Atto secondo

 

Scena prima

Astrea, Venere.

<- Astrea, Venere

 

ASTREA

Dimmi, perché cangiasti,  

bella madre d'amore,

i sentieri del ciel con quei del mare?

Forse per infiammare

di tua rara beltà gelido nume?

O per far, che le spume

(onuste di splender, carche di raggi

dal tuo bel guardo adorno)

empian d'invidia il sol, gli astri di scorno?

VENERE

Io qui me n' venni per veder Nettuno,

qual spinto da Giunone

(come forse tu sai) deve oggi appunto

spedir crudo serpente

a divorar Andromeda innocente.

Troverollo, e co' prieghi

tenterò d'impedir l'uscita al mostro,

faccia pur quest'ondoso umido chiostro

rigida e fera ogni sua deitate;

il ghiaccio nell'ardore,

la fierezza in pietate

ben sa cangiar la bella dèa d'amore.

ASTREA

Per l'istessa cagione

(bella diva) poc'anzi

ebbi lite nel cielo con Giunone;

ond'irata il piè mossi

da le superne soglie

per far passaggio in parte, ove fia d'uopo

a la regia donzella il giunger mio.

Io dèa del retto la giustizia sono;

ch'io fossi (o saria ben cosa inaudita)

com'in terra delusa, in ciel schernita.

Ma da quella, ch'io son (Vener ti giuro)

non sosterrò giammai, ch'oggi perisca

Andromeda sul fiore

dell'età sua ridente,

né ch'un drago inghiottisca

coll'equità del ciel beltà innocente.

VENERE

Te move il giusto, e me la pietà sprona

a' sottrar dal periglio aspro, e mortale

la vergine reale.

Lo sdegno anco m'invita

a darle pronta aita,

non vuò che dov'io nacqui

peran bellezze così vaghe, e care;

non è tomba a le dive, è culla il mare.

Ah non sia mai, ch'un duro scoglio alpino,

del sangue oggi d'Andromeda lavato,

d'un macigno si cangi in un rubino.

Né fia vero, ch'un drago

(squarciando soli, e lacerando stelle)

chiuda in ventre infernal celeste imago.

ASTREA

Son le fedi del ciel fedi d'amore.

Non di rabbia e furore.

Se per mano celeste

chi è senza colpa ancor deve perire,

ove andrà l'innocente

per dimandar aiuto

al tribunal di Pluto?

La superba Giunone

dovrebbe aver riguardo

(frenando i suoi desiri empi, e crudeli)

che non son stanze di tiranni i cieli.

VENERE

Lunge menti sì felle

dal bel regno del sole, e de le stelle.

Forse forse Giunone

lieta di cotal morte non vedremo,

ch'in modo opereremo,

che l'innocente vergine non pera.

Tu col potere, et io coll'arte insieme

trarrem (schernendo chi le sfere annoia)

da spine di rigor rose di gioia.

ASTREA

Io vado; e ad esequir quanto desio

malagevol la gita anco m'alletta;

la difesa de' buoni a me s'aspetta.

Fatto nel ciel ritorno,

e l'animo, e 'l volere

del tonante immortal io vuò sapere.

VENERE

Ed io lo dio dell'acque

a' ritrovar m'invio.

Oggi l'Egeo raffreni il suo rigore,

o si prepari ad avvampar d'amore.

Meraviglie sarian dure, et amare

veder due soli tramontar nel mare.

Astrea, Venere ->

 

Scena seconda

Coro di Ninfe arciere, coro di Ninfe danzatrici, Andromeda.

 Q 

Andromeda, ninfe

 

CORO

Si rallegri il piano, e 'l monte,  

rida 'l fior, saltelli il fonte;

vaneggi Eco per le valli

sul suo stel la fronda balli;

morto giace il fier cinghiale

(tua mercé) donna reale.

Tante voci, quante foglie

la foresta, che non scioglie?

Tante lingue, quante stelle

disnodaste o sfere belle;

per voi chiara in ogni riva

oggi Andromeda si viva.

 

ANDROMEDA

Ecco la fera estinta,  

ecco il teschio, che quasi di Medusa,

(per meraviglia) i riguardanti impetra.

Cadde il mostro spietato,

per cui sembrar d'abisso

triste spiagge funeste

le deliziose mie care foreste.

Non più torbido è il fonte,

ma con chiari zampilli

di puro argento il bel pratel ricama.

Non più piagne, ed esclama,

timida, e sbigottita,

la villanella da una balza aita.

È franco il colle, libera la selva;

è l'armento sicur salvo il bifolco,

e all'arator non è più tomba il solco.

UNA DEL CORO

Il tuo chiaro valor, la tua virtute

(magnanima signora)

queste selve rincora,

e a gli abitanti lor reca salute.

Chi può dir del tuo strale,

chi può contar della tua destra i vanti?

Dopo lungo pugnar giacensi oppressa

de' molossi la schiera, e degli astati

(salvo quella, ch'il piede

alla fuga fidò, non all'onore)

quando tu con gran core,

famosa arciera, e sagittaria illustre,

la saetta scoccando,

entro d'un occhio appunto

(o che bel colpo!) il mostro rio cogliesti.

Respirò la campagna

scarca del peso di sì orribil fera.

Per spiegar le tue lodi,

a null'altre seconde,

mormorò 'l fonte, e sussurrò la fronde,

delle tue glorie i zeffiri invaghiti

altro per l'aria non sapean formare,

ch'il bel nome d'Andromeda; qual merta,

a caratter di sole,

per man del fato istesso,

nel gran foglio del ciel esser impresso.

ANDROMEDA

Non nascono gli allori

alle terrene fronti

(e gloriose sieno le prove)

se non gli pianta Giove.

Il feroce animal per me non cadde;

Giove mosse la man spinse lo strale;

senz'aita del cielo

rado giunge a buon fin opra mortale.

Ma donde ciò, che dell'estinta belva,

e del nostro gioir tace la selva?

Su su soavi omai musici cori,

con armonici strali,

dolce l'udito piaghino a' mortali.

E di voi parte, o ninfe,

le cui piante rassembrano volanti,

colle carole accompagnate i canti.

 
 
Balletto.
 

CORO

Or la selva applauda al stral,  

che trafisse il fier cinghial;

ogni cor lodi la man,

che svenato il stese al pian.

Colpo tal, di tanto pro

degn'arcier giammai scoccò;

come quel, ch'oggi uscì fuor

da man regia, e un arco d'or.

Fu di femina il ferir,

fu d'eroe l'invitto ardir;

nel bel sesso feminil

regnan ben cori viril.

Versa il sangue il mostro fier

su l'erboso ermo sentier;

per gran gioia, in que' confin,

versa manna il faggio, e 'l pin.

S'oggi ogn'un ovunque vuol

sta sicuro all'ombra, al sol,

tuo valore, tua mercé,

bell'Andromeda sol è.

Serto d'alto, e vero onor

cinga dunque il bel crin d'or;

sia al regal tuo mortal vel

destro il fato, amico del ciel.

 

Scena terza

Mago, Andromeda, Coro.

<- Astarco

 

ASTARCO

Figlia non sbigottire,  

s'improviso mi trassi a te davanti;

voler del cielo, e zelo di pietate

(anzi d'amor) qui per tuo ben mi spinse,

mi sei a cuore, amata figlia, e cara,

che dal ceppo real, onde discendi,

anch'io l'origin traggo.

Compia tre lustri appunto,

quando lo scettro, la corona, e 'l manto

lasciai; d'intender vago

quegli arcani, che fanno

famoso un indovino, illustre un mago,

e mi ridussi in parte sì remota,

che d'uom mai non vi giunge orma, o pensiero;

ove un albergo edificato in breve,

che non invidia alle più eccelse reggie,

fortunate, e tranquille

guidate ho sempre di mia vita l'ore.

Da le cure lontan noiose e gravi,

da cui van sempre accompagnati i grandi,

a segno tal son giunto di vecchiezza

(e robusta qual vedi)

che (per vostra bontà menti divine)

del vigesimo lustro io tocco il fine.

Astarco è 'l nome mio;

quell'Astarco son io

per magica virtù celebre, e noto;

zelante del tuo ben, figlia gradita,

del dover, dell'onor, della tua vita.

ANDROMEDA

Padre, e signor; più di stupor, che tema,

ingombra è la mia mente,

in veder qui presente

uom di tanto valor, e del mio sangue.

Vive Astarco? de' miei

antenati famosi onor, e pregio?

Gloria dei miei grand'avi?

Vive Astarco? o beate queste luci,

ch'in te pur una volta si specchiaro,

felici queste braccia

cui si concede incatenarti il collo,

ma qual in te discerno

effetto di cordoglio, e di stupore?

Dimmi (padre) che pensi?

Fors'è presago d'alcun male il core?

ASTARCO

Sappi, ch'al bene invigilando sempre,

di te, de' tuoi, del regno,

ieri gittai le sorti;

e vidi, ch'un influsso empio, e mortale

correr (o figlia) devi, ed oggi appunto,

non v'è (tranne sol un) riparo, o schermo,

e fuggendo s'impetra.

In questo clima sol t'è infausto il cielo.

Talché (diletta mia)

alla fuga t'accingi, e meco vieni;

se vuoi, ch'oggi il tuo piede,

che tenerello ancora

calca del mondo i campi,

nella falce di morte non inciampi.

ANDROMEDA

Oggi perir io devo,

in questo clima sol m'è infausto il cielo,

e fuggendomi teco salva sono.

O qual mi turba il core

insolito spavento?

O ciel, o dèi, ove son io, che sento?

ASTARCO

Vicino è il mal, vicina è la salute,

se tu non la rifiute.

Prendi meco il cammino:

puoi col piè calpestare il tuo destino.

S'al mio dir fé non presti,

sappi, che la gran dèa de la ragione

dal regno de' celesti

scese poc'anzi, a mia magion se 'n venne;

per sdegno, del tuo male,

tinta la faccia di color di rose,

la mia venuta, e la tua fuga impose.

ANDROMEDA

Infelice mio core,

anima mia, che pensi?

Dura è sempre la morte a ogni mortale,

ma in giovanile etate

durissimo è il lasciar l'aura vitale.

Canuto il legno volontier s'infiamma,

ma giovinetto amaramente abbrugia;

e stridente, e fumoso,

o per doglia, o per ira

(bench'insensato) si lamenta e piagne,

e 'l duro suo incenerir sospira.

ASTARCO

Se tanto è grave allo spuntar dell'alba,

di nostra frale vita

ne l'Espero incontrarsi della morte,

perché l'esecuzione

della tua vita indugi?

Allor che più bramati

mancheranno i rifugi.

Dall'arco de la sorte

scoccate le sciagure

periran di magia carmi, e figure.

Quando si può si voglia;

che vicino al volere

non va sempre il potere.

 

UNA DEL CORO

Ah non fia ver (donna real) che sprezzi

in sì grave periglio,

del tuo grand'avo l'ottimo consiglio.

CORO

Fuggi veloce, umili ti preghiamo,

poiché se mori tu tutte moriamo.

ANDROMEDA

Chi desia la mia morte, e chi la chiede?

ASTARCO

Possente diva di pietà nemica.

ANDROMEDA

Dunque s'il ciel la vuol, come la fuggo?

ASTARCO

A la fuga, e a la morte il ciel t'appella.

ANDROMEDA

In ogni loco morte è sempre morte.

ASTARCO

Chi fa quel, ch'il ciel vuole

perir giammai non suole.

ANDROMEDA

Si dispogli d'onor chi morte teme.

ASTARCO

Brutte son l'ore de la vita estreme.

ANDROMEDA

Non peccai contro voi supreme menti,

a che bramar il fin degl'innocenti?

ASTARCO

Ahi ch'il tempo se 'n vola,

e un'oncia di momento

vale un peso del mio, e tuo tormento.

Astarco il tuo grand'avo

è quel, che t'ammonisce, e ti consiglia.

Or che risolvi o figlia?

ANDROMEDA

Risolvo, o padre, di voler morire,

poiché la morte mia al cielo aggrada;

sovra 'l mio capo cada

la sentenza fatal, che nulla temo.

So che nel punto estremo

la mia innocenza griderà sì forte,

che potrà fin ne cieli, e negli abissi

sbigottir gli astri, e spaventar la morte.

ASTARCO

O infelice, che sento?

Lasso! qual scampo all'innocente or resta?

Gittata è l'opra, e la fatica mia,

ch'a rapirla non val forza, o magia.

ANDROMEDA

Padre il mio duro fin, deh, non t'aggreve,

al fonte de la morte ogn'uno beve.

 

CORO

O ciel, o dèi, aita a tanti guai;  

e 'l gel d'ostinazion rigida, e dura,

ch'a la regia donzella il seno indura

con calor di pietà struggete omai.

 

ASTARCO

Fuggi, o rimanti, figlia,  

tanta pietà di te l'alma m'ingombra,

ch'io vuò sempre seguirti, e corpo, ed ombra.

ANDROMEDA

Deh non più pianti, o padre,

o fida schiera amica!

Per le lagrime vostre,

gonfie d'affetto, e d'amarezza piene,

più fera a nuoto la mia morte viene.

Andianne al tempio a render grazie al cielo,

dell'estinto cinghiale.

ASTARCO

Et a pregarlo con divoto zelo,

che l'ira freni al tuo destin mortale.

 

CORO

O ciel, o dèi, aita a tanti guai;  

e 'l gel d'ostinazion rigida, e dura,

ch'a la regia donzella il seno indura

con calor di pietà struggete omai.

Andromeda, Astarco, ninfe ->

 

Scena quarta

Giove, Giunone.

<- Giove, Giunone

 

GIOVE

Chi sovra gli altri impera  

dée con giusta bilance

l'opre contrapesar di cui si sia,

e a i devoti, e a i ribelli

rettamente partir grazie, e flagelli.

Ma per lo più dev'esser mite un dio;

troppo sono possenti

le mondane cagioni

da far dal dritto traviar le genti.

Giunon placida riedi;

frena le voglie tue crude, e rubelle,

nidi non son di ferità le stelle.

L'ire, e gli sdegni tuoi vadan altrove,

stan con Pluto le furie, e non con Giove.

GIUNONE

Può ben Giunon Giove lasciar, e 'l cielo,

ma lo sdegno lasciar non può Giunone.

La sete della rabbia non estingue

altro liquor, che l'inimico sangue.

Pria negli abissi splenderan le stelle,

e tufferassi il sole in Flegetonte;

sarà prima di furie il ciel adorno,

che privo di vendetta il mio gran scorno.

GIOVE

Ah non sia ver, che morte,

per adornarne un drago,

dell'Etiopia 'l fior recida, o sterpe;

né ch'a un corpo reale,

di tomba d'oro in vece,

formi sozza magion ventre di serpe.

Diva segui ragion, tempra il rigore,

regna in ciel il dover, non il furore.

GIUNONE

Seguo ragion, mentre castigo i rei.

GIOVE

Non è rea chi tu sai.

E 'l punir gl'innocenti è tirannia.

GIUNONE

A' grandi il tutto lice,

a' dèi nulla disdice.

GIOVE

Oprano sempre rettamente i numi.

GIUNONE

Or dunque operar male non poss'io.

GIOVE

Allo sdegno crudel, ch'in te discerno

diva non sei del ciel, ma dell'inferno.

GIUNONE

Nella mia mente è rea chi morta voglio.

GIOVE

La sua bella innocenza in seno accoglio.

GIUNONE

Ove l'odio comanda il giusto serve.

GIOVE

Se vaga d'odio sei,

lascia i buoni, odia i rei.

GIUNONE

O innocente, o innocente, o buona, o ria,

diva qual io mi sia,

dell'abisso, o del cielo,

(rabbia pazienza la giustizia, e 'l zelo)

morirà la malvaggia.

GIOVE

Ben se' tu poco saggia.

Tanto di te presumi? e dove lasci

l'onnipotenza mia? e non t'avvedi

chi se' tu chi son io?

Non sai, che de le stelle, e dell'inferno,

de la terra, e del mar l'arbitro sono?

Io con un cenno sol movo, ed acqueto

i nembi, e le procelle,

e lampeggiar fo il sol, rider le stelle.

Ergono riverenti al nume mio

d'ogn'intorno le genti altari, e tempi.

Non v'è cosa creata,

o spirante, o insensata,

che non tema di Giove onnipotente,

a questa destra il folgore s'aspetta;

e delle deitati

niuna pareggia il mio sublime stato;

da me dipende la natura, e 'l fato.

GIUNONE

Signor, se 'l tutto puoi

(non m'annoiar tu più) fa' ciò, che vuoi.

Movi in aiuto a le deserte arene

(che tardi omai?) col folgore tonante;

una femmina vil vesti di gioia,

e una diva immortal cingi di pene.

L'infame a morte togli;

teco la guida, e per maggior sua gloria

inciela i mari, e imparadisa i scogli.

GIOVE

Non più diva non più; quel ch'è prescritto

de la regal fanciulla

ne' registri del cielo il fato ha scritto;

voler no 'l cassa, e niun poter l'annulla.

 

Fine (Atto secondo)

Atto primo Atto secondo Atto terzo
<- Astrea, Venere

Dimmi, perché cangiasti

Astrea, Venere ->

Bosco

Andromeda, ninfe
 

Ecco la fera estinta

(Balletto)

Andromeda, ninfe
<- Astarco

Figlia non sbigottire

Fuggi, o rimanti, figlia

Andromeda, Astarco, ninfe ->

(scendono dal cielo Giove e Giunone)

<- Giove, Giunone

Chi sovra gli altri impera

 
Scena prima Scena seconda Scena terza Scena quarta
Mare con scoglio. Bosco Mare con scogli Bosco Mare. Mare con scogli.
Atto primo Atto terzo

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