Scena prima |
Didone, Anna. |
Didone |
DIDONE |
qual forza sconosciuta mi fa tremar le viscere innocenti, e mi toglie, e mi ruba di me stessa il dominio, e mette in schiavitù l'anima mia? Qual mano, o dio, qual mano soavemente cruda, dolcemente superba con coltello invisibile, e fatale senza avermi pietà svena il cor mio, e mentre me lo svena vuol ch'al dispetto della morte io viva? Chi queste membra afflitte disabitò di spirti, e di calori? Chi mi sforza a singulti, chi spreme, chi distilla dall'anima infiammata acque di pianto? Chi al cor mio diede l'ali, ond'ei mi vola fuor del petto, e si ferma dopo corsi raminghi in un bel viso, son in terra, in abisso, o in paradiso? | |
Qui sopraggiunge Anna. | <- Anna | |
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Anna sorella, e segretaria fida custode dell'archivio più riposto de' miei pensier più cupi, e più profondi, ecco t'apro le porte, ti riveli i secreti degl'arcani dell'anima traffitta, piangi i martir d'una sorella afflitta. Quel troiano signor, quel cavaliero, che poco dianzi con armati legni reliquie miserabili dell'onde, delle tempeste avanzo, è qui venuto, m'ha ferito nel core, Anna pietà, la tua Didon si more. Mi circonda la mente l'orribile sepolcro del mio già morto sposo, d'amor l'acuto dardo trotta ne' miei pensieri la falce, che recise il mio marito. Temo se m'innamoro oltraggiar quelle ceneri gelate. Mi par di far dispetto a quell'ossa, se corro ad altri amori. Il rispetto d'un morto il desire d'un vivo fan guerra nel mio petto; d'un sole tramontato mi fastidiscon l'ombre; d'un sole a mezzo giorno m'infiamma il dolce raggio. Con un oggetto spento mi seppellisco viva, ma con un vivo oggetto io risorgo, e festeggio, l'uno mi spira orror, l'altro diletto, l'un mi chiama alla tomba, e l'altro al letto. Anna però tu senti, che un'arteria frequente, un polso inordinato le mie febbri amorose a te palesa. Mira i miei precipiti, ripensa a miei perigli, l'oracolo attend'io de' tuoi consigli. | |
ANNA | ||
Ritornello | ||
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S'è sepolto il tuo marito, più non sente ingiurie, o torti, son di mente privi i morti, niente sa chi è seppellito; fa' ch'ogni dubbio dal tuo cor disgombre trastulla il corpo, e non pensar all'ombre. | |
Ritornello | ||
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Giovanezza senza amori è una notte senza stelle, degne son tue guance belle d'aver servi mille cori, vada la castità co' suoi compassi a misurar le voglie ai freddi sassi. | |
Ritornello | ||
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Sangue vivo, età fiorita mal s'accorda col digiuno, lascia omai l'abito bruno, se il destino, e amor t'invita. Son morte al mondo le giornate triste, la vita solo nel goder consiste. | |
Ritornello | ||
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Verde incalmo in bella pianta agghiacciato talor more, non però l'agricoltore la radice viva spianta, ma con inserti novi apre gl'umori, e più odorosi rivagheggia i fiori. | |
Ritornello | ||
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novo innesto peregrino nel segreto tuo giardino, che i tuoi fior non sian mai spenti. Opra, sorella, tu quel ch'io favello, e apri gl'orti al giardinier novello. Alla caccia andar potrai, e nel sen d'un cavo speco con l'eroe troiano teco trasformar in gioie i guai. Vanne, che 'l ciel t'assista, e pro ti faccia, se gioverà l'esser andata a caccia. | |
DIDONE |
Ministri, e servi miei ordinate i destrieri, apparecchiate i cani, si circondino i boschi, s'attraversino i colli, vadansi a ritrovar covili, e tane. Su, castigate gli ozi, rinunciate gl'indugi, dimostri questo giorno della Tiria virtù gl'usati segni. Disubbidiente al moto agl'inciampi s'estenda, e non ai passi. Gelo, e foco in un punto, la dubbia volontà raffrena, e spinge: batte l'alma sul core, e stride, e cerca, e pur non sa perché soccorso, e pace. Vado, o non vado, o dèi, scorgete a buon cammino i passi miei. | Didone, Anna -> |
Scena seconda |
Iarba, due Damigelle. |
Iarba, due Damigelle |
IARBA |
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PRIMA DAMIGELLA |
Alle dame di corte, serve della regina? | |
IARBA |
La tua vigliaccheria, ch'è sopraffina, che mi pone in dispreggio, merita questo, e peggio. | |
SECONDA DAMIGELLA |
Questo è l'amor, che porti, o re fellone, alla nostra Didone? | |
IARBA |
Che dici di Didone? Didon, che nome è questo? | |
PRIMA DAMIGELLA |
Or t'è uscito di mente il nome amato, pazzarel smemorato? | |
IARBA |
Io non so di Didone, anzi pur so, ch'ella il sen mi piagò. Ma guarda quante mosche per quest'aria battono la canaria. | |
SECONDA DAMIGELLA |
È il tuo cervel che vola, e batte con le piume una chiaccona. | |
IARBA |
Care le mie giovenche dolci, e belle, amate pecorelle, se il ciel vi guardi d'ogni mal le groppe, dite se queste sono spade, o coppe. | |
PRIMA DAMIGELLA |
E che ti par sorella di questo sì elegante, e caro pazzo? | |
SECONDA DAMIGELLA |
In quanto a me direi, se contenta tu sei, che 'l facessimo entrar solo soletto nel nostro gabinetto, per servirsene, sai: tempo perduto non si acquista mai. | |
PRIMA DAMIGELLA |
Pazzarello amoroso, forsennato vezzoso vuoi tu venir con noi? | |
IARBA |
Verrò, ma due son troppo: io non vorrei por fra due rompicolli i casi miei. | |
PRIMA DAMIGELLA |
Vientene meco pur. | |
SECONDA DAMIGELLA |
Vientene meco omai. | |
IARBA |
Ma giocamo alla mora con chi debbo venire. | |
TUTTI TRE |
Cinque, sett', otto, nove. | |
IARBA |
Ohimè, che piove. Deh non vedete voi, che m'entrano le nuvole nel capo? Copritemi sorelle, guardatemi da rischi. | |
PRIMA DAMIGELLA |
O questa ci vorrebbe, che fossimo trovate in questo impaccio col bambozzo nel sen, col matto in braccio. | |
IARBA |
O mirate, mirate quante spade, e celate formano il rompicollo alle brigate. Osservate ignoranza, che un asino cavalca, e alla virtù, ch'è a piedi dà la fuga, e la calca; ma nel mezzo mirate, o vista rea, Didon, ch'abbraccia il fortunato Enea. | |
SECONDA DAMIGELLA |
Infelice ei vaneggia, e nella mente insana l'ostinato fantasma ancor passeggia. | |
IARBA |
Sapete voi gli avvisi di Parnaso? Venere è uscita a trastullarsi al fresco, e ha incontrato per l'amene strade diversi beccafichi, che l'han confusa in inviluppi e intrichi; onde non v'è dubitazione alcuna, tosto vedrem l'eclissi della luna. | |
PRIMA DAMIGELLA |
O bel pensiero, o curioso avviso. | |
IARBA |
Guardate, deh guardate con quanta gravità riposato si sta con piedi pari il censor del paese, il gran fiuta popone modenese, che sopra del quantunque, e sopra il cui fa del censor delle faccende altrui, e dice questo certo io non lo voglio, quest'altro non mi piace, e questo non l'ammetto in alcun modo, ch'io non so poetar, se non al sodo: e aggiunge il sputa tondo, cotesto io no 'l vorrei, né quest'altro giammai l'apponerei; e non s'accorge il povero meschino, che il pesce grosso si mangia il piccino. | |
SECONDA DAMIGELLA |
Orsù finiamla, pazzerel mio caro, vogliam partir di qua? | |
IARBA |
Ma dove starò meglio, o mie zitelle in questi caldi estivi, che tra gli ameni colli, de' vostri seni amorosetti, e molli? | |
PRIMA DAMIGELLA |
Andiamo omai, che 'l ballo si finisce. | |
IARBA |
Al ballo eccomi pronto. | Iarba, due Damigelle -> |
Scena terza |
Cacciatori. |
<- cacciatori |
[La caccia] | ||
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Tu tu tu al cingiale, al cingiale, ve' Melampo, che l'afferra, ve' Licisca, che l'atterra, dal destrier scendiamo a' piedi, siamli addosso con gli spiedi; or la lena, e 'l braccio vale tu tu tu al cingiale, al cingiale, ve' che gridi orrendi, e strani, come fan spavento ai cani, da quel dente incrudelito già Tigrin resta ferito, né si move a pena più al cingiale, al cingiale tu tu tu. Ve' che ruote infuriate, ve' che zanne insanguinate, par che morte avventi, e scocchi dalla rabbia di quegl'occhi, com'è fiero, com'è forte tu tu tu al cingial date la morte. Già piagato in mille bande con il sangue l'alma spande, ecco il piè gli cade sotto, ecco a morte egli è condotto, suona suona il corno acuto il cingial tu tu tu langue caduto. Ma qual orrida tempesta strage annuncia alla foresta; qual ruine avranno i campi, odi i tuoni, e vedi i lampi, già da monti verran torrenti, e fiumi, il dì s'annotta, e 'l sol ha spenti i lumi. Suona il corno, e diamo volta qui per questa selva folta; vedi il fulmine, che straccia a quell'arbore le braccia; s'impetuoso turbo urta le selve, e fa negl'antri inorridir le belve. | |
Qui passa la Regina con Enea. | <- Didone, Enea Didone, Enea -> | |
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Vedi vedi la regina col troian, che s'avvicina là del monte al cupo grembo, per scappar sì fiero nembo; or per i men difficili sentieri salviamci a tutto corso, o cavalieri. | cacciatori -> |
Scena quarta |
Giove, Mercurio. |
Giove |
Recitativo | ||
GIOVE |
da' suoi titoli illustri, e immortali il valoroso Enea giaccia perduto, scopo infelice agl'amorosi strali? Della sua fama eccelsa il grido è muto, la di lui gloria ha indebolite l'ali. Egli è notte a sé stesso, e sue bell'opre disonorata nube involve, e copre. Vola a lui, di', ch'ei parta, e non ritardi con sozzi indugi il corso alle sue stelle, scacci da sé i pensier vili, e codardi, e faccia alla ragion sue voglie ancelle; fugga il velen degl'amorosi sguardi, scampi il malor delle sembianze belle, vinca sé stesso, e parta, e i propri errori sconti coi pentimenti, e coi rossori. Di bella donna un lusinghiero volto a seppellire i scettri suoi lo guida, e in laberinto femminile involto fa' che l'ozio, e l'oblio sue glorie ancida, vanne, e guarisci in lui l'arbitrio stolto, ammonisci l'errante, anzi lo sgrida. L'uom, che sopra sé stesso non ha forza, tutti del suo decoro i lumi ammorza. | |
Giove -> | ||
Qui Mercurio scende dal cielo. | <- Mercurio | |
Scena quinta |
Mercurio, Enea. |
<- Enea |
MERCURIO |
Enea, che fai, che pensi? Enea tu dormi? L'incenerita Troia omai ti desti l'imperatrice Italia i tuoni appresti, onde abbian fine i tuoi letarghi enormi. Giove dio delle cose a te mi manda perch'io sgridi i tuoi falli, i tuoi furori, alla mensa degli ozi, e degli amori hai trangoiata una mortal bevanda. Lascivia folle, e smoderato affetto effeminaro il brando tuo feroce. Tu non rispondi no? scampa tua voce a seppellirsi entro all'avel del petto. Tu quel troiano, tu quel pio, quel forte, che di gloria alla cote aguzzò l'armi, che fu decoro ai bronzi, e pompa ai marmi, e per trionfo incatenò la morte. Or imbelle guerriero, e drudo vile le libidini stanchi, e 'l nome guasti, e obliati i militar contrasti soffri in brutto sudor giogo servile. Ascanio il tuo figliuol, che in sé racchiude de' posteri gli scettri, e le corone, fraudato oggi vien per tua cagione, e l'error tuo le di lui glorie esclude. Non affetto di padre, o di monarca ti chiama a comandar province, e mondi; dai ciechi abissi, e dagli orror profondi a luminoso porto or meco varca. Arma il cor di fortezza, e ti rammenta, ch'altrove il ciel l'altezze tue destina, tronca il filo agli indugi, alta ruina già ti s'appresta, se tua fuga è lenta. | |
[Aria] | ||
Ritornello | ||
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Vanne in Italia, ch'a te sol fa voti, per partorire alla tua prole i regni; la terra, e 'l ciel saranno angusti segni, le palme per capir de' tuoi nipoti. | |
Ritornello | ||
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Or vigoroso movi e 'l core, e 'l piede, e da ceppi l'arbitrio discatena; del vano lagrimar chiudi la vena, così t'impon chi 'l tutto intende, e vede. | Mercurio -> |
Scena sesta |
Enea, coro di Troiani, Acate. |
<- troiani, Acate |
Recitativo | ||
ENEA |
Acate, Ilionèo, compagni, amici, ohimè qual vision l'alma m'abbaglia? Qual scalpello divin nel cor m'intaglia sentenze eterne, e de' miei falli ultrici? Il ciel fulminator de' petti rei chiama dal core i pentimenti miei. Acceleriam l'andata, e taciturni lasciam di Libia i minacciati lidi, ci prometton le stelle alti sussidi, su via dal porto usciam cheti, e notturni, sicché il rumor non giunga alla magione dell'infelice mia dolce Didone. Fierissimo contrasto, aspro conflitto; Amor m'induce ai pianti a viva forza, onor trova le lagrime, e le sforza a soffocarsi in mezzo il core afflitto. Son pianta combattuta da due venti, e vengon da due inferni i miei tormenti. Me la pietà di padre, e verso i divi religione or chiama alla partita, ma Didone il mio core, ahi la mia vita come abbandono in lagrimosi rivi? In fiamme già lasciai la patria antica, lascio in acque di pianti ora l'amica. | |
Ritornello | ||
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Peregrin moriente il piede movo, ma vivace amator il core ho fermo, dal voler degli dèi non trovo schermo, e in ubbidire al ciel l'inferno provo, se svegliata vedrai lunge mie vele, bella Didon non mi chiamar crudele. Perché fisso destin colà mi vuole, ove spargendo bellicosi i semi, corrà frutti di scettri, e diademi la mia del ciel predestinata prole. Già il vento spira, il ciel mi chiama, o Dido, a dio parto, e veleggio ad altro lido... | |
CORO DI TROIANI |
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ACATE |
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ENEA |
Così v'impongo, andate, né palesate del partire un cenno, ch'io sarò tosto a voi. | troiani, Acate -> |
Scena settima |
Didone, Enea. |
<- Didone |
DIDONE |
così la fuga tenti, e ordisci i tradimenti? E perché non lo sappia, empio, volesti sceglier la notte oscura, seppellirne la fama, far muto il mondo, e trar le lingue ai venti? Sai tu chi me l'ha detto? Me l'ha detto l'inferno, che per empirti di perfidia il petto ha privato sé stesso delle furie, e de' mostri: tratti così gli abbracciamenti nostri? Abbracciamenti, oh dio, come volesti, oh cielo di pestilenze influitor maligno umanare l'aspetto ad una serpe, solo perch'io me la covassi in seno? Diedi la vita in preda, diedi l'onor in mano all'assassin delle fortune mie. Enea, spietato Enea, tu mi rendi così con cambio ingiusto per dolcezze veleni, e svenando la fede, e la ragione la morte affretti della tua Didone. Ti fo libero dono dell'immensa Cartagine, che sorge, e con le torri eccelse ha vinta l'aria, e ingelosito il cielo. Tributari vassalli dell'oro, e della fede ti saran tutti i miei: l'Africa tutta produrrà trionfi, germoglierà trofei delle tue glorie al carro, e finalmente sarà l'anima mia alla bella, e divina tramontana del tuo viso gentile calamita servile. Ecco abbasso a' tuoi piedi il nome di regina: umilio al tuo cospetto questa corona mia. Atterro alle tue piante la porpora, e lo scettro; piego alla tua grandezza i singulti, i pensieri, e prostro a te davanti, e le ginocchia, e 'l viso, e se sotto la terra, e sotto al centro ha sito l'umiltade, o casa il pianto colà giù profondata mando agli orecchi tuoi sol questo prego lagrimoso, e pio. Non mi tradir, non mi lasciar, ben mio. | |
ENEA |
Regina, omai rasciuga quella pioggia d'argento, che dalle stelle tue sul cor mi cade. Regina, omai raccogli le preziose perle, i tepidi diamanti di questi tuoi mal consigliati pianti. Non val la mia fortuna, non costa la mia vita di così ricche lagrime una stilla. Deh bellissima Dido non siano i tuoi dolori prodighi sì nel dissipar tesori. Teco mi strinsi, è vero, e nelle braccia tue provai, non nego, in coppa di delizie un mar d'amore. Tu per ogni mio senso hai tentata la strada per sorprendermi il core, e l'hai sorpreso; onde l'arbitrio mio con la catena al collo mostrava il suo servaggio a' tuoi begl'occhi; e io del cor incatenato, e stretto ero prigion andante, e carcer vivo. Così la patria in foco, i compagni nell'onde, la libertate in Libia, l'anima nel tuo volto o regina io perdei, la sorte si stancò ne' casi miei. Ma da Giove mandato, Mercurio il glorioso, interprete de' dèi, mi sgrida, e mi comanda, ch'io parta, e non ricusi del destino gl'inviti, che chiamano il mio figlio per volger d'astri incognito, e profondo all'imperio d'Italia, anzi del mondo. Ti lascio queste lagrime, e dolente parto dalle tue rive. Correrà mia memoria innamorata, a baciar questa terra, ove mi raccogliesti; e dell'anima mia la miglior parte sarà perpetuo tempio alla divinità del tuo bel viso. Navigherà per l'onde inaufragabilmente riposto nel mio cor il tuo ritratto. Verran dentro al mio petto alla tua deità gli eretti altari a placar gl'euri, e implacidire i mari. Consola i tuoi cordogli, richiama a te la pace, manda il duolo in oblio. E da me prendi omai l'estremo a dio. | |
DIDONE |
Dunque sordo a miei preghi, cieco alle mie ruine, anzi delle mie ceneri infelici dissipator feroce, del mio nascente regno sovversor dispettoso l'imperio di Cartagine rifiuti? E per gl'ondosi campi vai cercando gli scettri, e le corone, e stimi onor l'assassinar Didone? E io fui così stolta, ch'ad un profugo errante avanzato alle fiamme, anzi da quelle rifiutato, aborrito, come indegno di macular, di profanar col sangue, le sacre mura della patria ardente, diedi ospizio, e soccorso, e don gli fei del mio decoro, e de' tesori miei? Io, io, fui sì crudele contro l'ossa innocenti, del sepolto marito, ch'a te mendico ignoto, fuoruscito, e ramingo il cor piegai, e da te la mia morte cominciai. Giove ti dà consiglio di tradir l'innocente? Mercurio t'ammonisce a lacerar la fede? Un dio ti persuade perfidie, e fellonie? Il ciel qui ti condusse a calcar i diademi all'onor mio, per comandarti poi con oltraggiose, e barbare ragioni, che qui disonorata or m'abbandoni? Scellerato troian de' tuoi misfatti osi imputar, e incolpar il cielo? Sacrilego tiranno, mostro d'insidie, adopri religioso manto per mascherar di volto pio l'inganno, e mentre le tue frodi addossi al fato metti il manto di Giove al tuo peccato? Menti bugiardo, menti: scopro l'insidie, e riconosco l'arti. Ottimo è il ciel, son pessimi i mortali, la deità non autorizza i mali. Vanne, vattene pur, stanca, e aggrava delle balene i ventri con le tue navi; e sforza la pietà degli dèi a incrudelir contro il tuo capo; e vada a cader tra ruine delle tue colpe insanguinato il fine. Ti sprezzi ogni memoria, l'oblio ti vilipenda; per spavento de' tempi, per terrore de' secoli venturi resti il tuo nome; e per racchiuder tutte l'empie brutture in una voce rea sol si pronunci, Enea. E poiché nulla curi i regni miei, va' cercando nei mari Italia: oh dio, cerchi regni per l'onde, e qui tu lasci nel mar delle mie lagrime la fede del vero amore, e il regno della fede. | (♦) |
chiuder le luci languide, finir l'angosce, e i gemiti. Venga la morte squallida, segni il punto al periodo di mie giornate flebili, e la parca terribile con la fatal sua forbice recida il filo tenue della mia vita debole. Qui chiudo gl'occhi miseri della luce vitale ai dolci rai; ingrato Enea, non gli aprirò più mai. | ||
Qui Didon tramortisce. | Enea -> | |
Scena ottava |
Sicheo in ombra, Didone tramortita. |
<- Sicheo |
SICHEO |
Queste sono l'esequie, e le memorie, che tu celebri a me, donna impudica? Son questi i funerali, in cui pietà, religion risplende? Così sul marmo del sepolcro mio scrivi infamie alle ceneri gelate, stampi obbrobri su l'ossa dell'innocente tuo spento marito? A sozzure sì enormi, a sì laide brutture precipita, e ruina il titolo di moglie, e di regina? Prendi uno specchio, e guarda di te stessa l'imago, e trema di spavento al simulacro orrendo della tua colpa infame, mira la tua coscienza, e troverai là dentro il misfatto, e 'l flagello, che la ragione, e l'anima diventa carnefice del corpo, e con macello interno i colpevoli sensi uccide, e sbrana. Lacera pur te stessa con le torture de' tuoi propri falli. A chi vive nel mondo una morte sovrasta, ma per castigo tuo consenta il cielo moltiplicati generi d'angosce alla tua morte rinascente, e in tanto il tuo sangue, e 'l tuo pianto eternamente sia bagno, e bevanda alla vendetta mia. | |
Didon rivenuta parte. | Didone, Sicheo -> | |
Scena nona |
Tre Dame di corte. |
tre dame di corte |
PRIMA |
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SECONDA |
Però se ingegno avremo nell'amoroso tresco, consolate vivremo sempre di fresco in fresco; bisogna variar disegno, e volo, perché fa troppa nausea un cibo solo. | |
TERZA |
Fedeltate, e costanza son belle da contarsi, ma per porle in usanza son mostri da scamparsi. È ben pazza colei, che s'innamora, se in un solo pensier sta più d'un'ora. | tre dame di corte -> |
Scena decima |
Iarba, Mercurio. |
Iarba, Mercurio |
IARBA |
o che mondo ben composto, mangiar stelle in insalata, e 'l zodiaco aver arrosto, così la complession ben sì mantiene, né si può dubitar di mal di rene. Deh vita mia sentite, non ve n'andate ancora, Amor per voi m'accora, e mette fuor de' gangheri il mio petto; sapete pur, ch'io spando lagrime per le nari, e per li orecchi, e l'ombelico mio non può lavarsi nell'onda dell'oblio, sapete ch'io son quello, che per farvi l'amore, cavalco alla ridossa un mongibello, o bell'ore, o chiar'ore, o bene mio squartato deh consolate il vostro innamorato, che se mi siete cruda il ciel vi metta ignuda in arbitrio, e in braccio all'ebbro popolaccio, e vi faccia mostrar al mondo tutto, quanto il cielo vi diè di bello, e brutto. | |
MERCURIO |
Ecco Iarba impazzito. O natura creata ai casi destinata. O caduci mortali calamite de' mali, vo' sanar la pazzia, ma non l'amore di questo infermo core; vuò che saggio ritorni, ma non si scordi mai dell'amata Didone i dolci rai. | |
IARBA |
Ma, che panni son questi, che novità ved'io? Ohimè da quali abissi l'intelletto risorge. Cilenio a te prostrato adoro la tua man, la tua virtute. O somma deità, che tutto puoi, il mio genio s'atterra ai piedi tuoi. | |
MERCURIO |
Vivi felice Iarba; l'adorata da te bella regina, così il cielo permette, fatto ha l'influsso reo l'ultime prove, or il ciel sovra te delizie piove. | |
IARBA | ||
Ritornello | ||
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O secreti profondi, non arrivati dal pensiero umano; per contemplarli forza non ha l'umanità; chi più lieto di me nel mondo sia, se Didon finalmente sarà mia. | Iarba, Mercurio -> |
Ritornello | ||
Scena undicesima |
Didone. |
Didone |
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del semideo troiano. Ritiratevi tutte, o fide ancelle; appartatevi, o servi; io regina, io Didone? Né Didon, né regina io son più, ma un portento di sorte disperata, e di tormento; vilipesa dai vivi, minacciata dai morti, ludibrio uguale agl'uomini, e all'ombre. Pur troppo io t'ho tradito, o infelice marito; pur troppo da miei falli la dignità real resta macchiata. Disonorata adunque, come respiro, come movo il piè, movo il capo? Anima mia sei dunque un'alma infame, se presti il tuo vigore a chi non ha più onore; m'additeranno i sudditi per vile concubina di Enea; mormoreran le genti la mia dissolutezza. Ma se fosser pur anco le genti senza lingua, le penne senza inchiostri, muta la fama, e i secoli venturi senza notizia degli obbrobri miei, basta la mia coscienza, che sempre alza i patiboli al mio fallo. Ho soddisfatto al senso, alla ragione si soddisfi ancora; e se me stessa offesi, or vendico me stessa. Ferro passami il core, e se trovi nel mezzo al core istesso del tuo padrone il nome no 'l punger, no 'l offender, ma ferisci il mio cor solo, e nella strage mia sgorghi il sangue, esca il fiato, resti ogni membro lacerato, e offeso, ma il bel nome d'Enea, per cui finir convengo i giorni afflitti vada impunito pur de' suoi delitti. Cartagine ti lascio. Spada vanne coll'elsa e 'l pomo in terra, e nel giudizio della morte mia chiama ogn'ombra infernal fuor degli abissi. E tu punta cortese svena l'angosce mie, finisci i miei tormenti, manda il mio spirto al tenebroso rio empio Enea, cara luce, io moro, a dio. | |
Qui Didone vuol ferirsi, e vi sopraggiunge Iarba, che ne la impedisce. | ||
Scena dodicesima |
Iarba, Didone. |
<- Iarba |
IARBA |
O dèi, che veggio? o dèi, questi non sono gl'esempi, e gl'argomenti, onde gl'uomini frali vi credono immortali. Vesta, Giunon, Diana, la vostra eternitade è certamente titolo morto, e favola dipinta, se la dèa delle dèe rimane estinta. Didone? estinta giaci? al tuo bel viso consacrerò piangendo tarde lusinghe, e intempestivi baci. Inginocchiati, o core, abbassatevi, o labra, rapisca il vostro disperato duolo dall'altar della morte un bacio solo. No, che se viva fosse mi negherebbe la mia Dido i baci; e non debb'io, se ben amor m'ingombra noiarla in spirto, e fastidirla in ombra. Esangue anima mia, morta mia vita, chi ti chiuse quegl'occhi, che m'apersero il seno? Ohimè vidi ben'io, luci mie belle, a tramontar non a morir le stelle. Perdonami destino, i tuoi celesti aspetti impazienti d'aver in terra un paragon sì bello dubitando che il mondo un dì l'adori, l'hanno estinto infelice; così da sua superbia il ciel commosso a puntigliar con la natura nostra per ragione di stato sì bel corpo ha svenato. Ma senza te non sia mai ver, ch'io viva un dì; ciò, che non puote amor, possa la morte. Pallida mia, squallida bella, gradisci il mio morire; e s'odiasti già la vita mia, deh togli in pace almeno, idolo mio spirato quest'ultima amarissima agonia. | |
Iarba si vuol ferire, ma s'arresta, vedendo rivenir Didone. | ||
DIDONE |
Iarba deponi il ferro, e lieto vivi. Da me ricevi in dono quel che tu mi donasti, la vita a me salvasti, la salute, e la vita a te ridono; finché vedrò di questa luce i giri agl'obblighi vivrò più, ch'ai respiri. Ma dovria la fortuna, o la natura, per provveder d'altari i tuoi favori moltiplicarmi in questo seno i cori. A te spiro, a te vivo, e per giusta ragione d'altri non sia, se non è tua, Didone. | |
IARBA |
Santa pietà del cielo a qual felicità Iarba riservi? Occhi miei, che stancaste lagrimando i pianti, e l'amarezze, ora diluviate del cor mio l'ineffabili dolcezze. E è vero, o bellissima regina, che pietà senti, e m'ami? | |
DIDONE | ||
Ritornello | ||
|
Le cortesie dal tuo gran genio uscite chiaman da me la viva ricompensa; brama l'anima mia d'esser immensa, per capir gratitudini infinite. | |
Ritornello | ||
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Sorda a' lamenti, a' preghi tuoi sdegnosa gradir non volli il tuo verace affetto, ora disarmo d'ogni asprezza il petto, eccomi a' tuoi voleri ancella, e sposa. | |
Ritornello | ||
IARBA Didon tu preservasti i miei respiri, la vita mia di tua pietade è dono, e dolce ti concedono perdono i miei già disperati aspri sospiri. Alle tue cortesie dilato il core, e l'alma mia negl'obblighi trasformo, e a' tuoi pensier, e a tuoi desir conformo la vita, e i sensi in servitù d'amore. E poiché sei de' miei martir pietosa, e le morte speranze in me ravivi, qui in presenza degl'uomini, e dei divi per mia regina ti ricevo, e sposa. | ||
[Aria con tutti gli strumenti] | ||
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Ritornello | ||
DIDONE |
L'àncora della speme, de' pianti il mare insano qualor ondeggia, e freme, non mai si getta invano; ch'Amor nel mezzo ai casi disperati i porti più felici ha fabbricati. | |
Ritornello | ||
TUTTI DUE |
Godiam dunque godiamo sereni i dì, e ridenti, né pur pronunciamo il nome de' tormenti. | |
DIDONE |
Iarba son tua. | |
IARBA |
Didon t'ho al cor scolpita. | |
DIDONE |
Ben... | |
IARBA |
Gioia... | |
DIDONE |
Cor... | |
IARBA |
Speranza unica, e vita. | |
Anna sorella, e segretaria fida
(Mercurio scende dal cielo)
Enea, che fai, che pensi? Enea tu dormi?
Acate, Ilionèo, compagni, amici
(Didon tramortisce)
(in ombra)
Queste sono l'esequie, e le memorie
(Didon rivenuta parte)
(Didone vuol ferirsi, e vi sopragiunge Iarba, che ne la impedisce)
(Didone sviene)
(Iarba si vuol ferire, ma s'arresta, vedendo rivenir Didone)
Iarba deponi il ferro, e lieto vivi
[Aria con tutti gli strumenti]