Non m'è patria l'Olimpo,
né dolce figlia io sono
di quell'acuto, e di quel grave suono,
che lassù dove splende eterna luce,
il moto delle sfere ognor produce.
Io nacqui in Elicona
delle castalie dive
da concenti canori,
del gran Febo la cetra a me fu cuna,
e del suo crin per fasce ebbi gl'allori,
bevvi per latte l'acque d'Ippocrene,
e le custodi mie fur le sirene.
Ora dal bel Permesso,
o città gloriosa,
ch'hai di cristal le mura, in cui vagheggi
la tua beltà, che l'universo ammira,
delle grazie, e d'amor famoso regno,
a ricalcare i tuoi teatri io vegno.
È già varcato un lustro,
che su palchi dorati
in te risplendo, e le mie glorie illustro,
di novi fregi adornano i miei crini
l'alme tue muse, e i cigni tuoi divini.
Io che bambina passeggiai d'Atene
con gemmati coturni in sulle scene,
io che condotta fui,
vinta la Grecia, e doma
da vincitori a Roma,
non vidi alle tue pompe, a' fasti tui,
o pompa, o fasto eguale,
vergine serenissima, e immortale.