Atto terzo

 

Scena prima

Astrea, Venere, Mercurio, Giove.

 Q 

(nessuno)

<- Venere, Astrea, Mercurio, Giove

 

ASTREA

Io spinsi il dotto mago  

a la nobil donzella;

e l'animo presago

spera dal suo valor lieta novella.

VENERE

Io sossopra voltai l'onde spumanti;

ma da Nettuno allontanato il mostro

altro far non potei, che del suo chiostro

rendermi servi i flutti, e i numi amanti.

ASTREA

La giustizia è possente;

spero che giunga a fine il mio desire,

chi seco ha la ragion non può perire.

VENERE

Anch'io ciò spero; è la bellezza un fonte,

ch'ogni alma accende d'amorosa sete;

trovar non puossi a un cor più dolce rete,

ch'un labbro porporin, stellato un fronte.

ASTREA

Di Giove ancor non ho il parer compreso,

ch'irato, e affettuoso,

tra 'l ragionevol senso, e l'amoroso,

la superba Giunone il tien sospeso.

VENERE

Vedrai, ch'anch'egli a favorir rivolto

sarà 'l nostro parere,

sprezzar il giusto, e 'l bel non è dovere.

 

ASTREA E VENERE

Dolce speme il cor allettane;  

venga men

lo venen,

di Giunon, ch'in ciel infettane.

Lieta fa la donna amabile;

varia ancor

astro tenor;

la fortuna non è stabile.

Ben contenti sien i superi,

che ragion

da un dragon

la real vergin ricuperi.

Da quel ciel dunque il vel nubile

fugga a vol;

ogni duol

si converta in gaudio, e 'n giubilo.

 

MERCURIO

Dive festose, e liete,  

ond'il contento, e 'l gioir vostro avete?

Forse Giuno placati i suoi furori,

per la morte d'Andromeda infelice,

le sue gioie comparte ai vostri cori?

Ah ben è ver, che dell'irata dèa

ammorzar si dovea la rabbia ardente,

ma non col sangue mai d'una innocente.

Infelice donzella!

Poc'anzi co' begli occhi,

di più soli ornò il mondo,

e col bello cangiò, del vago viso

la terra in paradiso,

or coll'ossa spolpate, e con il sangue,

del mar crudo, e maligno

lastrica un lido, e imporpora un macigno.

GIOVE

Morta non è la regia figlia ancora,

né 'l tonante, del ciel vuol, ch'ella mora.

Or chi fia tanto audace, che d'opporsi

al genio mio si prove,

s'onnipotente è Giove?

Vanne Mercurio or ora,

e 'l cavalier dal corridor alato

(Perseo) ritrova, e dille,

ch'immantinente a la deserta spiaggia,

che l'infelice Andromeda raccoglie,

l'armi rivolga, e 'l core.

Il drago ancida, avvivi l'innocenza;

distrugga l'impietà, Giove consoli,

e la vergin dolente a morte involi.

MERCURIO

Di servirti (o signor) tanto m'appago,

tanto de la salute

dell'innocente vergine son vago,

ch'ad eseguir il tutto

volo con maggior fretta,

ch'il rattissimo piè d'una saetta.

Mercurio ->

ASTREA

Signor; più rettamente  

oprar non si potea;

sorte saria troppo spietata, e rea,

che per pascer serpenti

generasser le genti;

e insopportabil fora, l'innocenza

(ch'abbellisce del ciel l'eterno chiostro)

veder gioco di morte, esca d'un mostro.

VENERE

Ah con ragione custodir ben devi

(padre, e signor) la nobile donzella;

che quanto vaga, e bella,

innocente non meno,

merita non, ch'un drago,

ma ch'un cieco fanciul le piaghi il seno.

GIOVE

Quanto fei, quanto volli

(per dover, per pietate) a me diletta;

ma la gioia maggiore

or si fa nel mio core,

ch'ho i desir vostri consolati, o dive.

Già scende all'erma riva il guerrier forte,

il celeste campione,

ed estinto il dragone

la donzella real sottraggo a morte.

Or ivi, ch'indugiate?

Vivete liete, e su nel ciel tornate.

 

ASTREA E VENERE

Diamo a Giove tutt'amor  

ogni gloria, ed'ogni onor;

egli giusto, egli leal

tutto regge e tutto val.

Senza Giove fora il ciel

poco buon, e poco bel;

fanne tu fede Giunon,

che la vuoi contro ragion.

Diamo a Giove tutt'amor

ogni gloria, ed'ogni onor;

egli giusto, egli leal

tutto regge, e tutto val.

Astrea, Venere, Giove ->

 

Scena seconda

Ascalà.

Ascalà

 

 

O patria, o regno, o figlia? o sovra ogni altro  

colmo d'affanni, e di calamità

dolente, e miserabile Ascalà.

Io de' fidi il più fido

alla reggia funesta,

io sventurato sono

nell'esterminio suo vivo rimaso?

O fiero giorno, o memorabil caso.

Deh mi s'apra 'l terren sotto le piante,

acciò che quella requie,

che mi nega de' vivi il duro regno,

a me doni, ed apporti,

la region de' morti.

Infelice reina

a che il ciel ti destina?

A saltellar d'un serpentino ventre

le voragini cupe,

di gloria d'una reggia, ludibrio d'una rupe,

fu celeste furore,

o pur umano errore,

ch'a questa patria spinse orribil drago

ch'empiendola di lutto

non lasciò volto lieto e ciglio asciutto?

Voce fu dell'abisso, o pur del cielo

quella, che dall'oracolo s'intese,

che per scansar l'offese,

dell'orrido serpente,

le si dovesse dar a divorare

(a un duro scoglio incatenata in mare)

del re la figlia, Andromeda innocente?

Fu zelo di pietate

(donna virile, e forte)

che volontaria ti condusse a morte?

Ah che per lo risparmio di tua vita,

e del tuo corpo virginale, e degno

era una città nulla, e poco un regno.

Ad ogni modo la tua patria cade.

Senza del tuo sostegno

vaneggiano le genti,

traballan gli edifici.

Le matrone, e le vergini infelici

(orfane del suo sole

ch'all'occaso, di morte ora soccombe)

urtano ne' feretri,

inciampan nelle tombe.

Bandì dal nobil suo carcer terreno

la grand'anima, Astarco,

trafitto di sua man l'antico seno.

L'afflitta genitrice

per soverchio dolor è fatta insana;

e 'l mesto genitore

su le piume real languendo more.

Ahi nostra vita di miserie piena,

a noi (fuor che nel ciel) non mai serena.

Ben fu del tuo regnar la condizione

malvaggia, empia, e ferina,

sfortunata reina!

Avendoti a servir per gemme, ed'ostri

ferri, e macigni, e per tua reggia i mostri.

Vedransi (ahi dura vista)

oggi dell'ocean le salse vene

trionfar di più soli;

di stille di rubino

tempestate l'arene;

d'un bel corpo divino

sazi ferini orgogli;

di ciocche d'oro inanellati i scogli.

Addio patria infelice!

Reggia funesta addio.

Lo scettro, che di te regger poss'io

(lieto) ad altri rinunzio.

Altri pur goda il transitorio onore

infelice è il regnar ove si more.

Ascalà ->

 

Scena terza

Andromeda al sasso.

 Q 

Andromeda

 

 

Nacqui, convien morire;  

bocca, che sugge di due mamme il latte

non può fuggir l'assenze della morte.

Chi nella cuna inciampa

finalmente a cader va nella tomba.

O vita quai n'apporti

fuggitivi diletti,

s'appena nati se n'andiam tra morti.

Ahi mondo lusinghiero,

quanto son vane le grandezze tue!

Poco dianzi posai su regia sede,

e col piè calpestai dorato soglio,

ora premo l'arena,

ed è mio trono un scoglio.

De' genitori miei, del regno mio

la sola gioia fui, l'unico oggetto,

or la delizia d'un dragon son io.

O ciel, che fai, che tardi,

che per pietà spietato

con un fulmin il sen non mi percoti,

prima, che d'un serpente

mi franga il duro dente?

Ah ch'il cielo mi crede

per soverchio martir cangiata in sasso;

e le saette sue son de' maligni

bene spesso flagel, non de' macigni.

Andromeda che pensi?

Se tu pensi al morire

raddoppi il tuo martire.

S'all'inclemenza pensi de le stelle

ti fai del ciel ribelle.

Se la mente rivolgi al regno antico,

al fine per natura

cangia il regno chi regna in sepoltura.

Se t'affisi nel fiore di tua vita,

sul più bel del germoglio arido fatto,

per fatal cruda sorte

sempre la vita nostra

(ancor ch'acerba a gli anni)

è matura a la morte.

O mari, e che vi feci? ch'una belva,

perché mi divorasse, generaste?

Dite, son così degni i vostri mostri,

che meritin per cibo i corpi umani?

E voi onde crucciose, e flutti insani,

ch'oggi del sangue mio tanto gioite,

in che Andromeda mai v'offese, e spiacque?

Lassa: che per tributo il mar desia

i torrenti di sangue, e non più d'acque.

Misera, e sfortunata,

a chi mi volgo per rifugio, o scampo?

Alle pietose genti,

s'a quest'infausta arena

altri non giungon mai,

che procelle, o serpenti?

Dirò le mie ragioni a questa rupe,

ch'oggi del sangue mio debb'esser tinta?

S'altro senso non ha che di tenermi

al suo marmoreo sen stretta, ed avvinta?

Chiederò a' venti, ed a quest'onde aita?

Se col volo, e la fuga

io son da lor schernita?

A te mi volgo, o cielo;

a te ricorro co' la mente in modo,

che beatificati i pensier miei

spero addolcir l'aspre mie doglie, e dure,

e di gloria vestir le mie sventure.

Già l'orecchio mi fere

del fero drago il sibilo tremendo;

ma tua pietà m'affida,

che, se ben del mio corpo

pia sepoltura un mostro,

pace lo spirto avrà nel tuo bel chiostro.

 
 
Qui esce il drago.
 
 

Scena ultima

Perseo, Andromeda, Giove, coro de' Dèi.

<- Perseo

 

PERSEO

Non temer, non temer donna reale;  

il cor rinfranca e la beltà smarrita,

ecco la mia vittoria, e la tua vita.

 
Segue la battaglia, e morte del mostro.
 
 

PERSEO

Ora spezzar conviene  

queste dure catene.

Itene indegne all'infernal fucine,

ch'ardiste imprigionar membra divine.

Non più mesta, e pensosa,

ma ridente, e festosa (o bella mia)

rasserenati de' begli occhi i rai

(in cui amor s'asconde)

fa di più soli lampeggiar quest'onde.

Mira te sciolta, e que' legami rotti,

che fur delle tue braccia aspri monili;

ma mira ancora come l'alma, e 'l core

co' i lacci del tuo crin m'annoda amore.

Morio per la mia man l'orribil fera;

mira fatto amoroso agonizzante

(colpa de' tuoi begli occhi) il trionfante.

O miracolo novo!

Da un duro scoglio ogni mio ben vien fora,

e un avanzo di morte m'innamora.

ANDROMEDA

Celeste eroe; la tua bontà poteo

a un sepolcro spirante

furar questo cadavere, che solo

di vivo ha in lui la maraviglia, e 'l duolo,

la tua bontade ancora

(poich'i defunti idolatrar ti piace)

qual più l'aggrada, le dia requie, e pace.

PERSEO

Sarà tua requie, e pace

l'esser oggi nel ciel mia diva, e sposa;

riedi, deh, riedi omai lieta, e festosa.

Non ingombri, od oltraggi

la bella faccia tua doglioso velo;

crederanno le genti,

mirando il tuo bel viso,

che sia loco di pene il paradiso.

ANDROMEDA

O ciel, o dèi, e che favor son questi?

Passar dai scogli a i numi,

dal feretro a le nozze,

da la morte ad'amor, dal mar al cielo?

Così va chi con scudo, d'innocenza

può i perigli affrontar del mondo infido.

Ma qual grazie (o signor) saran bastanti

a riconoscer mai favori tanti?

 

<- Giove, Giunone, dèi

GIOVE

Al ciel alme gradite;  

de' vostr'almi imenei

pronube sian le stelle, auspici i dèi.

Venite omai venite;

in questi seggi aurati

chiedonvi amici i numi, amici i fati.

Il gran Giove il consente;

Giunone qui presente

(al fin fatta pietosa alle mie preci)

arride ai vostri onori, anime liete.

 

GIOVE

Godete omai godete  

entro gli eterni scanni

l'infinita mercé, de' brevi affanni.

CORO

Godete omai godete

entro gli eterni scanni

l'infinita mercé, de' brevi affanni.

 

Fine (Atto terzo)

Atto primo Atto secondo Atto terzo

Mare.

 
<- Venere, Astrea, Mercurio, Giove

Io spinsi il dotto mago

Dive festose, e liete

Venere, Astrea, Giove
Mercurio ->

Signor; più rettamente

Astrea, Venere, Giove ->
Ascalà
 

O patria, o regno, o figlia?

Ascalà ->

Mare con scogli.

Andromeda
 

Nacqui, convien morire

(qui esce il drago)

Andromeda
<- Perseo

Non temer, non temer donna reale

(battaglia, e morte del mostro)

Ora spezzar conviene

(si apre il cielo e scendono Giove, Giunone e gli dèi)

Andromeda, Perseo
<- Giove, Giunone, dèi

Al ciel alme gradite

Giove e coro
Godete omai godete
 
Scena prima Scena seconda Scena terza Scena ultima
Mare con scoglio. Bosco Mare con scogli Bosco Mare. Mare con scogli.
Atto primo Atto secondo

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