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Scena prima |
Apolline, e Delia. |
Q
Apolline, Delia
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APOLLINE |
Seguo, o Delia, il costume
de' pastori avvisati.
Aspetto il nuovo lume: e come io vedo
rasciutti i molli prati,
incontro al caldo raggio
di pecorelle meste
a pascer volgo ogn'or l'umide teste.
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DELIA |
O Nomio, questa mane
io zoppo credo, o smemorato il sole:
o quanto ei tarda, o quanto?
Forse, ch'egli dimora
a bella ninfa accanto,
che non si scorge in oriente ancora.
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APOLLINE |
Chissà, che tu non sia,
saggia ninfa, indovina
della di lui follia.
Qui pur su questa pietra
iracondo lasciai
la mia novella cetra.
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DELIA |
L'abbandonasti qui: ma questa mane
ch'ogni tuo nobil fregio
ha caramente in pregio,
seco la volle.
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APOLLINE |
Ah, l'hai
Delia, qui posta in basso,
e sotto il bigio sasso, alcun novello
citaredo s'asconde,
che tocca al lieve tocco
di questo legno vile,
l'istromento gentile.
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DELIA |
So ben, ch'io la racchiusi
sotto fidata chiave.
Corra alcuna di voi, ninfe, e mi rechi
la cetra imprigionata.
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APOLLINE |
Fiedi il selce ora tu: senti, ch'ei rende
al tocco del tuo dardo,
suono ancor più gagliardo.
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DELIA |
Meraviglia divina:
avvalorato il marmo
resto dal posamento
della tua bella cetra. Ah, ben diss'io,
non è di mortal mano
l'artificio sovrano.
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APOLLINE |
Mal si nasconde altrui
quel, che mostra la fronte.
Non mi vedi mortale?
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DELIA |
Ed ecco l'argomento,
che ti mostra celeste: or tocca dunque
tu le fila canore,
ch'io percotendo andrò col dardo mio
la discepola industre.
Udisti mai più vago
legamento concorde?
Chi più bella desia
union d'armonia?
Penuria non abbiamo
qui di musica omai,
mentre Nomio tu fai, dove t'appressi
musici i sassi stessi.
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APOLLINE |
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DELIA |
Sì certamente, quando
appieno rimanesse
soddisfatto il desio,
e, che Delia intendesse,
chi quegli sia, che con divina mano
avviva i sassi, e musiche le pietre
rende al par delle cetre.
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APOLLINE |
Gli occhi, solleva, e mira
colui, ch'a noi discende:
ei ti dirà l'autore
delle prove sonore.
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Scena seconda |
Admeto, Delia, Mercurio, ed Apolline. |
<- Admeto, Mercurio
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ADMETO |
O ben siete intanate
negli antri dell'oblio,
femmine smemorate? Sin quando lascerete
marcir dentro all'ovil l'armento mio?
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DELIA |
Deh taci, o genitore, e meco attendi
la nuova meraviglia.
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MERCURIO |
Gran monarca de' tempi, e della luce,
sommo rettor del luminoso carro,
a te Giove m'invia
messagger di perdon, nunzio di pace.
Assai vestito hai queste
spoglie d'umil pastore:
ritorna in ciel, ritorna
o sol, occhio, e 'l mondo aggiorna.
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DELIA |
O genitor, che sento?
Un rettor sì sublime
reggeva il nostro armento?
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ADMETO |
Chiniam pur le ginocchia, amara prole,
e adoriam devoti
la mascherata maestà del sole.
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DELIA |
Deh sempre il dicev'io, quanto più lo mirava,
non è cosa mortal lo sposo mio.
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APOLLINE |
Ambasciator benigno,
gradisco il favor santo:
se Giove mi richiama
su ne' celesti seggi
agli illustri maneggi, egli è ben dritto,
ch'io corrisponda alla mercede, e torni
a regolar i giorni.
Ma del pregiato ospizio esser dev'io
ricordevole imprima. Or dunque; chiedi,
cortesissimo Admeto;
chiedi ninfa, e 'n voi cada
la grazia, che v'aggrada.
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DELIA |
Chieder'altro non voglio,
assai mi promettesti.
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ADMETO |
Assai noi ricevemmo,
quando tu ci facesti
degni di tua presenza.
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DELIA |
Ohimè, che pensi, e degna ancora, e degna
non mi fai di risposta?
Ben la memoria ha lieve
chi della data fede
si scorda in tempo breve?
Macchina pur la fuga:
ordisci il tradimento:
altro Delia non chiede,
altro Delia non vuole
da te premio, o mercede.
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ADMETO |
Deh taci, e spera bene,
son le grazie del sole,
quanto aspettate più, tanto più piene.
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APOLLINE |
Per una volta, Admeto,
da morte io ti sottraggo.
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ADMETO |
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APOLLINE |
Con tale legge però, ch'altri in tua vece,
quando morir tu deva,
di morir si contenti.
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ADMETO |
E chi sarà, cui mai
sì rio desire invogli
di morir in mia vece? Il cambio è duro,
né spero di trovare
un incontro sicuro.
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DELIA |
Io padre, io genitor, per te desio,
per te di morir'io: ah fosse questa,
fusse questa per te pur l'ultim'ora.
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ADMETO |
Adagio: adagio, e quale
rio furor ti consiglia?
Tu non gustasti, o figlia
s'esca di morte ancora.
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DELIA |
Cibo insalubre, e grave
dalla medica legge
ad infermo vietato,
s'all'appetito è grato
l'appetito il corregge;
il desiderio il rende
tale, ch'ei non l'offende:
e quel, che piace ogn'ora
ci nutre, e ci avvalora.
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ADMETO |
E qual nuova stoltezza oggi ti spinge
a sì dura profferta?
Che lagrime son queste?
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DELIA |
Chi nel sol fissa gli occhi
non può tener, ch'il pianto
fuori alfin non trabocchi.
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MERCURIO |
O rugiadose stille
da due cieli versate,
nella conca gentil di quel bel seno,
mercé di questo sol, perle vi fate.
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DELIA |
Come, schernita me, torbidi i giorni
dal sole abbandonata
ho ha provar miseramente in terra?
S'un nume è ingannatore,
s'un dio manca di fede,
che meraviglia è poi, s'altri non crede?
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MERCURIO |
Ben fu veloce Amore
oggi, o Delia, in colpirti,
che tosto ti accendesti
d'un peregrino ignoto?
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ADMETO |
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MERCURIO |
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ADMETO |
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MERCURIO |
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ADMETO |
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MERCURIO |
Ed obliasti intanto
ogni alto tuo devoto: oh ben è stolto
quell'occhio femminile,
cui saggio petto è vile,
e sol adora la beltà del volto.
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DELIA |
Ah ben s'avvide il core,
che Trace egli non era,
né di Nomio pastore aveva sembianze
questo celeste amante.
Così non fossi mai,
o fuggitivo Sol, tu qui venuto,
se nel mar del mio pianto
tramontar tu dovevi:
se rubi ogni tesoro,
dove ospizio ricevi:
mal mi paghi il ricovro,
esiliato nume,
se l'anima m'immoli.
O funeste bellezze agli occhi miei:
o cieli, o stelle, o dèi,
come fia più, ch'io viva,
s'appena veggo il sol, ch'io ne son priva.
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APOLLINE |
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DELIA |
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APOLLINE |
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DELIA |
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APOLLINE |
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DELIA |
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APOLLINE |
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DELIA |
E della data fé non ti sovviene.
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APOLLINE |
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DELIA |
Ed or, che torni Apolline, mi manchi.
Così tosto ti stanchi?
Così si fan gli onori, o dio del lume,
cangiar occhio, e costume?
Così guardan gli dèi la data fede?
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APOLLINE |
Per legge eterna, d'immutabil fato,
gli dèi unqua non denno
stringer nodo legittimo di nozze
con mortal donna in terra;
che non ammette queste
disuguaglianze il cielo.
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DELIA |
Dunque tu m'ingannasti,
che d'essermi consorte
dianzi rigiurasti?
S'eri un dio, s'eri il Sole,
perché a donna mortal desti la fede?
È facil ingannar donna, che crede.
Ascolta, Apollo, ascolta,
io son Delia, e non Dafne: ah non far meco
non far cieca vendetta
dell'altrui crudeltà. Rimanga un tronco
Dafne la discortese,
che di te non s'accese:
ma Delia, ch'al tuo raggio
incenerita cade,
in te trovi pietade.
Di crudel fuggitiva
conversa in lauro il polveroso crine
tornasti, o Febo, alfine,
e la tua mansueta ospite, o dio,
la Delia, che t'adora,
ti vien tosto in oblio,
ben è stolta del sol, chi s'innamora.
Misero esempio di schernita amante,
prodigiosa sorte,
il sol, vita del mondo è la mia morte.
O quanto sete, o quanto
mie suppliche infelici:
quanto è duro il pregar orecchie, in cui
dormono i benefici.
O mia voglia inquieta:
non so ciò, che desio:
di arrestarti, non mai:
di seguirti, assai meno:
di morir sì; ma dal gran duolo uccisa
divenissi una nube, un vapor denso,
ch'al mio bel sole avanti
mi dileguassi in lagrimosa pioggia;
e facesti ad ogn'ora
nugola rugiadosa,
mercé del tuo bel raggio,
da terra in ciel passaggio.
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APOLLINE |
Rasciuga, o Delia, il pianto,
che per quest'acque il core
troppo m'assedia Amore:
io giurai d'esser tuo, e sarò tuo.
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DELIA |
Mio sarai certo, mentre
il Sol co' suoi bei raggi,
senza regola alcuna,
a tutti s'accomuna.
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APOLLINE |
Dunque non posso ornare
Delia di grazie tali,
che fra l'altre mortali
felicissima il mondo
venga Delia a chiamare?
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DELIA |
Io non lo spero,
no, che da disfavori
non comincian gli onori.
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APOLLINE |
Ascolta, amata ninfa,
già nel mio cor disposi
di su condurti alle celesti sfere;
quivi sol posso entro la fragil scorza
del tuo mortal sembiante,
imprimer quel carattere divino,
che qui non son bastante,
che sol in ciel divinità si dona.
Ma perché tanto io solo
oprar, ninfa, non vaglio,
convien ch'io prenda il volo,
e dagli dèi concordi,
questa grazia, per te, mia diva, ottenga.
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DELIA |
Dimmi com'esser può, ch'il ciel riceva
un dio spergiuro, un dio
ch'a donzella innocente
ha potuto quaggiù mancar di fede?
È facil ingannar donna, che crede.
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APOLLINE |
Ecco, ninfa, io ti lascio
la cetra, l'arco, e la faretra in pegno.
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DELIA |
Quando tu m'abbandoni
col nutrimento solo
d'una speme fallace,
data da un dio mendace,
non ti crederò più, che mal si presta,
col pegno ancor d'una faretra in mano,
a fuggitivo amante orecchie, e fede,
a un dio che la schernì, Delia non crede.
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MERCURIO |
Ben'è costei malconcia
dal Sole in sì poch'ore.
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DELIA |
Ahi, dove sei trascorsa
trasportata dal duol, Delia schernita?
O mio Sol, o mia vita, o mio tesoro,
torna pur lieto in ciel, ch'io resto e moro.
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ADMETO |
Sostenetela, amici,
che le manca il vigore.
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APOLLINE |
Non dubitar di morte.
Si conduca la giovine dolente,
ove respiri alquanto:
Mercurio, non t'incresca
di farti un nuovo Atlante
a questo ciel tremante.
| Mercurio, Delia, Apolline, Admeto ->
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Scena terza |
Proserpina. |
<- Proserpina
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PROSERPINA |
Fuori, plebe orgogliosa:
fuori della mia reggia...
che gente ardimentosa
sotto l'ombra di Giove
Proserpina beffeggia?
Il mio Cerbero dunque, iniqua prole
lascerò che tu strozzi; il mio diletto
mastin dalle tre gole?
O degli ardenti pozzi io soffrirò,
che la fiamma tu spegna?
Deh masnadieri a depredar discesi
nelle stigie foreste,
non sapete, ch'il vostro
Giove quaggiù non regna,
e che de' ciechi abissi il mondo è nostro.
Su, su miei fidi al serto
le qui depositate
anime de' ciclopi
adattatevi, e dove
Vulcano il dotto artefice compone
di Lemnia Creta i loro novelli corpi
per richiamargli in vita,
riconducete pur al fabbro in dono
questa merce gradita:
e dite al zoppo dio,
che per brev'ora entro gli eterni pianti
non alloggia l'inferno alme arroganti.
| Proserpina ->
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Scena quarta |
Admeto, Mercurio, ed Apolline. |
<- Admeto, Mercurio, Apolline
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ADMETO |
Di mal accorto padre
Delia figlia malnata:
ti pose l'error mio
sì follemente in mano
d'ingratissimo dio.
Io maledico il canto,
e le corde, e le cetre, e i versi autori
di sì nocivi amori. Ah ben conosco,
ch'oggi son più mortali
del canto i vezzi, che d'Amor gli strali.
Ecco a sposo spergiuro
un ladro consigliero: ah ben tu sei
di due numi ridenti
fatta Delia lo scherno:
ma per meglio osservali, io qui m'interno.
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MERCURIO |
No, che restar non puoi,
che sei chiamato, o glorioso nume,
al maneggio del lume.
Né teco venir deve
la tessala bellezza
sulla celeste scena
con la salma terrena.
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APOLLINE |
Né qui lasciar io devo,
ch'a tante angosce muoia
Delia, da cui ricevo
tanto onor, tanta gioia.
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ADMETO |
Gran padre degli dèi,
l'alta tua provvidenza
ristori i danni miei.
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APOLLINE |
Ben può Giove invitarmi:
ma mentre lasci in terra
il mio ben, il mio sole,
Giove in ciel non mi vuole.
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ADMETO |
O medico dell'alme,
trova rimedio all'amoroso affanno.
Fosti amante ancor tu: trova tu schermo
al sol d'amore infermo.
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APOLLINE |
Regga pur Giove, regga
i volanti destrieri,
che ripien di cordoglio
tornar in ciel non voglio.
O venga Delia meco,
o resti Apollo seco:
così comanda Amore,
che di Giove è signore.
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MERCURIO |
Senti del ciel le strepitose trombe,
che gonfia il dio tonante.
Questi è Giove pentito,
che lassù ti richiama al ciel gradito.
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APOLLINE |
Quanto Giove più tuona,
più Delia m'imprigiona.
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MERCURIO |
Con la forza del canto
scender precipitosa
le donne di Tessaglia
fanno del ciel l'ammaliata luna.
Ma fa quest'importuna oggi col pianto,
ch'il sol ami la terra, e 'n ciel non saglia.
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APOLLINE |
Ecco avvivata dall'orribil bombo
aprì Delia le luci, e seco riede
il genitor timidamente audace.
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MERCURIO |
Ma vedi l'aurea face,
vedi Giove, che siede
del tuo carro al governo,
come ondeggia, e travia dal sentier dritto?
Mira, come all'afflitto
è caduta di man la bella sferza.
Raccoglila tu dunque, e 'n ciel ritorna.
Che presto, ohimè, nella stagion piovosa
per le fangose strade
Giove tracolla, e cade.
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APOLLINE |
Ahi poco ei tarda più
eccolo, eccolo a terra, eccolo giù.
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MERCURIO |
Impari a queste prove
a lasciar il pensiero
altrui d'un rio mestiero
anco lo stesso Giove.
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Scena quinta |
Giove in cielo sul carro della luce. |
<- Giove
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GIOVE
Non più t'arresti, o guidator del lume,
l'amoroso pensiero in terra omai:
torna, ch'approva ogni celeste nume,
quanto all'ospite tua Delia farai.
Godrem, se tolta dal mortal costume,
divina eternità tu le darai.
Pur che tu regga, o sol, quest'aurea face,
fa' di Delia tuo sol, quanto a te piace.
| Giove ->
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Scena sesta |
Mercurio, Delia, Ermafrodito, Apolline, ed Admeto. |
<- Ermafrodito
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MERCURIO |
Udisti, o infa, udisti
quanto gradisca alfin, Giove cortese,
un raggio di pietà. Ma tu pentita,
ch'al pentimento ogni donzella è presta,
non vuoi forse cangiare
le delizie di Tempe
con le glorie del cielo?
Tu non rispondi, o Delia, e fatta sei
di sì faconda irata,
mutola sì placata?
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DELIA |
Sospendi, anco sospendi
avido creder mio
a prestar fede, ancor che parli un dio.
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ERMAFRODITO |
Di greca gentilezza
ti spogli o donna, e vesti
barbara austerità, barbara asprezza?
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APOLLINE |
Apparecchiati pure,
bella incredula omai,
al salir meco a' sempiterni giri,
acciò, Delia, tu sia
eternamente mia.
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ERMAFRODITO |
Ma non risponde ancor ninfa dolente:
teme ella forse, teme, o dio canoro,
perché musico sei, musico amico
de' salti, e delle fughe,
per l'aereo sentiero
più degli strali tuoi
instabile, e leggero.
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DELIA |
La povertà del merto
mi tiene il core incerto.
L'immensità del dono
fa, che dubbia ancor sono.
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ERMAFRODITO |
Varia voglie, e sembiante,
cangia voce, e favella
quest'Iride novella
al suo bel sole avante.
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DELIA |
Se dianzi io t'adorai
con devota ignoranza
isconosciuto nume,
oggi, che dio del lume
ti scopro, ah ben sarebbe
sacrilego il mio core
in non renderti onore.
S'adempia il tuo comando,
fa' dell'ancella tua
quanto a te piace, e quando.
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APOLLINE |
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ADMETO |
Una lagrima pure
sparger non mi vedrai;
se d'allegrezza forse occhio paterno
di quattro stille, e quattro
non adornasse le rugose guance.
E qual gloria maggiore,
che produrre i suoi parti
per farne dono al ciel, di cui son dono?
A te la consacrai dal dì, ch'aperse
a' tuo' bei raggi i lumi:
e Delia la nomai,
non dal gran Delo tuo, ma perché nacque
in quella dubbia luce,
ch'in partendo da noi forma ogni sera
nell'angol d'occidente
la tua bassa lumiera.
Sorgeva in oriente
allor Giove benigno:
era il celeste cigno
nel più fitto meriggio, ond'io previdi
a lei gloria nel canto, e dal tuo nume
favor cortese, e santo.
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MERCURIO |
Ancor'io lungamente
ho Delia vagheggiata:
ma poiché vuol tua sorte,
che del Sol sia consorte,
cedo, m'appago, e lodo
sì fortunato nodo.
Parto; ch'il ciel m'insegna
che tra gli dèi rivalità non regna.
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ERMAFRODITO |
Senti del gran tonante
il cenno, che t'affretta
già tante volte, e tante.
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APOLLINE |
Un gran rimbombo è questo:
orben a Giove sembra
ogni indugio molesto
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MERCURIO |
Affretta la partenza,
serenissimo sposo,
Giove, se tardi più, di carro è senza.
| Mercurio ->
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Scena settima |
Apolline, Admeto, Ermafrodito, e Delia. |
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APOLLINE |
O suocero gradito,
quando io giunga a posarmi
dal faticar diurno,
deposto il lume, e l'armi,
ozioso notturno,
di Delia troverò co' bianchi lini
le belle mani pronte
asciugarmi la fronte.
Sciorremo uniti il freno
a' miei stanchi destrieri;
gli laveremo all'oceano in seno:
e mentre pasceranno
entro a prato fiorito,
godrà la bella Delia i cari intanto
amplessi del fortissimo marito.
Aurea mia cetra in serbo
a te, suocero, io lascio,
ne sarai tu di lei
rozzo custode sol; ch'un saper tale
nelle tue dita volatrici infondo,
che non avrà mortale
di te più detto in animarla il mondo.
| |
ADMETO |
Cortese dio, non puoi
porgere a un re cantore
onoranza maggiore.
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APOLLINE |
Su, su porgimi alfin gli ultimi amplessi:
stringiti Admeto al sen la cara prole:
rendimi degno di licenza, e forma,
per altrui norma, il benservito al sole.
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ADMETO |
Gite pur fortunati
a que' chiostri beati: a te, mia figlia
del prencipe dell'ore
prego di nobil frutto il seno adorno.
Acciò mi scherzi intorno
alcun nipote degno
di mia fragil'età fido sostegno.
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ERMAFRODITO |
Sforzati in ogni guisa
di madre divenir, mentre sei moglie
di sì pregiato nume:
sempre regna felice
feconda genitrice.
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DELIA
Addio tessale madri,
addio regno, addio patria, e padre addio.
Io non vi lascio, e solo
per sì bramate nozze
al ciel distendo il volo.
Ogni dì mi vedrete
sulla vermiglia sera
di gioia scintillare: allor direte
vaghe de' miei contenti,
or gode Delia or gode,
del Sol gli abbracciamenti.
| S
(♦)
(♦)
|
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Scena ultima |
La Luna, il Tempo, coro dell'Ore, e delle Stagioni, Apolline, Admeto, Delia, ed Ermafrodito. |
<- Luna, Tempo, coro dell'ore e delle stagioni
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LUNA |
Vieni, o Sol del mio Sole,
stendi la bella mano,
e di donna mortal, di morte priva
comincia ad esser diva.
T'adempie le promesse,
o Delia, il dio di Delo:
chi crederia, che desse
la terra i fregi, e le delizie al cielo?
Nel mio cerchio sovrano
ecco Imeneo t'aspetta,
fanciulla, oggi per farti
mia cognata diletta.
Avrai nel bel sereno
cieli al piè, stelle al crine, e 'l Sole in seno.
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TEMPO |
Noi famiglia del Sole
fida insieme, e volante,
Tempo, Stagioni, ed Ore,
eccoci pronti alle tue leggi sante.
Non fia mai, che divore
tue memorie il mio dente;
eterna in cielo, eterna in terra andrai:
che cessando la fama
di portar il tuo nome, alfin udrai
in teatro novello, in toschi accenti,
sulle venete rive
stuol di cigni canori
di Delia rinnovar gli antichi onori.
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DELIA |
Tutto è grata mercede
del vostro, e mio signore,
se la mia pura fede
gode un premio immortale,
tutto è celeste amore:
ch'io non ho merto a tante grazie uguale.
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APOLLINE E CORO IN CIELO |
Arder al Sole il core,
non ogni donna vale,
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DELIA |
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ADMETO E CORO IN TERRA |
Arder al Sole il core,
non ogni donna vale.
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DELIA |
Io non ho merto a tante grazie uguale.
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TUTTI IN CIELO E IN TERRA |
Arder al Sole il core,
non ogni donna vale.
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ERMAFRODITO |
S'altri al meriggio gode,
s'altri brama l'aurora,
il Sol la Sera adora,
e la Sera del Sol fatta è consorte:
ecco de' gran misteri
tolto, o mortali, il velo,
oggi la terra si marita al cielo.
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CORO IN CIELO |
O dive non tardate:
a queste nozze, a questi
spettacoli celesti il piè volgete.
Di bellezze non sia la vostra lite,
che Delia di beltà vince ogni bella.
Ma tra voi gareggiate
di canto, e di carole
in festeggiar negli imenei del Sole.
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ERMAFRODITO |
E voi, e voi, che fate
delle vostre bellezze
melense spettatrici?
Volete esser felici,
poverelle innocenti? Amate, amate.
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Acciocché tu accordi gli occhi con l'orecchie, sappi, o squisito lettore, che nel rappresentarla si sono levati dall'opera più di 300 versi, e questo per non abusar della tua cortesia. | |
Egli è dovere, ch'il poeta lasci le sue gorghe, che sono le digressioni, e gli episodi, per dar luogo ai passaggi de' signori musici. | |
Onde non attribuire tu ad errore de' recitanti quello, c'hanno fatto per meglio servirti. | |
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