sono  

gl'esempi, e gl'argomenti,

onde gl'uomini frali

vi credono immortali.

Vesta, Giunon, Diana,

la vostra eternitade è certamente

titolo morto, e favola dipinta,

se la dèa delle dèe rimane estinta.

Didone? estinta giaci? al tuo bel viso

consacrerò piangendo

tarde lusinghe, e intempestivi baci.

Inginocchiati, o core,

abbassatevi, o labra,

rapisca il vostro disperato duolo

dall'altar della morte un bacio solo.

No, che se viva fosse

mi negherebbe la mia Dido i baci;

e non debb'io, se ben amor m'ingombra

noiarla in spirto, e fastidirla in ombra.

Esangue anima mia, morta mia vita,

chi ti chiuse quegl'occhi,

che m'apersero il seno?

Ohimè vidi ben'io, luci mie belle,

a tramontar non a morir le stelle.

Perdonami destino,

i tuoi celesti aspetti impazienti

d'aver in terra un paragon sì bello

dubitando che il mondo un dì l'adori,

l'hanno estinto infelice;

così da sua superbia il ciel commosso

a puntigliar con la natura nostra

per ragione di stato

sì bel corpo ha svenato.

Ma senza te

non sia mai ver,

ch'io viva un dì;

ciò, che non puote amor, possa la morte.

Pallida mia,

squallida bella,

gradisci il mio morire;

e s'odiasti già la vita mia,

deh togli in pace almeno,

idolo mio spirato

quest'ultima amarissima agonia.

 
Iarba si vuol ferire, ma s'arresta, vedendo rivenir Didone.
 

DIDONE

Iarba deponi il ferro, e lieto vivi.  

Da me ricevi in dono

quel che tu mi donasti,

la vita a me salvasti,

la salute, e la vita a te ridono;

finché vedrò di questa luce i giri

agl'obblighi vivrò più, ch'ai respiri.

Ma dovria la fortuna, o la natura,

per provveder d'altari i tuoi favori

moltiplicarmi in questo seno i cori.

A te spiro, a te vivo,

e per giusta ragione

d'altri non sia, se non è tua, Didone.

IARBA

Santa pietà del cielo

a qual felicità Iarba riservi?

Occhi miei, che stancaste lagrimando

i pianti, e l'amarezze,

ora diluviate

del cor mio l'ineffabili dolcezze.

E è vero, o bellissima regina,

che pietà senti, e m'ami?

 

DIDONE

Iarba preservator della mia vita,  

re, vero amante, e fido amico, e mio,

gl'andati miei rigor mando in oblio,

d'averti offeso è già Didon pentita.

Ritornello

 

Le cortesie dal tuo gran genio uscite

chiaman da me la viva ricompensa;

brama l'anima mia d'esser immensa,

per capir gratitudini infinite.

Ritornello

 

Sorda a' lamenti, a' preghi tuoi sdegnosa

gradir non volli il tuo verace affetto,

ora disarmo d'ogni asprezza il petto,

eccomi a' tuoi voleri ancella, e sposa.

Ritornello

IARBA

Didon tu preservasti i miei respiri,

la vita mia di tua pietade è dono,

e dolce ti concedono perdono

i miei già disperati aspri sospiri.

Alle tue cortesie dilato il core,

e l'alma mia negl'obblighi trasformo,

e a' tuoi pensier, e a tuoi desir conformo

la vita, e i sensi in servitù d'amore.

E poiché sei de' miei martir pietosa,

e le morte speranze in me ravivi,

qui in presenza degl'uomini, e dei divi

per mia regina ti ricevo, e sposa.

 
[Aria con tutti gli strumenti]

 N 

 

Son le tue leggi, Amore,  

troppo ignote, e profonde,

nel tuo martir maggiore

la gioia si nasconde.

Dalle perdite sai cavar la palma,

dalle procelle tue nasce la calma.

Fogli partitura

Ritornello

DIDONE

L'àncora della speme,

de' pianti il mare insano

qualor ondeggia, e freme,

non mai si getta invano;

ch'Amor nel mezzo ai casi disperati

i porti più felici ha fabbricati.

Ritornello

TUTTI DUE

Godiam dunque godiamo

sereni i dì, e ridenti,

né pur pronunciamo

il nome de' tormenti.

DIDONE

Iarba son tua.

IARBA

Didon t'ho al cor scolpita.

DIDONE

Ben...

IARBA

Gioia...

DIDONE

Cor...

IARBA

Speranza unica, e vita.

 

Fine (Atto terzo)

Prologo Atto primo Atto secondo Atto terzo
Didone
 

Qual violenza interna

Didone
<- Anna

Anna sorella, e segretaria fida

Così tu Didon consenti

Didone, Anna ->
Iarba, due Damigelle
 

Pur t'ho colta, assassina

Iarba, due Damigelle ->
<- cacciatori

[La caccia]

cacciatori
<- Didone, Enea
cacciatori
Didone, Enea ->
 
cacciatori ->
Giove
 

Mercurio vedi tu, come caduto

Giove ->

(Mercurio scende dal cielo)

<- Mercurio
Mercurio
<- Enea

Enea, che fai, che pensi? Enea tu dormi?

[Aria]

Enea
Mercurio ->
Enea
<- troiani, Acate

Acate, Ilionèo, compagni, amici

Cheti, o là, che dic'io?

Enea
troiani, Acate ->
Enea
<- Didone

Perfido, misleale

(Didon tramortisce)

Didone
Enea ->
Didone
<- Sicheo

(in ombra)

Queste sono l'esequie, e le memorie

(Didon rivenuta parte)

Didone, Sicheo ->
tre dame di corte
 
Tre dame di corte
Enea rivolto ha 'l piede
tre dame di corte ->
Iarba, Mercurio
 

O che vita consolata

Iarba, Mercurio ->
Didone
 

(Didone vuol ferirsi, e vi sopragiunge Iarba, che ne la impedisce)

(Didone sviene)

Didone
<- Iarba

O dèi, che veggio?

(Iarba si vuol ferire, ma s'arresta, vedendo rivenir Didone)

Iarba deponi il ferro, e lieto vivi

[Aria con tutti gli strumenti]

 
Scena prima Scena seconda Scena terza Scena quarta Scena quinta Scena sesta Scena settima Scena ottava Scena nona Scena decima Scena undicesima Scena dodicesima
[Sinfonia] [Arietta] [Coro] [Coro] [Coro] [Combattimento] [Aria] [Aria] [Passata dell'armata] [Aria] [Aria] [Aria] [Sinfonia navale] [Aria] [La caccia] [Aria] [Aria con tutti gli strumenti]
Prologo Atto primo Atto secondo

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