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ovvero azione seconda. | |
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Scena prima |
Diomede, Ulisse. |
Diomede, Ulisse
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DIOMEDE |
L'amante modesto,
che serve, che brama
bellissima dama,
non deve sì presto,
con termine ingordo,
conchiuder accordo.
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ULISSE |
Ti credo, ti scuso:
perché tu non puoi,
conchiuder non vuoi.
Schernito, deluso,
del ben, che non hai,
modesto ti fai.
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DIOMEDE |
Ha più dell'umano,
ha manco disagio,
l'amar a bell'agio.
Il poco è più sano;
la flemma è sicura;
il trotto non dura.
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ULISSE |
Hai pigro cavallo,
e credi, potere
far lunghe carriere?
Lentezza è gran fallo,
se chiede il periglio
furor, non consiglio.
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DIOMEDE |
Già pronto bevea,
or provo più grate
bevande stentate:
l'indugio ricrea:
di gioia, che vola,
tardanza consola.
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ULISSE |
Dell'ore perdute
si penton poi tardi
gli amanti infingardi,
appena ho vedute
le donne, ch'ardito
conchiudo il partito.
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DIOMEDE |
Ambire, sperare,
desio d'ottenere
e un lungo piacere
col presto ultimare,
si scema l'affetto,
finisce il diletto.
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ULISSE |
E tu, come egualmente
distingui le stagioni?
Come d'armi, e d'amori
sei maestro eccellente?
Dianzi tutto guerriero, or tutto amante;
ma se la lontananza oggi ti ha resa
la vergine più bella,
mi sembra la donzella
poco, o nulla per te d'amore accesa.
Non veggo, che ti miri,
ch'amor è questo vostro?
Non sento, che sospiri? Eppur si dice,
che l'adorata all'adorato avante
a mille segni si discopre amante?
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DIOMEDE |
Le donzellette oneste
han temenza del padre,
vergogna del vicino,
dubbiezza dell'amica,
e d'ogni ombra sospetto:
e se negan l'inchino,
tutto, tutto è rispetto.
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ULISSE |
Il proverbio non erra:
tu sei re dell'Etolia, onde ancor hai
dell'Etolia i costumi;
molto chiedi e presumi.
Queste guance adombrate
da pelo abbarbicato, ohimè, che sono
mal volentieri amate:
dubito, che tu sia
del numeroso stuolo,
che s'usa tuttavia,
di innamorarsi solo:
e ch'ella adocchi, io credo
con più giusta ragione
un guerriero garzone,
quell'Achille celato
fra coro di donzelle,
or baciante, or baciato,
or preso per la mano,
or annoiato al fianco,
gelosia non ti dice
ch'è di te più felice?
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DIOMEDE |
Quell'audace, quel fiero
sempre a dar morte pensa,
e non a tesser vite:
vuol disfar, non rifare;
vuol ferir, non amare:
ed ecco l'orgoglioso;
vedi, s'egli ha sembiante
di soldato, o di sposo?
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Scena seconda |
Achille, Ulisse, Diomede, e coro d'Isolani. |
<- Achille, isolani
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ACHILLE
Dolce cambio di natura,
donna in uomo trasformarsi,
uomo in donna tramutarsi,
variar nome e figura.
Non son più Fillide bella,
son Achille oggi tornato:
quanti invidiano il mio stato,
per far l'uomo, e la donzella?
Io per me non vedea l'ora,
di tornar maschio guerriere;
molti son d'altro parere,
resterian femmine ogn'ora.
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ULISSE |
T'abbiam al fin pur rinnovato, Achille?
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ACHILLE |
Lieto giorno, e festoso esser dev'anco,
in cui rinasco, amici,
pigre a scherzi guerrieri
non sian le destre forti:
nell'arringo d'onore oggi si sudi.
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ULISSE |
| |
DIOMEDE |
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ACHILLE |
Nell'arene del porto
correte ad apprestar le schiere vostre
per le pirriche giostre.
Attendetemi là, campione, e venga
chi di voi contraddire oggi desia
alla querela mia.
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CORO DI ISOLANI |
Qual mai querela è questa,
che sostener Achille
in tua nobil barriera ardito intendi?
| |
ACHILLE |
Che possa, a suo piacere
un giovine amatore
cangiar affetto, e variar amore.
| |
ULISSE |
Questo no, no 'l dirò mai,
in amor io son costante,
fede eterna le giurai,
e morrò fedele amante.
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ACHILLE |
Di Venere la stella,
in ciel non è tra l'impiombate, e fisse:
amor è figlio d'un pianeta errante:
ma troppo sei troppo ammogliato Ulisse.
| |
ULISSE |
Orgoglioso garzone,
sei di moglie inesperto;
non adoro la donna, adoro il merto.
| |
CORO DI ISOLANI |
Noi ce n'andiam volando
al teatro del porto,
vedrassi ivi con l'asta, indi col brando
chi segua il vero, e chi sostenga il torto.
| Ulisse, Diomede, isolani ->
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Scena terza |
Vulcano, ed Achille. |
<- Vulcano
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VULCANO |
Ferma, o fatal guerriero
ferma onor della terra, amor del cielo,
il piè snello e leggero,
che seguirti non può con questo incarco
il zoppo dio del foco:
fermati Achille, un poco.
| |
ACHILLE |
Di buona voglia, o padre.
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VULCANO |
Il noderoso legno,
che di sua man Minerva
scelse, scorzò, drizzollo,
d'un sol Achille è degno.
Il mio saper armollo
di ferro pungentissimo, e gli infuse
questa nuova virtute,
che potrai con quest'asta a tuo piacere
recar morte, e salute.
| |
ACHILLE |
Pregiatissimo dono,
privilegio inaudito.
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VULCANO |
Non han le selve un cerro
più nodoso, o pesante,
non ha Vulcano un ferro
più terso, o penetrante.
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ACHILLE |
Grazie per me le rendi,
e grazie a te sian rese
dell'affetto cortese.
Per Minerva io l'impugno,
e chi m'arma di speme,
chi la mia destra onora,
forte la renda ancora.
| |
VULCANO |
Vendica tu l'ingiurie
d'un Menelao tradito;
castiga questi adulteri scortesi
ch'io ben con molti offesi,
son a un simil partito.
| Achille ->
|
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|
Scena quarta |
Venere e Vulcano. |
<- Venere
|
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VENERE |
Ah, marito, marito,
in quell'orride grotte
credo che tuo diletto
sia pensar giorno e notte
a farmi alcun dispetto.
Invece di saette
per la destra di Giove,
son oggi le tue prove
il drizzar lance e 'l macchinar vendette.
| |
VULCANO |
Ah, consorte, consorte,
mentr'io drizzo le lance
tu, ripiena di ciance,
mi fai le fusa torte.
Quanto meglio faresti
a starti in pace meco
di Lenno entro lo speco,
e lasciar i pensieri
di battaglie e di morte
ai numi più guerrieri!
| |
VENERE |
Dunque, dunque vorresti
(oh dio, quanto presumi!)
vedermi riformata
entro gli eterni fumi
d'una fucina ingrata?
Arsiccia, nubilosa,
Venere scorucciosa,
lugubre, addolorata,
in mezzo alla caligine fetente
con un vecchio impotente?
Va', trovati un'arpia,
trovati un mostro nel più negro Egitto!
O macchinista afflitto,
non son fatte le veneri a tuo dosso.
Che nobil cortesia,
che bella carità!
Perché, marito mio, tu non patisca,
vuoi che s'irruginisca
nella spelonca tua la mia beltà,
e non vedi ch'a Venere lasciva
predichi l'onestà!
| |
VULCANO |
Creder Venere casta è creder vano.
Chi Venere la moglie aver desia,
è forza alfin che sia
anch'egli un bel Vulcano.
| |
VENERE |
Forse ch'io ti pregai
che mi fossi marito?
Tu sai quanto, tu sai,
mi richiedesti a Giove!
Giove alfin mi ti diede,
patteggiando fra noi
che tu dovessi in terra
viver negli antri tuoi,
ed io regger del cielo il terzo giro.
Non ti doler, s'io sono
in un ciel sì volante,
una moglie vagante,
se senza me tu resti:
sai ch'i patti fra noi furono questi.
Oggi Troia mi chiama;
a Paride io mi sento
dovuta, e non ti sembra
che la difesa mia merti un pastore
che mi fé tanto onore?
| |
VULCANO |
Credo, credo ch'ogn'uomo
che nuda ti vedesse
ti daria, bella diva, altro ch'un pomo.
| |
VENERE |
Non pensar a vendette, e soffri e prendi
in pace il tutto. E poi,
se d'armar mi prometti
d'una cotta fatata
il più sublime de' troiani eroi,
anch'io ti sarò grata,
anch'io nuovi diletti
ti porgerò, Vulcano.
Su, su, per me, gran fabro,
affatica la mano!
| |
VULCANO |
Beltà che non impetra! In Lenno io torno;
l'armi richieste avrai,
se tu, diva, verrai
a star meco un sol giorno.
| Vulcano ->
|
| |
|
VENERE
Sì, sì, ch'egli è ben giusto!
Consolato è partito,
con questa ombra di gusto,
il credulo marito.
Alla donna ch'è brutta, ch'è sciocca,
soggiogare i mariti non tocca;
se le belle e le sagge non sanno
comandare al marito, lor danno.
| Venere ->
|
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Scena quinta |
Nutrice, e Deidamia. |
<- Nutrice, Deidamia
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NUTRICE |
È giustissimo il duolo:
di te si scorda Achille,
vuol partir egli solo;
ma tu nel grave torto,
se smarrisci il consorte,
non perdere il conforto.
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DEIDAMIA |
Io mi veggo schernita;
lasciata in abbandono;
e tu mi neghi o dio,
un diluvio di pianti, e di querele
contro sposo infedele?
Che di me trionfante
pria, che del frigio amante
Achille parta e Deidamia qui resti?
E provi altri funesti
incendi al cor, che non apporta Achille
alle troiane ville?
E senza fallo mio
che pria di Troia incenerir dev'io?
D'una donna rapita,
d'un violato ospizio,
l'ingiurie Achille a vendicar se n' vola
e lascia offesa me, che non l'offesi?
Che lo raccolsi in seno?
Che feconda restai?
Che il suo furto celai? L'ora aspettando
dopo i furtivi amplessi
degli imenei promessi?
| |
NUTRICE |
Ben l'intend'io, cui tocca
faticoso disturbo
di nutrir il tuo Pirro
celato, e a chiusa bocca:
ma mi sovviene ancora
che forzato egli parte, e parte, tace
per tuo onor, per tua pace;
or ch'egli è discoperto
maschio di tanto merto,
vuoi, che fra coro di donzelle ei resti?
Vuoi tu scoprire al genitor le colpe?
Silenzio dunque, e senno
fanciulla adopra, e spera
sorte miglior, che non dovranno eterne
esser le lontananze, e trova il fato
spesso il sentier negato.
| |
DEIDAMIA |
Io mi sento alla morte in pensar solo
ch'oggi debba partir l'Achille mio,
senza più dirmi un frettoloso addio.
Non vedi tu non senti
alle trombe stridenti,
allo strepito d'arme,
al nitrir dei corsieri,
ch'egli è rivolto tutto
di Marte alle fatiche, e della moglie
cangiò l'amor con le cangiate spoglie?
| |
NUTRICE |
La giovanil licenza
quel frutto, che permette, unqua non porge,
t'amò necessitato, or ch'egli è reso
del suo voler signore,
non conforma i pensieri
agli affari primieri.
Al pettine dovea
giungere il nodo al fine:
contentati, che rea
di lacerato onore,
vergine rimarrai
nel concetto comune;
o tornerà lo sposo, o tu sarai
d'altro voler ben presto.
Non mancano mariti
alle regine mai. So pur, ch'un tempo
amasti Diomede,
s'egli al padre ti chiede,
avratti di bell'oggi, e a me non manca
frode, sapere, ed arte,
benché madre d'un figlio, oggi tu sia,
di vergine tornarte.
| |
DEIDAMIA |
Ohimè Nutrice, ohimè tu vuoi che bocca
usa al nettare, prenda,
per l'onestà salvare,
queste bevande amare?
| |
NUTRICE |
Tutti gli uomini son stelle per noi
d'un medesimo cielo
e s'un raggio ci offende
l'altro sane ci rende:
sgombra la tema vana,
e ripiglia l'ingegno.
| |
DEIDAMIA |
Ohimè ch'il senno,
chi davvero si duole,
smarrisce: e resta alfine
senza sensi, e parole,
in preda alle ruine.
| |
| |
Anderebbe qui una ricchissima comparsa di barriera, ma studiosi della brevità, abbiamo finto, ch'ella sia di già seguita al porto. | Nutrice, Deidamia ->
|
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Scena sesta |
Achille, Diomede, ed Ulisse. |
<- Achille, Diomede, Ulisse
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ACHILLE |
Cedi cedi, e ormai confessa
al discreto vincitore,
che cangiar si deve amore.
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DIOMEDE |
Vaga la giostra fu, ch'agli occhi espose
nel teatro del porto
il tuo guerriero ardire,
ma poco ella fu grata
alle regie donzelle,
mentre niuna, ohimè di queste belle
l'onorò d'un sguardo.
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ULISSE |
Son in amar costanti,
e sdegnan di veder le donne sagge
volubili gli amanti.
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ACHILLE |
Tu non conosci l'uso
delle donne di Sciro,
son femminelle intente
a stancar gli aghi e 'l fuso.
Né donne qui di bellicosa gente
aman gli scherzi fieri;
odian'arme, e guerrieri.
Ma noi troppo scherzammo, il tempo chiede,
ch'agli uffici dovuti
volgiam la mente, e 'l piede, acciò la presta
partenza apporti i dimandati aiuti.
| Ulisse, Achille, Diomede ->
|
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|
Scena settima |
Deidamia sola. |
<- Deidamia
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Ardisci, animo, ardisci;
osa, mio cor, che temi?
Temi quel che di grande,
di grande, e d'impensato,
ne' tuoi perigli estremi,
ti suggerisce un consiglier fidato?
S'il precipizio miri,
se la ruina aspetti,
sgombra, sgombra i rispetti,
adempì i tuo' desiri;
vergogna non t'arresti
troppo udisti, e vedesti.
Su, su senno ingegnoso,
rendimi il caro sposo.
Arti, industrie, discorsi, oh d io, che spero,
fissativi qui meco,
per destar a pietade, un crudo, un fiero,
un fuggitivo greco,
che d'un troiano ingiurioso, ed empio
Achille oggi saresti assai peggiore
d'infedeltate, e d'arroganza esempio.
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Scena ottava |
Giove sull'aquila, con la Vittoria volante; e Giunone in terra. |
<- Giove, Vittoria, Giunone
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GIOVE |
Consorte non t'incresca,
se dal ciel ancor io
m'allontano talora;
e non son nel tuo letto
marito sì perfetto.
Perché tanta dimora
tra mortali tu fai?
Devi forse di nuovo
non ben contenta del giudizio primo
al giudice d'appello
mostrar il corpo bello?
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GIUNONE |
Molto di me geloso
ad essere incominci:
onde queste doglianze?
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GIOVE |
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GIUNONE |
In terra questa volta
io dovrò rimanere, insin, che resti
arsa Troia, e sepolta:
l'Achille è ritrovato:
altro non manca più, se non, che tosto
tu ti dichiari meco,
se sei troiano, o greco.
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GIOVE |
Io son Giove, e son padre
a tutti universale.
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GIUNONE |
Statti dunque lassù con la tua pace.
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VITTORIA |
Lontananza di moglie ah non è mai
al marito discara?
Mentre l'armi Giunone,
Giove gli amor prepara.
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GIUNONE |
E che fa teco la Vittoria in cielo?
Che non la mandi, o pronto
esecutor del fato,
ov'egli ha decretato?
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GIOVE |
Non andrà così presta
all'esercito argivo
la vittoria richiesta.
Deve scendere in prima, ove a contrasto
sarà saggia donzella
con quel forte d'Achille animo vasto.
Vola, Vittoria, vola,
favore alla pazzia
porgi di Deidamia.
Vinca il suo vincitore, onde si sappia
che tante usa la donna in contro l'uomo
grida, astuzie, rumor, frodi, e ruine,
che della donna è la vittoria alfine.
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| |
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VITTORIA
Senno contro stoltezza invan contrasta
Achille miscredente,
vedrà la tua grand'asta,
che d'una donna il crine è più pungente.
O come in cieca inevitabil fossa
questi ritrosi scaltri
anco per lieve scossa,
vanno a precipitar prima degl'altri.
| Giove, Vittoria, Giunone ->
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Scena nona |
Capitano del coro degli Isolani armati, e Deidamia, l'ode furtivamente, e lo rapisce seco. |
<- Capitano, isolani
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CAPITANO |
Spalancatevi abissi,
inghiottitemi voi tombe d'inferno,
che d'un rossore eterno
porto macchiato il furibondo volto.
Perduto l'onore,
guerriero amatore,
sta meglio sepolto.
Chi crederia, che quell'Achille, dianzi,
fra coro di donzelle
effemminato, imbelle,
m'avesse oggi atterrato
nel giocoso steccato?
Fu da scherzo la giostra,
ma codardia sovente
appresso invida gente
da scherzo anco si mostra.
Io, che d'invitto ho il nome,
io, che di tante, e tante
ornai palme, e trofei
gli altari degli dèi,
com'esser può ch'alla mia donna avante
ritorni oggi abbattuto,
e vilipeso amante?
O voi della mia dèa
occhi belli e ridenti,
ahi lasso, io non credea,
che tanto esser dovesse il vostro riso
per vinto rimirarmi
in questo gioco d'armi:
e sai se la mia donna
scherzosa oggi ridea
in veder quel bellissimo garzone
meco a stretta tenzone!
Oh dio, che scoppio di gelosa rabbia,
temo, ch'ella non l'abbia,
cangiando il primo affetto,
per mio rivale, e suo campione eletto.
Ma questo mi consola,
che porta il crudo il satollato Achille
un gran odio alla gonna, e volto all'armi
non lo travaglia più pensier di donna.
Io me ne riedo in corte;
che dirò per mia scusa,
se la mia donna di viltà m'accusa?
Che Marte io l'ho creduto,
in sembianza d'Achille
ch'io non gli avrei ceduto.
| Capitano, Deidamia, isolani ->
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Scena decima |
Diomede, ed Eunuco. |
<- Diomede, Eunuco
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DIOMEDE |
Oh, dio, che sento? Oh dio,
che narri d'impensato?
Ha Deidamia sì presto,
per un pensier molesto,
il senno abbandonato?
Dunque del suo furore
cagion credi, che sia
la partenza d'Achille?
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EUNUCO |
Anzi, ch'io n'ho certezza:
dal suon conosco maculato il vaso.
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DIOMEDE |
Dunque la credi amante? Ohimè rispondi,
ch'il tuo silenzio insino,
che risposta io non senta,
m'accora, e mi tormenta.
| |
EUNUCO |
Dillo tu stesso, dillo,
ch'avresti oprato tu, forte garzone,
fra coro di donzelle?
Non sol la stanza stessa, il letto stesso
era loro comune, e pensi, e vuoi,
che scoperti gli inganni
non fussero a costei
di que' donneschi panni?
Achille, e Deidamia
era in due corpi un'alma;
ed or, che svelle Achille
dal coltivato seno
un fulmine improvviso, e tolto a Sciro
ad Ilion lo spinge,
or ch'egli nutre altri pensieri, avvolto
ne' maneggi dell'armi, e non vuol moglie,
da tante amare doglie
sopraffatta la giovine dolente
languì, tremò, sudò,
inferocì, girò
gli occhi insieme, e la mente,
e con sgorgata di querele atroci,
versò l'affanno, e vomitò l'ingegno.
Uscita fuor dalle paterne stanze,
per le piazze di Sciro
del suo furor intorno
fa scena lacrimevole, e funesta.
Il di lei padre intento
ad arredar l'armata,
del furor di sua figlia
non ebbe, al creder mio, contezza ancora.
| |
DIOMEDE |
E voi, ditemi, e voi
servi senza pietà, privi d'affetto;
perché non l'arrestaste?
| |
EUNUCO |
Anco non sai l'offesa,
ch'a Venere si fa, quand'altri tenta
di manometter chi d'amor folleggia,
ch'il malor se gli attacca?
L'aver pietà delle sciocchezze altrui
non voglio che mi costi oggi quel poco
di cervel, ch'io mi trovo.
| |
DIOMEDE |
Non è malor, ch'infetti il mal del pazzo,
Amor pietoso almeno,
se saggia me l'ha tolta,
me la conceda stolta:
che stringendola al seno,
o ch'io la sanerei,
o seco impazzirei.
| |
EUNUCO |
Ed ecco appunto a noi
la baccante novella?
| |
EUNUCO E DIOMEDE |
A noi la pazza, a noi,
la pazza, affé, la pazza.
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Scena undicesima |
Deidamia, Eunuco, Diomede, coro d'Isolani e Nutrice. |
<- Deidamia, isolani, Nutrice
|
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DEIDAMIA |
Guerrieri, all'armi, all'armi;
all'armi, dico, all'armi.
Ove stolti fuggite?
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EUNUCO |
Io ben fuggir volea: ma tu più snello
il piede hai del cervello.
| |
DEIDAMIA |
La fiera d'Erimanto,
l'erinne Acarontea,
il piton di Tessaglia,
la vipera Lernea,
ci sfidano a battaglia.
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CORO |
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DEIDAMIA |
Mugge il toro di Pindo,
rugge il Nemeo leone,
udite, udite Cerbero, che latra.
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EUNUCO |
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DEIDAMIA |
Volete, che v'insegni,
ingegnosi discepoli di Marte,
a brandir l'asta, a maneggiar lo scudo?
A ferir, a vibrar, di punta, in giro,
di dritto, e di rovescio,
questa fulminea spada?
A farsi piazza, e strada
sovra i corpi nemici? Ecco un fendente
come in testa si dona.
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CORO |
Lontano, ah, più lontano:
ch'ove è legger l'ingegno,
è pesante la mano.
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DIOMEDE |
Specie non è più ria
degli stolti maneschi;
e col pazzo, che dà, savio non treschi.
| |
DEIDAMIA |
Su stringete le file,
formate lo squadrone,
abbassate le picche.
Soldato dormiglione,
camerata d'Achille,
destati, ch'il nemico
di qui poco è lontano.
Armi, armi, armi alla mano.
| |
EUNUCO |
Mi finsi addormentato:
ma contro un pazzo desto
poco val finto sonno;
che se vegli, o se dormi, ei t'è molesto.
| |
DEIDAMIA |
Fermate, olà, fermate,
oh dio, silenzio, oh dio,
tacete, omai, tacete,
chetatevi, chetatevi, che chiede
il traditor perdono
della schernita fede.
Elena bella io sono,
tu Paride troiano,
su rapiscimi, su, ladro melenso,
stendi, stendi la mano.
Ti picchi? Ti rannicchi? T'incrocicchi?
Giacer io volea teco,
e lasciar il mio Giove,
ch'ogni notte sta meco;
ma stanco del lunghissimo cammino,
ch'ei fa dal ciel in terra,
mi riesce sovente il gran tonante
un sonnacchioso amante.
| |
DIOMEDE |
Ah, donne, donne,
dove vi va la mente?
| |
CORO |
Che miscuglio d'amori?
Che grottesche di gente?
| |
DEIDAMIA |
Deh dimmi, dimmi il vero,
se lo dicesti mai,
che fissa pecoraggine ti assale?
Di che ti meravigli?
Cutrettola, fringuello, oca, frusone,
barbagianni, babbusso:
non so, per quale influsso,
ne' miei segreti amori,
urto ogn'ora in soggetti
più stolidi, e peggiori?
Non si può più parlare,
ognun, a quel ch'io sento,
oggi mi vuol glossare,
mi vuol fare il commento.
A stride, quiete, dunque,
ad intendersi a cenni,
alla muta, alla muta,
pronta man, occhio presto,
quel che diria la lingua, esprima il gesto.
| |
EUNUCO |
Fra tanti linguacciuti,
saremo amanti muti?
| |
DIOMEDE |
No per certo, che troppo
il silenzio fa male
a canoro animale.
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DEIDAMIA |
Canta tu, dunque, canta,
ch'io ti presto l'orecchio.
| |
EUNUCO |
Non posso senza musici istromenti
accompagnar la parte.
| |
DEIDAMIA |
In questo, amante mio,
non posso aiuto darte.
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DIOMEDE |
Non senti anco, non senti
que' cembali lontani
alla canzon chiamarte.
Se de' padroni insani
non servi alle richieste,
paventa almen le mani
che l'hanno i pazzi risolute, e preste.
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EUNUCO
Serva, serva chi vuole,
ch'io non ho voglie ignobili, ed ancelle:
fuggono infin le stelle
per non servire il sole.
O che gentil sollazzo
aver poco salario, e 'l padron pazzo.
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DEIDAMIA |
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EUNUCO |
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DEIDAMIA |
Inutil tronco umano
disutil manigoldo, ancora vuoi,
per far le tue vendette,
castrar le canzonette?
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CORO |
Eccoti l'altra appresso: e che fia mai
non sarem dunque buoni
a dar delle canzoni? Ah fusser tutte
le donne del tuo senso, e del tuo senno.
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DIOMEDE |
Il diletto è qui tutto
al canzonar rivolto:
d'un secolo cantante
è forza secondare
il lieto umor peccante.
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CORO
Nella musica del mondo
mala cosa è fare il basso.
Che s'io salto, o vo di passo
mi ritrovo ogn'ora in fondo,
sopportar, oh dio, non posso,
ch'ognun mi faccia il contrappunto addosso.
Sembro un Tantalo d'inferno,
quando calò al Gammautte,
che rimango a labbra asciutte
di fortuna un scherzo eterno:
ma, s'intender mi volete,
ci vuol altro, che acqua, alla mia sete.
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(♦)
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DEIDAMIA |
Musico terremoto,
il tuo pensier mi piace,
e credo che tu sia
più di Bacco devoto
che di Febo seguace.
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CORO
Quelle poma acerbe, e dure,
pazza mia, che tieni in seno,
mi sarien in parte almeno
refrigerio a tante arsure:
che s'in ciel sì bello io salto,
cangio il basso infernal tutto in contralto.
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DEIDAMIA |
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DIOMEDE |
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CORO |
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DEIDAMIA |
Ohimè quest'onda, ohimè
è l'ultima per me.
Dunque pietade in voi non ha più luogo?
Non vedete, ch'affogo?
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EUNUCO |
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DEIDAMIA |
Ah so ben io
qual di racchiuso pianto al mesto core
fa lago il mio dolore.
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Verga tiranna ignobile
recide alti papaveri;
per questo io resto immobile,
fra voi sozzi cadaveri.
Il foco merto, ardetemi:
il sepolcro apprestatemi
donne care, piangetemi;
pace all'alma pregatemi.
| S
(♦)
(♦)
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EUNUCO |
Or la stagion sarebbe
di stringerla, che sembra
fuor di sé stessa uscita.
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DIOMEDE |
Ch'io leghi quelle mani,
che mi legaro il core,
non lo consente amore.
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EUNUCO |
Ahi troppo ti dimostri,
coraggioso guerrier, timido amante.
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NUTRICE
Imparate, imparate,
o donne, amor a pregar,
ch'in dolce nodo a legar
vi venga con chi bramate.
Alle credule amatrici,
per malvagio lor destin,
queste fasce dare al fin
son forzate le nutrici.
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EUNUCO |
Ma la nutrice io veggo
che furtiva se n' viene
per annodar la stolta
un gran numero seco ha di catene.
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DIOMEDE |
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DEIDAMIA |
Son forzata, o vicini,
il mio onor è perduto;
aiuto, amici, aiuto,
così, così, così, di qua, di là,
amoretti cortesi, avanti avanti,
zeffiretti volanti.
Vittoria, amor, vittoria,
palme, allori, trofei,
grazie, onori agli dèi:
date, date, voi segno
della nostra allegrezza;
il piè segua l'ingegno,
e con festosa usanza
pesti i visi la mano,
e 'l piè triti la danza.
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Dopo che gli Scemi hanno alquanto danzato, Deidamia così gl'interrompe: | <- scemi
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Fermate, omai, fermate,
rapidi miei corsieri, il nobil trotto:
alle corde, alle corde:
no, no, non paventate:
alle corde, alle corde,
cromatiche, o diatoniche;
fate, ch'io vegga, fate,
s'i piedi avete, o più le mani armoniche.
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Coro di pazzerelli Buffoni di corte. | <- buffoni di corte
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I
Senza legge, senza metro
cieca voglia
a fanciul cieco va dietro.
Un desir pazzo m'invoglia
a seguir beltà crudele:
ad un incostante io son fedele.
II
Pazzo è il piè, ch'un pazzo segue,
pazzo duolo
non ha mai paci, né tregue.
Amor pazzo non è solo,
che con mille suoi seguaci
importuno a turbar vien le mie paci.
III
Pazzo core ha pazzo piede,
che leggero
quinci, e quindi errar si deve.
Pur ch'io resti un pazzo vero,
voli il piè, la gamba ondeggi,
e di un pazzo brillar l'alma festeggi.
IV
Pazzo suono, e questa accanto
pazza danza
accompagni il pazzo canto.
Pazzo ballo ha pazza usanza,
e noi pazzi, e saltellanti
per un pazzo desir siam pazzi amanti.
V
È più pazzo chi ci mira
chi c'ascolta
più di noi folle s'aggira.
Del cervel, che non si volta,
il più pazzo che si trova,
gran pazzo è chi non ha materia nova.
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