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Scena prima |
Giardino. Diomeda, Trasimede. |
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DIOMEDA
Non vibrate,
non scoccate
occhi arcieri in questo seno
più quei strali,
che fatali
sparse Amor del suo veleno.
Chi è ribelle,
chiare stelle,
rigor merta, e i vostri teli:
alma fida
non s'uccida,
non più guerra occhi crudeli.
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TRASIMEDE
Voi piagate,
fulminate
mie bellezze, e m'uccidete,
e poi dite
che languite?
Morto io son, la rea voi siete.
Luci vaghe
non più piaghe,
medicina, e non fierezza.
Son già vinto,
son estinto:
non più guerra, o mia bellezza.
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DIOMEDA |
Che l'omicida io sia
t'inganni, o mio bel sol
mira d'alato stuol la tirannia.
Di bendati,
faretrati,
turba ria, ch'il pianto alletta,
gl'archi tende, e ci saetta.
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TRASIMEDE |
Uscir quei sagittari
dagl'occhi tuoi, crudel,
perché il cor, tuo fedel, gusti gl'amari.
Gl'inviasti,
gl'arrotasti
le saette, acciò ch'io mora.
Egli langue, e pur t'adora.
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Scena seconda |
Ermino, Trasimede, Diomeda. |
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ERMINO |
Sì, sì, trattate là, tra mirti, e fiori
teneri vezzi, e amori,
e lasciate al nemico
spiantar la rocca, egli s'avanza armato.
Già fuor dello steccato
delle mura i tormenti
frettoloso conduce, all'armi, all'armi
signor, signor, non ci lasciar perire,
dalle lusinghe fa passaggio all'ire.
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TRASIMEDE |
La superbia d'Epiro ancor non doma
cerca novi sepolcri in questi campi?
Del nostro ferro fulminata a' lampi
cadrà snervata, e dalla regia chioma
persa la benda il suo tiranno infante
vedrò nel proprio sangue agonizzante.
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DIOMEDA |
Non uscir, dolce vita,
dal cor spronato, e rintuzzar l'orgoglio
del molosso arrabbiato;
precipiti, scagliato
il salitor dalla tua destra, al piano.
Tenti pur, tenti insano
per restar vincitor, le vie del vento,
che vano ogni ardimento,
tal lo promette tua virtute, e 'l sito,
rimanerà schernito.
Già del gelido verno
son vicini gl'algori
già di Borea i furori
cominceranno ad infestar la spiaggia,
onde vedrem, se tosto
il piede non imbarca, e spiega i lini,
gelarsi l'oste ed abissarsi i pini.
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TRASIMEDE |
Campion di tua beltà
volgo alle mura il piè.
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DIOMEDA |
D'amor difeso va,
spera, spera mercé.
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TRASIMEDE |
E quando mai l'avrò?
Peno, mi struggo, e moro,
e non vedo il ristoro,
in braccio dell'angoscia io spirerò.
E quando mai l'avrò?
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DIOMEDA |
L'avrai mio ben sì, sì.
Vivi, sperando, vivi,
frena i desir lascivi,
de' legittimi amplessi aspetta il dì.
L'avrai mio ben sì, sì.
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DIOMEDA E TRASIMEDE |
Sperando me n' vo.
Sperando si va.
Il duol mi scemò
chi speme mi dà.
Sperando si va.
Sperando me n' vo.
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Scena terza |
Ermino, Diomeda. |
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ERMINO |
Chi vive di speranza
empie di vento il ventre,
si pasce d'aria, e mentre
porta digiuno, e asciutto il dente ognora,
conviene che di fame alfin se n' mora.
I vogliono le donne
sì puri, e semplicetti, a fé signora
non pascereste me sol di promesse;
avide di sospiri, e di singulti,
il vostro è un interesse.
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DIOMEDA |
Odi lo sciagurato.
E che faresti tu,
se ti porgesse la tua bella amata
di speme lusinghiera esca melata?
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ERMINO |
Non l'amerei mai più,
che non vorrebbe il cor, egro prudente,
cibo di vanità, condito in niente.
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DIOMEDA |
E come dimmi, e come
stretto da aurate chiome
potresti ritornare in libertà?
Di forti lacci armato Amor se n' va.
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ERMINO |
Che chiome che catene;
voi credete co 'l crin far schiavo il mondo
arbitre de' piaceri, e delle pene.
Le vostre fila d'oro
son d'allacciar augelli anco mal buone
e la vostra bellezza è un'opinione.
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DIOMEDA |
Ti guardi il ciel da crudeltà d'amante,
da donnesco rigore.
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ERMINO |
E te signora mia, da un bell'umore.
S'io fossi Trasimede
il guerrier mio padrone, il tuo diletto,
vorrei lasciarti, ovver goderti in letto.
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Scena quarta |
Diomeda. |
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Questo fanciul scaltrito
fu dalla scelleraggine nutrito.
Dagli infausti sponsali
del defunto Oristeo l'alma atterrita,
pavida d'altri mali,
timida d'altri fati, in dolci modi
del secondo imeneo rifiuta i nodi.
Amo, mi struggo, e però
arde per me il guerriero,
e non vuol, che consoli
me quasi moribonda, e lui penante,
onestade, e timor. Povera amante.
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Dimmi Amor che farò?
Bramosa di gioir
dovrò sempre languir?
Celibe invecchierò?
Dimmi Amor, che farò?
Che mi consigli tu?
Mi serpe in sen l'ardor,
vuol, che viva il timor
vergine in gioventù.
Che mi consigli tu?
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Scena quinta |
Oristeo, Diomeda. |
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ORISTEO |
Ecco sposo aborrito, ecco Oristeo,
la tua pena animata,
la tua cruda adorata.
Ma esercitar del vago suo, t'invita
la lontananza, omai
per Corinta, e per te la frode ordita.
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Divino pennello
l'idea qui del bello
dipinse, formò.
Giammai non creò
natura, sembiante
più vago di te.
In cielo non è
sostanza, figura
illustre, e più pura
di quel, che sei tu.
Non posso, no, più
fissare lo sguardo
nel tuo bel seren:
ti pongo nel sen,
che nido ti fo.
Divino pennello
l'idea qui del bello
dipinse, formò.
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DIOMEDA |
Ferma ferma Rosmino
vo' vagheggiar anch'io
quel ritratto divino.
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ORISTEO |
Oh padrona, sei qui? Prendilo, e mira
una dèa qui dipinta. Ah dispietata
e pur arde per te, per te sospira
il cor, tra fiamma immensa, e disperata.
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DIOMEDA |
S'il pennel non mentì
lineamenti, e colore,
bugiardo adulatore,
l'occhio immortal del dì
non vide la più bella
da che ruota lassù.
Ma da cui quest'effigie avesti tu?
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ORISTEO |
Ti dirò. Dal giardino
se n'uscia Trasimede,
quando tratta l'imago,
che tra l'usbergo, e 'l sen tenea nascosta
alla bocca l'accosta,
e come fosse di quel bello il vago
la bacia, la ribacia, e torna a' baci
baciator instancabile.
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DIOMEDA |
Ohimè taci.
Lassa, lassa son morta,
oh dio chi mi conforta.
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ORISTEO |
Ah tra le gelosie
di quei malnati amori
mori perfida, mori.
Cessato dal baciar l'avida bocca,
del piacer del core ebbra la mano,
nel riporlo nel petto
lasciò cader l'aureo ritratto al piano:
osservo la caduta, e 'l passo affretto
lo raccolgo ammirato
e da quelle vaghezze
anch'io resto trafitto, e innamorato.
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DIOMEDA
Indegno traditor
questa, questa è la fé,
che, testimonio Amore, giurasti a me?
Atterrate le torri,
scardinate le porte
o dell'Epiro bellicose schiere,
qui, qui rabide, e fiere
fulminate le morti
sovra i creduti rei:
non vo' più vita, o dèi.
Purché mora l'infido,
ch'idolatra altro bello
purché pera il ribello,
morirò volentieri. Ah, dalle spade
no 'l salvi, no, questa rival beltade.
Indegno traditor
questa, questa è la fé,
che, testimonio Amore, giurasti a me?
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Scena sesta |
Oristeo. |
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Dalle furie amorose,
flagellata, va' pur. Vorace arpia
ti roda sempre il cor la gelosia
dimmi sposa inclemente
perch'odi un innocente?
Se tra 'l notturno orrore
da miei ferri vassalli, inavveriti
il tuo buon genitore
cadde trafitto, o dio,
di', perché reo son io?
La caligine incolpa,
accusa l'ombra, e maledisci il caso,
che traboccò l'amico a eterno occaso.
Con barbarie inudita
congiurata, ed unita
col vago tuo m'hai morto sì, m''hai morto
ond'a ragion vendicator del torto,
dalla fama avvertito
drizzò il figlio i vessilli a questo lito.
Potrei svenarti in seno
le tue care delizie, e pur non voglio;
aborro i tradimenti, e con mio danno
vuol, ch'io soffra i tuoi vezzi Amor tiranno.
Tiranno Amor, perché
tanto mi strazi, ohimè?
di queste luci incrudelito dio
placabil non ti rende il doppio rio?
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Tu d'Amor
o genitrice,
il mio cor
rendi felice.
Lucida stella,
Venere bella,
ria beltà,
che mi dà,
ribellata, aspri martiri,
fa', che gema a' miei sospiri:
colosso d'oro al tuo gran nume eretto,
ghirlandato di rose, io ti prometto.
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Dèa benigna, e cortese,
che siano state intese
le mie preci comprendo e mi consolo,
di tue pure colombe al destro volo.
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Scena settima |
Corinta, Oristeo. |
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CORINTA
Udite amanti, udite
miracoli d'Amore,
io vivo senza core;
così vivendo io moro,
senza speranza adoro.
Quel crudel, che m'infiammò,
che m'avvinse,
che mi strinse
il mio nome rinnegò.
Udite amanti, udite
miracoli d'Amore,
io vivo senza core;
così vivendo io moro,
senza speranza adoro.
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ORISTEO |
Addio Corinta. Addio,
adempito ho l'inganno. Il tuo ritratto
della rivale il petto
di gelido veleno ha reso infetto.
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CORINTA |
Oh Rosmino gentile,
povera fuggitiva
dalla paterna riva,
originata al male
renderti non può premio all'opra eguale.
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ORISTEO |
L'avermi tu svelati
dell'esser tuo gl'arcani,
ed al silenzio mio depositati
dell'anima gl'affetti, assai cortesi
guiderdoni gli stimo: i spirti accesi
d'alta pietade al tuo destin mi lagno,
delle sciagure tue quasi compagno.
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CORINTA |
Qual cor di selce alpina
a' tragici miei casi
molle non diverrebbe? Eppur l'infido
di lor s'assorda, aspe ostinato, al grido.
Da suddito rubello
piango il stato rapito,
sospiro il genitor tra ceppi involto;
e fatto d'altro volto
seguace lusinghier vedo il marito:
rotavano imperanti
gl'astri qui turbolenti al mio natale.
Non ha pena alla mia l'inferno eguale.
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ORISTEO |
Consolati signora
ancora Trasimede avrai per caro,
né ti sarà di sue dolcezze avaro;
simile caso è il mio, pur non dispero,
è fanciul, che si muta il nostro arciero.
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CORINTA E ORISTEO
D'amor i contenti.
Le pene d'amore.
Uditelo amanti.
Si cangiano in pianti.
In scherzi ridenti.
Alfine festosi.
Alfine dogliosi.
Penarete.
Goderete.
Fuggitelo.
Seguitelo.
Godé chi lo, seguì.
Godé chi lo sprezzò.
Seguitelo, fuggitelo. Sì, no.
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Scena ottava |
Oresde, Corinta, Oristeo. |
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ORESDE
Sospiro notte, e dì,
e sospirar mi fa
leggiadretta beltà.
Amore, e gelosia
porto nel petto, e la disgrazia mia,
per nutrir lautamente
quei, che vivono in me,
vuol, che mangi, e che beva almen per tre.
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ORISTEO |
Oresde, Oresde il padron nostro, Albinda.
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CORINTA |
Che bell'innamorato
o che cambio gentile. Io l'ho trovato.
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ORESDE |
Che fate qui, che fate?
Di coltivar invece
il giardino amoreggi?
A lavorar, poltrone,
che se prendo un bastone
ti leverò dal capo
l'umor di far l'amore,
e ti darò rimedio, al pizzicore!
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ORISTEO |
Sudato dal lavoro
prendo un po' di ristoro.
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ORESDE |
Sei molto morbidetto.
Signor andate, andate
le membra delicate
a ristorare in letto.
Brutto, sozzo, villano,
partiti via di qui, se non ti sbrano.
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CORINTA |
Non adirar ti prego
questo rozzo indiscreto
va'.
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ORISTEO |
Perché sei il padrone
soffro l'ingiurie, e parto. Albinda addio.
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CORINTA |
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Scena nona |
Oresde, Corinta. |
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ORESDE |
Che saluti son questi?
Ohimè non ho più fiato:
ahi sicaria crudel tu m'uccidesti.
Un cadavere io sono,
e se parlo, e ragiono
è portento, e stupore
son spiritato.
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CORINTA |
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ORESDE |
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CORINTA |
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ORESDE |
Son spiritato, e lo mio spirto è amore.
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CORINTA |
Un lascivo folletto
racchiudi tu nel petto,
ma qual rancor geloso
t'agita Oresde l'alma innamorata?
Vezzosetto amoroso
sì temi di mia fé?
Non voglio amor mio bene, altri che te.
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ORESDE |
Son ritornato vivo.
O quanta gran possanza
han due parolette
di labbra amorosette.
Senti dolce speranza
quattro rime, che feci
sul desco, agl'occhi tuoi,
con poetica vena.
Satollo, e dopo cena
pien di doppio furore.
Furo le muse mie Bacco, ed Amore.
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CORINTA |
Suggerito dal vino
essere il metro tuo deve divino
dille...
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ORESDE |
E cantar le vo'
se ben di re, mi, fa, punto non so.
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Occhi belli
ladroncelli,
di caligini
di fuligini
fatti neri in volta andate,
e di giorno anco rubate;
con voi, spiriti miei,
diventare assassino anch'io vorrei.
Deh tingermi lasciate
con il vostro carbone, o luci amate.
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CORINTA |
Non vogliono compagni
gl'occhi né furti lor, né lor guadagni,
ma partir mi conviene
vedo l'antica tua; mi sgriderà,
sospettosa di te, se vien di qua.
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Scena decima |
Oresde, Eurialo, coro di Molossi. |
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ORESDE |
Chi vien ben mio, chi viene?
La tua vista mentisce; arresta il piè,
se m'abbandoni tu
morrò di novo affé
di mantenermi in vita ha sol virtù
quel tuo viso seren,
torna, torna mio ben.
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CORO |
Morto sei tu se formi voci, o grido.
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ORESDE |
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CORO |
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ORESDE |
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CORO |
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EURIALO |
Dove valor non giunge, arte s'innalza.
Dalla scabrosa balza
della rupe scoscesa
questa rocca difesa,
per sotterranee cave,
per i ciechi meati
di sviscerata terra, illustre ingegno,
delle nostre vittorie ha colto il segno.
Cadrà sui scellerati
del mio re genitore empi omicidi,
la pena del delitto. Alte ruine
i cieli sovra i rei mandano alfine.
S'abbattino le porte,
entri qui l'hoste a schiere, e non s'uccida.
Di suddito innocente
non bramo il sangue: della coppia infida
solo annodi la man laccio inclemente.
Dove, dove risiede
Diomeda la rea,
il crudel Trasimede?
Non rispondi?
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ORESDE |
Non posso.
Costui vuol, ch'io stia zitto:
s'impetri la licenza, e parlerò.
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CORO |
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ORESDE |
Ella uscì dal giardino
guari non è, ma dove
ora si trovi, non lo so per Giove.
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EURIALO |
Orsù più non s'indugi,
s'apra il varco all'esercito, e vincenti
portiamo le catene ai delinquenti.
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Scena undicesima |
Coro di Molossi. Oresde. |
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CORO |
L'oro, su, su, via l'oro,
no 'l tener più celato,
se non qui trucidato
l'anima spirerai.
Dove nascosto l'hai?
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ORESDE |
Oro giammai non ebbi
mendico villanaccio.
Deh deh, per carità,
alla mia povertà non dar impaccio.
Cercami pur per tutto,
vedimi in abbandono,
e se trovi un quattrino
dammi mille ferite, io ti perdono.
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CORO |
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ORESDE |
Altro non sotterrai
dal dì, che nacqui in qua,
che del mio ventre la necessità.
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CORO |
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ORESDE |
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CORO |
Vientene pur. M'additerai, costretto
dalla fune, e dal foco,
de' nascosti tesori il segno, e il loco.
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ORESDE |
Lasso di tema io gelo,
dalle man di costui mi tolga il cielo.
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Scena dodicesima |
Bosco. Tugurio di Penia. Amore, coro di Amorini. |
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AMORE |
Pargoletti germani, e fino a quando
se n'andremo tremando
esposti ignudi, al gelo,
servi di Citerea? Si ricompensa
all'uso di quaggiù chi serve in cielo?
Noi, che tant'anni, e tanti
in arder divi, in soggettar mortali,
in saettar tonanti,
alla druda di Marte abbia servito,
un povero vestito
non avem meritato? O delle corti
mostruosa avarizia, usanza ingrata,
quella fé, che più suda è men premiata.
Che gl'era mai, che gl'era
in mercé delle nostre
incessanti fatiche,
de' suoi manti sdruciti
farci le spoglie, o di sue gonne antiche?
Penia, la genitrice,
di sostanze mendica,
dentro angusta capanna
fatta di paglia, e canna,
di pascerci ha fatica;
onde bever convienci
de' cristalli degl'occhi
delle turbe meschine, e innamorate,
per non ber acque pure, acque stillate.
Eredità paterna
solo il consiglio abbiamo, e sconsigliati
seguiam l'ingratitudine. Fratelli
si muti, signora
che l'oprar senza premio è una follia.
Sin che siam giovanetti
purtroppo troveremo
caritativa man; ma chi m'accerta,
ch'in età sì fiorita
sempre scorra la vita?
È volontà di Giove
la nostra adolescenza,
pur trovo, ch'è prudenza
il non fidarsi in grandi. Orsù cerchiamo
più prodighi signori,
e s'accumuli tanto,
che s'anco Giove, instabile, volesse,
ritrattare il prescritto,
aver possian nella vecchiezza il ritto.
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Scena tredicesima |
Pluto, Amore, coro di Amorini. |
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PLUTO |
Garzon qual d'astro sterile, e mendico
influsso acerbo, e crudo
viver ti sforzi ignudo?
Nevi sì delicate, e così belle,
in sì tenera etade
non ricopre pietade?
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AMORE |
Chi signori indiscreti, avari ingrati
serve, come ho fatt'io pentito alfine
sospira in povertade i dì gettati.
Vo cangiando padrone
mutar fortuna.
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PLUTO |
Il fato,
cortese a tuo' desiri
qui mi condusse bel fanciullo alato.
Brami, brami rollarti
alla mia servitù?
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AMORE |
Deh dimmi chi sei tu,
che di servi civili,
come appunto son io, nutri vaghezze?
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PLUTO |
Il dio delle ricchezze,
zoppo nell'apportarle,
alato nel rapirle,
cieco nel dispensarle.
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AMORE |
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PLUTO |
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AMORE |
Alla notizia mia
il tuo nome pervenne:
voglio esser tuo, disponi
della face, dell'arco, e delle penne.
Fratel vo', che proviamo
questo novo signor tanto adorato
dall'animo mortale.
S'egli ci sarà ingrato
lo lascerà schernito un batter d'ale.
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Scena quattordicesima |
Penia. |
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Dolce bambin vermiglio.
Caro ben, vago figlio,
luce degl'occhi miei,
amor mio dove sei?
Che forse fuggitivo,
pargoletto lascivo,
per saettar mortali
drizzasti altrove l'ali?
Oppur, gioia de' cieli,
per gioco a me ti celi?
Per consolarmi a pieno,
ritorna in questo seno.
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Amor, Amor. Rispondi.
O sfortunata me,
diffondo i gridi all'aure. Egli non v'è.
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Scena quindicesima |
Le Grazie, Penia. |
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GRAZIE |
Discese dalle stelle,
della dèa
Citerea,
seguaci verginelle,
qui tra 'l fosco
del tuo bosco
d'Amor cerchiam novelle.
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PENIA |
Leggiadretto drappello,
or ora il tristarello,
da me fuggì,
da me sparì.
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GRAZIE |
Venere, accolti i voti
del supplice Oristeo, vuol, ch'adoprando
l'auree quadrelle Amor, torni sua preda
l'irata Diomeda.
Ma dove di trovarlo
ne porgi tu speranza?
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PENIA |
Nella bocca, negl'occhi,
nel cor di bella donna abitar suole,
né 'l troverete mai, s'egli non vuole.
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GRAZIE |
La fortuna sia guida
del nostro passo errante,
e ne drizzi le piante, ov'egli annida.
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PENIA |
È folto quel pensiero
che di trovar presume
del mio Cupido l'orme,
Proteo novel si cangia in mille forme.
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