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L'Oristeo

L'ORISTEO

Dramma per musica.

Versione sintetica a cura di www.librettidopera.it.

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Libretto di Giovanni FAUSTINI.
Musica di Francesco CAVALLI.

Prima esecuzione: carnevale 1651, Venezia.


Interlocutori:

Il GENIO CATTIVO d'Oristeo

soprano

Il GENIO BUONO d'Oristeo

basso

DIOMEDA principessa della Caonia, ripudiato Oristeo, ama Trasimede

soprano

TRASIMEDE principe d'Achaia, sprezzate le nozze di Corinta, aspira a quelle di Diomeda

tenore

ERMINO paggio di Trasimede

soprano

ORISTEO re di Epiro, amante e sposo ripudiato da Diomeda, creduto giardiniero, sotto nome di Rosmino

baritono

CORINTA principessa di Locri, innamorata del suo sprezzatore Trasimede, sconosciuta, sotto nome d'Albinda

soprano

ORESDE giardiniero regio

contralto

EURIALO figlio d'Oristeo

soprano

AMORE figliuolo di Penia

soprano

PLUTO dio delle ricchezze

tenore

PENIA dèa della povertà, madre di Amore

soprano

La BELLEZZA

soprano

La VIRTÙ

soprano

L' INTERESSE

tenore

NEMEO capitano d'Eurialo

tenore


Coro di soldati Molossi pretoriani. Le Grazie. Coro di Soldati di Nemeo. Coro di Amorini. Coro di Damigelle di Diomeda.

La favola si rappresenta in Emira, fortezza della Caonia situata a piedi de' monti Acrocerauni, oggidì detti Cimeraci poco discosta dalle riviere dell'Ionio.

All'illustrissimo...

Alvise Duodo dell'illust.mo eccell. sig. Girolamo.

Giovanni Faustini

Io non son di quelli, illustrissimo signor mio, che scrivono per dilettare il proprio capriccio; affatico la penna, le consegno la mia ambizione per tentare, s'ella potesse innalzarmi sopra l'ordinario, ed il commune degl'ingegni stupidi, e plebei. Questa onorata pazzia, che cominciò quasi ad assalirmi uscito da' vincoli delle fascie, non cessando mai dalle sue istigazioni, mi necessita alle assidue fabbriche di varie tessiture; composi però, senza l'impulso dell'ambito fine l'Oristeo, e la Rosinda, gettato poco tempo nella loro creazione, per sgravarmi dalle obbligazioni, che inavvertito mi avevano racchiuso tra le angustezze d'un teatro, dove, se non altro, l'occhio avvezzato alla vastezza di scene reali s'inviliva nella vicinanza dell'apparenze. E vero, che non dissimile dall'orchestra suddetta, nella quale comparsero Ersilla, ed Euripo, e dove di poi dovevano farsi vedere questi gemelli, è il palco da me eretto, per decapitare l'ozio della istituzione del mio viver libero, ma è anco verissimo che da loro, come da cadaveri, non pretendo di trarre voci d'applauso, riserbando a tempi più lieti, ed a teatri più maestosi l'Eupatra, l'Alcibiade, ed il Meraspe, eroi usciti d'embrioni, e quasi perfezionati. Che Amore sia figlio di Poro, e di Penia, cioè del consiglio, e della povertà lo espone nel convito Platone, e che Pluto sia il datore delle ricchezze lo narra in Timone Luciano. Mi dichiaro per i semplici, accioché la novità della genealogia di questo cieco non gli rendesse confusa l'intelligenza dell'episodio. Ora, illustrissimo signore, che faranno questi principi senza moto, e senza spirito, se esangui, ed a pena formati gli abbandona il loro Prometeo, ella con i raggi del sole di quella virtù, che comincia a disciplinarsi nelle scuole politiche di questo serenissimo governo, cortesissima li dia l'anima; e chi sa, che non ricevino, ripudiati dal padre, sotto la di lei tutela, insperate acclamazioni, e non venghino illustrati dalla sua Pallade. Acconsenta v. s. illustris. alla protezione di questi regi pupilli, a gl'esempi della sua generosa repubblica già di re grandi tutrice; ch'io per fine le bacio le mani.

Delucidazione della favola

Oristeo re di Epiro, dopo aver pianta la morte della regina Eripe s'innamorò di Diomeda, figliuola d'Evandro, principe di Caonia, e con efficaci ambasciate la dimandò al padre per moglie. Evandro acconsentì alle richieste del re vicino, e Diomeda persuasa dalla fama delle virtù d'Oristeo, confermossi con le risoluzioni paterne. S'incamminò, accompagnata la sposa dal padre, verso l'Epiro, ed Oristeo intesa la mossa, spronato dall'impazienza di attenderla nella reggia, stipato dalla nobiltà del regno, si partì per accoglierla nel viaggio, con fasto pari alle sue affezioni. S'incontrarono nell'imbrunir della notte nel folto di certa selva gli epiroti, ed i caoni, inavvertiti vennero alle armi, morì nella zuffa Evandro, fuggì Diomeda i fragori di quel Marte improvviso, ed intesa la morte del padre, cangiate le faci de' suoi sponsali in funestissime pire, ritornò dolorosa in Caonia, ripudiando le nozze infauste dell'epirota. Oristeo, sedato il tumulto, e conosciuto l'errore, e l'estinto, pianse la morte del povero Evandro, ed inviatolo con pompa reale a Diomeda, con pubblicare l'innocenza del suo delitto, le chiese mille perdoni. Diomeda accettò con diluvi di lacrime il paterno cadavere, e rifiutate le discolpe d'Oristeo, lo ritolse dalla speranza di esser più sua. Oristeo vedutosi abbandonato dalla fortuna, e d'Amore, fattosi preda d'una tenace melanconia, si partì sconosciuto, senza avvisare i più domestici, e cari, dal regno, per provare, se lontano dalla Caonia potesse levare il pensiero dalle sue fisse immaginazioni amorose, e con la varietà de' pellegrinaggi, c'avea proposto di fare, sanare l'infermità del core penante. Così guadate l'acque del soggetto Acheronte, superati i gioghi di Pindo, passò in Tessaglia, e su per le rive del Sperchio arrivò a Tebe: di là imbarcatosi solcò l'Egeo, l'Ellesponto, la Propontide, e giunto nell'Eusino approdò a Colco, dove stupì della inerudizione di quei geografi, che fecero isola quella regione, essendo ella, cangiato l'antico nome in Mengrellia, notissimo continente. Indi inoltratosi nell'Iberia passò fra gl'Albani, e di là per l'Hircania al mar Caspio, ad Hircano, dove raddoppiò i stupori per l'imperizia di quei medesimi, che fatto Colco isola, posero le navi tessale a varcar quell'onde, e fecero, che di là potesse navigare in Grecia; avendo udito da nativi nocchieri, che quel mare, ora detto con nome barbaro di Bachù, circondato da' suoi vastissimi giri è a sembianza di un lago, e tributato da propri fiumi, non avendo commercio con altro mare, non conosce per padre l'oceano. Pellegrinando Oristeo, giunse in Caonia Trasimede principe dell'Achaia, ed accolto da Diomeda, s'innamorarono gli ospiti l'uno dell'altro. Trasimede con le fiamme del nuovo Amore incenerì le memorie di Corinta, figlia di Thespiade re di Locri, destinata sua sposa; e Diomeda, che dopo i tristi eventi de' suoi primi maritaggi, avea determinato di morir celibe, vivea in amarissime angoscie, tormentata da' stimoli del nato affetto, e da quelli della costanza de' suoi proponimenti. Mentre Corinta attendeva l'arrivo del suo Trasimede, amato, né mai veduto, Telafione, un sedizioso locro, imprigionatole il padre, si fece tiranno, onde la misera smarrita tra la confusione del caso repentino, e crudele, tolti seco certi doni, che volea inviare col suo ritratto al desiderato Marito, di notte, e sola fuggì la perfidia del ribello, e mosse il piede verso l'Achaia, sperando colà nelle braccia del dolce sposo di ritrovare il porto, che l'assicurasse dalle procelle della contraria fortuna. Chiedendo ad ogni passeggero ragguagli di Trasimede, intese da un pellegrino Caonio i suoi letarghi amorosi, e come adorava Diomeda. Stordita da quelle nuove, girò il passo, e vestita di panni proporzionati alla condizione del suo deplorabile stato, se n'andò in Emira, fortezza della Caonia, in cui sapeva ritrovarsi con la rivale il suo delirante. Ebbe ricovero la sconosciuta infelice nella casa della madre di Oreide giardiniero regio, dove timida di scoprirsi all'affascinato, veniva ogni giorno martirizzata da oggetti troppo feroci. Oristeo non mai abbandonato d'Amore, che per seguirlo avea l'ali, anzi con il moto de' suoi viaggi, agitando, ed accrescendo maggiormente il suo foco, tralasciati i pensieri di navigare il Caspio, squallido, tramutato di effigie, ed in abito rustico se n'andò anch'egli in Emira, e posto da Oreide alla coltivazione de gl'orti, con core moribondo, udì sovente, impiegato ne' suoi lavori, l'infiammate querele dell'emulo, e le lusinghiere speranze, che li dava la sua bella nemica. Le lagrime incessanti lo manifestarono amante all'innamorata Corinta, quale allegra tra le tristezze dell'anima di aver trovato un compagno alle sue passioni, li scoprì l'altezza della sua nascita, la fierezza del suo destino, e la crudeltà del suo tiranno.

Confusi i molossi dalla tacita, e furtiva partita del re loro, creati tutori a Eurialo, figlio de lo smarrito, e nato d'Eripe, di età di due lustri, inviarono esperti esploratori in varie parti per intendere nove di Oristeo. Questi ritornati al regno, dopo il corso delle loro peregrinazioni, senza notizia del ricercato, fu Eurialo incoronato, ed assunto al trono. In tanto si diffuse una fama, da dove originata non si seppe, che Trasimede avesse ucciso Oristeo, a comandi di Diomeda, desiderosa delle vendette del padre. L'ira implacabile della principessa, gli amori sviscerati del principe, il non ritrovarsi Oristeo nel mondo, prestò fede a quella bugia. Piansero gli epiroti le perdite del re, ed Eurialo augumentando con gl'anni il desiderio di castigare i micidiali del genitore, giunto al decimo quarto, armò il regno, ed improvviso per mare portatosi in Caonia, assediò in Emira gl'amanti, il padre, e Corinta. Il sito della rocca posto alle radici de gli Acrocerauni, e l'altezza del suo circuito la difesero da gl'empiti de gl'assalitori. Già la vicinanza del verno disperava l'impresa, e la forza non poteva superare la natura inespugnabile del loco, quando ricorrendo Eurialo per aiuto all'ingegno, datosi a formare occulte, e sotterranee caverne, dove il sasso non impediva la mina, sperava di felicitare il fine di quel tentativo, ed impiantate le palme della vittoria in Emira, innaffiarle con il sangue de' traditori.

Prologo
Scena unica

Il Genio cattivo e il Genio buono d'Oristeo.

GENIO CATTIVO

Vomita con il foco

sul capo d'Oristeo, drago volante

tosco, che gl'avveleni,

che gl'attristi degl'anni i dì sereni.

Crinita minacciante

dell'orride tue luci

gli sia l'infausta fiamma, e con il velo

dell'ali tenebrose

dell'allegrezze sue coprisi 'l cielo.

Gli venga di pietose

stelle impedito ogni cortese influsso

dalla scagliosa sua viperea mole:

per lui squallidi sieno i rai del sole.

GENIO BUONO

Sferza, che sproni al male,

voce che sempre istighi a fatti indegni,

consiglier disleale,

scorta, che guidi l'uom degl'empi a' regni

morte a nome de grandi, o vita infame;

insidiose trame

ordisci pur contro il mio rege, ordisci,

voli, per l'aria, e strisci

infesta a lui, tua serpe, il corpo immondo,

ti vedrà vinto il mondo

da miei salubri avvisi, e scenderai,

deluso ne' tuoi vanti, a patrii lai.

GENIO CATTIVO

Trionfati i tuoi fasti,

di te sono, e vigoroso, e prode.

Impotente custode

a quella testa che difendi, oppressa,

che le mie palme sieno omai confessa.

GENIO BUONO

Natura al peggio inclina,

e sembianza di dolce il senso alletta:

nell'etade imperfetta

l'umanità, sovente,

invece di carpire il fior ridente,

con imperita man coglie le spine;

ma dell'opra mortal si pregia il fine.

Io derivo dal ciel, tu dall'inferno;

scorgerassi a qual meta

Oristeo giungerà funesta, o lieta,

d'un empio, o d'un divin, sotto il governo.

GENIO CATTIVO E GENIO BUONO

All'impresa, alle prove

vinto ti schernirò.

Perditor ti vedrò.

Tuo Dite guerreggi.

Ti soccorra il tuo Giove.

All'impresa, alle prove.

Atto primo
Scena prima

Giardino.
Diomeda, Trasimede.

DIOMEDA

Non vibrate,

non scoccate

occhi arcieri in questo seno

più quei strali,

che fatali

sparse Amor del suo veleno.

Chi è ribelle,

chiare stelle,

rigor merta, e i vostri teli:

alma fida

non s'uccida,

non più guerra occhi crudeli.

TRASIMEDE

Voi piagate,

fulminate

mie bellezze, e m'uccidete,

e poi dite

che languite?

Morto io son, la rea voi siete.

Luci vaghe

non più piaghe,

medicina, e non fierezza.

Son già vinto,

son estinto:

non più guerra, o mia bellezza.

DIOMEDA

Che l'omicida io sia

t'inganni, o mio bel sol

mira d'alato stuol la tirannia.

Di bendati,

faretrati,

turba ria, ch'il pianto alletta,

gl'archi tende, e ci saetta.

TRASIMEDE

Uscir quei sagittari

dagl'occhi tuoi, crudel,

perché il cor, tuo fedel, gusti gl'amari.

Gl'inviasti,

gl'arrotasti

le saette, acciò ch'io mora.

Egli langue, e pur t'adora.

Scena seconda

Ermino, Trasimede, Diomeda.

ERMINO

Sì, sì, trattate là, tra mirti, e fiori

teneri vezzi, e amori,

e lasciate al nemico

spiantar la rocca, egli s'avanza armato.

Già fuor dello steccato

delle mura i tormenti

frettoloso conduce, all'armi, all'armi

signor, signor, non ci lasciar perire,

dalle lusinghe fa passaggio all'ire.

TRASIMEDE

La superbia d'Epiro ancor non doma

cerca novi sepolcri in questi campi?

Del nostro ferro fulminata a' lampi

cadrà snervata, e dalla regia chioma

persa la benda il suo tiranno infante

vedrò nel proprio sangue agonizzante.

DIOMEDA

Non uscir, dolce vita,

dal cor spronato, e rintuzzar l'orgoglio

del molosso arrabbiato;

precipiti, scagliato

il salitor dalla tua destra, al piano.

Tenti pur, tenti insano

per restar vincitor, le vie del vento,

che vano ogni ardimento,

tal lo promette tua virtute, e 'l sito,

rimanerà schernito.

Già del gelido verno

son vicini gl'algori

già di Borea i furori

cominceranno ad infestar la spiaggia,

onde vedrem, se tosto

il piede non imbarca, e spiega i lini,

gelarsi l'oste ed abissarsi i pini.

TRASIMEDE

Campion di tua beltà

volgo alle mura il piè.

DIOMEDA

D'amor difeso va,

spera, spera mercé.

TRASIMEDE

E quando mai l'avrò?

Peno, mi struggo, e moro,

e non vedo il ristoro,

in braccio dell'angoscia io spirerò.

E quando mai l'avrò?

DIOMEDA

L'avrai mio ben sì, sì.

Vivi, sperando, vivi,

frena i desir lascivi,

de' legittimi amplessi aspetta il dì.

L'avrai mio ben sì, sì.

DIOMEDA E TRASIMEDE

Sperando me n' vo.

Sperando si va.

Il duol mi scemò

chi speme mi dà.

Sperando si va.

Sperando me n' vo.

Scena terza

Ermino, Diomeda.

ERMINO

Chi vive di speranza

empie di vento il ventre,

si pasce d'aria, e mentre

porta digiuno, e asciutto il dente ognora,

conviene che di fame alfin se n' mora.

I vogliono le donne

sì puri, e semplicetti, a fé signora

non pascereste me sol di promesse;

avide di sospiri, e di singulti,

il vostro è un interesse.

DIOMEDA

Odi lo sciagurato.

E che faresti tu,

se ti porgesse la tua bella amata

di speme lusinghiera esca melata?

ERMINO

Non l'amerei mai più,

che non vorrebbe il cor, egro prudente,

cibo di vanità, condito in niente.

DIOMEDA

E come dimmi, e come

stretto da aurate chiome

potresti ritornare in libertà?

Di forti lacci armato Amor se n' va.

ERMINO

Che chiome che catene;

voi credete co 'l crin far schiavo il mondo

arbitre de' piaceri, e delle pene.

Le vostre fila d'oro

son d'allacciar augelli anco mal buone

e la vostra bellezza è un'opinione.

DIOMEDA

Ti guardi il ciel da crudeltà d'amante,

da donnesco rigore.

ERMINO

E te signora mia, da un bell'umore.

S'io fossi Trasimede

il guerrier mio padrone, il tuo diletto,

vorrei lasciarti, ovver goderti in letto.

Scena quarta

Diomeda.

Questo fanciul scaltrito

fu dalla scelleraggine nutrito.

Dagli infausti sponsali

del defunto Oristeo l'alma atterrita,

pavida d'altri mali,

timida d'altri fati, in dolci modi

del secondo imeneo rifiuta i nodi.

Amo, mi struggo, e però

arde per me il guerriero,

e non vuol, che consoli

me quasi moribonda, e lui penante,

onestade, e timor. Povera amante.

Dimmi Amor che farò?

Bramosa di gioir

dovrò sempre languir?

Celibe invecchierò?

Dimmi Amor, che farò?

Che mi consigli tu?

Mi serpe in sen l'ardor,

vuol, che viva il timor

vergine in gioventù.

Che mi consigli tu?

Scena quinta

Oristeo, Diomeda.

ORISTEO

Ecco sposo aborrito, ecco Oristeo,

la tua pena animata,

la tua cruda adorata.

Ma esercitar del vago suo, t'invita

la lontananza, omai

per Corinta, e per te la frode ordita.

Divino pennello

l'idea qui del bello

dipinse, formò.

Giammai non creò

natura, sembiante

più vago di te.

In cielo non è

sostanza, figura

illustre, e più pura

di quel, che sei tu.

Non posso, no, più

fissare lo sguardo

nel tuo bel seren:

ti pongo nel sen,

che nido ti fo.

Divino pennello

l'idea qui del bello

dipinse, formò.

DIOMEDA

Ferma ferma Rosmino

vo' vagheggiar anch'io

quel ritratto divino.

ORISTEO

Oh padrona, sei qui? Prendilo, e mira

una dèa qui dipinta. Ah dispietata

e pur arde per te, per te sospira

il cor, tra fiamma immensa, e disperata.

DIOMEDA

S'il pennel non mentì

lineamenti, e colore,

bugiardo adulatore,

l'occhio immortal del dì

non vide la più bella

da che ruota lassù.

Ma da cui quest'effigie avesti tu?

ORISTEO

Ti dirò. Dal giardino

se n'uscia Trasimede,

quando tratta l'imago,

che tra l'usbergo, e 'l sen tenea nascosta

alla bocca l'accosta,

e come fosse di quel bello il vago

la bacia, la ribacia, e torna a' baci

baciator instancabile.

DIOMEDA

Ohimè taci.

Lassa, lassa son morta,

oh dio chi mi conforta.

ORISTEO

Ah tra le gelosie

di quei malnati amori

mori perfida, mori.

Cessato dal baciar l'avida bocca,

del piacer del core ebbra la mano,

nel riporlo nel petto

lasciò cader l'aureo ritratto al piano:

osservo la caduta, e 'l passo affretto

lo raccolgo ammirato

e da quelle vaghezze

anch'io resto trafitto, e innamorato.

DIOMEDA

Indegno traditor

questa, questa è la fé,

che, testimonio Amore, giurasti a me?

Atterrate le torri,

scardinate le porte

o dell'Epiro bellicose schiere,

qui, qui rabide, e fiere

fulminate le morti

sovra i creduti rei:

non vo' più vita, o dèi.

Purché mora l'infido,

ch'idolatra altro bello

purché pera il ribello,

morirò volentieri. Ah, dalle spade

no 'l salvi, no, questa rival beltade.

Indegno traditor

questa, questa è la fé,

che, testimonio Amore, giurasti a me?

Scena sesta

Oristeo.

Dalle furie amorose,

flagellata, va' pur. Vorace arpia

ti roda sempre il cor la gelosia

dimmi sposa inclemente

perch'odi un innocente?

Se tra 'l notturno orrore

da miei ferri vassalli, inavveriti

il tuo buon genitore

cadde trafitto, o dio,

di', perché reo son io?

La caligine incolpa,

accusa l'ombra, e maledisci il caso,

che traboccò l'amico a eterno occaso.

Con barbarie inudita

congiurata, ed unita

col vago tuo m'hai morto sì, m''hai morto

ond'a ragion vendicator del torto,

dalla fama avvertito

drizzò il figlio i vessilli a questo lito.

Potrei svenarti in seno

le tue care delizie, e pur non voglio;

aborro i tradimenti, e con mio danno

vuol, ch'io soffra i tuoi vezzi Amor tiranno.

Tiranno Amor, perché

tanto mi strazi, ohimè?

di queste luci incrudelito dio

placabil non ti rende il doppio rio?

Tu d'Amor

o genitrice,

il mio cor

rendi felice.

Lucida stella,

Venere bella,

ria beltà,

che mi dà,

ribellata, aspri martiri,

fa', che gema a' miei sospiri:

colosso d'oro al tuo gran nume eretto,

ghirlandato di rose, io ti prometto.

Dèa benigna, e cortese,

che siano state intese

le mie preci comprendo e mi consolo,

di tue pure colombe al destro volo.

Scena settima

Corinta, Oristeo.

CORINTA

Udite amanti, udite

miracoli d'Amore,

io vivo senza core;

così vivendo io moro,

senza speranza adoro.

Quel crudel, che m'infiammò,

che m'avvinse,

che mi strinse

il mio nome rinnegò.

Udite amanti, udite

miracoli d'Amore,

io vivo senza core;

così vivendo io moro,

senza speranza adoro.

ORISTEO

Addio Corinta. Addio,

adempito ho l'inganno. Il tuo ritratto

della rivale il petto

di gelido veleno ha reso infetto.

CORINTA

Oh Rosmino gentile,

povera fuggitiva

dalla paterna riva,

originata al male

renderti non può premio all'opra eguale.

ORISTEO

L'avermi tu svelati

dell'esser tuo gl'arcani,

ed al silenzio mio depositati

dell'anima gl'affetti, assai cortesi

guiderdoni gli stimo: i spirti accesi

d'alta pietade al tuo destin mi lagno,

delle sciagure tue quasi compagno.

CORINTA

Qual cor di selce alpina

a' tragici miei casi

molle non diverrebbe? Eppur l'infido

di lor s'assorda, aspe ostinato, al grido.

Da suddito rubello

piango il stato rapito,

sospiro il genitor tra ceppi involto;

e fatto d'altro volto

seguace lusinghier vedo il marito:

rotavano imperanti

gl'astri qui turbolenti al mio natale.

Non ha pena alla mia l'inferno eguale.

ORISTEO

Consolati signora

ancora Trasimede avrai per caro,

né ti sarà di sue dolcezze avaro;

simile caso è il mio, pur non dispero,

è fanciul, che si muta il nostro arciero.

CORINTA E ORISTEO

D'amor i contenti.

Le pene d'amore.

Uditelo amanti.

Si cangiano in pianti.

In scherzi ridenti.

Alfine festosi.

Alfine dogliosi.

Penarete.

Goderete.

Fuggitelo.

Seguitelo.

Godé chi lo, seguì.

Godé chi lo sprezzò.

Seguitelo, fuggitelo. Sì, no.

Scena ottava

Oresde, Corinta, Oristeo.

ORESDE

Sospiro notte, e dì,

e sospirar mi fa

leggiadretta beltà.

Amore, e gelosia

porto nel petto, e la disgrazia mia,

per nutrir lautamente

quei, che vivono in me,

vuol, che mangi, e che beva almen per tre.

ORISTEO

Oresde, Oresde il padron nostro, Albinda.

CORINTA

Che bell'innamorato

o che cambio gentile. Io l'ho trovato.

ORESDE

Che fate qui, che fate?

Di coltivar invece

il giardino amoreggi?

A lavorar, poltrone,

che se prendo un bastone

ti leverò dal capo

l'umor di far l'amore,

e ti darò rimedio, al pizzicore!

ORISTEO

Sudato dal lavoro

prendo un po' di ristoro.

ORESDE

Sei molto morbidetto.

Signor andate, andate

le membra delicate

a ristorare in letto.

Brutto, sozzo, villano,

partiti via di qui, se non ti sbrano.

CORINTA

Non adirar ti prego

questo rozzo indiscreto

va'.

ORISTEO

Perché sei il padrone

soffro l'ingiurie, e parto. Albinda addio.

CORINTA

Addio Rosmino mio.

Scena nona

Oresde, Corinta.

ORESDE

Che saluti son questi?

Ohimè non ho più fiato:

ahi sicaria crudel tu m'uccidesti.

Un cadavere io sono,

e se parlo, e ragiono

è portento, e stupore

son spiritato.

CORINTA

Arrivederci.

ORESDE

Ferma

son spiritato.

CORINTA

Intendo, e n'ho terrore.

ORESDE

Son spiritato, e lo mio spirto è amore.

CORINTA

Un lascivo folletto

racchiudi tu nel petto,

ma qual rancor geloso

t'agita Oresde l'alma innamorata?

Vezzosetto amoroso

sì temi di mia fé?

Non voglio amor mio bene, altri che te.

ORESDE

Son ritornato vivo.

O quanta gran possanza

han due parolette

di labbra amorosette.

Senti dolce speranza

quattro rime, che feci

sul desco, agl'occhi tuoi,

con poetica vena.

Satollo, e dopo cena

pien di doppio furore.

Furo le muse mie Bacco, ed Amore.

CORINTA

Suggerito dal vino

essere il metro tuo deve divino

dille...

ORESDE

E cantar le vo'

se ben di re, mi, fa, punto non so.

Occhi belli

ladroncelli,

di caligini

di fuligini

fatti neri in volta andate,

e di giorno anco rubate;

con voi, spiriti miei,

diventare assassino anch'io vorrei.

Deh tingermi lasciate

con il vostro carbone, o luci amate.

CORINTA

Non vogliono compagni

gl'occhi né furti lor, né lor guadagni,

ma partir mi conviene

vedo l'antica tua; mi sgriderà,

sospettosa di te, se vien di qua.

Scena decima

Oresde, Eurialo, coro di Molossi.

ORESDE

Chi vien ben mio, chi viene?

La tua vista mentisce; arresta il piè,

se m'abbandoni tu

morrò di novo affé

di mantenermi in vita ha sol virtù

quel tuo viso seren,

torna, torna mio ben.

CORO

Morto sei tu se formi voci, o grido.

ORESDE

Ohimè.

CORO

Taci.

ORESDE

Non parlo.

CORO

Taci, se no t'uccido.

EURIALO

Dove valor non giunge, arte s'innalza.

Dalla scabrosa balza

della rupe scoscesa

questa rocca difesa,

per sotterranee cave,

per i ciechi meati

di sviscerata terra, illustre ingegno,

delle nostre vittorie ha colto il segno.

Cadrà sui scellerati

del mio re genitore empi omicidi,

la pena del delitto. Alte ruine

i cieli sovra i rei mandano alfine.

S'abbattino le porte,

entri qui l'hoste a schiere, e non s'uccida.

Di suddito innocente

non bramo il sangue: della coppia infida

solo annodi la man laccio inclemente.

Dove, dove risiede

Diomeda la rea,

il crudel Trasimede?

Non rispondi?

ORESDE

Non posso.

Costui vuol, ch'io stia zitto:

s'impetri la licenza, e parlerò.

CORO

Di' pure. Io te la do.

ORESDE

Ella uscì dal giardino

guari non è, ma dove

ora si trovi, non lo so per Giove.

EURIALO

Orsù più non s'indugi,

s'apra il varco all'esercito, e vincenti

portiamo le catene ai delinquenti.

Scena undicesima

Coro di Molossi. Oresde.

CORO

L'oro, su, su, via l'oro,

no 'l tener più celato,

se non qui trucidato

l'anima spirerai.

Dove nascosto l'hai?

ORESDE

Oro giammai non ebbi

mendico villanaccio.

Deh deh, per carità,

alla mia povertà non dar impaccio.

Cercami pur per tutto,

vedimi in abbandono,

e se trovi un quattrino

dammi mille ferite, io ti perdono.

CORO

Sotterrato l'avrai.

ORESDE

Altro non sotterrai

dal dì, che nacqui in qua,

che del mio ventre la necessità.

CORO

Così parli increato?

ORESDE

Pietà signor soldato.

CORO

Vientene pur. M'additerai, costretto

dalla fune, e dal foco,

de' nascosti tesori il segno, e il loco.

ORESDE

Lasso di tema io gelo,

dalle man di costui mi tolga il cielo.

Scena dodicesima

Bosco. Tugurio di Penia.
Amore, coro di Amorini.

AMORE

Pargoletti germani, e fino a quando

se n'andremo tremando

esposti ignudi, al gelo,

servi di Citerea? Si ricompensa

all'uso di quaggiù chi serve in cielo?

Noi, che tant'anni, e tanti

in arder divi, in soggettar mortali,

in saettar tonanti,

alla druda di Marte abbia servito,

un povero vestito

non avem meritato? O delle corti

mostruosa avarizia, usanza ingrata,

quella fé, che più suda è men premiata.

Che gl'era mai, che gl'era

in mercé delle nostre

incessanti fatiche,

de' suoi manti sdruciti

farci le spoglie, o di sue gonne antiche?

Penia, la genitrice,

di sostanze mendica,

dentro angusta capanna

fatta di paglia, e canna,

di pascerci ha fatica;

onde bever convienci

de' cristalli degl'occhi

delle turbe meschine, e innamorate,

per non ber acque pure, acque stillate.

Eredità paterna

solo il consiglio abbiamo, e sconsigliati

seguiam l'ingratitudine. Fratelli

si muti, signora

che l'oprar senza premio è una follia.

Sin che siam giovanetti

purtroppo troveremo

caritativa man; ma chi m'accerta,

ch'in età sì fiorita

sempre scorra la vita?

È volontà di Giove

la nostra adolescenza,

pur trovo, ch'è prudenza

il non fidarsi in grandi. Orsù cerchiamo

più prodighi signori,

e s'accumuli tanto,

che s'anco Giove, instabile, volesse,

ritrattare il prescritto,

aver possian nella vecchiezza il ritto.

Scena tredicesima

Pluto, Amore, coro di Amorini.

PLUTO

Garzon qual d'astro sterile, e mendico

influsso acerbo, e crudo

viver ti sforzi ignudo?

Nevi sì delicate, e così belle,

in sì tenera etade

non ricopre pietade?

AMORE

Chi signori indiscreti, avari ingrati

serve, come ho fatt'io pentito alfine

sospira in povertade i dì gettati.

Vo cangiando padrone

mutar fortuna.

PLUTO

Il fato,

cortese a tuo' desiri

qui mi condusse bel fanciullo alato.

Brami, brami rollarti

alla mia servitù?

AMORE

Deh dimmi chi sei tu,

che di servi civili,

come appunto son io, nutri vaghezze?

PLUTO

Il dio delle ricchezze,

zoppo nell'apportarle,

alato nel rapirle,

cieco nel dispensarle.

AMORE

Pluto sei tu?

PLUTO

Son Pluto.

AMORE

Alla notizia mia

il tuo nome pervenne:

voglio esser tuo, disponi

della face, dell'arco, e delle penne.

Fratel vo', che proviamo

questo novo signor tanto adorato

dall'animo mortale.

S'egli ci sarà ingrato

lo lascerà schernito un batter d'ale.

Scena quattordicesima

Penia.

Dolce bambin vermiglio.

Caro ben, vago figlio,

luce degl'occhi miei,

amor mio dove sei?

Che forse fuggitivo,

pargoletto lascivo,

per saettar mortali

drizzasti altrove l'ali?

Oppur, gioia de' cieli,

per gioco a me ti celi?

Per consolarmi a pieno,

ritorna in questo seno.

Amor, Amor. Rispondi.

O sfortunata me,

diffondo i gridi all'aure. Egli non v'è.

Scena quindicesima

Le Grazie, Penia.

GRAZIE

Discese dalle stelle,

della dèa

Citerea,

seguaci verginelle,

qui tra 'l fosco

del tuo bosco

d'Amor cerchiam novelle.

PENIA

Leggiadretto drappello,

or ora il tristarello,

da me fuggì,

da me sparì.

GRAZIE

Venere, accolti i voti

del supplice Oristeo, vuol, ch'adoprando

l'auree quadrelle Amor, torni sua preda

l'irata Diomeda.

Ma dove di trovarlo

ne porgi tu speranza?

PENIA

Nella bocca, negl'occhi,

nel cor di bella donna abitar suole,

né 'l troverete mai, s'egli non vuole.

GRAZIE

La fortuna sia guida

del nostro passo errante,

e ne drizzi le piante, ov'egli annida.

PENIA

È folto quel pensiero

che di trovar presume

del mio Cupido l'orme,

Proteo novel si cangia in mille forme.

Atto secondo
Scena prima

Cortile.
Trasimede.

Dove, dove m'aggiro,

attonito a rimbombi

delle trombe d'Epiro?

Come entrò, come venne

qui l'audacia nemica? A nostri danni,

l'impennò forse invido cielo i vanni:

bella mia dove sei?

Ti perderò col sangue, e forse tolto

mi sarà di morir presso il tuo volto?

L'ultime mie preghiere

almeno accolga raddolcito il fato,

e facci, o cara, ch'io ti spiri a lato.

Una stilla di pianto

dalle tue luci uscita

sarebbe funerale

troppo insigne, e reale,

a vita agonizzante, o dolce vita?

Scena seconda

Diomeda, Trasimede.

DIOMEDA

Infedele. Spergiuro,

incostante, sleale,

no, no, più, non ti vale

simular fiamme, ed adular mendace;

ardi per altra face,

e poi falso e bugiardo

giuri, ch'incenerisci ad un mio sguardo?

TRASIMEDE

Oh mio ben qual furore.

DIOMEDA

Taci, chiudi quel labbro, o traditore.

Le perdite non curo

delle patrie fortune,

non m'atterrisce il mio destino oscuro,

l'acciar non mi sgomenta

che me cerca fervente, e minacciante;

troppo credula amante

d'esser stata delusa, ahi sol mi pesa.

Vendica Amor, che fai? la nostra offesa.

TRASIMEDE

Qual delitto mio core.

DIOMEDA

Taci, chiudi quel labbro, o traditore.

Disperata, negletta,

a' ferri, alle catene

volontaria me n' vo. Rimanti e prendi

dell'adorato bene

la persa imago: in questo giro angusto

la tua perfidia ecco dipinta al vivo,

o delle mie speranze angue nocivo.

TRASIMEDE

Mia fiamma, io mentitore?

DIOMEDA

Taci, chiudi quel labbro, o mentitore.

Scena terza

Trasimede.

Qual rabbia velenosa

t'arde l'interno anima mia gelosa?

Ma che ritratto è questo?

Qual effigie celeste

stupido il lume qui dipinta ammira?

Di quella dea, che gira

l'orbe amoroso, e pio,

certo, certo cred'io,

che sia questo il sembiante:

al suo guerriero amante

che da nubi sanguigne

rota l'armi maligne

dell'Epiro a favore

cade dal sen tra gl'empiti, e il furore.

Sovrumana pittura

da gigli, e dalle rose

dell'aurora, i colori

tolse destra immortale, e ti compose;

pieno più che di rai d'alti stupori,

chinando le palpebre

l'occhio, devoto il tuo divino adora,

il cor fa voti, e le tue grazie implora.

Scena quarta

Corinta, Trasimede.

CORINTA

Che fa qui neghittoso

sprezzator de' perigli, e della morte

l'infido mio consorte?

TRASIMEDE

La mia speme adirata

rendi, rendi placata.

Gelosa del tuo vago

illustre, eccelsa imago

reo di perfidia il suo pensier m'ha fatto.

CORINTA

Parla col mio ritratto?

Or che scorre baccando

per gl'acquisti il nemico,

signor, qui contemplando

alle sciagure immobile, che stai,

del tuo foco dipinto i finti rai.

TRASIMEDE

Di sembianze non conte

tra l'alte meraviglie

stupido i spirti, e i sensi ohimè perdei.

CORINTA

Fa' parte agl'occhi miei

dell'ammirando oggetto.

Li dissi, quasi, crudo mio diletto.

TRASIMEDE

Togli prendilo, e mira

epilogato, e accolto

dell'empireo il decoro entro quel volto.

CORINTA

È questa di Corinta

l'effigie.

TRASIMEDE

Di Corinta?

CORINTA

Oh Giove eterno

che rimiro, che scerno?

La tua Corinta è questa;

la sposa derelitta,

ch'abbandonata, e afflitta,

le perdite piangendo, e sospirando

del genitor, del regno,

ma più quelle del cor, vassene errando:

questo, questo è 'l ritratto,

ch'inviar ti volea con altri doni

pria ch'aversa procella

tempestasse la calma a' giorni sui:

ciò ti so dir, perché fidata ancella

nelle prosperità sempre le fui.

TRASIMEDE

O cieco ne' disprezzi,

scortese negl'affetti,

aspro, rozzo ne' vezzi,

barbaro negl'amori,

così gl'indegni errori

compiangi di colei

destinata al tuo letto, agl'imenei?

Ma scusa, o immaginetta

i deliri d'un core,

non vede il merto fatto talpa d'amore.

CORINTA

Consolata rimango

a queste tenerezze.

TRASIMEDE

Le dipinte fattezze

quanto simili sono al tuo sembiante:

se di spoglie reali

io ti vedessi Albinda adorna, e cinta

ti crederei Corinta.

CORINTA

Con piacevole frode abbiam festose

gl'ornamenti cangiati,

i genitori suoi spesso ingannati.

Ma che dimore inutili, e dannose

signor son queste? Fuggi

l'insanguinate, e vincitrici spade,

che fuggire il periglio

è prudenza, è consiglio, e non viltade.

Scena quinta

Oresde, Trasimede, Corinta.

ORESDE

Quella destra rapace

m'ha pur lasciato in pace.

O che fai qui padrone?

Fuggi, vola meschino,

che s'indugi un tantino

te n'anderai prigione.

Come un cane da caccia

il nemico di te vassene in traccia.

TRASIMEDE

Venga. Con piede immoto

sostenerò gl'incontri, e in fier conflitto

morirò sì, ma generoso, e invitto.

CORINTA

Principe, insano ardire

ti consiglia a perire

invendicato. Cedi a sorte acerba,

e la tua destra, alle vendette ah serba.

TRASIMEDE

Meglio è morir da forte,

che viver da codardo

è la fuga viltà, gloria la morte.

Pur se ceder volessi

come ceder potrei? L'armi son note,

conosciute l'insegne, e custodita

deve da mille armati esser l'uscita.

CORINTA

Disarmato, e vestito

di rozze spoglie, e vili,

egro finto, o ferito,

costui fuor, degl'agguati

ti condurrà di tracciator soldati.

ORESDE

No, no costui non vuole

sorella questi intrichi;

oh poverino me, se la milizia

scoprisse la malizia.

CORINTA

Timor d'esser scoperti

punto non ti sgomenti,

ben d'innalzar co' merti

il tuo povero stato, i tuoi tuguri

a grandezze di corte

speranza ti assicuri.

Se custodito il principe, e serbato

sarà dalla tua fede,

avrai d'oro, e di gemme ampia mercede.

ORESDE

Oresde che farai?

L'uomo senza ricchezza

è un cadavere al mondo,

morto al viver giocondo.

Vo' tentar la mia sorte,

e viver da povero, o aver la morte.

Ad eseguir l'impresa eccomi pronto.

Di condurti in sicuro

ti prometto, ti giuro.

CORINTA

Alma codarda, e timida, dispone,

signor, l'amico cielo

per tua salvezza a perigliose prove.

Vanne, e sieno tue scorte Amore e Giove.

TRASIMEDE

Dolcissimo mio foco

io ti chiedo perdono,

s'impotente al soccorso or t'abbandono:

attendi, attendi in breve

la vendetta de' torti: il regno armato

condurrò, per ritorti

alle funi nemiche idolo amato.

ORESDE

Al mio vicino albergo

a spogliarti quell'armi andiam veloci.

Or sì, che questa volta

un satrapo divento,

o appeso ad un troncon gioco del vento.

Scena sesta

Corinta.

Del mio crudel, lontana

seguirò l'orme, e in loco

remoto da sospetti,

con amorosi detti

gli farò noto il nome, il dardo, il foco.

Sperar degg'io. Commosso

da tenerezza a' casi miei si lagna:

la pietade è d'amor guida, e compagna.

Speranza mi dice

che core costante

che fé di diamante

Amor mi tradì.

Verrà, verrà del mio tranquillo il dì.

L'Egeo di Cupido

da turbi agitato,

alfine placato

il porto ci dà.

Ancor del mio sereno il dì verrà.

Scena settima

Le Grazie.

Tre donzelle noi siamo,

ch'Amor cercando andiamo.

Amanti giovanetti,

leggiadre verginelle

dateci in cortesia di lui novelle.

Discortesi tacete,

sorde non rispondete?

Voi vecchi innamorati,

deh per le vostre belle

dateci in cortesia di lui novelle.

Scena ottava

La Bellezza, Le Grazie.

BELLEZZA

La dolcezza in seno annido,

quando rido

fuochi accendo, e stempro geli,

sin ne' cieli

quel che tuona a me s'inchina.

Son de' cori io la reina.

GRAZIE

È costei la Bellezza?

Or sì, ch'abbiam troncato

l'arcier tanto cercato.

Così d'Amor divisa

te n' vai pellegrinando?

Dove lasciato l'hai Venere avisa?

BELLEZZA

Anch'io cercando vo

questo spirito cieco, e non lo trovo.

Lo persi un giorno, or dove sia non so.

Scena nona

Le Grazie.

Dove n'andò,

dove volò,

questo garzon?

Certo scendé

nella region

dove sol è

notte d'orror,

perché in ardor

del suo più fier

peni l'altier

che con severa

legge, regge gl'abissi, e all'alma impera.

Scena decima

La Virtù, Le Grazie.

VIRTÙ

Calchi le vie d'Alcide

chi di viver desia vita immortale:

alla gloria non sale

chi del senso fellon segue le guide.

Calchi le vie d'Alcide,

chi di viver desia vita immortale.

GRAZIE

La Virtù, la Virtù. Vergine invitta

contro i colpi del fato,

veduto avresti il sagittario alato?

VIRTÙ

Solea negli anni primi

del mondo, venir meco il pargoletto,

ma quando il vidi infetto

da lascivi costumi,

e con osceni, e intemperati numi

conversar notte, e giorno,

li sgridai, lo scacciai dal mio soggiorno,

con la lascivia or ha comun la stanza,

e di star con il vizio ha per usanza.

Scena undicesima

Le Grazie.

Per trovar il fuggitivo

si prometta, e s'offerisca.

Grato premio si bandisca.

Chi tiene Amore

nel sen, nel core,

per un momento

fuori lo scacci,

che cento, e cento

da tre divine,

e porporine

rose vivaci,

otterrà basi,

se n'assicuri,

dolci, ma puri:

e chi n'insegua

dove egli sta

lo stesso avrà.

Scena dodicesima

L'Interesse, le Grazie.

INTERESSE

Preparate pur belle il guiderdone:

il mio piede seguite

trovato avete il lusinghier garzone.

GRAZIE

Chi sei tu, che ti vanti

di saver dove alberga il nostro dio?

INTERESSE

L'interesse son io.

GRAZIE

Temerario venale,

mendace vantatore,

tu vuoi saver dove si cela Amore?

Va', va'. False, e bugiarde

son le tue promesse

che non pratica Amor con l'interesse.

INTERESSE

La mia pratica è nova,

e Amor non è qual era. Il troverete

cangiato sì, ch'a pena

non lo conoscerete

non più a parole, no;

s'il volete trovar, venite, io vo.

GRAZIE

Chissà, forse, chissà,

Amor in questa età

costui conoscer deve. Or lo seguiamo.

Muta il tempo le cose; andiamo, andiamo.

Scena tredicesima

Oristeo.

Core i tuoi moti affrena,

sangue gl'impeti acqueta,

sospendi anima lieta

le brame di scoprirti al dolce figlio,

deh cessa dal'impulsi, e dal consiglio,

morto aborrito dal suo vivo sole,

ahi ch'Oristeo riscusitar non vuole:

sarà sino che gira

propizio al suo rivale, ombra vagante,

cadavere insepolto, e spirto amante,

ma, ma, che miro? Affetto

non m'uccider oh dio con la dolcezza,

non m'affogar nel pianto, o tenerezza.

Figlio, figlio diletto,

del mio pellegrinaggio, adulto, e forte

dopo un lustro ti vedo, e glorioso,

del genitor vendicator pietoso.

Colei, che rea tu credi,

che tieni incatenata

trionfante, e vincente

deh lascia, ella è innocente.

Vivo son io, ma morto

al riso, ed al conforto.

Scena quattordicesima

Eurialo, Diomeda, Oristeo.

EURIALO

Non difende la colpa

centro perduto al giorno, o rocca alpina.

Di nemesi divina

alla spada arrotata

non ha scampo il misfatto, o scellerata.

Sulle teste tiranne

piove il flagello, e chi dell'altrui sangue

ha sete ingiusta alfin nel proprio ei langue.

DIOMEDA

Così concludo anch'io

e so, che l'innocenza

non soggiace alla pena, e chi l'offende

dell'alta onnipotenza

l'arco, e 'l dardo immortal contro si stende.

EURIALO

Tu fabbra d'omicidi

dunque della vendetta

aspetta il dardo, aspetta,

che giusto venga a trapassarti il core.

Se del mio genitore

fosti l'Atropo, attendi

dal mio fiero dolor castighi orrendi.

ORISTEO

Dell'amata mia prole

l'amor comprendo. Oh qual letizia io provo

lagrime liete uscite pur di nuovo.

DIOMEDA

Oristeo destinato a' miei sponsali,

amai più, che me stessa,

ma poiché il padre egli m'estinse, oppressa

da duol quasi fatali

spensi le faci a' lagrimosi avvisi:

ei se n'andò vagando, io non l'uccisi.

EURIALO

So, che non l'uccidesti

il tuo drudo l'uccise,

l'ordine tu gli desti.

Ma s'ei di qua non vola

del vostro impuro amor sull'ali assiso,

s'il turbo non l'invola,

se no 'l rapisce alle catene, all'onte;

del profondo Acheronte

discenderete a tenebrosi liti

barbari spirti uniti.

ORISTEO

Non temer le minacce alta signore

di quel fanciullo altero,

non son le tue ruine in ciel prefisse.

Ignoto cavaliero

m'arrestò non è molto, e sì mi disse.

Alla tua Diomeda

dirai, ch'un suo nemico

difensor le sarà, che si conforti,

e che speri la vita aver da morti.

EURIALO

In sussurri secreti, e non uditi

di', che nove le arrechi

temerario villan? La morte irriti.

ORISTEO

Di pietà, riverente

il debito soddisfo, ed al suo duolo

lagrimo, servo antico, e la consolo.

Se l'incauto t'offese abbi il perdono;

reo di pietoso officio, o sire, io sono.

EURIALO

Ohimè, quai repentini

assalti, il cor mi move

l'aspetto di costui rustico, e oscuro.

Tante saette all'anima mi furo,

le voci sue. Che sarà questo, o Giove?

DIOMEDA

Di nemico guerrier folli speranze

infelici pur siete,

non mi lusingherete.

De' vostri morti anco tra nodi io rido.

In te santa innocenza ah sol confido.

Scena quindicesima

La reggia di Pluto.
Amore, coro d'Amorini.

AMORE

Amor non è più cieco

non ha più l'arco, e i strali,

vedetelo mortali

carico di tesori

or chi argento non ha non s'innamori.

Di ricche spoglie adorno

non porta più la face,

sospir più non gli piace

vuol sacrifici d'ori.

Or chi argento non ha non s'innamori.

Fratelli, siamo pure

di povertade usciti:

Pluto, Pluto in un punto hacci arricchiti.

Vedete quanto vale, e quanto giova

servir signori prodighi, che ponno

affogar la miseria in aurea piova.

Altro che viver schiavi

d'una fallita dea, di genio ingrato,

ch'ha per marito, e vago,

un fabbro vile, ed un meschin soldato.

Chi è costretto a servir dal suo natale

ricco padron s'elegga, e liberale.

Scena sedicesima

L'Interesse, Le Grazie, Amore, Coro d'Amorini.

INTERESSE

Vedete là, vedete

il cercato donzello,

ravvisatelo pure Amore è quello.

GRAZIE

Che miriam noi? Portenti?

Del volto i lineamenti,

del crin d'oro filato,

l'età, l'essere alato

ci 'l denotano Amor. Ma dove è l'arco?

Della faretra scarco

dov'ha la benda, e quale

barbarico ornamento

gli ricopre le membra?

Agl'occhi nostri un altro Amor rassembra.

AMORE

Oh dilette nutrici

da Venere fuggite,

forse a viver venite

con il vostro bambin liete e felici?

Se sacra fame di ricchezze avete,

chiedete omai chiedete;

farò, ch'a mille, a mille

qui le conche eritree mandino i parti,

e che dal salto sen, senza intervallo,

per voi cerulea man svelga il corallo.

Di Creso, e Mida vi darò le verghe,

e perché resti a pieno

ogni vostro desio satollo, e pago,

farò, che gl'Arimaspi, e 'l biondo Tago,

per voi svenino i monti, e d'or ripiena

l'altro v'arrechi la preziosa arena.

GRAZIE

Per posseder tesori,

Amor, te non cerchiamo.

Perché gl'antichi ardori,

l'ammorzata facella

riaccenda la bella

che regge la Caonia, e torni sposa

dell'amante Oristeo, de re d'Epiro,

la dea, che di rubin sparse la rosa,

che del gargaro Ideo sul fertil giro,

di beltà vinse il bello in paragone,

Venere, a te ci manda, e ciò t'impone.

AMORE

Sottrattosi da saggio,

Amor dal tuo servaggio,

ministro esser non deve

di ripudiata signoria. Pur vuole

per la memoria dell'impiego antico,

che l'acerbo nemico

rinnodati i suoi lacci

Diomeda raccolga, e in letto abbracci,

dite a Venere amiche

che delle mie fatiche

l'ultimo don sia questo, e più non speri

avermi esecutor de' suoi pensieri.

I miei novi decreti, o Grazie, udite,

e a lei li riferite.

Quelli amante, che vuole

uccidere i martiri

doni, ma non sospiri.

L'oro, non le parole

in questa avara età

sarà l'arco d'Amor, ch'impiagherà.

Scena diciassettesima

Le Grazie, l'Interesse.

GRAZIE

Chi conversa con belve

apprende gl'ululati, ei che s'elesse

la compagnia venal dell'interesse

altro, che mercenario esser non può.

Il corruppe l'amico, e l'infettò.

INTERESSE

Fermatevi, ove andate?

Pria che partir baciate:

le promesse adempite. Ecco la bocca,

baci su su, chi baciar pria le tocca.

GRAZIE

Di servigio sì lieve

vuoi così vaste usure, o troppo avaro?

Non sai, ch'ogni usuraro

proibiscon le leggi. Ingiusto è il patto

illecito contratto

laceran spesso, spesso

tribunal incorrotto, e giusto foro,

e sovente da loro

castigato ne sei. Sta' sta' pur zitto,

che se ci quereliam tu sei spedito.

Scena diciottesima

L'Interesse.

O schernitrici ingrate

così, così fuggite,

tornate qui; baciate; ove ne gite?

Ma, se le porta il vento, ed io deluso

da queste scaltre resto, e in un confuso.

Se gl'avessi donato

gemma splendia, o d'oro,

posto da parte il verginal decoro

m'avrebbero baciato, e ribaciato;

ma che donassi a queste avare, io no.

Voglio ch'il mio sia mio,

e per un van desio

comprar il pentimento a fé non vo'.

Brama lasciva, brama

più dell'uom, scaltra donna il dolce invito,

ma l'ingordo appetito

copre con vel modesto al cor, che l'ama,

e insuperbita dall'altrui preghiere,

invece di comprar vende il piacere.

Siam troppo incontinenti,

troppo tenero senso è il vostro amanti,

vendereste a contanti,

più virili in amor grazie, e contenti,

vi verrebbero dietro in modo strano

le donne per le vie con l'oro in mano.

Atto terzo
Scena prima

La piazza della Fortezza.
Trasimede, Oresde.

TRASIMEDE

Che paventi, che tremi?

ORESDE

Chi paventa, chi trema?

TRASIMEDE

Ti vedo sbigottito.

Il cammino seguiam con piede ardito.

ORESDE

Fermati, ohimè signore

m'ammazza un batticuore,

esser vorrei digiuno

di sì amara bevanda e medicina

vedo la mia ruina.

TRASIMEDE

Coraggio amico Oresde,

già vicina è l'uscita

l'anima tramortita

ravviva omai ravviva oh come grande

ti vo' far, giunto al regno.

ORESDE

Su tripartito legno

per mia, per mia sciagura,

d'innalzarmi purtroppo ho gran paura.

Quando incontro un soldato

par, che veda un carnefice, che porti

per far ch'in alto io stia, canapi attorti.

TRASIMEDE

Orsù più non s'indugi,

trammi da questo luogo,

movi il passo villan, se non t'affogo.

ORESDE

Pietà. Seguimi io vado

Oresde disgraziato

cammina un appiccato.

Scena seconda

Nemeo, Oresde, Trasimede.

NEMEO

Chi sei tu?

ORESDE

Morto sono.

NEMEO

L'inferno, che sostienti

è Caonio, e straniero, ove si va?

TRASIMEDE

Siamo agresti fratelli, io son ferito,

e del mio debol piede appoggio, e duce

alla patria capanna ei mi conduce.

ORESDE

È questo il vero, se vuoi, ch'io giuri, giuro.

O se vado in sicuro

voglio fortuna mia,

appender mille voti

alla tua cortesia.

NEMEO

L'egro non è villano,

troppo nobile appetito altri il palesa.

Olà soldati.

ORESDE

Ohimè.

NEMEO

Che stia lontano

fatte costui.

ORESDE

L'ho detto.

Morte, fune t'aspetto.

NEMEO

Così sprezzi languente

la cura cittadina?

Le latebre, i tormenti,

chi vuoi, che tra le selve, e tra gl'armenti

sappia cicatrizzare, e raddolcire

della cruda ferita,

così aborri la vita?

TRASIMEDE

Famoso erbario ho il padre,

ei con medici succhi in pochi giorni

farà, che saldo, e sano il fianco torni.

NEMEO

Hai tu padre.

ORESDE

Egl'è morto.

NEMEO

Eppur l'ha tuo fratello.

Che tremi esangue? Ah rustico bugiardo

così, così tu menti?

Narra, di', chi è costui senza tormenti.

TRASIMEDE

Spirto vile, e codardo

or or mi scopre.

ORESDE

Il tutto

se mi perdonerai ti narrerò.

NEMEO

Il perdono ti do.

ORESDE

Un giardiniero io sono.

Lavoro per mercede,

è colui Trasimede,

NEMEO

Trasimede?

ORESDE

Sì, sì.

NEMEO

Principe non ti valse

per il ferro fuggir veste mentita,

né di finta ferita

falso languor t'assicurò le strade.

Per le prese contrade

anelante te cerco. Or consolati

con la preda bramata andiam soldati.

TRASIMEDE

Quanto, quanto era meglio

morir da generoso;

il fato, invidioso

dell'ultime mie glorie, a morte indegna

di real cavaliero, ahi mi consegna.

Scena terza

Oresde, Corinta.

ORESDE

Oresde, omai respira,

passata è la tempesta,

sicura è la tua testa.

Vivo, lodato il ciel; gracchia pur gracchia

di me non ciberai brutta cornacchia.

CORINTA

Dov'è l'anima mia?

Oresde, Oresde, chi

lassa, te la rapì?

ORESDE

Costei non vidi mai

che nel petto non l'hai?

CORINTA

Ohimè lasciamo i scherzi

trammi, trammi di pene.

Trasimede, dov'è? Dov'è il mio bene?

ORESDE

Trasimede è il tuo bene? O donna infida

Oresde poverino.

Quest'è l'affetto vero, e più che fino

che giuravi portarmi?

Amor per vendicarmi

fe', che l'anima tua, cruda mia fera,

restasse prigioniera.

CORINTA

Oh traditrice guida.

Oh scellerata scorta

tu l'hai data al nemico. Oh dio son morta.

Dall'antro custodito ascendi al sole

o tartareo latrante, e con tre gole

inghiotti quest'infido:

o dallo stesso lido,

divorator de' morti,

qui qui sorga Eurinomo

a scarnar, a spolpar perfido un uomo.

Ti seguirò tra l'armi

funesta spettatrice

del tuo fato infelice.

Trasimede mio caro,

ti chiuderò quegl'occhi,

che fiamme m'avventaro.

Tronco, reciso il crine

povere esequie ti farò col pianto,

poscia morrò del tuo bel corpo accanto.

Scena quarta

Oresde.

Credete poi credete

amanti a' giuramenti.

I singulti, i lamenti

e le vostre carezze, o donne mie,

sono tutte bugie.

Io, che d'esser credea

solo, solo nel core,

pur in bocca non son della mia dèa.

Femmina ingrata va'

s'amar non mi vuoi tu

seguir non voglio più

anch'io la tua beltà.

Femmina ingrata va'.

Ho mille, che mi pregano,

mille, che mi lusingano;

con loro appagherò la mia lussuria,

di donne come te non s'ha penuria.

Scena quinta

Ermino.

Amor se vuoi giocare

gioco quel che vuoi tu,

che non sei buon di fare,

ch'io viva in servitù.

Le tue panie fuggirò.

Che sospiri? Oh questo no,

per un viso dipinto

per un labbro, ed un sen,

il cui candor è finto,

il cui minio è velen,

pazzo dio non penerò.

Che sospiri? Oh questo no.

Trasimede, il mio principe infelice,

per seguire due stelle, o mentecatto

del tuo torbido mar naufrago è fatto.

Vidi andar prigioniero

il meschino, e so bene

che tu, figlio d'un fabbro, iniquo arciero,

le tenaci catene

li fabbricasti sulla patria incude:

la radice de' mali in te si chiude.

Andava il poverino

afflitto, e a capo chino,

senza formar un doloroso accento.

Intenerir mi sento.

Ma perché l'alma ingombri,

Ermin di meste cure?

Non medica il dolor l'altrui sventure.

Meco sta

il contento, e l'allegria.

Canto, e riso

mai da me non fia diviso.

Lieto core

sempre gode, e mai non more.

Scena sesta

Il campo degl'epiroti, attendato sulle spiagge dell'Ionio.
Eurialo, Trasimede, Diomeda, coro di Molossi.

EURIALO

D'Astrea la destra ultrice

ambo v'incatenò belve omicide.

Già più non vi difende, o voi divide

recinto inespugnabile, e scosceso

dagli strali d'Epiro. Il reo peccato

non può fuggir, che porta a piedi il peso,

le scuri del castigo. Invendicato

non va sangue innocente,

né che goda la colpa il ciel consente.

Oh del mio genitor anima diva,

che dell'Olimpo assisa

in luminosa fede il tutto miri,

da quei stellati giri

quaggiù rivolgi i lumi, e i sacrifici

vedi de' tuoi nemici:

le vittime, ch'io t'offro alma beata

rendino l'ira tua vinta, e placata.

TRASIMEDE

Già già ch'all'innocenza

chiude, nega l'udito empia inclemenza;

già, che morir degg'io

incolpevole, a torto; a te rivolto

adorato mio volto

ti supplico, ch'almen tranquillo, e pio

in quest'ultimo punto

del mio vital respiro, a me ti mostri,

e degl'affetti nostri

le memorie portando anco agl'Elisi,

dell'eterno, indivise

viver possiam la vita

immortale, infinita.

DIOMEDA

Che chiedi, o troppo infido, e mentitore?

L'imago, ch'hai nel core

di cui, per appagar l'occhio rubello,

formar festi il modello,

t'assisterà serena

all'agonie vicine: anzi divina

difenderà da morte il tuo mortale;

ovvero cittadina

de' regni luminosi, al patrio polo

l'anima tua porterà seco a volo.

EURIALO

Al feretro vicini i traditori

contendono d'amori.

TRASIMEDE

Ohimè così tu vuoi.

Con vane gelosie

della parca assistente

la falce già cadente

spargermi di veleno? Ah luci mie

fate, che consolato

m'acconci a teli ingiusti

con sguardi di pietà da voi mirato.

DIOMEDA

Dal tuo sleale inganno

pregne le luci di vipereo tosco

altro, che morte parturir non sanno,

non voglio avvelenarti

cruda l'esizio. Ov'è la benda? Omai

deh chiudetemi i rai.

EURIALO

Terminin le contese

arcieri i vostri strali

la coppia rea di sangue aspersa pera,

e se da fera oprò, cada da fera.

Scena settima

Corinta, Trasimede, Eurialo, Diomeda, coro di Molossi.

CORINTA

Che rimiri Corinta?

La tua speranza, cinta

di ritorte, è cadente?

Perfidissima gente,

perché sapete voi, che quei begl'occhi

d'innamorar la morte hanno possanza

i volete velar? Scocchi, pur scocchi

l'arco crudel (ma non si bendi il sole)

di Scizia i dardi, e uccida poi se puole.

Amato Trasimede

la raminga Corinta

del locro regno erede,

la tua sposa qua vedi, e se ne viene

per morir teco, e spalancar le vene.

EURIALO

Costei, costei di Locri

la principessa?

DIOMEDA

Albinda è la rivale?

Degna è ben di morir salma sleale.

TRASIMEDE

Ah Corinta, Corinta,

che t'abbracci mi nega

Amor vendicativo. Egli sdegnoso

de' miei disprezzi l'empia man mi lega.

Mira le tue vendette,

che tardate, o saette?

Non fate, ch'altri usurpi i vostri uffici:

delle mie colpe infide

la coscienza m'uccide.

EURIALO

Querelar non ti déi vergine bella

se perdi un traditor. Nel patrio soglio,

che t'ingombra il tiran, riporti io voglio.

Ma, che badate voi? Della quadrella

date il volo alle penne.

CORINTA

In questo petto

pria, ch'a lui passi il core, avrà ricetto.

Scena ultima

Oristeo, Eurialo, Corinta, Trasimede, Diomeda, coro di Molossi.

ORISTEO

Sire, che gl'innocenti

si condannino mai

non vidi in parte alcuna, eppur vagai.

Di costoro a difesa

da region remota, e strania banda,

preregrino guerrier, il ciel mi manda.

EURIALO

Noto è 'l delitto, e in prova

di certa colpa non s'elegge il brando,

né si trova campion d'atto nefando.

Di tenerezze nova

si distrugge al calor l'anima mia.

CORINTA

Pietoso difensor Amor t'invia.

ORISTEO

Di fama mentitrice

non credete a' rapporti;

vivon, vivon i morti.

Si spezzi all'innocenza il nodo reo,

ecco il vostro Oristeo.

CORINTA, DIOMEDA E TRASIMEDE

Oristeo vive?

CORO

Oh sire.

EURIALO

Oh mio re, mio signore,

oh deplorato padre,

ti stringo pur, prostrato,

ti bacio pur questo ginocchio amato.

Ben, ben conobbe il sangue

l'ignota fonte, e simpatia ne diede

alle viscere avviso. Al nobil piede

l'eredità depongo, e di regnante

torno vassallo al genitore innante.

ORISTEO

Oh figlio sospirato,

ne' miei lunghi viaggi. Oh di me stesso

parte più cara. In questo dolce amplesso

delle sfere la gloria in me si stilla.

Ma tu raggio, e pupilla

di questi lumi idolatranti, e schiavi

del tuo vago sembiante,

perdona a un supplicante.

Sai ben, che della morte

del tuo padre diletto è rea la sorte.

Dalle tue rigidezze

disperato, cercai regni remoti,

e sotto climi ignoti

l'involontario error purgai col pianto:

volto cangiato, e manto,

a te tornai Rosmino.

E coltivando il tuo real giardino,

mi laceraro il cor spine infinite,

sana al misero tu l'aspre ferite.

DIOMEDA

Risuscita l'affetto, e nato appena,

l'ira troncando, con la fiamma in mano

il suo nemico sdegno

del mio petto dal regno

fugga, scaccia lontano.

Lusinghiero mio dolce a te mi dono

Oristeo ti perdono;

e dell'estinta face

ravvivato l'ardore

ti ripongo nel core.

ORISTEO

Salite inaspettate

di spirto, traboccato

dalla fede d'Amor, voi, voi mi fate

dall'infelicità sorger beato.

CORINTA

Consolato Oristeo

bacia la sua placata,

ed io quando abbracciata

sarò da te signore?

TRASIMEDE

Or ora, o bella

l'alma ti faccio ancella,

e mentre al sen ti stringo

pentito de' deliri, a te m'annodo.

Godi mia vita?

CORINTA

Sì mio ben, che godo.

ORISTEO

Delle vostre dolcezze

partecipe è Rosmino

illustri sposi, è in Oristeo cangiato

contro lo scellerato,

ch'usurpandoti il regno

il padre t'incatena,

voglio Corinta, che da questa arena

si drizzin l'armi. Perirà l'indegno.

CORINTA E TRASIMEDE

Generosa virtude,

o re, pari al valor in te si chiude.

EURIALO

Principi, condonate,

vi prego, alle mie furie,

da paterna pietà nacquer l'ingiurie?

ORISTEO

È scusabile il fatto,

pure l'oblio l'assorba, e in questo loco

giubili l'allegrezza, e scherzi il gioco.

CORINTA, DIOMEDA, TRASIMEDE E ORISTEO

Sparite,

svanite,

tempeste, procelle,

le stelle

d'Amore

n'han morto il dolore.

Fine del libretto.

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Locandina Prologo Scena unica Atto primo Scena prima Scena seconda Scena terza Scena quarta Scena quinta Scena sesta Scena settima Scena ottava Scena nona Scena decima Scena undicesima Scena dodicesima Scena tredicesima Scena quattordicesima Scena quindicesima Atto secondo Scena prima Scena seconda Scena terza Scena quarta Scena quinta Scena sesta Scena settima Scena ottava Scena nona Scena decima Scena undicesima Scena dodicesima Scena tredicesima Scena quattordicesima Scena quindicesima Scena sedicesima Scena diciassettesima Scena diciottesima Atto terzo Scena prima Scena seconda Scena terza Scena quarta Scena quinta Scena sesta Scena settima Scena ultima