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Scena prima |
Cortil regio. Domiziano. Aulo Cinna. Ninfo. Coro di Soldati con faci alla mano. |
Q
Domiziano, Cinna, Ninfo, soldati
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DOMIZIANO |
Su apprestate le faci:
ardete, desolate incenerite
queste moli superbe:
all'ardire l'ardore vada congiunto;
chi mi priva del mio foco,
tra le fiamme sia consunto.
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CINNA |
Ah mio signore, mio prence,
i voli troppo audaci
son d'Icari follie. Ferma, deh ferma?
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DOMIZIANO |
Scrive in marmo l'offeso, un genio altero
aspira sempre a meditar vendette;
negarmi l'idol mio?
E che non son io forse
figlio di Vespasiano?
Non son cesare anch'io?
O della Flavia gente
non son rampollo?
Dunque di civil sangue
del biondo Tebro imporporai le sponde,
perché poscia a mio danno
la porpora tingessi ad un tiranno?
A chi m'usurpa il trono
usurperò la vita? In questo giorno
o 'l roman diadema
mi cingerà la fronte,
o tra fiamme di guerra
dell'impero latin sarò il Fetonte.
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CINNA |
Chi nutre nel suo cor pensier giganti,
stupor non è, se d'un irato Giove
provi in sé stesso i folgori tonanti.
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DOMIZIANO |
E che vuoi tu, che spettatore inerte
lasci rapire a questa man lo scettro?
Non bastava a costui dunque usurparmi
delle squadre il comando,
se con esempio indegno
non mi rapiva e Berenice, e 'l regno?
Ma che parlo de' regni?
Se Berenice al crudo amore unita,
in virtù d'un sol guardo oggi ha raccolto
tutto l'impero mio nel suo bel volto?
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CINNA |
Dunque per una donna
barbara di natali, empia di fede,
d'Eteocle più crudo
con modi atroci, ed empi
di Tebe vuoi rinovellar gl'esempi?
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DOMIZIANO |
Spettacolo non sia già novo in Roma,
Romolo, che l'eresse,
il primo fu, che di fraterno sangue
imporporasse il ferro;
e chi non sa, che le beltà sabine
seminaron nel Lazio altre ruine?
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CINNA |
Delle cognate spade
frena il lampo guerrier: dal grand'augusto
otterrò, ciò che brami,
tronca l'ali al furor, l'ira sospendi,
cada precipitata
la discordia sotterra,
e le palme romane
non scenda a funestar nembo di guerra.
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DOMIZIANO |
Pur che l'idolo mio mi stringa al seno,
regga a sua voglia Tito
dell'orbe il freno, ed al superbo piede
vegga prostrarsi e le province, e i regi.
Mi rapisca i diademi,
mi levi il patrio soglio,
e l'avite grandezze
prema ad ogn'or sicuro,
mi ceda Berenice, altro non curo.
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Che s'un guardo solo pietoso
da quel ciglio luminoso
il mio bene avvien che scocchi,
vaglion per mille mondi i suoi begl'occhi.
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NINFO |
Certo, Marte provvide:
se sbizzarrir lasciava il mio furore,
oggidì sol per gioco
mandavo una cittade a ferro, e foco.
| Domiziano, Cinna, Ninfo, soldati ->
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Scena seconda |
Lepido. Elio. |
<- Lepido, Elio
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LEPIDO |
Labirinto dell'alme è un biondo crin.
D'auree fila entro l'errore
Minotauro d'ogni core
si raggira il dio bambin.
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Per mirar Berenice
peregrino amator m'aggiro intorno,
e nel candor delle sue luci belle
l'alba ricerco in sul morir del giorno.
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ELIO |
Credo, ch'amor entro que' lumi ardenti
scrivesse in bianco foglio i tuoi tormenti.
Ah Lepido, ah signore
pria, che reso gigante
svena Cupido in fasce:
dubito, che quegli occhi
fatte pire fatali
al tuo cor, ch'è già morto,
formin con bianche faci i funerali.
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LEPIDO |
S'in que' roghi fortunati
di languire un dì mi lice,
morrò farfalla, e sorgerò fenice
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ELIO |
E se cesare amasse il bel, ch'adori?
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LEPIDO |
Non lascerei gli amori,
s'il mio braccio guerriero
donò a Tito l'impero,
s'in mia virtù regge dell'orbe il freno,
come potrà quel grande
a chi un mondo gli diè negargli un seno?
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ELIO |
Sovente appo de' grandi
è la virtù demerto, il tuo valore
d'ampia mercede è degno,
ma non voglio compagni amore e regno.
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LEPIDO |
L'alto genio di Tito
troppo m'è noto, e so,
che d'una anima regia
diffidar non si può.
Ma che miro? Ecco Agrippa.
Vo' scoprir del cor la face,
sempre pena in amor chi non è audace.
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Scena terza |
Lepido. Agrippa. Elio. Tito, che sopraggiunge. |
<- Agrippa
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AGRIPPA |
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LEPIDO |
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AGRIPPA |
Quanto Roma ti deve,
s'al lampo di tua spada
cade l'Arabo crudo, e 'l Siro estinto,
e in virtù del tuo braccio il Lazio ha vinto.
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LEPIDO |
Vincer, che val? S'ora trafitto il core,
preda di duo begli occhi è 'l vincitore?
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AGRIPPA
Dell'ignudo arcier bendato
l'arco aurato
sempre è rigido, e mortale,
e fuggir non si può da un dio ch'ha l'ale.
| (♦)
(♦)
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AGRIPPA |
Ma qual bellezza altera
di Lepido piagò l''alma guerriera?
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LEPIDO |
Della figlia d'Erode i dolci labbri
fur delle reti mie Ciclopi, e fabbri.
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AGRIPPA |
Pur m'arridi, o fortuna? Afferma augusto
che della mia germana
fu innocente il trascorso.
Or siasi quale io credo:
di sì prode campion gli alti imenei
sol ponno risarcir gli scorni miei.
Tua sarà Berenice?
| |
| <- Tito
|
TITO |
(che sopraggiunge)
Che intesi?
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LEPIDO |
Stelle, se ciò sia vero, io son felice.
| Elio, Lepido, Agrippa ->
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Scena quarta |
Tito. |
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Delle spoglie di Tito,
de' cesarei trofei
chi può disporre, o dèi?
Sol chi d'aquila è figlio
può affissarsi nel sol: Lepido dunque
innalzato da me, per altro ignoto
sacrerà alla mia diva il core in voto?
Animo s'in me vivi,
cerca strada alle pene:
le tede maritali
saran faci funebri a questo indegno;
sarà 'l letto sepolcro,
pronuba Libitina;
per punire un fellone
saprà Tito cangiarsi oggi in Nerone.
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Scena quinta |
Celso. Tito. |
<- Celso
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TITO |
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CELSO |
Gran monarca del Tebro, e qual fortuna
del regio volto il bel sereno imbruna?
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TITO |
Un crin reale
benché cinto di gemme, e di corone
ha più punte, che luce:
l'esser maggior degli altri
sembra delitto al mondo;
ch'indistinti ne van con l'odio i regni.
È cesare tradito:
oggi sta collocato
dell'impero l'onor nelle tue mani.
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CELSO |
In tua difesa
diverrò un Marte in saettar titani.
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TITO |
Vo' che Lepido, e Agrippa
muoiano in questo dì; se la tua spada
l'anima di quegli empi a me destina,
per mercé del tuo merto avrai Sabina.
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CELSO |
Chi è ribello ad augusto,
è nemico di Roma,
e chi a Roma è nemico,
è nemico di Celso.
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Il mio duce da periglio
questa destra sottrarrà:
chi della terra è figlio,
se da Giove vol far, sempre cadrà.
| Tito ->
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Scena sesta |
Sabina. Celso. |
<- Sabina
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SABINA
Quando in grembo alla mia vita
io speravo esser felice,
d'Arianna più infelice
novo Teseo m'ha tradita.
Mentre in seno al mio adorato
posar crede il cor già lasso,
qual di Sisifo il gran sasso
è in amor precipitato.
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Ma che veggo? Che scorgo?
Ecco delle mie doglie or l'Archimede,
ecco l'empio Sinon della mia fede.
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CELSO |
Numi del ciel che miro?
Per qual prodigio estrano
sotto forme guerriere in altro oggetto
di Sabina vagheggio
trasmigrate le luci?
Quegli occhi son pur dessi
al fulminar del guardo,
ai risalti dell'alma io li conosco.
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SABINA |
Al mio improvviso aspetto
quasi, ch'ei rimirasse
d'un'orrenda medusa
il serpentoso crin, si fe' di marmo:
mentirò l'esser mio.
Campion? S'alla tua fronte ognor più vaghe
nutra il Giordan le palme,
deh scorgi innante a Celso
d'un afflitto guerriero il piede errante.
| |
CELSO |
Di Sabina è la voce, ed il sembiante!
Amabile guerrier Celso son io,
tu chi sei? Donde vieni? E che ricerchi?
| |
SABINA |
Scusa signor, se nell'acciaro involto,
non ravvisai la maestà del volto.
Io là da sette colli
drizzai l'antenne in ver le sirie sponde,
per annunciarti, ah mia infelice sorte!
di Sabina la morte.
| |
CELSO |
Cesse al fato Sabina? O stelle, e come?
Se nel tuo volto delicato, e vago
ne miro più, che mai viva l'imago?
| |
SABINA |
Sappi, ch'io son Metello
dell'estinta il fratello:
all'ora che dal Tebro
allontanasti il piè, spirò Sabina:
che senza l'alma sua, senza conforto,
chi lungi è dal suo ben, si può dir morto.
| |
CELSO |
Tergi, o Metello il pianto,
che se in terra Sabina
ebbe forma divina,
lunga stagion fra noi
non potea dimorar cosa celeste:
a che giova il dolersi,
ove il dolor non vale?
Sotto l'acciar di Cloto
vittima è destinato ognun, che nasce;
del fato di ciascun tien Giove il vaso,
ciò, che vive quaggiù, prova l'occaso.
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| |
|
La vita ch'è labile,
qualora se n' va,
e 'l fato immutabile
il tutto disfa.
Contro parca inesorabile
non val pregio di beltà:
la vita ch'è labile,
qual onda se n' va.
| Celso ->
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Scena settima |
Sabina. |
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Parte l'empio, e mi lascia,
e d'un cor, che l'adora
col riso in bocca il funerale onora.
Ah ch'allor, che l'infido,
per approdar di Palestina al lido,
entro de falsi argenti
fidò l'anima ai venti,
e su prora volante ei pose il piede,
sciolse al par delle vele anco la fede.
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|
È follia di donna amante
prestar fede a bionda età;
che dell'onda più incostante,
più dell'apode vagante,
sempre in giro se ne sta;
sue faville
dona a mille,
e qual camaleonte a nuovo oggetto
sempre muta colori, e cangia aspetto.
| Sabina ->
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Scena ottava |
Apollonio. Marzia. Lucindo sovra il dorso di tre sfingi volanti, che scendono a terra. |
<- Apollonio, Marzia
<- Lucindo
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APOLLONIO
O voi dell'Erebo
mostri canori,
sirene aligere
di tetri orrori,
per obbedir di Stige al torvo re,
su questo suolo
frenate il volo,
posate il piè.
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LUCINDO |
Pur ricalco la terra,
che sentier stravagante
d'un demone sul dorso
sfidar i venti al corso,
e qual Bellerofonte
su Pegaso d'inferno
scorrer del ciel per le stellate vie,
maledetti gli amori, e le magie.
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|
Se credesse di morire
vol la donna sbizzarrirsi;
Mercurio novello,
ha l'ali al cervello,
e non cura il suo martire
benché sa, che ha da pentirsi.
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MARZIA |
Ah, ch'invano di Giuno
su volante corsier trascorsi i regni,
se lungi dal mio bene
Perigono d'amor per mio tormento
non veggo il foco, e pur la fiamma io sento.
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APOLLONIO |
Marzia fuga il martire,
all'ombre della notte
sempre l'alba succede,
spesso è d'un lungo pianto il riso erede.
Ecate di tre forme
scorgerà la grand'opra,
e pria, che là sul Gange
di Titano la figlia apra due volte
con rosea man l'aurate porte al giorno,
Tito nel seno tuo farà ritorno.
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MARZIA
Volate momenti,
portate quel dì,
ch'in braccio ai contenti
stringa quella beltà, che mi ferì.
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APOLLONIO |
Ove il Siloe argentato
con spumoso flagel d'onde sonanti
sferza ad orrenda balza il fianco antico,
ad altre cure inteso
rivolgo il piè vagante:
tu, mentre resti, o bella
(qui sorge nube improvvisa)
fuor dell'opaco velo
di questa cava nube
del tuo vago l'aspetto
mirar potrai non conosciuta amante.
Ama confida, e spera;
vince solo in amor, chi è più costante.
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LUCINDO |
Quanti amanti oggi vorrebbero
sempre andarsene invisibili,
quante donne proverebbero
le lor gioie più godibili,
senza tanti tormenti al cor
saria pur gustoso amor;
s'ognun sapesse incanto sì giocondo
non ci sarian Penelopi nel mondo.
| Lucindo, Apollonio ->
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Scena nona |
Polemone. |
<- Polemone
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POLEMONE |
Dell'Asfaltide in seno
nasce frutto gentile,
che sotto manto d'or chiude il veleno,
e mentre in verdi fronde
fa pompa d'un tesor, la polve asconde:
tal è il piacer
del nudo arcier
di Venere,
sembra vago al veder, m'al tocco è cenere.
O speranze distrutte! O del mio core
macchine dissipate! Ah crude, ah ingrata
Berenice spietata!
Così estingui la face,
così tradisci, o dio!
la mia fé, l'amor mio!
E dell'aria più vana, e più incostante,
mi lasci del tuo ardor ludibrio indegno
senza cor, senza vita, e senza regno.
Ma, che scorgo? Ecco Tito:
con la veste del riso
mi convien mascherare il mio dolore,
quanto sei crudo a chi ti segue amore.
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Scena decima |
Tito. Polemone. |
<- Tito
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TITO |
Adraspe? O del mio sole
custode avventurato! Alla mia vita
narrasti i miei sospiri?
Palesasti la fiamma?
Rivelasti i martiri?
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POLEMONE |
De' reali giardini
i fioriti sentieri, e i tetti augusti
per cercar Berenice invan trascorsi.
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TITO |
Ecco t'assiste amore,
la fortuna t'arride,
la reina se n' viene,
che maestà! Che volto!
In quei lumi brillanti
congiurati a' miei danni
veggo armati di foco i miei tiranni.
Mentre cauto in disparte il tutto osservo,
tu de' miei cenni esecutor sagace
scopri a lei la mia fede, e la mia face.
(qui si ritira in disparte)
| |
POLEMONE |
Che Sisifo col sasso?
Ch'Ision sulla rota?
Che Tantalo dannato all'arse arene?
Son sogni, e non son pene.
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| |
|
Il lasciar l'oggetto amato
fra le braccia del rivale,
nell'inferno degli amanti
non si dà tormento uguale.
| |
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Scena undicesima |
Berenice. Polemone. Tito. Marzia in disparte. |
<- Berenice
|
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BERENICE |
O di mia vita, o del mio onor sostegno!
Dolce tranquillator de' miei sospiri,
dove lunge da me, dove t'aggiri?
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POLEMONE |
Della tua regia luce i raggi i' seguo,
ma ben devo da lunge
adorar del tuo piè l'orme reali,
ora, che Berenice
è dell'orbe romano
sovrana imperatrice.
| |
MARZIA |
(O mia sorte spietata! O me infelice!)
| |
BERENICE |
Che vaneggi? Che parli? E quando mai
di Quirino lo scettro,
o 'l diadema di Roma
indorò questa destra?
Coronò questa chioma?
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POLEMONE |
Tito cesare il grande
il cui cenno real dà legge al mondo,
te sola adora, e brama,
all'impero ti chiama.
| |
MARZIA |
(Misera! O ciel, ch'intesi?)
| |
BERENICE |
Quando di Licia al rege
fia dato di calcar del Tebro il soglio,
comparir non ricuso
col titolo d'augusta in Campidoglio.
| |
MARZIA |
(Ah ciò non sia mai vero,
ch'una destra servil regga l'impero.)
| |
BERENICE |
Che Polemone io lasci? Amor non vole:
sin che fosforo acceso
predirà col suo lume al sol la cuna,
sin che l'orsa gelata
schiverà di Nereo tinger nell'onda
il suo dorso stellante
porterò l'alma accesa, e 'l core amante.
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| |
|
Ma tu perfido di'
il cor d'una regina
si tormenta così?
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POLEMONE |
Del licio rege, o bella
disperata è la speme:
ti propongo corone
porgo fasci di scettri alla tua mano.
| |
BERENICE |
| |
POLEMONE |
La fortuna, che vola,
ad afferrar nel crine oggi t'esorto;
ma, s'accetta l'impero, o dio! son morto.
| |
BERENICE |
Dunque parla da vero?
Ah pur troppo sicure
sono le mie sciagure.
Che deggio far in questo punto estremo?
Fingerò non curarlo.
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TITO |
| |
POLEMONE |
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MARZIA |
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| |
TITO |
| |
MARZIA E POLEMONE |
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MARZIA, TITO E POLEMONE |
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POLEMONE |
| |
MARZIA |
| |
MARZIA E POLEMONE |
| |
TITO |
| |
| |
BERENICE |
Guerriero, il tuo gran merto
mi fa mutar consiglio:
lascio chi mi lasciò. Le tue proposte
come sagge aggradisco, ed è ben giusto,
ch'alla fede, ed ai prieghi
d'un tanto intercessor nulla si neghi.
| |
| |
|
Vattene a Tito, va',
digli, che Berenice
sempre l'adorerà.
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| |
|
Se nell'anima serba
qualche scintilla ancor di tanto ardore,
al suon di queste voci
morirà l'infedele, il traditore.
| |
TITO |
Semivivo mio cor ritorna in vita.
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MARZIA |
| |
POLEMONE |
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BERENICE |
| Polemone, Marzia ->
|
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Scena dodicesima |
Tito. Berenice. Domiziano, e Ninfo, sopraggiungono. |
|
| |
TITO |
Mia vezzosa regina,
anima del cor mio!
Per agguagliar le tue sembianze belle
non col roman diadema,
ma qual di Berenice è 'l crine in cielo,
vorrei tua chioma incoronar di stelle.
| |
BERENICE |
Qui mi giova il mentire:
proprio è d'un sol romano
sollevar i vapori, e dargli luce.
| |
TITO |
Quel brio più che divin, che nel tuo labbro
in cuna di rubin nutrisce il riso,
l'anima m'involò;
te sul trono del Tebro
fatta nume del mondo inchinerò.
| |
| <- Domiziano, Ninfo
|
DOMIZIANO |
(che sopraggiunge)
Odi 'l Caton latin! Mira di Roma
l'Ippolito ritroso!
Mi sgrida perché io l'amo,
ed ei poscia trafitto
da due luci omicide
d'una Iole Idumea fatto è l'Alcide!
| |
TITO |
Per festeggiar sì fortunato giorno,
vo' ch'alla tua presenza
nobil caccia s'appresti: Ite o miei fidi:
e all'ora, che l'aurora
desterà in grembo a Teti il sol, che dorme,
là dove il bel Giordano
in più rivi si svena,
e dove il crin selvoso
sparso di verdi fronde
il Libano odoroso
con le nubi confonde,
sollecitate al corso
de' feroci molossi
la famiglia latrante; ite indagate
le più dense foreste!
siate fieri alle fere,
delle fugaci belve
spopolate le selve.
| |
| |
|
Se dei boschi entro l'orrore
assisti al mio core
arciero Cupido,
l'Enea sarò d'una più bella Dido.
| |
| |
NINFO |
(Quanti cefali, o quanti!
Di così vaga damma
seguendo la traccia
porriamo ogni ora il loro veltro in caccia.)
| Tito, Berenice ->
|
|
|
Scena tredicesima |
Domiziano. Ninfo. |
|
| |
|
DOMIZIANO
Eppur vidi, e l'intesi! E vivo, e spiro?
O dell'orrenda Stige
numi al cielo nemici! O furie! O mostri!
Accorrete,
volate,
apprestate
l'atre faci a questa mano.
Mora l'empio germano:
sì, che vo' farne scempio:
sì, che vo' lacerarlo,
lo sveno sì? Ma dove son? Che parlo?
Del mio pianto amor si ride,
d'altri è fatto il mio tesoro;
son per me comete infide
que' begli occhi, eppur gli adoro.
| |
| |
NINFO |
A che tanti sospiri?
La frode con Amor nacque gemella.
Signor, s'a Ninfo credi, in questa notte
all'ora, ch'ognun dorme,
dell'amata reina
entro l'augusto tetto
di condurti prometto:
là tra l'ombre notturne,
simile nella voce al tuo germano,
d'esser Tito fingendo,
con la vagga nemica
senza lorica intorno, e senza lume
lottar potrai nell'amorose piume.
| |
DOMIZIANO |
(abbracciando Ninfo)
O servo, o amato servo:
quanto devo al tuo merto,
seguirò il tuo consiglio
che sprezza un cuore amante ogni periglio.
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| |
|
Nel regno d'amore
sol gode chi tenta.
Sta sempre in dolore
un cor, che paventa.
| Domiziano ->
|
| |
|
NINFO
Imparate
voi, ch'in corte
disperate
della sorte;
da fortuna è sempre scorto
chi è in amor ministro accorto.
Dopo sol l'alta rapina
gode 'l nome di reina,
e 'l fulmine sostien con forme nove,
perché l'aquila fu mezzana a Giove.
| Ninfo ->
|
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Scena quattordicesima |
Celso. |
<- Celso
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|
Ogni bella fa per me.
È quest'alma un Proteo instabile
di Vertuno più mutabile
varia forma, e cangia fé.
Ogni bella fa per me.
Fatto son novella Istrice,
tengo al cor selve di strali:
d'ogni sol son la fenice,
sta 'l mio amor sempre sull'ali.
Così amando ognor per gioco
salamandra d'ogni foco
mai non sparsi un mezz'ohimè.
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Sulle romulee sponde
vidi beltà, che con le trecce d'oro
parea Mida novello
cangiar l'onda del Tebro in un Pattolo;
arsi allora a quel volto,
e vissi in schiavitù d'un occhio moro:
or per novo stupore,
di Berenice in fronte
son fatte, o dio, per mio maggior martoro
due pupille d'argento il mio tesoro.
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|
Son un Giano amoroso,
ch'a due beltà m'aggiro;
ma s'estinta è Sabina,
spero ottener da Tito
in premio del mio colpo una reina.
Vol che Lepido mora
lo svenerò, farò, ch'il cor d'Agrippa
vittima del mio ferro al suol ne vada,
riposta ogni mia sorte è in questa spada.
| Celso ->
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Scena quindicesima |
Sabina. |
<- Sabina
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Notte amica agl'amanti,
de' corridor volanti
sferza le nere piume,
spero veder fra l'ombre il mio bel nume.
Così attendo, ch'in cielo il sol tramonte
per adorar chi tien duo soli in fronte.
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|
Poiché amor nel sen m'entrò
un tal nodo all'alma ordì,
che discior no 'l potrò
fin all'ultimo mio dì;
così reso prigion d'un crin, ch'adoro,
un Prometeo è 'l mio cor tra lacci d'oro.
Dell'incendio ch'arde in me
un bel guardo il Giove fu,
pur tra 'l rogo la mia fé
si ravviva ogn'ora più;
e mentr'arde 'l mio cor, né trova loco,
qual Pirausta son io d'amor al foco.
| Sabina ->
|
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Scena sedicesima |
Notturna. Con appartamenti di Berenice. Domiziano. Ninfo con face alla mano. |
Q
Domiziano, Ninfo
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NINFO |
Chi dirà ch'il dio del foco
sia di Venere geloso?
E tra reti per suo gioco
rendesse prigionier Marte sdegnoso
se ad introdur un agguerrito amante
di nova Citerea dentro alla porta
questo chiuso Vulcan serve di scorta
| |
DOMIZIANO |
Elitropio d'amor la luce io seguo,
Berenice ricerco, ed or, ch'il sole
l'alto rival di sue bellezze è spento,
i rai del morto giorno
da quei begl'occhi a mendicar io torno.
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NINFO |
(aprendo una porta)
Ferma, ferma o signore!
Ecco la tua nemica in braccio all'ombre.
Posan sue luci belle,
ora, che di quel volto in sulla rocca,
benché di foco armate,
dormon le sentinelle;
se l'aureo crin ti porge in man fortuna,
tenta pur di sforzar la mezza luna.
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DOMIZIANO |
Che veggo? Ella riposa! E mentre in seno
le diluvia la chioma in aureo nembo,
rassembra Pasitea del sonno in grembo.
O miracolo strano! Entro a que' lumi
dona stanza gradita
al fratel della morte or la mia vita.
Luci belle, ed amorose
pur vi miro sonnacchiose,
stanche forse di piagarmi
chiudeste i lumi, e rinfodraste l'armi.
Folle, ma che vaneggio?
Qual tregua alle mie piaghe
dal bell'idolo mio
unqua sperar poss'io?
Se beltà così fiera
chiusa fra padiglioni è più guerriera.
Ah che l'empia, ch'adoro ancor sognando
sa ferir mille cori in mille forme,
mal, se veggia la cruda, e mal, se dorme.
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Mio cor, ma che paventi?
Anima di che temi? Ardisci! Ardisci!
Gl'incendi tui refrigerar sol ponno
arditezza, ed amor, la notte, e 'l sonno.
(entra)
| Domiziano ->
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Scena diciassettesima |
Ninfo in atto di timore. |
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Il padrone è in sicuro, è buon nocchiero
s'ingolferà nell'ocean d'amore:
io qui mi trovo solo,
ogni mosca, che vola,
rassembra un Gerione al mio timore.
Ohimè! Che gente è quella?
Chi mi segue? Chi è là?
La vita per pietà.
Ma no, furon fantasmi;
che strana frenesia?
Io mi posi in timor dell'ombra mia.
Meglio fia, ch'io mi celi, e occulti 'l lume,
che, s'Agrippa mi trova, o Adraspe ardito,
buona notte, son spedito.
| Ninfo ->
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Scena diciottesima |
Berenice. Domiziano in atto di volerla sforzare. |
<- Berenice, Domiziano
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BERENICE |
(afferrata per un braccio)
Cieli! Numi! Soccorso!
Lasciami traditore.
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DOMIZIANO |
È degna di pietà colpa d'amore.
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BERENICE |
Tentar con empia mano
coronate rapine, osar furtivo
di profanar la maestà regnante,
è un atto da nemico, e non d'amante.
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DOMIZIANO |
Berenice t'accheta,
se con ignota forza
la tua beltà mi sforza,
del mio fallir le tue bellezze incolpa.
Chi pecca violentato, ha minor colpa.
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BERENICE |
E chi sei tu? Che temerario indegno
osi assalir notturno una regina?
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DOMIZIANO |
Un ch'a dar legge al mondo or ti destina.
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BERENICE |
Di più mondi 'l tributo
s'a tal prezzo si compra, io lo rifiuto.
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DOMIZIANO |
Le stelle in ciel, ch'hanno maggior grandezza
son le più riverite, umil vapore
quanto più in alto è attratto ha maggior luce.
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BERENICE |
Sì ma poi quel fulgore
onde sembra del sol lucido erede,
serve a indorargli i precipizi estremi;
e cadendo dal cielo ei prova alfine
Icaro temerario alte ruine.
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DOMIZIANO |
Il far del suo voler legge alle genti,
il poter ciò, che piace,
l'aver a' cenni suoi servo il destino
e un far da Giove in terra, un genio altero
non può aver cor da rifiutar l'impero.
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BERENICE |
T'inganni empio tiranno!
Chi a' suoi desir dà legge
abbastanza è monarca, alla salita
il cader va congionto,
dalla reggia alla greggia evvi un sol ponto.
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DOMIZIANO |
Son cesare: son Tito.
Non ho temenza alcuna,
se stringendoti al seno
or tengo nelle man la mia fortuna.
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Concedi mio core,
permetti mio ben,
che temprar possi l'ardore
nelle nevi del tuo sen;
lasci, che da' tuoi labbri un bacio invole,
e nel grembo alla notte io stringa il sole.
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BERENICE |
Ah pria ver me l'inesorabil Cloto
vibrerà in questo sen la falce orrenda,
che dell'onor le sacre leggi offenda.
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DOMIZIANO |
Che onor! E qual onore
più sublime, o maggiore
può figurarsi in terra uman pensiero,
ch'aver ch'il tutto regge
entro le braccia sue suo prigioniero?
Lascia!
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BERENICE |
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DOMIZIANO |
Le preghiere de' grandi
son decreti, e comandi.
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BERENICE |
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DOMIZIANO |
Ma suddita a' miei cenni.
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BERENICE |
Menti! Mio re non sei:
né alla tua infame destra
l'alto impero di Roma oggi è concesso,
che dée chi è nato a' regni
pria che regger altrui, regger sé stesso.
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DOMIZIANO |
Senti, o donna crudel! Voglia o non voglia,
tua bellezza ostinata
al dispetto d'amor sarà mia spoglia.
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BERENICE |
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DOMIZIANO |
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BERENICE |
Ha le Lucrezie sue la Siria ancora.
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| <- Ninfo
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NINFO |
(correndo)
Ah mio signor, mio prence!
D'armi, loriche, e spade
odo un nembo crudele,
entro 'l mar de' piaceri
torci 'l timon, piega le gonfie vele.
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DOMIZIANO |
Mi tradisci o fortuna! Amor m'uccidi!
(partendo)
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NINFO |
Alla fuga, alla fuga.
(nel fuggire trabocca, e perde il lanternino, che teneva coperto)
Ben sapevo ch'al piè trovavo intoppo,
s'avevo per compagno un dio, ch'è zoppo.
(qui gli cade il lume)
| Domiziano, Ninfo ->
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Scena diciannovesima |
Agrippa con spada alla mano. Berenice. |
<- Agrippa
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AGRIPPA |
Qual voce di spavento? Quai confusi stridori
mi destaron dal sonno?
Chi dentro a regii tetti
osa notturno portare il piede
(qui scopre Berenice)
Berenice! Reina! E come? E quando?
Sciolta 'l crin, nuda 'l sen, lacera il manto
fuor dell'usate piume
lagrimosa ti scorgo?
Chi turba i tuoi riposi?
Chi insidia alla tua vita?
Parla! Scopri l'affanno! A me s'aspetta
contro a chi tanto ardì l'alta vendetta.
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BERENICE |
O dèi! Respiro: Agrippa,
fuggi l'infame reggia.
Tito l'empio tiranno
scorto da cieco amore
penetrò nelle stanze,
ei notturno m'assale, io lo respingo,
tenta co' preghi, usa la forza, e l'arte,
dalle piume io mi lancio, egli m'afferra,
m'oppongo, mi rincalza, alzo le strida,
della tua spada al lampo
move alla fuga il passo,
tu opportuno qui giungi a darmi aita,
difensor del mio onore, e di mia vita.
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AGRIPPA |
Giove! Che ascolto? E come!
Una porpora augusta
puote servir di manto al tradimento?
Si fugga dall'aspetto
d'un nemico sì fiero:
ma dove fuggirem, che non ci sia
intercetta la via?
Se quando copre, o cela
dell'orbe l'emisfero,
serve al romano impero?
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BERENICE |
Infelice
Berenice!
Costretta a sparger pianti
dallo sposo tradita, e dagli amanti.
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AGRIPPA |
Rasserena la fronte,
per rintuzzar d'imperatore ingiusto
ogni sforz'ogn'offesa,
ricorrerem da Domiziano, ei forte
pari a Tito di sangue, e di valore,
fia l'egida fatal del regio onore.
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BERENICE |
Pur che dall'impudico
sia questo sen, sia questo onor sicuro
guidami in grembo a Pluto altro non curo.
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AGRIPPA
È un Falari amore,
che legge non ha:
ma tiranno
l'altrui danno
macchinando sempre va,
è un Falari amore
che legge non ha.
Errò chi lo finse
un nume del ciel,
se fra pene
tra catene
di Cocito è un dio crudel.
Errò chi lo finse
un nume del ciel.
| Agrippa, Berenice ->
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Scena ventesima |
Boscaglia di cipressi con fontane, statue. Spunta l'aurora. Tito combatte contro d'una tigre. Marzia in abito da cacciatrice. Apollonio da parte. |
Q
Tito, Marzia, Apollonio
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TITO |
Arrota pur o fiero
fulmine delle selve
le tue lunate zanne:
cor avvezzo ai perigli
dente non cura, e non paventa artigli.
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APOLLONIO |
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MARZIA
(uccidendo con un dardo la fiera)
Tinta nel proprio sangue
vittima del mio ferro
cade la fiera esangue.
Ma, che giova alato arciero
preservar il cacciator,
se sbranato,
lacerato
da mostro più fiero
languisce il mio cor.
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TITO |
O chiunque tu sia, che donna, o diva
nume di queste selve
mi porgi amica in sì grand'uopo aita,
all'atterrata belva
non fu la morte acerba,
che per sì bella man morì superba.
Sin dove Eto anelante
su focosa quadriga il giorno adduce,
farò, ch'il tuo gran merto alto rimbombe.
E sui latini altari,
di vittime svenate
arderò al nome tuo mille ecatombe.
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MARZIA |
Ad altra deitade, ed ad altro nume
idolatra divoto
l'anima, o traditor! Sacrasti in voto.
Inumano! Crudele?
Incostante! Infedele?
Così Marzia tradisci? E altrui ti doni?
Mira, ch'anco tradita
mentre morte mi dai, ti do la vita.
(fugge, e si dilegua)
| Marzia, Apollonio ->
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Scena ventunesima |
Tito. |
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Qual fantasma? Quai larve!
Marzia sgridommi, e sparve?
Come dall'Aventino
sul palestino lido
se n' venne Marzia ad abitar le selve?
E d'amore è questo un gioco
per deluder il mio foco;
mentre a Marzia ribellato
d'altra seguo il lume arciero,
vani oggetti si forma il mio pensiero.
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Sin ch'io spiri,
bianche luci io voglio amar;
potrò dir fra vaghi giri
sulla fronte del sol l'alba adorar.
Sia d'argento il lor splendor,
bianca in ciel la luna è ancor,
e pure fuora di Febo esser si crede,
occhio, ch'ha più candor, mostra più fede.
| Tito ->
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Scena ventiduesima |
Lucindo con l'arco, ed il carcasso. Correndo, e guardandosi dietro. |
<- Lucindo
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LUCINDO |
Soccorso! Aita! Ohimè! Son semivivo,
d'un feroce leone,
che rassembra alla mole un elefante,
fuggo il dente fulminante.
Son novo Meleagro intimorito,
son Adon spaventato,
oppur per lo terrore
un Atteone in cervo oggi cangiato.
Il mio cor timoroso
divenuto è con salti un danzatore.
Ma se sparì la belva,
vo' fuggar con il canto il mio timore.
(s'asside sopra d'un fonte)
Per me dono la caccia a chi la vol.
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Più non vo' tra valli ombrose
dimenar il veltro mio;
certe damme dispettose
di cacciar più non desio;
seguir fera, che fugge è troppo duol,
per me dono la caccia a chi la vol.
| Lucindo ->
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[Ballo di quattro Satiri, e quattro Ninfe di marmo escono in forma di fonte.] | <- quattro satiri, quattro ninfe
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