IL TITO
Melodramma.
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Libretto di Nicolò BEREGAN.
Musica di Antonio CESTI.
Prima esecuzione: 13 febbraio 1666, Venezia.
Interlocutori:
TITO figlio di Vespasiano imperatore |
soprano |
BERENICE regina di Giudea, sorella d'Agrippa, amante di Polemone re di Licia |
soprano |
AGRIPPA tetrarca, fratello di Berenice |
tenore |
DOMIZIANO fratello di Tito |
soprano |
POLEMONE re di Licia, amante di Berenice |
tenore |
MARZIA Fulvia, matrona romana, amante di Tito |
soprano |
Flavia SABINA nipote di Vespasiano in abito di soldato, amante di Celso |
soprano |
CELSO nipote del gran Corbulone, amante di Sabina |
soprano |
Largio LEPIDO generale delle romane legioni |
contralto |
ELIO capitano delle coorti |
basso |
Aulo CINNA favorito di Domiziano |
tenore |
APOLLONIO mago famoso |
basso |
LUCINDO paggio di Marzia |
tenore |
NINFO servo di Domiziano |
contralto |
MESSO |
basso |
Eccellentissimi principi
Ascrisse Roma a portento, che tre soli servissero di faci funebri all'occaso di Cesare. Attribuirà per lo contrario il mondo a felice auspicio nel veder l'ee. vv. compartire in questo punto il triplicato lume dei loro favori al rinascer d'un Tito. Potrà questi ancorché sepolto nell'urne del Lazio vantarsi anco in questo secolo d'esser la delizia dell'universo s'avrà fortuna d'esser onorato dell'aggradimento di principi cotanto illustri; le cui gesta entro le reggie de' maggiori monarchi decanta con tromba incessante la fama: portando l'uno per prezzo delle eroiche imprese degl'avi, e per premio dovuto ad un più famoso Giasone l'aurata pelle del Tosone d'Iberia: l'altro per aver tra mari di sangue fatti ventilare i gigli de' gloriosi Borboni, sommo duce, e gran pari fu della regia colomba insignito. Né minore fu lo stupore della vasta Lutezia, allor che adorando le sovraumane doti di principessa cotanto saggia, confessò d'ammirare sotto un volto di Venere la sua Minerva; pianse lunga stagione il Tebro la perdita delle sue pompe; quando per consolarlo il porporato sostegno della Francia la rese sovrana colonna d'Italia. Accolgano l'ee. vv. con lieta fronte la composizione d'uno de più nobili ingegni dell'Adria; Dovendosi a ragione consacrar a' principi, che si pregiano d'esser uniti al chiaro sangue d'un Giulio l'opere più magnanime d'un augusto; rassegnandomi
di vv. ee.
Venezia li 13 febbraio 1666
Hum. div. e oblig. servus
Steffano Curti
L'autore a chi legge
Dio voglia, benigno lettore, che questo dramma composto nello spazio d'un lustro, ancorché concepito da elefante, non sortisca una vita da effimera. Confesso di non temere il livore degl'aristarchi, ancorché si verifichi pur troppo in quelli, che calcano la strada poetica, l'avviso che il sole diede a Fetonte
per insidias iter est formasq; ferarum.
Ma inorridito al riflesso del mio debile ingegno, che facendo i voli d'Icaro
Coeliq; cupidine tactu
altius egit iter.
Chi non ha l'idea di Stasicrate, o gli scalpelli di Fidia mal può intraprender di formar gl'Alessandri: tuttavolta non so come tollimus ingentes animos, ed ho stimato minor male il compiacere al genio, ch'il far da Saturno, o rinnovare l'azione dell'esecrata Medea sbranando un parto ormai fatto adulto già qualche tempo. Or seguane che può: potrò almeno inscrivere a piedi di questa composizione ciò che per elogio scrissero le piangenti Eliadi sul tumulo del precipitato fratello
Quod si non tenuit
Magnis tamen cecidit ausis.
È vero, che per non moverti maggiormente a compassione delle mie inezie, ho fatto da Timante col velarti il mio nome; l'averti però altre volte veduto con occhio benigno a blandire il mio Annibale, mi fa crederti altrettanto gentile nell'accoglier il Tito; il quale recitato da primi cantanti d'Europa, e animato dalla musica impareggiabile del sig. cavalier Antonio Cesti, ora, per lo mezzo della splendidezza di chi lo fa rappresentare rinasce alle scene, leggi, vedi, e gioisci.
Argomento
Tito cesare, dopo la morte di Ottone acclamato dai capitani dell'Oriente il di lui padre Vespasiano all'imperio, e stabilito per opera di Antonio, e Licinio Mutiano con l'uccisione di Vitellio, nella monarchia del mondo, fu lasciato dal genitore con parte delle romane legioni all'espugnazione di Gerosolima, la quale presa dopo ostinato assedio per assalto, fu mandata a ferro e a fuoco dall'armi latine; accioché il vasto incendio di città sì grande servisse di rogo all'orrenda strage d'un milione di difensori. Infinito fu il numero de' prigionieri, tra quali capitò in potestà di cesare Polemone re di Licia, che tratto dall'amore della regina Berenice sorella di Agrippa tetrarca la rapì notturno amante fuori di cesarea, e la condusse in Gerusalemme, ma reso cattivo insieme con Berenice, riconosciuta questa dal fratello, che guerreggiava in favor de' romani, ne conseguisce la libertà; Tito se ne invaghisce, Domiziano ne resta acceso; tutto il campo poco meno, ch'innamorato. Formandosi con vari accidenti l'epitesi, e la catastrofe del melodramma, che segue.
Si vedrà l'assalto, e presa di Gerosolima.
Berenice. Polemone.
BERENICE
Chi mi soccorre, o dio?
POLEMONE
Confida in questo braccio, idolo mio.
BERENICE
Frena, mio re, l'ardire
del nemico roman fuggi lo sdegno,
serba te stesso a Berenice, e al regno.
POLEMONE
Mi circondino pur stragi, e ruine,
vada il regno distrutto,
pera, pur ch'io ti salvi il mondo tutto.
BERENICE
Cedi all'empia fortuna,
fuggi, deh fuggi, o sire
l'imminente periglio,
ch'irritar i più forti è van consiglio.
POLEMONE
Amor giova agli audaci;
pugnerà questo ferro,
e fra monti d'estinti
misti n'andranno ai vincitori i vinti;
e s'egli è ver, che ne' volumi eterni
con penna d'adamante
scrisse lassù la mia caduta il fato,
qual più felice sorte,
ch'in braccio alla mia vita aver la morte.
Elio, capitano delle coorti, coro di Soldati.
Berenice. Polemone. Ninfo.
ELIO
Cedi, o guerrier, del tuo destino all'onte,
ch'il cercar fra cataste
di svenati nemici il suo morire
è valor disperato, e non ardire.
POLEMONE
Pria, ch'a vile timore io dia ricetto
entro l'aste più folte
farò a un torrente d'armi
argine del mio petto.
Vengano pur cento falangi, e cento
non pavento,
sin che l'alma in seno avrò,
pugnerò,
e se la parca micidiale
con la forbice fatale
a miei danni congiurò,
non torpe già questa mia destra ardita,
pagheran mille morti una sol vita.
NINFO
(a cui vien levata l'asta di mano da Berenice)
Ohimè, l'asta perdei!
Ma ad Onfale sì brava
quanti Ercoli oggidì darian la clava.
BERENICE
Invano, invan tentate
empie perfide schiere,
con barbaro furore
svenar il mio signore,
vo', ch'il mio seno ignudo
al mio guerriero amor serva di scudo.
Permetti mio re,
ch'io mora per te,
e 'l mio core
cada vittima d'onore
sull'altare di mia fé.
Lepido. Elio. Polemone. Berenice. Ninfo.
LEPIDO
Cessate dal ferire: e tu campione
frena l'ardir:
ch'è temeraria impresa
contro un immenso stuolo
opporre a mille brandi un brando solo;
ferma il braccio guerriero, e acciò che sappi,
di quai tempre è formato un cor romano,
non mi serbo ragion, spoglia non chiedo,
m'al tuo valor la libertà concedo.
POLEMONE
In questa sola spada
e vita insieme, e libertà ripono,
né gradita mi sia, s'ella è tuo dono.
LEPIDO
Com'invitto è costui!
ELIO
Com'è feroce!
POLEMONE
Pur se un tuo nemico
l'alta virtude oggi onorar sì brama,
concedi al cavaliero anco la dama.
LEPIDO
Che celeste sembianza!
S'io vagheggio costei
col braccio armato, e l'aureo crin disciolto,
è Pallade al valor, Venere al volto.
ELIO
Che val d'acciaro armaro la man fatale,
se del ferro assai più l'occhio è mortale.
LEPIDO
Le prede più sublimi
sono a Tito serbate,
sì per legge di guerra è a noi prescritto,
ben potrà di costei l'alta beltade
di cesare obbligar l'animo invitto;
poiché 'l latino augusto,
il cui sommo valor la gloria spande,
porta al par dell'imper l'anima grande.
BERENICE
Io, che nacqui agli scettri, e alle corone,
or dell'itala plebe
fatta vile spettacolo, e infelice,
incatenata dal romano orgoglio
dovrò accrescere i fasti al Campidoglio?
Ah voi nemiche spade
con pietoso rigor
trafiggete questo seno,
spalancate questo cor.
POLEMONE
Barbaro imperatore invan pretende
ne' suoi pensieri gonfi
di condurti legata a suoi trionfi.
Troncherà questo ferro
(se questa destra, o 'l mio valor non sviene)
Roma, Tito, l'imper, le tue catene.
ELIO
Quel favellar superbo
l'indomita del cor fierezza accusa.
LEPIDO
Schiavo sarà chi libertà ricusa.
Itene, o miei guerrieri,
a cesare guidate i prigionieri.
Lepido.
Qual bellezza divina
fe' del mio cor rapina?
E per destin d'amore,
da duo luci trafitto,
nelle giudee campagne,
o miracolo novo!
Dove i balsami stan, le piaghe io trovo.
Dite, o candide pupille,
dite, e donde veniste
sin nella siria terra
coperte d'armi bianche a farmi guerra?
Ah che l'arcier bendato
per occultar al core i suoi perigli
anco quegl'occhi ei mascherò di gigli.
Più non amo occhio, ch'è nero,
ch'è ben folle chi si crede
in duo mori trovar fede;
fulminar allor si vede
quando fosco è l'emisfero.
Più non amo occhio, ch'è nero.
D'occhi bianchi ho l'alma accesa,
segna ancor in lieti auspici
bianca pietra i dì felici,
e fra eserciti nemici
bianco lin segno è di resa.
D'occhi bianchi ho l'alma accesa.
Campo con padiglioni dove sta attendata l'oste romana con ordinanze di cavalli, cammelli, dromedari, elefanti con varie macchine, ed insegne da guerra.
Tito. Domiziano. Aulo Cinna. Coro di Capitani, e Soldati romani.
TITO
Sotto al cesareo brando
giace sconfitto il palestin rubello;
Solima è già distrutta, e in breve d'ora
ciò che Marte lasciò, Vulcan divora.
DOMIZIANO
All'aquile romane
piegò 'l Libano alfin l'audace fronte:
treman le sirie genti,
e fra monti di stragi
scorsero già di sangue ampi torrenti.
CINNA
Cadde l'alta Sionne,
de Quiriti l'impero
contermina con Giove, e ben può dirsi,
mentre tu l'asta, o 'l fulmine ei disserra,
ch'egli è un Tito nel ciel, tu un Giove in terra.
TITO
Di cadaveri, e d'armi
abbastanza, o miei fidi,
del Siloe, e del Giordano
tingeste l'onde, e seminaste i lidi;
or qui sia 'l fin dell'ire, ed è ben giusto,
ch'in aspetto giocondo
s'al fragor di Bellona
perduti ha i sonni, oggi riposi 'l mondo.
Tito. Domiziano. Cinna. Ninfo.
NINFO
(tutto armato)
Largo al dio della guerra,
ch'ad un giro del mio ciglio
tutto 'l mondo va a scompiglio,
e crollar io fo la terra.
Del terrore,
del furore
io son fratello.
Questo cerro,
questo ferro
degli eserciti è flagello;
ma l'asta mia di tempra è così strana,
che qual lancia d'Achille impiaga, e sana.
CINNA
Merta un eroe sì grande,
che se gli erga una statua in sul Tarpeo,
eccovi trasformato
il Tersite di corte in novo Anteo.
Elio. Berenice. Polemone incatenati. Coro di Soldati, e gli antedetti.
ELIO
Lepido il sommo duce,
ch'alle tue squadre impera,
pegno della sua fede,
trasmette incatenati
duo prigionieri ignoti al regio piede.
TITO
Di Lepido la spada
è il Palladio di Roma,
ei, che di greche palme ornò la chioma,
meraviglia non sia, s'ai prischi onori,
intrecci novi fregi, e novi allori;
ma qual beltà di cielo
con fulgor sovrumano i sensi abbaglia!
Quella chioma ondeggiante,
ch'i dorati volumi al vento spiega
così errante, e disciolta il cor mi lega.
Filosofiche scole or che direte,
che si formin nell'aria le comete?
Se quel bel crin fra dolci mamme intatte
stella è crinita entro la via del latte.
Olà! Miei fidi
si tronchino que' nodi,
si frangano que' ceppi:
e sol per annodare
di così bianca mano il bel candore
dall'arco suo tolga la corda Amore.
DOMIZIANO
Di quel braccio alle nevi
fian le zone del ciel degni legami:
su rompete gl'indugi,
si spezzin quei lacci?
Ma che parlo de' lacci? Ah per mia pena
le catene dal piede
le sciolse Amore, ed al mio cor le diede.
NINFO
Cesare per pietade
si raddoppin le funi a quel guerriero,
se rimirar non vuoi con tuo spavento
Ninfo, Roma, e l'impero andar in vento.
TITO
La clemenza di Tito
si diffonde a' nemici; opra è da grande
il dispensar fortune agl'infelici
si sleghi il cavalier: ma tu chi sei
prigioniera gentile?
Ch'in sì vago sembiante
anco vinta trionfi,
e fai con tue bellezze
anco presa, e legata
felici i nodi, e la prigionia beata?
BERENICE
Donna infelice or miri,
e la tua man, che le province ha dome,
del cui sommo valor schiava è Fortuna,
al cui scettro s'aduna
quanto l'occhio del sol circonda, e vede.
Or, ch'al piede
toglie i nodi,
fian sue lodi
con duplicate palme
vincer i corpi, e trionfar dell'alme.
Gli antedetti. Agrippa, che sopraggiunge.
AGRIPPA
(Luci mie che mirate?
Le reali sembianze
scorgo di Berenice!)
DOMIZIANO
Signor, se questo serto,
che di sangue Idumeo stilla pur anco,
porto i fasci latini oltre l'Oronte,
se tra falangi astate
stabilii la corona alla tua fronte;
costei, che col bel guardo
di mille cor fa prede,
concedi in guiderdone la mia fede.
POLEMONE
(L'ascolto, e non lo sveno?
Pria che tormi Berenice
mi trarrà l'alma dal seno.)
TITO
Altre spoglie, altre prede, o gran germano
Roma deve al tuo merto, e alla tua mano.
Duolmi, che ora non lice
defraudar di sue pompe il Latio e 'l Tebro;
del popolo romano, e non di Tito
è costei prigioniera,
con sue rare bellezze accrescer voglio
i trionfi, e le glorie al Campidoglio.
BERENICE
Dunque perché più gravi
alla mia libertà fossero i ceppi
si troncaro i miei nodi?
Al dispetto di augusto,
a mal grado di Roma, onta del fato,
sapro con regia destra,
qual nova Sofonisba, uscir di pene,
e sottrarmi ai ludibri, e alle catene.
AGRIPPA
(prostrato innanzi a Tito)
Alla suora Agrippina
non si devon catene:
io, che fra selve d'aste a onor di Roma
vestii l'aria d'insegne, il mar di vele,
io, che per tua bontà, cesare invitto,
degli atavi imperanti
l'alta reggia possiedo,
la libertà di Berenice or chiedo.
BERENICE
Mio german, mio signore!
DOMIZIANO
S'è reina è costei, giubila il core.
TITO
Amico, egli è ben giusto,
che ciò, che ti si dée, ti renda augusto;
ma tu bella reina
per qual cagion là fra nemiche genti
arrotasti ver noi da tue pupille
luminosi tormenti?
Se tua beltà divina,
s'il tuo guardo vivace
vincer potea, e trionfar in pace.
BERENICE
Dal licio re, che temerario amante
di Cesarea colà fra l'alte mura
m'assalì,
mi rapì, non fui sicura,
così di quel guerrier, ch'oggi svenato
giace fra mille estinti in braccio a morte,
resa fui in un sol dì preda, e consorte.
POLEMONE
Scaltro è in mentir, benché fanciullo, amore.
BERENICE
Costui ch'ivi tu scorgi, Adraspe è detto:
questi, allor, ch'il tuo campo
a Sionne superba
portò gli ultimi eccidi, e le ruine,
mi sottrasse co' l'armi
alle spade, agli incendi, e alle rapine.
TITO
(partendo)
Bella, s'un re perdesti,
affrena i tuoi dolori,
avrà 'l mondo per te regi maggiori.
Sta' saldo cor mio
ti veggo in periglio,
l'arco adopra d'un bel ciglio
per ferirti il cieco dio.
POLEMONE
(parte)
Soccorrimi Cupido
stimolo troppo fiero
è in cor di donna avidità d'impero.
DOMIZIANO
Dammi aita nume alato,
dio bendato.
Della mia luce privo
cinocefalo amante io più non vivo.
Luci candide adorate
perché siate
medicina a questo cor,
v'ha formate
di bianche margherite il dio d'Amor.
Ma no, errai
dolci rai,
per far con le sue faci
incendi più voraci,
Cupido sol per gioco
in duo globi di neve ascose il foco.
Agrippa. Berenice.
BERENICE
Mio rege, mio germano!
AGRIPPA
O di radice imperial indegna,
sopprimi quelle voci,
spoglia omai di reina il nome augusto!
Tu prosapia d'eroi? Tu de' tetrarchi,
tu degli Erodi, e degli Agrippi erede?
Dunque a sentier sì degni
della pudica madre
ti chiamar, t'invitar gli alti vestigi?
Perché di vezzi armata
alla tua patria, e alla tua fé rubella
fosti tra sozzi amplessi
d'un altro Adon la Venere novella?
BERENICE
Signor.
AGRIPPA
Taci lasciva!
La porpora d'un re macchie non soffre.
BERENICE
Del mio candore è testimonio il cielo.
AGRIPPA
Invano impura lingua al ciel ricorre,
che sempre il ciel l'impuritade aborre.
BERENICE
Te mio giudice invoco.
AGRIPPA
(vuol ucciderla)
Ebben farò, che con esempio raro
sani la colpa d'amor colpo d'acciaro.
Celso. Berenice. Agrippa.
CELSO
(frastornando il colpo)
Frena l'irata destra!
Perché novo Diomede
tenti svenar con esecrando ferro
la dèa della bellezza?
AGRIPPA
È indegno d'esser re chi onor non prezza.
BERENICE
Se del mio onor diffidi,
odi le mie discolpe, e poi m'uccidi.
AGRIPPA
Parto per non udir: sappi inonesta,
che questo scettro, o questa man non langue,
ma i falli tuoi saprò lavar col sangue.
(parte)
Celso. Berenice. Sabina da parte.
BERENICE
Che pretendi, o ciel di più?
Mi togliesti alle catene,
perché viva fra le pene
porti l'alma in servitù?
CELSO
Lagrimate occhi divini:
venga chi veder vol
fatto in acquario oggi più ardente il sol.
Pupillette rugiadose
mentre lagrime versate,
ad Amor l'armi temprate:
che s'avanti i dardi scocchi
spesso Amor gli strali affina,
servirà l'umor degl'occhi
per dar tempra alla fucina.
BERENICE
O chiunque tu sia guerrier cortese,
che pietoso accorresti
d'innocente reina alle difese;
se la vita mi doni,
d'un regio arbitrio a tuo voler disponi.
SABINA
(Deh che miri o Sabina? Ecco il tuo vago
che qual infido Ulisse
acceso d'altra fiamma,
prigionier d'altro laccio,
sospira amante a nova Circe in braccio.)
CELSO
De' tuoi cenni rea
vittima sia quest'alma.
SABINA
Odi l'empio incostante!
Già deposti dell'armi
i bellicosi spirti
nell'idumee foreste
dove nascon le palme, ei coglie i mirti.
BERENICE
Ver la reggia d'augusto
sia al mio naufrago passo
cinosura fedele il tuo valore.
CELSO
Ecco pronta la fé, la destra, e 'l core.
Stelle fortuna, amor,
più di voi non mi querelo,
se l'Atlante son io d'un più bel cielo.
Sabina.
Occhi miei travedeste? Oppur la mente
architettò fantasmi? Ah che purtroppo
fui lince nel veder le mie sciagure;
misera a chi racconto or le mie pene?
Ah solo i pianti miei bevon l'arene.
Or va' Sabina, lascia
l'auguste pompe, e di guerriero usbergo
cingi 'l tenero sen, fuggi dal Tebro:
abbandona la patria, e 'l genitore,
lascia la regia, e 'l regno
sol per seguire un traditore indegno.
O numi coniugali,
o tu del casto letto
protettrice Lucina, o voi del cielo
deità spergiurate!
Voi quest'alma vendicate,
fulminate
numi offesi in questo dì
il fellon, che mi tradì.
Folle, ma che vaneggio: ed a che spargo
inutilmente le querele a' venti!
Ah se de' miei tormenti,
e delle ingiurie miei Giove si ride,
voi, che fate ire omicide?
Questo vindice ferro
fia la spada d'Astrea.
Con barbaro scempio
si sveni quell'empio,
sarò all'anima rea
d'un novello Giason nova Medea.
Galleria con statue.
Tito.
Quanto vale, e quanto può
bella bocca di cinabro,
s'a goder d'un vago labbro
Giove in cigno si cangiò?
Che non opra, e che non fa?
Il candor di vaga fronte,
s'il gran nume d'Acheronte
fe' prigion di sua beltà.
Tito, ma che vaneggi?
Questi i trofei del tuo valor saranno?
Dunque chi di Sion domò l'orgoglio,
chi la Siria atterrò, l'Asia distrusse,
fia prigionier d'un guardo, e della fama
dirassi in Campidoglio,
ch'armata di lusinghe, in breve gonna
del mondo il vincitore vinto ha una donna?
Taci lingua, che parli?
Del bell'idolo mio così ragioni?
O dio quel caro labbro,
quel volto così vago,
e quel dorato crine,
che del sen palpitando in sulle brine
sembra, ch'in mar di latte ondeggi il Tago,
quel portamento altero,
quel non so che d'amabile, e di fiero,
l'aria di quel sembiante
un Xenocrate ancor sarebbe amante.
S'ami pur Berenice,
eliodramo d'amore
il mio sole seguirò,
spiegherò
del mio cor le doglie estreme,
ch'amor, e maestà non vanno insieme.
Domiziano. Tito. Ninfo.
DOMIZIANO
Dalle grazie di Tito
il mio destin dipende.
TITO
Quanto val questo scettro, o questa mano
tutto può Domiziano.
DOMIZIANO
Gli occhi di Berenice.
TITO
Principio tormentoso.
DOMIZIANO
Benché vestiti di candor celeste
sott'abito di pace,
con armi di pietà mi fecer guerra.
TITO
Una lucida nube,
che di candor si veste
messaggera è talor delle tempeste.
DOMIZIANO
Quai tempeste in amor può aver quest'alma?
se quei candidi lumi
cinti di bianca luce
il mio Castore è l'un, l'altro è Polluce.
TITO
E che dirassi in Roma?
Che dirà Vespasian? Che dirà 'l mondo?
Mentre dunque di Solima i trionfi
ergerà questa man del Tebro in riva,
porterà Domiziano
d'una sira beltà l'alma cattiva?
DOMIZIANO
Quai spoglie più sublimi,
quai trionfi più eccelsi,
se chi vinse 'l mio cor, condurrò meco?
TITO
Inciampa ognor chi ha per sua guida un cieco.
Oltre i fonti del Nilo,
oltre le vie del sole
glorioso correa d'Antonio il nome,
sull'Arasse, sul Tigri, e sull'Eufrate
piantò i latini allori, e alle sue palme
la cervice piegaro Arabi e Indi;
quando ad un sol momento, ad un istante
di guerrier fatto amante
d'una egizia beltà reso idolatra,
folle campion di duo begli occhi neri,
là di Leucate in sen per Cleopatra
perdé scettri, ed imperi.
Lascia cotesti amori!
Presto si spezza alfine
la prigionia d'un crine.
Sovvengati, o germano,
che figlio sei d'imperator romano.
Misero! A che son giunto!
Se qual fisico insano,
mentre alle piaghe altrui porgo ristoro,
trafitto 'l sen da mille strali io moro.
DOMIZIANO
Ella è suora di re.
TITO
Ma d'un re, ch'è servo.
NINFO
Sarà buona per me.
DOMIZIANO
(vede comparire Berenice)
Cieli, ch'osservo!
Berenice. Celso. Tito. Domiziano. Ninfo.
BERENICE
Eccomi al piè d'augusto.
TITO
Mio cor, ch'incontro è questo?
Ergiti, o gran reina.
BERENICE
Cesare di tua luce un lampo solo
può serenar mia vita.
CELSO
A bellezza, che prega
nulla si vieta, o nega.
BERENICE
Agrippa il mio germano
inonesta mi crede,
deh sia scudo al mio onor tua regia fede.
TITO
Creder macchie nel sole
proprio è occhio di talpa,
tergi i tuoi vaghi rai.
DOMIZIANO
Ciò, che può far un Tito oggi vedrai.
BERENICE
Nella tua sola man sta la mia sorte.
DOMIZIANO
Anzi ne' tuoi bei lumi ogn'ora immota
è la sorte, e 'l destin tien la sua rota.
TITO
Voi ritirate il piè, con Berenice
di favellar desio.
DOMIZIANO
Dammi soccorso, o faretrato dio.
Al tuo aspetto m'involo.
CELSO
Parto.
NINFO
Sparisco, volo.
Tito. Berenice. Polemone in disparte.
TITO
Che mi consigli amor?
Or che prospera, e opportuna
per lo crin tengo fortuna,
palesar deggio l'ardor!
Parlerò,
scoprirò
del cor lo strale,
che la piaga più ascosa è più mortale.
BERENICE
Mio monarca, e signore!
TITO
Mia regina, mio nume!
POLEMONE
(in disparte)
Mia infida, mio tiranno!
BERENICE
Arde Tito al mio volto,
d'uopo è finger d'affetti,
tu attesta all'idol mio volante amore,
che, se mente la lingua, ho fido il core.
TITO
Bella io moro trafitto,
ma sì dolci, e sì care
son le ferite mie,
e sì del suo morir l'alma s'appaga,
ch'adoro il ferritor, amo la piaga.
BERENICE
Per saettar un Marte
ci vuol beltà divina.
TITO
Appunto duo begli occhi,
che portan nel color livrea di cielo,
furon del cor gli arcieri.
BERENICE
Forse nel risanarti
non saranno sì fieri.
POLEMONE
(in disparte)
Ah mia tradita fede, e che più speri!
BERENICE
È romana, o straniera
la beltà, che t'accese?
TITO
Sol nell'arabe piagge
nascono le fenici, e la sua culla
sai, che non ha, ch'in oriente il sole.
BERENICE
S' privo di bellezza è 'l ciel latino,
che mendicar dovessi
sin dall'Asia gli amori?
TITO
Non ha l'Africa immensa,
non ha l'Asia, l'Europa, e non ha Roma
meraviglia, o tesoro,
che si pareggi alla beltà, ch'adoro.
BERENICE
Qual beltà
non cedrà
al suo impero alto, e sovrano
è signor d'ogni cor, chi ha 'l mondo in mano.
Tito. Polemone.
TITO
Mi rallegro alma con te,
che ridente
non più Eraclito dolente
piangerai senza mercé.
Ma che scorgo, ecco Adraspe
opportuno qui giunge,
guerriero, il cui valore
degno è, che fra nemici anco s'onore:
tu, che già avesti in sorte
di Solima distrutta
nella fatal ruina
preservar tra gl'incendi una reina,
difendi dall'ardore
di duo accese pupille anco 'l mio core.
Sai che d'augusto al piede
la fortuna soggiace, e pende il fato,
e un cenno mio sol ti può far beato:
titoli, dignità tesor prometto,
pur che di Berenice
m'intercedi l'affetto.
POLEMONE
Che macchini, o destino?
Dissimular conviene.
Stimo gloria maggiore
di cesar obbedir ai cenni alteri,
che frenar mille imperi.
Temo sol, che costei
del re di Licia amante,
benché estinto lo crede,
qual novella Artemisia, oltre la pira
serbi al cenere suo costanza, e fede.
TITO
Amor nume di foco
non conversa coll'ombre
che lungi da sepolcri,
benché in ferir sia crudo
fugge di morte il gelo un dio, ch'è nudo,
che giova lagrimar per un estinto?
Sol dell'angue del Nilo
all'impietà s'ascrive,
pianger i morti, e far morir chi vive.
Io so, che Berenice
grata mi corrisponde:
ma l'amor stimolato è più veloce:
parla, prega, scongiura,
palesa a lei, ch'adoro
la mia fede amorosa,
che sopra la tua fé Tito riposa.
(partendo)
S'al mio ardor più non resiste
la beltà che mi piagò,
s'amore m'assiste
beato sarò.
Polemone.
A quai pene mi condanni
per seguirti, o dio di Gnido?
Non sai dunque empio Cupido
dispensar se non affanni
per seguirti, o dio di Gnido,
a quai pene mi condanni?
Perché perfide stelle
delle sciagure mie farmi 'l Perillo?
Dunque bombice insano
per intesser altrui seriche spoglie,
ordirò le mie doglie?
E mentre al mio bel nume
sarò dell'altrui fiamma infausto messo,
dovrò qual nova face
per rilucer altrui strugger me stesso?
Ah ciò non sia mai vero.
Tu, ch'udisti i miei torti
Giove, che fai lassù,
ch'ora non vibri il tuo fulmineo telo?
Forse temi quegli occhi,
che son nel saettar emuli al cielo?
Ma, s'il cielo mi fa guerra,
voi dagl'antri di sotterra
fiere dèe di Flegetonte
empie figlie d'Acheronte
agitate,
tormentate
crudi Eumenidi spietate
la crudel che mi piagò,
la infedel, che mi lasciò.
Ma a che chiamar sin da più tetri abissi
le crude Erinni? Il mio furore dunque
non è furia bastante? E qual inferno
chiude mostro più spietato?
Più d'Ercole furente,
più agitato d'Oreste,
d'Erostrato più insano,
arderò questa reggia!
Con questa mano ultrice
sbranerò 'l cor di Tito,
svenerò Berenice.
Campagna deliziosa con boschi di palme confinante con la marina.
Comparisce una smisurata balena, frenata da due Amorini mori. Questa spalancando le vaste fauci espone sopra la spiaggia.
Marzia. Apollonio. Lucindo.
Due amorini con archi, e facelle alla mano.
AMORINO
Ferma i tuoi giri ondosi
gigantessa de' popoli squamosi,
per consolar un'alma,
del foco tuo ti fe' ministra Amor.
AMORINI
a 2
Non ridete
folli amanti,
se vedete
or d'Amor foschi i sembianti.
Sempre il volto ha nero, e scabro
chi per padre ha un dio, ch'è fabbro;
ed a ragion tetro color c'ingombra,
ch'i diletti d'Amor son fumo, ed ombra.
(qui spiccando il volo spariscono)
Marzia. Apollonio. Lucindo. Escono dalla bocca dell'orca.
LUCINDO
Addio mar, addio Glauco, addio Nettuno:
più con Dori, ed Anfitrite
io non o' commercio alcuno.
Addio mare, addio Glauco, addio Nettuno.
Sento l core palpitante,
par ch'ondeggi anco il piè,
in quell'isola guizzante
più non ritorno a fé,
stanza è troppo aborrita
star dalla morte sol lontan tre dita.
È d'uopo, che la donna
sia un cibo molto crudo per natura;
s'ancor che sia sì vasta, e di gran lena
non poté digerirla una balena.
APOLLONIO
Marzia non sia stupore,
se dal cielo di Roma
oggi alle sirie sponde
la tua rara beltà guidai per l'acque,
che dal grembo del mar Venere nacque.
In mia virtù confida,
nelle braccia di Tito avrai conforto,
dopo il naufragio è più gradito il porto.
Sulla ruota di Fortuna
va aguzzando Amor lo stral,
non però tal forza aduna,
che gli sia sempre letal,
varia ognor vicende, e stato
una diva girante, un nume alato.
MARZIA
Scagli pur l'ignudo arciero
le sue faci a mille a mille,
che fra incendi, e tra faville
ho di Scevola il coraggio,
son di Porzia più costante:
per soffrir pena, ed oltraggio,
basta dir, ch'io sono amante.
Ah che quinci non lunge
con un mondo d'armati
cinge Tito guerriero
ad immensa città le forti mura:
là tra 'l ferro, tra 'l sangue, e fra le stragi
sia mia gloria infinita
ritrovar fra le morti oggi la vita.
APOLLONIO
Quanto può del nero tartaro
l'infernal Giove terribile,
quanto val nel cieco baratro
di mia voce il suono orribile
a' tuoi cenni adoprerò,
d'Acheronte i numi pallidi
sol per te costringerò:
ma credi, credi a me,
che per destar ne' cori
amorose faville,
incanti più potenti han due pupille.
(forma l'incanto)
Or voi di Stige orrenda
spaventose falangi,
gran potenze d'Averno
uscite, uscite,
qua volate:
su queste ignude arene
vasta mole fermate.
Qui s'erge maestoso palazzo.
APOLLONIO
Spera, o donna real, quel regio tetto
sia tuo nobil ricetto,
splenda ne' tuoi bei lumi
or più brillante, e più sereno il raggio,
predomina alle stelle un cor, ch'è saggio.
LUCINDO
Ohimè! Misero me!
Per lo spavento
reggermi più non posso:
con quella nera verga
ha costui congiurato
di farmi entrar più d'uno spirto addosso.
MARZIA
È più dolce quell'amore,
che s'acquista col penar.
Sempre ascosa
fra le spine
sta la rosa;
e i suoi favi di rigore
l'ape ancora suole armar,
è più dolce quell'amore
che s'acquista col penar.
È più caro quel contento,
che s'ottiene col martir,
mai non cogli
vaga perla,
che fra scogli,
e dal grembo del tormentoso
ha la nascita il gioir.
Segue il ballo di Mori, che escono dal palazzo.
Cortil regio.
Domiziano. Aulo Cinna. Ninfo. Coro di Soldati con faci alla mano.
DOMIZIANO
Su apprestate le faci:
ardete, desolate incenerite
queste moli superbe:
all'ardire l'ardore vada congiunto;
chi mi priva del mio foco,
tra le fiamme sia consunto.
CINNA
Ah mio signore, mio prence,
i voli troppo audaci
son d'Icari follie. Ferma, deh ferma?
DOMIZIANO
Scrive in marmo l'offeso, un genio altero
aspira sempre a meditar vendette;
negarmi l'idol mio?
E che non son io forse
figlio di Vespasiano?
Non son cesare anch'io?
O della Flavia gente
non son rampollo?
Dunque di civil sangue
del biondo Tebro imporporai le sponde,
perché poscia a mio danno
la porpora tingessi ad un tiranno?
A chi m'usurpa il trono
usurperò la vita? In questo giorno
o 'l roman diadema
mi cingerà la fronte,
o tra fiamme di guerra
dell'impero latin sarò il Fetonte.
CINNA
Chi nutre nel suo cor pensier giganti,
stupor non è, se d'un irato Giove
provi in sé stesso i folgori tonanti.
DOMIZIANO
E che vuoi tu, che spettatore inerte
lasci rapire a questa man lo scettro?
Non bastava a costui dunque usurparmi
delle squadre il comando,
se con esempio indegno
non mi rapiva e Berenice, e 'l regno?
Ma che parlo de' regni?
Se Berenice al crudo amore unita,
in virtù d'un sol guardo oggi ha raccolto
tutto l'impero mio nel suo bel volto?
CINNA
Dunque per una donna
barbara di natali, empia di fede,
d'Eteocle più crudo
con modi atroci, ed empi
di Tebe vuoi rinovellar gl'esempi?
DOMIZIANO
Spettacolo non sia già novo in Roma,
Romolo, che l'eresse,
il primo fu, che di fraterno sangue
imporporasse il ferro;
e chi non sa, che le beltà sabine
seminaron nel Lazio altre ruine?
CINNA
Delle cognate spade
frena il lampo guerrier: dal grand'augusto
otterrò, ciò che brami,
tronca l'ali al furor, l'ira sospendi,
cada precipitata
la discordia sotterra,
e le palme romane
non scenda a funestar nembo di guerra.
DOMIZIANO
Pur che l'idolo mio mi stringa al seno,
regga a sua voglia Tito
dell'orbe il freno, ed al superbo piede
vegga prostrarsi e le province, e i regi.
Mi rapisca i diademi,
mi levi il patrio soglio,
e l'avite grandezze
prema ad ogn'or sicuro,
mi ceda Berenice, altro non curo.
Che s'un guardo solo pietoso
da quel ciglio luminoso
il mio bene avvien che scocchi,
vaglion per mille mondi i suoi begl'occhi.
NINFO
Certo, Marte provvide:
se sbizzarrir lasciava il mio furore,
oggidì sol per gioco
mandavo una cittade a ferro, e foco.
Lepido. Elio.
LEPIDO
Labirinto dell'alme è un biondo crin.
D'auree fila entro l'errore
Minotauro d'ogni core
si raggira il dio bambin.
Per mirar Berenice
peregrino amator m'aggiro intorno,
e nel candor delle sue luci belle
l'alba ricerco in sul morir del giorno.
ELIO
Credo, ch'amor entro que' lumi ardenti
scrivesse in bianco foglio i tuoi tormenti.
Ah Lepido, ah signore
pria, che reso gigante
svena Cupido in fasce:
dubito, che quegli occhi
fatte pire fatali
al tuo cor, ch'è già morto,
formin con bianche faci i funerali.
LEPIDO
S'in que' roghi fortunati
di languire un dì mi lice,
morrò farfalla, e sorgerò fenice
ELIO
E se cesare amasse il bel, ch'adori?
LEPIDO
Non lascerei gli amori,
s'il mio braccio guerriero
donò a Tito l'impero,
s'in mia virtù regge dell'orbe il freno,
come potrà quel grande
a chi un mondo gli diè negargli un seno?
ELIO
Sovente appo de' grandi
è la virtù demerto, il tuo valore
d'ampia mercede è degno,
ma non voglio compagni amore e regno.
LEPIDO
L'alto genio di Tito
troppo m'è noto, e so,
che d'una anima regia
diffidar non si può.
Ma che miro? Ecco Agrippa.
Vo' scoprir del cor la face,
sempre pena in amor chi non è audace.
Lepido. Agrippa. Elio. Tito, che sopraggiunge.
AGRIPPA
Lepido amico?
LEPIDO
Generoso regnante.
AGRIPPA
Quanto Roma ti deve,
s'al lampo di tua spada
cade l'Arabo crudo, e 'l Siro estinto,
e in virtù del tuo braccio il Lazio ha vinto.
LEPIDO
Vincer, che val? S'ora trafitto il core,
preda di duo begli occhi è 'l vincitore?
AGRIPPA
Dell'ignudo arcier bendato
l'arco aurato
sempre è rigido, e mortale,
e fuggir non si può da un dio ch'ha l'ale.
AGRIPPA
Ma qual bellezza altera
di Lepido piagò l''alma guerriera?
LEPIDO
Della figlia d'Erode i dolci labbri
fur delle reti mie Ciclopi, e fabbri.
AGRIPPA
Pur m'arridi, o fortuna? Afferma augusto
che della mia germana
fu innocente il trascorso.
Or siasi quale io credo:
di sì prode campion gli alti imenei
sol ponno risarcir gli scorni miei.
Tua sarà Berenice?
TITO
(che sopraggiunge)
Che intesi?
LEPIDO
Stelle, se ciò sia vero, io son felice.
Tito.
Delle spoglie di Tito,
de' cesarei trofei
chi può disporre, o dèi?
Sol chi d'aquila è figlio
può affissarsi nel sol: Lepido dunque
innalzato da me, per altro ignoto
sacrerà alla mia diva il core in voto?
Animo s'in me vivi,
cerca strada alle pene:
le tede maritali
saran faci funebri a questo indegno;
sarà 'l letto sepolcro,
pronuba Libitina;
per punire un fellone
saprà Tito cangiarsi oggi in Nerone.
Celso. Tito.
TITO
Celso!
CELSO
Gran monarca del Tebro, e qual fortuna
del regio volto il bel sereno imbruna?
TITO
Un crin reale
benché cinto di gemme, e di corone
ha più punte, che luce:
l'esser maggior degli altri
sembra delitto al mondo;
ch'indistinti ne van con l'odio i regni.
È cesare tradito:
oggi sta collocato
dell'impero l'onor nelle tue mani.
CELSO
In tua difesa
diverrò un Marte in saettar titani.
TITO
Vo' che Lepido, e Agrippa
muoiano in questo dì; se la tua spada
l'anima di quegli empi a me destina,
per mercé del tuo merto avrai Sabina.
CELSO
Chi è ribello ad augusto,
è nemico di Roma,
e chi a Roma è nemico,
è nemico di Celso.
Il mio duce da periglio
questa destra sottrarrà:
chi della terra è figlio,
se da Giove vol far, sempre cadrà.
Sabina. Celso.
SABINA
Quando in grembo alla mia vita
io speravo esser felice,
d'Arianna più infelice
novo Teseo m'ha tradita.
Mentre in seno al mio adorato
posar crede il cor già lasso,
qual di Sisifo il gran sasso
è in amor precipitato.
Ma che veggo? Che scorgo?
Ecco delle mie doglie or l'Archimede,
ecco l'empio Sinon della mia fede.
CELSO
Numi del ciel che miro?
Per qual prodigio estrano
sotto forme guerriere in altro oggetto
di Sabina vagheggio
trasmigrate le luci?
Quegli occhi son pur dessi
al fulminar del guardo,
ai risalti dell'alma io li conosco.
SABINA
Al mio improvviso aspetto
quasi, ch'ei rimirasse
d'un'orrenda medusa
il serpentoso crin, si fe' di marmo:
mentirò l'esser mio.
Campion? S'alla tua fronte ognor più vaghe
nutra il Giordan le palme,
deh scorgi innante a Celso
d'un afflitto guerriero il piede errante.
CELSO
Di Sabina è la voce, ed il sembiante!
Amabile guerrier Celso son io,
tu chi sei? Donde vieni? E che ricerchi?
SABINA
Scusa signor, se nell'acciaro involto,
non ravvisai la maestà del volto.
Io là da sette colli
drizzai l'antenne in ver le sirie sponde,
per annunciarti, ah mia infelice sorte!
di Sabina la morte.
CELSO
Cesse al fato Sabina? O stelle, e come?
Se nel tuo volto delicato, e vago
ne miro più, che mai viva l'imago?
SABINA
Sappi, ch'io son Metello
dell'estinta il fratello:
all'ora che dal Tebro
allontanasti il piè, spirò Sabina:
che senza l'alma sua, senza conforto,
chi lungi è dal suo ben, si può dir morto.
CELSO
Tergi, o Metello il pianto,
che se in terra Sabina
ebbe forma divina,
lunga stagion fra noi
non potea dimorar cosa celeste:
a che giova il dolersi,
ove il dolor non vale?
Sotto l'acciar di Cloto
vittima è destinato ognun, che nasce;
del fato di ciascun tien Giove il vaso,
ciò, che vive quaggiù, prova l'occaso.
La vita ch'è labile,
qualora se n' va,
e 'l fato immutabile
il tutto disfa.
Contro parca inesorabile
non val pregio di beltà:
la vita ch'è labile,
qual onda se n' va.
Sabina.
Parte l'empio, e mi lascia,
e d'un cor, che l'adora
col riso in bocca il funerale onora.
Ah ch'allor, che l'infido,
per approdar di Palestina al lido,
entro de falsi argenti
fidò l'anima ai venti,
e su prora volante ei pose il piede,
sciolse al par delle vele anco la fede.
È follia di donna amante
prestar fede a bionda età;
che dell'onda più incostante,
più dell'apode vagante,
sempre in giro se ne sta;
sue faville
dona a mille,
e qual camaleonte a nuovo oggetto
sempre muta colori, e cangia aspetto.
Apollonio. Marzia. Lucindo sovra il dorso di tre sfingi volanti, che scendono a terra.
APOLLONIO
O voi dell'Erebo
mostri canori,
sirene aligere
di tetri orrori,
per obbedir di Stige al torvo re,
su questo suolo
frenate il volo,
posate il piè.
LUCINDO
Pur ricalco la terra,
che sentier stravagante
d'un demone sul dorso
sfidar i venti al corso,
e qual Bellerofonte
su Pegaso d'inferno
scorrer del ciel per le stellate vie,
maledetti gli amori, e le magie.
Se credesse di morire
vol la donna sbizzarrirsi;
Mercurio novello,
ha l'ali al cervello,
e non cura il suo martire
benché sa, che ha da pentirsi.
MARZIA
Ah, ch'invano di Giuno
su volante corsier trascorsi i regni,
se lungi dal mio bene
Perigono d'amor per mio tormento
non veggo il foco, e pur la fiamma io sento.
APOLLONIO
Marzia fuga il martire,
all'ombre della notte
sempre l'alba succede,
spesso è d'un lungo pianto il riso erede.
Ecate di tre forme
scorgerà la grand'opra,
e pria, che là sul Gange
di Titano la figlia apra due volte
con rosea man l'aurate porte al giorno,
Tito nel seno tuo farà ritorno.
MARZIA
Volate momenti,
portate quel dì,
ch'in braccio ai contenti
stringa quella beltà, che mi ferì.
APOLLONIO
Ove il Siloe argentato
con spumoso flagel d'onde sonanti
sferza ad orrenda balza il fianco antico,
ad altre cure inteso
rivolgo il piè vagante:
tu, mentre resti, o bella
(qui sorge nube improvvisa)
fuor dell'opaco velo
di questa cava nube
del tuo vago l'aspetto
mirar potrai non conosciuta amante.
Ama confida, e spera;
vince solo in amor, chi è più costante.
LUCINDO
Quanti amanti oggi vorrebbero
sempre andarsene invisibili,
quante donne proverebbero
le lor gioie più godibili,
senza tanti tormenti al cor
saria pur gustoso amor;
s'ognun sapesse incanto sì giocondo
non ci sarian Penelopi nel mondo.
Polemone.
POLEMONE
Dell'Asfaltide in seno
nasce frutto gentile,
che sotto manto d'or chiude il veleno,
e mentre in verdi fronde
fa pompa d'un tesor, la polve asconde:
tal è il piacer
del nudo arcier
di Venere,
sembra vago al veder, m'al tocco è cenere.
O speranze distrutte! O del mio core
macchine dissipate! Ah crude, ah ingrata
Berenice spietata!
Così estingui la face,
così tradisci, o dio!
la mia fé, l'amor mio!
E dell'aria più vana, e più incostante,
mi lasci del tuo ardor ludibrio indegno
senza cor, senza vita, e senza regno.
Ma, che scorgo? Ecco Tito:
con la veste del riso
mi convien mascherare il mio dolore,
quanto sei crudo a chi ti segue amore.
Tito. Polemone.
TITO
Adraspe? O del mio sole
custode avventurato! Alla mia vita
narrasti i miei sospiri?
Palesasti la fiamma?
Rivelasti i martiri?
POLEMONE
De' reali giardini
i fioriti sentieri, e i tetti augusti
per cercar Berenice invan trascorsi.
TITO
Ecco t'assiste amore,
la fortuna t'arride,
la reina se n' viene,
che maestà! Che volto!
In quei lumi brillanti
congiurati a' miei danni
veggo armati di foco i miei tiranni.
Mentre cauto in disparte il tutto osservo,
tu de' miei cenni esecutor sagace
scopri a lei la mia fede, e la mia face.
(qui si ritira in disparte)
POLEMONE
Che Sisifo col sasso?
Ch'Ision sulla rota?
Che Tantalo dannato all'arse arene?
Son sogni, e non son pene.
Il lasciar l'oggetto amato
fra le braccia del rivale,
nell'inferno degli amanti
non si dà tormento uguale.
Berenice. Polemone. Tito. Marzia in disparte.
BERENICE
O di mia vita, o del mio onor sostegno!
Dolce tranquillator de' miei sospiri,
dove lunge da me, dove t'aggiri?
POLEMONE
Della tua regia luce i raggi i' seguo,
ma ben devo da lunge
adorar del tuo piè l'orme reali,
ora, che Berenice
è dell'orbe romano
sovrana imperatrice.
MARZIA
(O mia sorte spietata! O me infelice!)
BERENICE
Che vaneggi? Che parli? E quando mai
di Quirino lo scettro,
o 'l diadema di Roma
indorò questa destra?
Coronò questa chioma?
POLEMONE
Tito cesare il grande
il cui cenno real dà legge al mondo,
te sola adora, e brama,
all'impero ti chiama.
MARZIA
(Misera! O ciel, ch'intesi?)
BERENICE
Quando di Licia al rege
fia dato di calcar del Tebro il soglio,
comparir non ricuso
col titolo d'augusta in Campidoglio.
MARZIA
(Ah ciò non sia mai vero,
ch'una destra servil regga l'impero.)
BERENICE
Che Polemone io lasci? Amor non vole:
sin che fosforo acceso
predirà col suo lume al sol la cuna,
sin che l'orsa gelata
schiverà di Nereo tinger nell'onda
il suo dorso stellante
porterò l'alma accesa, e 'l core amante.
Ma tu perfido di'
il cor d'una regina
si tormenta così?
POLEMONE
Del licio rege, o bella
disperata è la speme:
ti propongo corone
porgo fasci di scettri alla tua mano.
BERENICE
Ah spietato! Inumano!
POLEMONE
La fortuna, che vola,
ad afferrar nel crine oggi t'esorto;
ma, s'accetta l'impero, o dio! son morto.
BERENICE
Dunque parla da vero?
Ah pur troppo sicure
sono le mie sciagure.
Che deggio far in questo punto estremo?
Fingerò non curarlo.
TITO
Che martire?
POLEMONE
Che doglia?
MARZIA
Ahi che tormento!
TITO
Da un solo sì
MARZIA E POLEMONE
Da un solo no
MARZIA, TITO E POLEMONE
gradito
POLEMONE
pende d'Adraspe
MARZIA
pende di Marzia
MARZIA E POLEMONE
il core.
TITO
Pende l'alma di Tito.
BERENICE
Guerriero, il tuo gran merto
mi fa mutar consiglio:
lascio chi mi lasciò. Le tue proposte
come sagge aggradisco, ed è ben giusto,
ch'alla fede, ed ai prieghi
d'un tanto intercessor nulla si neghi.
Vattene a Tito, va',
digli, che Berenice
sempre l'adorerà.
Se nell'anima serba
qualche scintilla ancor di tanto ardore,
al suon di queste voci
morirà l'infedele, il traditore.
TITO
Semivivo mio cor ritorna in vita.
MARZIA
Crudo ciel!
POLEMONE
Fiero amor!
BERENICE
Speme tradita!
Tito. Berenice. Domiziano, e Ninfo, sopraggiungono.
TITO
Mia vezzosa regina,
anima del cor mio!
Per agguagliar le tue sembianze belle
non col roman diadema,
ma qual di Berenice è 'l crine in cielo,
vorrei tua chioma incoronar di stelle.
BERENICE
Qui mi giova il mentire:
proprio è d'un sol romano
sollevar i vapori, e dargli luce.
TITO
Quel brio più che divin, che nel tuo labbro
in cuna di rubin nutrisce il riso,
l'anima m'involò;
te sul trono del Tebro
fatta nume del mondo inchinerò.
DOMIZIANO
(che sopraggiunge)
Odi 'l Caton latin! Mira di Roma
l'Ippolito ritroso!
Mi sgrida perché io l'amo,
ed ei poscia trafitto
da due luci omicide
d'una Iole Idumea fatto è l'Alcide!
TITO
Per festeggiar sì fortunato giorno,
vo' ch'alla tua presenza
nobil caccia s'appresti: Ite o miei fidi:
e all'ora, che l'aurora
desterà in grembo a Teti il sol, che dorme,
là dove il bel Giordano
in più rivi si svena,
e dove il crin selvoso
sparso di verdi fronde
il Libano odoroso
con le nubi confonde,
sollecitate al corso
de' feroci molossi
la famiglia latrante; ite indagate
le più dense foreste!
siate fieri alle fere,
delle fugaci belve
spopolate le selve.
Se dei boschi entro l'orrore
assisti al mio core
arciero Cupido,
l'Enea sarò d'una più bella Dido.
NINFO
(Quanti cefali, o quanti!
Di così vaga damma
seguendo la traccia
porriamo ogni ora il loro veltro in caccia.)
Domiziano. Ninfo.
DOMIZIANO
Eppur vidi, e l'intesi! E vivo, e spiro?
O dell'orrenda Stige
numi al cielo nemici! O furie! O mostri!
Accorrete,
volate,
apprestate
l'atre faci a questa mano.
Mora l'empio germano:
sì, che vo' farne scempio:
sì, che vo' lacerarlo,
lo sveno sì? Ma dove son? Che parlo?
Del mio pianto amor si ride,
d'altri è fatto il mio tesoro;
son per me comete infide
que' begli occhi, eppur gli adoro.
NINFO
A che tanti sospiri?
La frode con Amor nacque gemella.
Signor, s'a Ninfo credi, in questa notte
all'ora, ch'ognun dorme,
dell'amata reina
entro l'augusto tetto
di condurti prometto:
là tra l'ombre notturne,
simile nella voce al tuo germano,
d'esser Tito fingendo,
con la vagga nemica
senza lorica intorno, e senza lume
lottar potrai nell'amorose piume.
DOMIZIANO
(abbracciando Ninfo)
O servo, o amato servo:
quanto devo al tuo merto,
seguirò il tuo consiglio
che sprezza un cuore amante ogni periglio.
Nel regno d'amore
sol gode chi tenta.
Sta sempre in dolore
un cor, che paventa.
NINFO
Imparate
voi, ch'in corte
disperate
della sorte;
da fortuna è sempre scorto
chi è in amor ministro accorto.
Dopo sol l'alta rapina
gode 'l nome di reina,
e 'l fulmine sostien con forme nove,
perché l'aquila fu mezzana a Giove.
Celso.
Ogni bella fa per me.
È quest'alma un Proteo instabile
di Vertuno più mutabile
varia forma, e cangia fé.
Ogni bella fa per me.
Fatto son novella Istrice,
tengo al cor selve di strali:
d'ogni sol son la fenice,
sta 'l mio amor sempre sull'ali.
Così amando ognor per gioco
salamandra d'ogni foco
mai non sparsi un mezz'ohimè.
Sulle romulee sponde
vidi beltà, che con le trecce d'oro
parea Mida novello
cangiar l'onda del Tebro in un Pattolo;
arsi allora a quel volto,
e vissi in schiavitù d'un occhio moro:
or per novo stupore,
di Berenice in fronte
son fatte, o dio, per mio maggior martoro
due pupille d'argento il mio tesoro.
Son un Giano amoroso,
ch'a due beltà m'aggiro;
ma s'estinta è Sabina,
spero ottener da Tito
in premio del mio colpo una reina.
Vol che Lepido mora
lo svenerò, farò, ch'il cor d'Agrippa
vittima del mio ferro al suol ne vada,
riposta ogni mia sorte è in questa spada.
Sabina.
Notte amica agl'amanti,
de' corridor volanti
sferza le nere piume,
spero veder fra l'ombre il mio bel nume.
Così attendo, ch'in cielo il sol tramonte
per adorar chi tien duo soli in fronte.
Poiché amor nel sen m'entrò
un tal nodo all'alma ordì,
che discior no 'l potrò
fin all'ultimo mio dì;
così reso prigion d'un crin, ch'adoro,
un Prometeo è 'l mio cor tra lacci d'oro.
Dell'incendio ch'arde in me
un bel guardo il Giove fu,
pur tra 'l rogo la mia fé
si ravviva ogn'ora più;
e mentr'arde 'l mio cor, né trova loco,
qual Pirausta son io d'amor al foco.
Notturna. Con appartamenti di Berenice.
Domiziano. Ninfo con face alla mano.
NINFO
Chi dirà ch'il dio del foco
sia di Venere geloso?
E tra reti per suo gioco
rendesse prigionier Marte sdegnoso
se ad introdur un agguerrito amante
di nova Citerea dentro alla porta
questo chiuso Vulcan serve di scorta
DOMIZIANO
Elitropio d'amor la luce io seguo,
Berenice ricerco, ed or, ch'il sole
l'alto rival di sue bellezze è spento,
i rai del morto giorno
da quei begl'occhi a mendicar io torno.
NINFO
(aprendo una porta)
Ferma, ferma o signore!
Ecco la tua nemica in braccio all'ombre.
Posan sue luci belle,
ora, che di quel volto in sulla rocca,
benché di foco armate,
dormon le sentinelle;
se l'aureo crin ti porge in man fortuna,
tenta pur di sforzar la mezza luna.
DOMIZIANO
Che veggo? Ella riposa! E mentre in seno
le diluvia la chioma in aureo nembo,
rassembra Pasitea del sonno in grembo.
O miracolo strano! Entro a que' lumi
dona stanza gradita
al fratel della morte or la mia vita.
Luci belle, ed amorose
pur vi miro sonnacchiose,
stanche forse di piagarmi
chiudeste i lumi, e rinfodraste l'armi.
Folle, ma che vaneggio?
Qual tregua alle mie piaghe
dal bell'idolo mio
unqua sperar poss'io?
Se beltà così fiera
chiusa fra padiglioni è più guerriera.
Ah che l'empia, ch'adoro ancor sognando
sa ferir mille cori in mille forme,
mal, se veggia la cruda, e mal, se dorme.
Mio cor, ma che paventi?
Anima di che temi? Ardisci! Ardisci!
Gl'incendi tui refrigerar sol ponno
arditezza, ed amor, la notte, e 'l sonno.
(entra)
Ninfo in atto di timore.
Il padrone è in sicuro, è buon nocchiero
s'ingolferà nell'ocean d'amore:
io qui mi trovo solo,
ogni mosca, che vola,
rassembra un Gerione al mio timore.
Ohimè! Che gente è quella?
Chi mi segue? Chi è là?
La vita per pietà.
Ma no, furon fantasmi;
che strana frenesia?
Io mi posi in timor dell'ombra mia.
Meglio fia, ch'io mi celi, e occulti 'l lume,
che, s'Agrippa mi trova, o Adraspe ardito,
buona notte, son spedito.
Berenice. Domiziano in atto di volerla sforzare.
BERENICE
(afferrata per un braccio)
Cieli! Numi! Soccorso!
Lasciami traditore.
DOMIZIANO
È degna di pietà colpa d'amore.
BERENICE
Tentar con empia mano
coronate rapine, osar furtivo
di profanar la maestà regnante,
è un atto da nemico, e non d'amante.
DOMIZIANO
Berenice t'accheta,
se con ignota forza
la tua beltà mi sforza,
del mio fallir le tue bellezze incolpa.
Chi pecca violentato, ha minor colpa.
BERENICE
E chi sei tu? Che temerario indegno
osi assalir notturno una regina?
DOMIZIANO
Un ch'a dar legge al mondo or ti destina.
BERENICE
Di più mondi 'l tributo
s'a tal prezzo si compra, io lo rifiuto.
DOMIZIANO
Le stelle in ciel, ch'hanno maggior grandezza
son le più riverite, umil vapore
quanto più in alto è attratto ha maggior luce.
BERENICE
Sì ma poi quel fulgore
onde sembra del sol lucido erede,
serve a indorargli i precipizi estremi;
e cadendo dal cielo ei prova alfine
Icaro temerario alte ruine.
DOMIZIANO
Il far del suo voler legge alle genti,
il poter ciò, che piace,
l'aver a' cenni suoi servo il destino
e un far da Giove in terra, un genio altero
non può aver cor da rifiutar l'impero.
BERENICE
T'inganni empio tiranno!
Chi a' suoi desir dà legge
abbastanza è monarca, alla salita
il cader va congionto,
dalla reggia alla greggia evvi un sol ponto.
DOMIZIANO
Son cesare: son Tito.
Non ho temenza alcuna,
se stringendoti al seno
or tengo nelle man la mia fortuna.
Concedi mio core,
permetti mio ben,
che temprar possi l'ardore
nelle nevi del tuo sen;
lasci, che da' tuoi labbri un bacio invole,
e nel grembo alla notte io stringa il sole.
BERENICE
Ah pria ver me l'inesorabil Cloto
vibrerà in questo sen la falce orrenda,
che dell'onor le sacre leggi offenda.
DOMIZIANO
Che onor! E qual onore
più sublime, o maggiore
può figurarsi in terra uman pensiero,
ch'aver ch'il tutto regge
entro le braccia sue suo prigioniero?
Lascia!
BERENICE
Ferma lascivo!
DOMIZIANO
Le preghiere de' grandi
son decreti, e comandi.
BERENICE
Son regina ancor' io.
DOMIZIANO
Ma suddita a' miei cenni.
BERENICE
Menti! Mio re non sei:
né alla tua infame destra
l'alto impero di Roma oggi è concesso,
che dée chi è nato a' regni
pria che regger altrui, regger sé stesso.
DOMIZIANO
Senti, o donna crudel! Voglia o non voglia,
tua bellezza ostinata
al dispetto d'amor sarà mia spoglia.
BERENICE
Ah pria cadrò svenata.
DOMIZIANO
Sì fiera a chi t'adora?
BERENICE
Ha le Lucrezie sue la Siria ancora.
NINFO
(correndo)
Ah mio signor, mio prence!
D'armi, loriche, e spade
odo un nembo crudele,
entro 'l mar de' piaceri
torci 'l timon, piega le gonfie vele.
DOMIZIANO
Mi tradisci o fortuna! Amor m'uccidi!
(partendo)
NINFO
Alla fuga, alla fuga.
(nel fuggire trabocca, e perde il lanternino, che teneva coperto)
Ben sapevo ch'al piè trovavo intoppo,
s'avevo per compagno un dio, ch'è zoppo.
(qui gli cade il lume)
Agrippa con spada alla mano. Berenice.
AGRIPPA
Qual voce di spavento? Quai confusi stridori
mi destaron dal sonno?
Chi dentro a regii tetti
osa notturno portare il piede
(qui scopre Berenice)
Berenice! Reina! E come? E quando?
Sciolta 'l crin, nuda 'l sen, lacera il manto
fuor dell'usate piume
lagrimosa ti scorgo?
Chi turba i tuoi riposi?
Chi insidia alla tua vita?
Parla! Scopri l'affanno! A me s'aspetta
contro a chi tanto ardì l'alta vendetta.
BERENICE
O dèi! Respiro: Agrippa,
fuggi l'infame reggia.
Tito l'empio tiranno
scorto da cieco amore
penetrò nelle stanze,
ei notturno m'assale, io lo respingo,
tenta co' preghi, usa la forza, e l'arte,
dalle piume io mi lancio, egli m'afferra,
m'oppongo, mi rincalza, alzo le strida,
della tua spada al lampo
move alla fuga il passo,
tu opportuno qui giungi a darmi aita,
difensor del mio onore, e di mia vita.
AGRIPPA
Giove! Che ascolto? E come!
Una porpora augusta
puote servir di manto al tradimento?
Si fugga dall'aspetto
d'un nemico sì fiero:
ma dove fuggirem, che non ci sia
intercetta la via?
Se quando copre, o cela
dell'orbe l'emisfero,
serve al romano impero?
BERENICE
Infelice
Berenice!
Costretta a sparger pianti
dallo sposo tradita, e dagli amanti.
AGRIPPA
Rasserena la fronte,
per rintuzzar d'imperatore ingiusto
ogni sforz'ogn'offesa,
ricorrerem da Domiziano, ei forte
pari a Tito di sangue, e di valore,
fia l'egida fatal del regio onore.
BERENICE
Pur che dall'impudico
sia questo sen, sia questo onor sicuro
guidami in grembo a Pluto altro non curo.
AGRIPPA
È un Falari amore,
che legge non ha:
ma tiranno
l'altrui danno
macchinando sempre va,
è un Falari amore
che legge non ha.
Errò chi lo finse
un nume del ciel,
se fra pene
tra catene
di Cocito è un dio crudel.
Errò chi lo finse
un nume del ciel.
Boscaglia di cipressi con fontane, statue. Spunta l'aurora.
Tito combatte contro d'una tigre.
Marzia in abito da cacciatrice.
Apollonio da parte.
TITO
Arrota pur o fiero
fulmine delle selve
le tue lunate zanne:
cor avvezzo ai perigli
dente non cura, e non paventa artigli.
APOLLONIO
È questo il tempo.
MARZIA
(uccidendo con un dardo la fiera)
Tinta nel proprio sangue
vittima del mio ferro
cade la fiera esangue.
Ma, che giova alato arciero
preservar il cacciator,
se sbranato,
lacerato
da mostro più fiero
languisce il mio cor.
TITO
O chiunque tu sia, che donna, o diva
nume di queste selve
mi porgi amica in sì grand'uopo aita,
all'atterrata belva
non fu la morte acerba,
che per sì bella man morì superba.
Sin dove Eto anelante
su focosa quadriga il giorno adduce,
farò, ch'il tuo gran merto alto rimbombe.
E sui latini altari,
di vittime svenate
arderò al nome tuo mille ecatombe.
MARZIA
Ad altra deitade, ed ad altro nume
idolatra divoto
l'anima, o traditor! Sacrasti in voto.
Inumano! Crudele?
Incostante! Infedele?
Così Marzia tradisci? E altrui ti doni?
Mira, ch'anco tradita
mentre morte mi dai, ti do la vita.
(fugge, e si dilegua)
Tito.
Qual fantasma? Quai larve!
Marzia sgridommi, e sparve?
Come dall'Aventino
sul palestino lido
se n' venne Marzia ad abitar le selve?
E d'amore è questo un gioco
per deluder il mio foco;
mentre a Marzia ribellato
d'altra seguo il lume arciero,
vani oggetti si forma il mio pensiero.
Sin ch'io spiri,
bianche luci io voglio amar;
potrò dir fra vaghi giri
sulla fronte del sol l'alba adorar.
Sia d'argento il lor splendor,
bianca in ciel la luna è ancor,
e pure fuora di Febo esser si crede,
occhio, ch'ha più candor, mostra più fede.
Lucindo con l'arco, ed il carcasso. Correndo, e guardandosi dietro.
LUCINDO
Soccorso! Aita! Ohimè! Son semivivo,
d'un feroce leone,
che rassembra alla mole un elefante,
fuggo il dente fulminante.
Son novo Meleagro intimorito,
son Adon spaventato,
oppur per lo terrore
un Atteone in cervo oggi cangiato.
Il mio cor timoroso
divenuto è con salti un danzatore.
Ma se sparì la belva,
vo' fuggar con il canto il mio timore.
(s'asside sopra d'un fonte)
Per me dono la caccia a chi la vol.
Più non vo' tra valli ombrose
dimenar il veltro mio;
certe damme dispettose
di cacciar più non desio;
seguir fera, che fugge è troppo duol,
per me dono la caccia a chi la vol.
[Ballo di quattro Satiri, e quattro Ninfe di marmo escono in forma di fonte.]
Ippodromo.
Sabina.
Duo begl'occhi, che son neri,
son gl'inferni degl'amanti;
che per dar crucci più fieri
han duo demoni giganti.
Spero invan le mie fortune
da pupille così oscure:
che le stelle, che son brune,
danno influssi di sventure.
Io di chi 'l mondo regge alta nipote,
or d'un amante infido
sarò vile rifiuto, ed infelice,
sol perché il frutto de' miei dolci amori,
goda alfin Berenice?
Ah no! Ch'invan di rilucente acciaro
non armai questo seno;
ho cor di bronzo,
ho un'anima di ferro, e ciò che d'empio
il Fasi vide, o l'agghiacciato Ponto,
oprar saprò; sorgi mio spirto, sorgi.
E omai t'accingi a inusitate prove!
L'impudica Idumea mora svenata;
sia di Sion l'arena
oggi del mio furor tragica scena.
Sì sì inaspritevi,
incrudelitevi
fra le stragi, o miei pensieri,
chi può nulla sperar, nulla disperi.
Domiziano. Ninfo. Lepido.
DOMIZIANO
Sempre dunque ho da penar?
Quando credo aver riposo
fra duo labbra colorite,
resto un Tantalo amoroso
con le fauci inaridite,
né goder un sol dì posso sperar,
sempre dunque ho da penar?
Domizian, ma dove
ti rapiscono l'alma
d'effeminato cor teneri affetti?
Questi del minor figlio
del gran Giove romano
fian sospiri, e concetti?
Io languir per amore? Io lagrimante
per barbara beltà supplice amante?
Se di mille reine
può dispor questo scettro, e se felice
posso farmi a momenti?
Or perché tra singulti, e fra lamenti
porgerò voti a chi è soggetta, e serva?
Rapirò la spietata,
sforzerò la crudele, e di costei
sprezzatrice d'imperi
il fasto domerò;
d'un'alma ritrosa
Tarquinio sarò.
NINFO
Alata è la fortuna, e s'una volta
stende i vanni leggeri,
d'afferrarla nel crine invan più speri.
Con le donne renitenti
non ci voglion complimenti,
per natura all'uom non cedono
se costrette non si vedono,
ed ancor ch'al diletto ognuna inclini,
son virginee al sembiante, al cor son Frini.
LEPIDO
O del latino formidabil soglio
sommo onor, salda spene a te m'inchino.
DOMIZIANO
Lepido, o come grato
il cielo a me ti scorge.
LEPIDO
Imponi, o sire,
di qual impero il mio servir sia degno.
DOMIZIANO
Vo', che tra armate schiere ora ti porte
all'albergo d'Agrippa;
Berenice vedrai, colei ch'adoro,
la mia dèa, la mia vita,
bramo, che sia rapita;
con l'alta preda in braccio alle mie tende
drizza veloce i passi.
LEPIDO
Ah mio signore!
Temo.
DOMIZIANO
Di chi?
LEPIDO
Di Tito, anzi pavento
l'ira di Vespasiano.
DOMIZIANO
Dunque a parte io non sono
dello scettro romano?
LEPIDO
Non vede amor, ch'è cieco il suo periglio.
DOMIZIANO
Io voglio ubbidienza, e non consiglio.
Lepido.
Nume arcier, tiranno dio,
quanto sono fallaci i tuoi contenti,
han maschera di gioie, e son tormenti.
Ahi, che troppo tardi imparo,
ch'il tuo dolce è sempre amaro.
Misero, che farò?
Senza vittime esangui
non si placa giammai l'ira de' grandi.
Mio cor, che pensi tu?
Alla beltà, ch'adori,
non aspirar mai più:
mio cor, che pensi tu?
Folle, m'a che deliro?
E non posso a mia voglia
mitigar la mia doglia?
Rapirò Berenice, e in apparenza
del barbaro amatore
eseguirò 'l comando,
ma pria che Berenice ad altri ceda,
io goderò la preda,
Agrippa a me la diede,
Tito no 'l negherà, Roma, la corte
applaudirà alle nozze: il tempo intanto
raddolcirà del principe lo sdegno.
Troppo di quei begl'occhi
sento la face, e 'l dardo,
non v'è peggio in amor, ch'esser codardo.
Marzia. Apollonio.
MARZIA
Una vile Idumea,
degna sol di trattar lane servili
sederà in Campidoglio,
e nel romano soglio
ammirerà a mio scorno
popoli adoratori al piede intorno?
O chimera de' mortali
nume alato
faretrato
con tua face, e con tuoi strali
l'universo ognor confondi,
o quanto fiele in poco miele ascondi.
APOLLONIO
E pur anco sospiri, e porti 'l ciglio
rugiadoso di pianto?
Ah ch'i più saggi avvisi un petto amante
rare volte riceve.
MARZIA
Duol, ch'ammette conforto, è un duol, ch'è lieve.
APOLLONIO
Febo non laverà nel mar d'Atlante
la folgorante chioma,
che di Tito nel seno
t'acclamerà felice Italia, e Roma.
S'il fato
beato
a tue gioie or vole arridere
lagrimare è follia, quando déi ridere.
MARZIA
Quando spera amante core
di goder vaga beltà,
gli rassembrano in amore
i momenti eternità.
Quando in braccio a chi s'adora
deve un'alma uscir di duol,
pigra sembra in ciel l'aurora,
e che tardo corra il sol.
Tito. Messo. Domiziano, che sopravviene.
MESSO
Signor, il siro audace,
qual novo Anteo risorge, e in nova guerra
sparge del ferro i lampi;
e con torrenti d'armi
dell'arenosa Ioppe inonda i campi.
TITO
Sì temeraria Ioppe! Incontro a Roma
armi novelle impugna?
L'idra giudaica dunque
non diede ancor sul memorando suolo
di Sionne, e Sebaste i guizzi estremi;
che del mar filisteo sopra la foce
contro i fasci latini
osa innalzar le redivive reste?
A così grave colpa
darò pari 'l castigo:
di quell'empia cittade
espugnerò le contumaci mura;
e sul rubello palestino esangue
nuoteran mie vittorie in mar di sangue.
Ma ecco Domizian: del suo valore
sarà degna l'impresa:
o folgore di guerra, o del mio campo
alto sostegno, o mio real germano,
della Siria già doma augusta parte
contro l'aquile auguste
spiega insegne di Marte:
va', vedi, e vinci e con guerriera mano
resti 'l fasto di Ioppe arso, e distrutto,
memorabile esempio al mondo tutto.
(parte)
DOMIZIANO
Ch'io vada a debellar falangi armate?
Se da mille catene ho 'l cor avvinto,
come vincer può altrui chi è preso, e vinto?
Perdonami pur Roma,
s'io fuggo di Bellona il nume irato,
pugnar non può chi porta il cor piagato.
Da, che un guardo quest'alma ferì
ch'io più risanassi, amor non soffrì;
così
Atalanta quest'alma si fe',
le poma d'un seno fur remore al piè.
Berenice. Agrippa. Domiziano.
BERENICE
Signor, per questa eccelsa, e regal destra
invitta in guerra, e gloriosa in pace,
per quiest'illustre ferro
domator di tiranni, e ch'alla sorte
legge può dar, soccorri
un'afflitta reina,
che prostrata al tuo piede umil t'inchina.
DOMIZIANO
Cieli! Fato! Fortuna! Amor, che veggo?
AGRIPPA
Atto proprio è dei regi
l'esser pietoso, e sotto 'l manto augusto
raccor chi prega. Ah sire:
Tito il tuo gran germano
tratto da fiamma impura,
l'onor di Berenice arder procura.
Dall'insidie oltraggiose
preserva una infelice,
farlo ben puoi signor, tu, che di sangue
sei pari al maggior duce, e dell'impero,
e del trono latin ben degno erede.
NINFO
(che sopraggiunge)
Nell'amorosa pesca
tanto guizzò, che preso è il pesce all'esca.
DOMIZIANO
Bella, affrena i singulti:
di quell'intatte poma
sarò 'l vigile drago, or tergi intanto
le luci rugiadose,
al tuo timor la sicurezza arreco:
che temi più? Domiziano è teco.
BERENICE
O degno sol, cui Roma
d'alloro imperial cinga la chioma.
DOMIZIANO
A novelli trionfi, e a nove palme
d'oricalchi guerrieri il suon feroce
verso Ioppe mi chiama;
Agrippa, e che farai?
AGRIPPA
Con la tua spada
unirò questo brando, e non ricuso
seguirti all'alta impresa,
e contro a mille squadre
espor l'ignudo petto in tua difesa.
DOMIZIANO
Appena sorgerà Cinzia vezzosa
con l'orbe suo d'argento
entro 'l notturno velo
dei fraterni splendori erede in cielo,
che moverassi 'l campo; or fia tua cura
Berenice condur.
AGRIPPA
Tanto eseguisco.
DOMIZIANO
Già non fia benigne stelle,
che di voi mi dolga più,
o detesti le facelle,
per cui l'alma accesa fu.
Più non bramo d'amor la fiamma, o 'l laccio,
con gl'astri in fronte avrò il mio sole in braccio.
Berenice. Cinna.
BERENICE
Infelice mio core, e da qual astro
or pende il tuo disastro?
Polemone spergiuro
mi tradisce, e m'aborre,
e in quell'anima infida
puote desio di regno
al mio svenato amor l'urna comporre.
O Tito, o Licia, o Roma!
Ben conobbi alle prove i vostri inganni,
e in questo ahi sempre amaro, e infausto die
Cassandra fui delle sciagure mie.
Ma inulta non andrò, l'estrema sorte
saprò affrettare al regnator romano.
Cadrà 'l superbo, e ancor che cinga al seno
l'egida portentosa, o pur d'Achille
ei vesta l'armi, o dell'eroe troiano,
olocausto farà di questa mano.
Ma non è questi Cinna?
Per atterrar d'un cesare lascivo
l'impudica baldanza
delle vendette mie costui fia parte,
così deluderò l'arte con l'arte.
CINNA
O de' tetrarchi illustri inclito germe,
qual impeto feroce agita, e volge
l'animo perturbato?
BERENICE
Penso d'augusto al fato.
Vattene a Tito, vola,
digli, che s'egli apprezza
e la vita, e l'impero,
solo, cauto, e guardingo a me ne venga,
alla fonte d'Adone
l'attenderò: ciò impongo alla tua fede.
(parte)
CINNA
Per obbedirti impenno l'ali al piede.
O di chi regge scettri, e frena imperi
troppo infelice stato,
se quando in alto soglio
seggono sublimati,
la fallace fortuna
per ruina maggior par, che gl'innalzi,
e mentre a mille turbe adoratrici
sparsi di gemme, e d'ori
sembran vaghi pianeti, e luminosi,
precipitando al suolo
divengono a momenti
questi soli terreni astri cadenti.
Giardino con fontana, ove risiede la statua d'Adone con palazzo nel prospetto.
Polemone.
Berenice ove sei?
Dove dove t'ascondi
luce degl'occhi miei.
Marmi o voi, che nel candore
pareggiate la mia fé.
Per pietate
palesate
il mio sol, dite, dov'è?
Folle, ma con chi parlo?
Ah che l'empia, l'indegna
conscia di sue lascivie, e de' miei torti,
rapida qual baleno
s'è ricovrata al novo amante in seno.
Ma vanne pur o cruda,
fuggi pur da quest'occhi, e vola dove
sotto incognito ciel l'orbe divide
il frapposto Nettun, fuggi inumana,
ch'ad ogni piaggia inospita, e romita
negl'ultimi recessi, e più remoti
d'un amante tradito
ti giungeranno i voti.
Furori armatemi,
tutto ingombratemi
di stigio ardor
cada svenata,
e lacerata
l'empia, spietata,
che già rapimmi con l'alma il cor.
Tito.
Qui dove edra serpente
per rintuzzar del sol gl'estinti ardori,
dimostra a braccia aperte
in difesa dell'ombre,
quante foglie ha nel sen cotanti cori;
di Berenice ai cenni
veloce, solo, e incustodito io venni.
Cieli, che sarà mai?
Qual petto di Procuste,
o qual alma di Scini alla mia testa
insidie ordisce, e le congiure appresta?
E del cesareo alloro
s'indegna questa fronte,
che contro a questo capo ognor si deggia
scagliar ferro omicida?
O di chi 'l mondo regge
alte miserie estreme,
se chi nasce agl'imperi
quanto temuto è più, tanto più teme.
Ma neppur anco miro
quelle luci ch'adoro,
ove in marmorea fonte
sgorga tra verdi piante
dalle ferite sue stille d'argento
della più bella dea l'estinto amante?
Al dolce mormorar d'onda fugace
attenderò colei,
che con gl'occhi sereni
sol può temprar di questo cor la face.
(s'asside sopra il fonte)
Pupille vezzose,
ch'il seno m'aprite;
pur ch'un dì siate pietose,
corre l'alma alle ferite:
ch'il bel guardo, che m'impiaga,
può Esculapio d'amor sanar la piaga.
Ma qual d'aura gentile
vezzoso ventilar i lumi stanchi
al riposo lusinga?
Se qual Endimion dormendo ancora
stringerò la beltà, che m'innamora,
in sì dolce sopore
fammi dormir eterni sonni amore.
(qui s'addormenta)
Berenice con lo stilo in mano.
Tito che dorme. Polemone, che sopraggiunge.
BERENICE
Animo, perché cessi? È questo il loco,
ch'a mie vendette oggi destina il cielo
su assistete, inspirate
ultrici deitadi
nove furie al mio sen, rivegga Roma
d'un cesare la strage, ammiri 'l mondo
con memorando esempio
d'un lascivo lo scempio.
Ma che scorgo? Qui dorme
l'involator de' miei riposi? O dèi!
Mentre da mille cure ha 'l seno aperto,
dite voi, come ponno
le torbide palpebre
d'un tiranno crudel star chiuse al sonno.
O numi dell'onore
voi scorgete il mio ferro,
voi guidate la mano,
mora l'empio inumano.
POLEMONE
(che sopravviene afferrandola per la mano)
Ferma eccelsa reina: e qual offesa
tanto acerba, o mortale
contro sì nobil vita
arma la man reale?
BERENICE
Lascia cotesto ferro, o de' miei torti
consiglier scellerato!
Costui, che poco dianzi empio lascivo
tentò rapir a questo sen l'onore,
vo', che vittima sia del mio furore.
POLEMONE
(Dunque fede mi serba,
mentre cesare aborre;
giusto è, che Tito mora:
ma troppo dolce sorte
fora per la tua man provar la morte.)
Con questo invitto braccio
trarrò all'empio inumano l'alma dal seno:
vanne mia vita intanto;
e là dove il Giordano con lucid'onda
sferza l'erbosa sponda,
su volante corsier cauta m'attendi;
e perché più sicura abbi la fuga
dell'usbergo d'Agrippa
cingi al tenero seno il grave incarco:
già pongo fine all'opra.
Che dal sonno alla morte è un picciol varco.
BERENICE
(Dunque fido è costui, se pronto aspira
alle parche sacrar l'empio tiranno.)
Prendi il vindice ferro! Uccidi, svena
cesare impudico,
il mio onor vilipeso altro non chiede
dal tuo acciar, dal tuo cor, dalla tua fede.
Tito, che dorme. Polemone.
POLEMONE
Or che più tardi
animo irresoluto;
ecco a quel fonte appresso
giace dal sonno il tuo nemico oppresso:
su via (fa' che tra l'ombre
dorma un sonno di ferro;) a quel lascivo
togli l'alma, apri 'l seno,
cada trafitto: ecco l'uccido, e sveno:
ma qual ignota forza
mi ritoglie il furor? Qual dio? Qual fato
mi rapisce a me stesso? Ah, ch'il mio spirto
generoso, e audace, e ch'ad ogn'ora
seguì di gloria l'orme,
aborre di svenar un uom, che dorme.
Deh non fia ver, che fra mie eccelse imprese
unqua l'Asia racconti,
che per amar altrui
vil cavaliero, e traditore io fui?
Viva cesare viva
alto esempiod'onor; e a ciò, ch'ei vegga,
ch'a questa destra è debitor dell'alma,
inciderò in quel tronco
la storia de' suoi casi; or quindi apprenda,
ch'un magnanimo core, un'alma ardita
sa al nemico talor donar la vita.
(qui scrive con lo stilo nel tronco ove Tito s'appoggia)
Tito. Polemone: Cinna. Coro de' Soldati.
TITO
(svegliato prende Polemone nel braccio)
Che tenti empio, crudel?
POLEMONE
Salvar da morte
il regnator latin?
CINNA
Ferma spietato!
Sì prezioso stame
troncar procuri.
POLEMONE
Anzi a difesa armato
sospesi a Tito l'imminente fato.
TITO
Qual ciclope sì crudo
or del mio sangue ha sete?
POLEMONE
Mentre fra queste frondi
al respirar d'un zefiro leggero
del più caldo meriggio
cerco temprar la face,
miro d'acciar vestito
sconosciuto campion, col ferro ignudo
tenta questi svenarti, accorro, volo,
m'oppongo, egli resiste, alfin prevale
la virtude al furor, fugge l'ignoto.
Io d'un sì gran d'alma
tolta alla man di Cloto
scrivo con l'armi stesse in su quel mirto
gl'acquistati trofei. Tu desto all'ora
mi credi traditor, ma quella pianta
ch'inscritto ha 'l sen di così eroica impresa
me di tua vita il difensor palesa.
CINNA
Quai caratteri leggo?
(legge)
«D'un nemico rival la destra ardita
mentre giaci, o gran Tito,
entro 'l sonno sopito
fra le braccia di morte, or ti dà vita.»
Queste note, o signore,
son prove d'innocenza, e di valore.
TITO
Adraspe amico, o quanto
deggio al tuo braccio invitto:
ma se tua destra forte
d'inesorabil parca
mi sottrasse al furor: come un nemico
mi preserva alla luce? Io da quel giorno
che sotto 'l giogo del romano impero
cadde Sion superba, e che dall'armi
Berenice salvasti,
sol ti conobbi; or come
nemico sei se all'opre
il tuo genio sublime
mio difensor ti scopre?
POLEMONE
(Sì augusta al par del nome
porta l'alma costui, sì generoso
e magnanimo ha 'l cor, ch'io non diffido
palesargli 'l mio stato.)
Polemone son io di Licia il trono
freno con man real, della mia spada
qual siasi 'l taglio, entro a più dubbi assalti
le tue squadre il provar; amor che nudo
sa trionfar di Marte,
d'un bel guardo m'accese;
Berenice rapii, con l'alta preda
a Solima fuggii, quando d'intorno
cinto dal tuo gran campo
in assedio sì lungo, e sì ostinato
mentre invitto difendo i regni altrui,
della strage comun consorte io fui.
TITO
Trattar non usa
fuor, ch'un'alma di rege opre reali;
il nome di nemico
sbandisci omai, già Roma
per amico t'acclama, e tale io sono,
sempre i falli d'amor mertan perdono.
(parte)
POLEMONE
Cieca diva inesorabile,
già per me tuo globo instabile
favorabile
girerà.
Né sempre al dolore
un misero core
bersaglio sarà.
Campagna montuosa sopra le sponde del Giordano.
Berenice armata con l'armi d'Agrippa.
BERENICE
Già Polemone invitto avrà reciso
d'un'empia vita il filo: io qui l'attendo
compagna della fuga;
ma con piè sì veloce,
tutto nell'armi chiuso,
che richiede costui?
Celso. Berenice. Coro di Soldati.
CELSO
Amici ecco 'l ribello
nemico dell'impero:
Roma dal vostro ferro
chiede quel capo infido:
ma no: fermate il passo,
da solo a sol con generosa destra
saprò quell'alma iniqua
oggi ad Eaco sacrar: empio guerriero
snuda quel brando.
BERENICE
O dèi che fia? Son morta...
(qui vien percossa e cade a terra)
CELSO
Un cor fellone
va sempre armato di viltà; gettate
l'esangue busto entro 'l Giordan; se folle
premeditò gl'incendi al ciel latino,
mentre dal ferro ei fulminato giacque,
merta novo Fetonte:
nella caduta sua sepolcro d'acque.
(viene gettata Berenice nel fiume)
Terminata è già l'opra: Agrippa estinto,
lepido morirà; resta che Tito
conceda alla mia fé,
già che spirò Sabina,
Berenice in mercé.
Ecco cesare appunto:
ite lunge, o tormenti;
mi prepara il destino alti contenti.
Tito. Cinna. Celso.
TITO
Stelle che deggio far?
A chi mi diè la vita,
devo l'alma lasciar?
Che deggio fare o stelle?
Ma che dirà l'onore,
la dignità l'impero,
se fulminato da un bel guardo arciero
vinta la Siria, e Palestina doma,
dalle sabee pendici
qual Paride lascivo
porterò in seno all'acque il foco a Roma.
La maestà, la fede
vol ch'al licio regnante
la consorte si doni:
ma per dar vita altrui, dovrò a quest'ora
crudamente pietoso
pellicano d'amor svenar me stesso?
Troppo troppo o pensieri
siete d'un cor amante
rigidi consiglieri.
S'in eterni martiri ho da penar,
che deggio far o stelle?
Stelle che deggio far?
CELSO
Come, o sire, imponesti,
vittima del tuo sdegno
cadde Agrippa l'indegno:
or, se da voti miei
lice tanto impetrar, di Berenice
bramo gl'alti sponsali:
già che Flavia Sabina
mi rapiron di Cloto
le forbici fatali.
TITO
O ciel, non basta,
che quest'anima esali
sospiri agonizzanti,
se con novi martiri a tormentarmi
non veniva costui? Mio fido amico:
duolmi, ch'ora non lice
dispor di Berenice.
Ad altri in sorte
la destinaro i cieli: altra mercede
di Celso avrà la fede.
Gl'antedetti. Berenice. Agrippa. Polemone. Due Pescatori taciti.
CINNA
Due siri pescatori
portan signor, di grave usbergo cinto
sovra dell'onde un cavaliero estinto:
s'io non traveggo, all'armi
Agrippa mi rassembra.
CELSO
Il cadavero indegno
sarà di quel fellon.
TITO
Cesare aborre
con sì fiero spettacolo, e funesto
le luci profanar, urna decente
abbian l'ossa reali: io non permetto
tanto allo sdegno mio, ch'anco a' defunti
turbi i riposi in sulle stigie rive;
non dée guerra con l'ombre aver, chi vive.
CINNA
Ma che veggo, signor! Or non è questi
Agrippa il re.
TITO
Che miro?
Olà: scoprite,
chi sia il guerriero esangue:
Celso l'error mi pagherà col sangue.
CELSO
O me infelice!
CINNA
Numi che scorgo?
TITO
O cieli!
CELSO E TITO
È Berenice
AGRIPPA
Berenice! E a quai colpi
astri mi riserbate?
Come cinta d'acciaro in questo lido?
TITO
Su littori cingete
di stringenti ritorte
Celso, l'empio omicida,
scopo di mille strali egli s'uccida.
CELSO
Uscite pur dagl'archi,
o pietose saette,
merta pena infinita
chi puote dar la morte alla sua vita.
(vien condotto altrove)
CINNA
O portenti funesti! Ora nell'acque
una venere muor, s'un'altra nacque.
BERENICE
Chi mi dona i respiri?
TITO
O dèi! Ch'ascolto?
BERENICE
Chi mi toglie alle parche? Ove mi trovo?
AGRIPPA
Fra le braccia d'Agrippa.
POLEMONE
(che sopravviene)
Empia sorte, che miro?
Per quale strano caso
il mio adorato sol giunto è all'occaso?
BERENICE
Polemone mio re?
Gira un guardo pietoso a chi t'adora,
porgi la destra a questa destra almeno,
moro contenta, or, ch'io ti spiro in seno.
AGRIPPA
Polemone è costui? Respira, vive
il lascivo nemico?
Ma qual di fosca nube orrido vel
fra tuoni, e folgori
oscura il ciel?
Gl'antedetti. Apollonio. Marzia.
S'apre fra tuoni, e folgori una nube, e scendono a terra.
APOLLONIO
Tito, gl'inumani eventi
non ruota il ciel a caso;
ch'incatenato insieme
con vicenda fatal va 'l pianto al riso.
Marzia, che destinata
ti fu dal fato infin dal Tebro io trassi,
giusto è, signor, che così lunghe doglie
succedano i respiri,
Io l'idumea reina
a Lachesi involai,
perché di Licia al rege
la donasse un augusto; ora di Roma
seconda i voti, o sire, e fa', ch'il mondo
dopo tanti trofei,
novo Alcide festoso
lieto t'adori imperatore, e sposo.
(vien rapito a volo)
TITO
Entro a cimmerii orrori
avvezzò le pupille,
chi cieco amante vole
prepor le stelle in paragon del sole.
MARZIA
Mia luce.
TITO
Mio core.
MARZIA
Mia vita.
MARZIA E TITO
Mia spene.
I latini trionfi...
MARZIA
oggi contemplo...
TITO
oggi coroni...
MARZIA E TITO
entro alle sirie arene.
Gl'antedetti. Domiziano. Ninfo.
DOMIZIANO
D'Ioppe contumace
or volo con tuo auspicio all'alta impresa.
TITO
Del tuo brando guerrier l'invitte prove
secondi amico Giove.
DOMIZIANO
Che mirate miei lumi?
Sotto spoglie guerriere
il mio nume s'asconde?
Che diria, che d'elmo, e scudo
si coprisse Amor, ch'è nudo:
e per l'alme infiammar con la sua face
ei fosse di Bellona ora seguace,
e pur per tormentarmi
costei cerca fierezze in mezzo all'armi.
TITO
Pria che ritorni al campo,
vo', ch'alla tua presenza
di Licia al gran regnante
Berenice si doni.
DOMIZIANO
Questi son di mia fede i guiderdoni?
BERENICE
Invan pretendi
col donarmi allo sposo
d'offesa donna mitigar lo sdegno.
Aborrisco gli scettri,
Polemone ricuso
fier tiranno impudico.
S'egl'è dono fatal d'empio nemico.
TITO
Io tiranno, io lascivo
profanator di tua onestà?
DOMIZIANO
Mio core,
ora, ch'è disperata ogni tua spene
su palesa gl'inganni; io fui l'audace,
ch'acceso da que' lumi
mentre un guardo il sen m'impiaga
col baciar i feritori
tentai sabar di questo cor la piaga:
ma se d'accorto Amor non giovò l'arte,
lascio Cupido, e mi rivolgo a Marte.
(parte)
NINFO
O gran saggio è il mio signor,
già che più goder non può,
si ribella al dio d'Amor,
e campion di Bellona ora gli basta
trattar lo stocco, e maneggiar sol l'asta.
(parte)
BERENICE
Il mio giusto dolor scusa o signore,
non è delitto involontario errore.
AGRIPPA
Se d'augusto è voler, ch'al licio rege
Berenice s'annodi
con sovrani sponsali,
applaude Agrippa agl'imenei reali.
TITO
Pria che nell'onda ibera
dell'aurata quadriga
attuffi il sol le luminose rote
nella reggia pomposa
con gl'allori di Roma
io vo' di Marzia incoronar la chioma.
MARZIA
Felice cor festeggia sì:
già per te d'amor la face
non vorace
splende lieta in questo dì.
Reggia di Salomone.
Sabina. Lucindo.
SABINA
Resi lumi funebri
al funeral d'un sole occhi splendete;
o cangiate vicende
trasformatevi in fonti,
e lagrimate tanto,
ch'io divenga Aretusa in mar di pianto.
Cadrà Celso il mio bene,
ah che fra tante pene
trafitta da que' strali anch'io sarò,
se spira la mia vita, anch'io morrò.
Di quest'alma al rio martoro
dio de' cori soccorri tu,
se non salvi 'l bel ch'adoro
tuo idolatra non m'avrai più.
LUCINDO
Al dispetto di fortuna
pur alfin con lieto viso
divenuto è d'amor compagno il riso.
Che non può donna, ch'è bella
con un guardo lusinghier,
se di Venere la stella
sa placare il dio guerrier.
Per un crin, che lo legò,
anco un Ercole filò;
che per levar lo spirto ad ogni ardito
d'una morbida man basta un sol dito.
SABINA
O se di Pafo, e d'Amatunta i numi
secondino il tuo merto
giovinetto gentile, al piè d'augusto
scorgi d'alto guerriero il passo errante.
LUCINDO
A così bel sembiante
io averei giurato
per un Cupido armato:
sarò duce al tuo piede,
ecco Tito, che viene:
ma vo' darti un consiglio
con sì bizzarro arnese
ti veggo in questa etade in gran periglio.
Tito. Marzia. Berenice. Polemone. Lepido. Cinna. Sabina. Lucindo. Agrippa.
MARZIA
Sparso il crin di lampi d'oro
rida il sol più luminoso,
e di Tespo il dio vezzoso
m'incateni al bel, ch'adoro.
TITO
Del latino diadema
già rifulge tua chioma:
scenda Imeneo festante, ebbra di gioia
intorno a' sacri altari
strida la casta fiamma,
e di timpani, e trombe al suon giocondo
lieta Roma festeggi, applauda il mondo.
Lepido!
LEPIDO
Mio signore!
TITO
All'or, ch'ai rai dell'alba Eto fiammeggia,
con Polemone invitto
scorterai Berenice
colà di Licia alla sublime reggia.
LEPIDO
Obbedirò a' tuoi cenni. O dèi, che miro!
Berenice è d'altrui!
E novello Ision per mio tormento
abbraccio l'aura, e sol restringo il vento.
SABINA
O di Sion superba
famoso spugnator, ecco al tuo piede
la nipote d'augusto,
che di Celso invaghita,
in duro acciaro involta,
sott'elmo rugginoso
i volumi del crin nascose ad arte,
e tra falangi astate
seguì armata nel campo il suo bel Marte.
Se di regal fanciulla
può in te signor qualche pietade, aita
porgi o Tito a quest'alma,
dona a Celso la vita.
TITO
O gran germe de' Flavi, alta Sabina,
rasserena le luci,
già precorsi i tuoi voti,
vive il tuo Celso, e in più felici nodi,
fia ch'Amor al tuo seno oggi l'annodi.
MARZIA
Non disperi un cor amante
di goder vaga beltà,
che del cieco arcier volante
lo strale
fatale
eterni tormenti
alfine non ha.
BERENICE, MARZIA E TITO
Ogn'alma arriva
tra le noie
alle gioie
ai contenti
TUTTI GLI ALTRI
Viva Tito viva, viva.
Fine del libretto.
Generazione pagina: 14/01/2016
Pagina: ridotto, rid
Versione H: 3.00.40
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