Ho vinto Amore, ho vinto,  

cinto di mirti i tuoi trionfi io spiego

cedan de' prischi eroi

l'onorate memorie in Campidoglio

ch'al dio bendato oggi qui innalzo il soglio.

O del Lazio guerriero  

deturpati trofei, misero regno!

Di monarca romano, o lusso indegno!

Flora, quegl'occhi neri

degli strali d'amor sono fucine,

anzi carboni accesi,

ch'ad ogni sguardo al cor con linee ardenti

segnano i lieti dì de' miei contenti.

Ardono gl'occhi miei, perché idolatri

al tuo cesareo lume, a poco a poco

quai Prometei in amor tolsero il foco.

Lusinghiera sirena!

Con accenti omicidi

gl'uomini incanti, e poi, crudel gl'uccidi:

perfida Flora! Appena

un sol guardo mi gira: empia, infedele!

Delle dolcezze mie,

contemplo il vaso, ed altri gusta il mele.

(giunto appresso Tiberio)

Tiberio, perché mai

sì mesto ti rimiro,

ne' miei dì più giocondi, e più sereni?

Cesare il mio destin vuole, ch'io peni.

Scoprimi del ruo mal l'alta radice.

Devo muto languir: parlar non lice.

(parte)

In qual parte mi guidi incauto piede?  

Parti lungi da qui.

Ferma Alessandro.

Dove, dove ne vai?

Fuggo, o cesare i rai

di lasciva beltà, lungi mi porto

da una fronte serena,

ch'i semi di virtù strugge, e avvelena:

il genio d'Alessandro

con generosi spirti

ama gl'allori, ed aborrisce i mirti.

A Venere nimico

del suo figlio lo sdegno

irriti a danni tuoi, né te n'avvedi;

giungeratti il suo stral, quando men credi.

Glorie illustri di Roma,  

ove siete? In qual parte

i trionfi spiegate?

Palme precipitate,

perché più non fiorite

sulle rive del Tebro? Ah inaridite

dagl'ardori lascivi

del monarca latin languite immerse

entro lussi indecenti al suol disperse.

Ireno?

Che ricerchi?

Di qui poc'anzi

partì unito con Flora.

Chiedilo ad altri: io questo dir non so.

Ed a qual fine

a cesare t'invii? Qual alto affare

ti costringe a trovarlo?

T'intendo: in quella carta

forse a cesare porti

parolette d'amor, detti melati,

sensi scaltri, e lascivi, incendi novi.

Odimi.

Argo sagace?

Apra ad ogni tuo passo  

voragini la terra, e ti profondi

tra gl'orrori di Pluto

scellerato corrier, mezzano astuto.

Questa, o Flora è la messe  

delle speranze mie, de' miei sospiri?

Se alle grandezze aspiri,

se ambisci le corone,

perché farmi prigione

del labirinto d'or del tuo bel crine,

e con dolci rapine

togliermi 'l cor per dover poi lasciarmi

nel centro al duolo, e libertà negarmi?

Dov'è l'ardor, che nel tuo sen già fu?

Da' pace al cor: non posso amarti più.

Barbara, dispietata!

Mostro di te più fiero

non ha la Libia, o l'africana terra;

m'auguri pace al cor, e mi fai guerra?

Ma s'estinto mi vuoi,

ecco il ferro, ecco il sen; svenami tu.

Da' pace al cor: non posso amarti più.

Ha 'l mio lungo servir questa mercé?

E questa o cruda è la giurata fé?

Dogliti di Cupido, e non di me.

È questo il guiderdone,  

ch'ottiene un fido amante?

Son questi i vezzi tuoi Flora incostante?

T'aborrirò, ti fuggirò: che dico?

Amor lasso m'impone,

ch'adori i tuoi disprezzi,

ch'io peni amando, e i nodi miei non spezzi.

Ireno,

paraninfo fedel de' miei conforti,

qual avviso m'apporti?

Nisbe alfin, che ti disse?

Ti sento o cor, ti sento;

presagisci festoso il mio contento.

(spiega il foglio, e lo legge)

«Cesare, questa notte

vieni all'albergo di colei, ch'adori;

t'aprirà Nisbe il sospirato ingresso

tra i più profondi, e taciturni orrori.»

(baciando il foglio)  

O note soavi!

O note soavi!

Ireno ti dichiaro  

gran duce de' littori;

questa prossima notte

di cesare sarai

fido seguace, e mio commilitone:

questo dell'opre tue sia 'l guiderdone.

Che amori? Che follie,  

di sconosciuta dama

temerario mi spieghi?

Libero ho 'l core, e tenti far, ch'io 'l leghi?

Signor se tu vedessi

colei, che t'idolatra

diresti, e con ragione

che vince al paragone

la grazia, e la beltà di Cleopatra.

Taci audace: non sai

il genio di Alessandro?

Io Cupido detesto,

le sue leggi calpesto:

erri o folle, se pensi

ch'io segua Amore, un cieco

omicida de' sensi;

un foco, un aspe, un mago,

che di tradir si vanta

chiunque il segue, e la ragione incanta.

(Che stravagante umore

vario dagl'altri in Alessandro regna?

Bella dama l'adora, ed ei si sdegna.)

O che vana sciocchezza?  

Fuggir, ciò ch'ognun segue,

sprezzar ciò, ch'altri apprezza?

O che vana sciocchezza?

Alessandro non sa

la magica virtù della bellezza.

Cerca invano riposo

chi la fiamma d'amor nutre nel petto,

amo, adoro Alessandro,

col pensier l'accarezzo,

col desir al mio seno

lo stringo, e l'incateno:

se parlo, se sospiro (io non so come)

non so invocar, che d'Alessandro il nome.

Scaltro paggio fedele

di quest'alma penante,

li palesò l'amor, ma non l'amante:

e dormendo, e vegliando,

sull'ali del pensier volo al mio bene.

No.

È ver: ma un core amante

non cura gl'origlieri;

io qui godo vegliar ne' miei pensieri.

Canta, o Nisbe, e 'l tuo canto

penetrandomi al core,

plachi 'l Cerbero fier del mio dolore.

Ah troppo è ver! Altro non è Cupido,  

ch'una furia d'Averno al cieco abisso

le catene, e gl'ardori

tolse il crudel per tormentare i cori.

Che miro! Aita o ciel:  

parti, fuggi crudel.

Beatevi mie luci  

in sì divine forme

notte amica t'intendo,

non sorge dì, perché 'l mio sol qui dorme

ma pigro, e che più tardo

a impossessarmi di quel bel, ch'adoro!

Prezioso tesoro

rapirò le tue gioie.

No!

Sin l'ombre

invide del mio ben tentano opporsi

al mio gioir!

Sì: vengo.

(qui si risveglia)

Ahimè! Si desta.  

Che miro? Oh dèi! Non sogno:

cesare qui?

Son io: Flavia, che temi?

Egro d'amor ricerco

a disperato mal rimedi estremi.

Supplice alle tue piante

signor.

Bella risorgi,

che non lice esser vista

deità supplicante.

Se qui t'introducesti

per far con fieri assalti

guerra alla mia costanza

fia vana ogni speranza;

ho inespugnabil core

nell'onor pertinace:

non turbar la mia pace,

cesare.

Idolo mio.

Parti.

Non posso.

Oh dio!

Chi ti ritien?

Del tuo bel crine i lacci,

onde mi fe' tuo prigionier Cupido.

Per darti libertade or li recido.

Ferma.

Lasciami.

Invano

tenti lo scampo.

E che pretendi?

Bramo

dolce ristoro a miei penosi ardori.

Violenza tiranna

in petto femminil non desta amori.

Ti movano i miei preghi.

Son inflessibil rupe.

I fervidi sospiri

ti riscaldino almeno.

Porto di ghiaccio il seno.

Ah rigida! Che credi?

Perché fatto mi vedi

supplice lusinghiero,

che scordato mi sia d'esser severo?

Già, che mi sdegni amante,

tuo nemico m'avrai:

dell'impero latino

il monarca temuto

così sprezzi, e non curi? Io ciò, che voglio

posso ottener: sanar il tuo cordoglio

tuo malgrado saprò.

Trarmi dal petto

l'alma potrai, ma non l'onor dal seno.

Che farai?

Griderò sino alle stelle,

e se fia, ch'io non possa

risvegliar a pietà gl'astri protervi,

desterò almeno il genitore, e i servi.

Le tue voci reprimi.

Anzi più ardita

ad esclamar m'accingo.

Taci.

Fermati: oh ciel! Domizio aita;

soccorso.

E chi t'offende?

Un barbaro inumano.

(qui dà una scossa, e fugge dalle mani di Eliogabalo in altre stanze)

Perfida, fuggi invano;  

giungeratti il mio sdegno.

Taci indegno:

tanto ardisci, il tuo tetto

è dei ribelli miei fatto ricetto?

Politico riguardo

le mie piante spronò sulle tue soglie:

so, che Flavia raccoglie

nel sen di molli piume

folle amator, ch'a danni miei congiura:

olà.

Tua cura

fia di condur in corte

Flavia col genitor ambo prigioni;

scopriranno i felloni

il rubello al mio trono

tra rei tormenti: (ah il tormentato io sono!)

(nel partire)

Padre dimmi, in che errai?

Ed io nulla ti nego.

Assalita, e non vinta

dal lascivo restai.

Anzi mostro sì rio da me scacciai.

Lo vedesti: ma che!

Vendicarti pretendi?

Contro il tuo re?

Cesare appunto

fu quel, che l'onor mio

superar qui tentò.

Non ti turbar: costante

pugnai vincendo i fieri suoi contrasti,

figlia son di Domizio, e tanto basti.

Che strana frenesia  

entrò a cesare in capo?

È notte oscura, e vuol che giorno sia:

che strana frenesia?

Del pubblicato editto

mira già in Roma l'obbedienza, mira;

cesare a sé delira:

vuol ch'ardenti facelle

in faccia delle stelle

portin tra l'ombre a mezzanotte il dì,

dove mai più simil pazzia s'udì.

Io non la so capire,

quand'altri si dispoglia,

noi si dovrem vestire?

E quando il sol riluce

dovrem fuggir la luce,

e in tempo di vegliar tutti dormire?

Io non la so capire.

L'ordine di natura

vuol confondere chi è nato

a regger regni, e regolar imperi.

E il popolo, e 'l senato

soffre queste follie, né si risente?

Vien temuto da ognuno il più potente.

Vada Roma sossopra,

porti cesare al Lazio un danno immenso

pur ch'illesi noi siam, nulla vi penso.

Di queste meraviglie

spettatrice anco Flora in piazza arriva.

O quanti ganimedi

la corteggiano a gara! Osserva: vedi?

Vuò l'incontro fuggir della lasciva.

Semini nell'arena,  

e preghi 'l sordo mar,

placa omai la tua pena,

io non ti posso amar.

Di già sazia son io di tue follie.  

Così ingrata, così

le pene del mio amor chiami pazzie?

Ersillo.

Mia signora.

Cesare ov'è?

Non so: forse per Roma

vagar deve ammirando

la bizzarria del novo suo comando.

Credi Flora, che invano

abbia 'l Giove romano

voluto unir, e giorno, e notte insieme?

Nel sen di nova Alcmena

scritto da scaltre guide

chissà, ch'ora non sudi

in generar qualche latino Alcide.

Co' tuoi detti sagaci

tenti infonder invan nell'alma mia

l'amatissimo fel di gelosia.

Già, che tanto mi sdegni

fuggo dagl'occhi tuoi, meno severa

amor ti renda.

Sì, parti, e spera.