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Scena prima |
Astrea, Venere. |
<- Astrea, Venere
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ASTREA |
Dimmi, perché cangiasti,
bella madre d'amore,
i sentieri del ciel con quei del mare?
Forse per infiammare
di tua rara beltà gelido nume?
O per far, che le spume
(onuste di splender, carche di raggi
dal tuo bel guardo adorno)
empian d'invidia il sol, gli astri di scorno?
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VENERE |
Io qui me n' venni per veder Nettuno,
qual spinto da Giunone
(come forse tu sai) deve oggi appunto
spedir crudo serpente
a divorar Andromeda innocente.
Troverollo, e co' prieghi
tenterò d'impedir l'uscita al mostro,
faccia pur quest'ondoso umido chiostro
rigida e fera ogni sua deitate;
il ghiaccio nell'ardore,
la fierezza in pietate
ben sa cangiar la bella dèa d'amore.
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ASTREA |
Per l'istessa cagione
(bella diva) poc'anzi
ebbi lite nel cielo con Giunone;
ond'irata il piè mossi
da le superne soglie
per far passaggio in parte, ove fia d'uopo
a la regia donzella il giunger mio.
Io dèa del retto la giustizia sono;
ch'io fossi (o saria ben cosa inaudita)
com'in terra delusa, in ciel schernita.
Ma da quella, ch'io son (Vener ti giuro)
non sosterrò giammai, ch'oggi perisca
Andromeda sul fiore
dell'età sua ridente,
né ch'un drago inghiottisca
coll'equità del ciel beltà innocente.
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VENERE |
Te move il giusto, e me la pietà sprona
a' sottrar dal periglio aspro, e mortale
la vergine reale.
Lo sdegno anco m'invita
a darle pronta aita,
non vuò che dov'io nacqui
peran bellezze così vaghe, e care;
non è tomba a le dive, è culla il mare.
Ah non sia mai, ch'un duro scoglio alpino,
del sangue oggi d'Andromeda lavato,
d'un macigno si cangi in un rubino.
Né fia vero, ch'un drago
(squarciando soli, e lacerando stelle)
chiuda in ventre infernal celeste imago.
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ASTREA |
Son le fedi del ciel fedi d'amore.
Non di rabbia e furore.
Se per mano celeste
chi è senza colpa ancor deve perire,
ove andrà l'innocente
per dimandar aiuto
al tribunal di Pluto?
La superba Giunone
dovrebbe aver riguardo
(frenando i suoi desiri empi, e crudeli)
che non son stanze di tiranni i cieli.
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VENERE |
Lunge menti sì felle
dal bel regno del sole, e de le stelle.
Forse forse Giunone
lieta di cotal morte non vedremo,
ch'in modo opereremo,
che l'innocente vergine non pera.
Tu col potere, et io coll'arte insieme
trarrem (schernendo chi le sfere annoia)
da spine di rigor rose di gioia.
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ASTREA |
Io vado; e ad esequir quanto desio
malagevol la gita anco m'alletta;
la difesa de' buoni a me s'aspetta.
Fatto nel ciel ritorno,
e l'animo, e 'l volere
del tonante immortal io vuò sapere.
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VENERE |
Ed io lo dio dell'acque
a' ritrovar m'invio.
Oggi l'Egeo raffreni il suo rigore,
o si prepari ad avvampar d'amore.
Meraviglie sarian dure, et amare
veder due soli tramontar nel mare.
| Astrea, Venere ->
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Scena seconda |
Coro di Ninfe arciere, coro di Ninfe danzatrici, Andromeda. |
Q
Andromeda, ninfe
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CORO |
Si rallegri il piano, e 'l monte,
rida 'l fior, saltelli il fonte;
vaneggi Eco per le valli
sul suo stel la fronda balli;
morto giace il fier cinghiale
(tua mercé) donna reale.
Tante voci, quante foglie
la foresta, che non scioglie?
Tante lingue, quante stelle
disnodaste o sfere belle;
per voi chiara in ogni riva
oggi Andromeda si viva.
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ANDROMEDA |
Ecco la fera estinta,
ecco il teschio, che quasi di Medusa,
(per meraviglia) i riguardanti impetra.
Cadde il mostro spietato,
per cui sembrar d'abisso
triste spiagge funeste
le deliziose mie care foreste.
Non più torbido è il fonte,
ma con chiari zampilli
di puro argento il bel pratel ricama.
Non più piagne, ed esclama,
timida, e sbigottita,
la villanella da una balza aita.
È franco il colle, libera la selva;
è l'armento sicur salvo il bifolco,
e all'arator non è più tomba il solco.
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UNA DEL CORO |
Il tuo chiaro valor, la tua virtute
(magnanima signora)
queste selve rincora,
e a gli abitanti lor reca salute.
Chi può dir del tuo strale,
chi può contar della tua destra i vanti?
Dopo lungo pugnar giacensi oppressa
de' molossi la schiera, e degli astati
(salvo quella, ch'il piede
alla fuga fidò, non all'onore)
quando tu con gran core,
famosa arciera, e sagittaria illustre,
la saetta scoccando,
entro d'un occhio appunto
(o che bel colpo!) il mostro rio cogliesti.
Respirò la campagna
scarca del peso di sì orribil fera.
Per spiegar le tue lodi,
a null'altre seconde,
mormorò 'l fonte, e sussurrò la fronde,
delle tue glorie i zeffiri invaghiti
altro per l'aria non sapean formare,
ch'il bel nome d'Andromeda; qual merta,
a caratter di sole,
per man del fato istesso,
nel gran foglio del ciel esser impresso.
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ANDROMEDA |
Non nascono gli allori
alle terrene fronti
(e gloriose sieno le prove)
se non gli pianta Giove.
Il feroce animal per me non cadde;
Giove mosse la man spinse lo strale;
senz'aita del cielo
rado giunge a buon fin opra mortale.
Ma donde ciò, che dell'estinta belva,
e del nostro gioir tace la selva?
Su su soavi omai musici cori,
con armonici strali,
dolce l'udito piaghino a' mortali.
E di voi parte, o ninfe,
le cui piante rassembrano volanti,
colle carole accompagnate i canti.
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Balletto. | |
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CORO |
Or la selva applauda al stral,
che trafisse il fier cinghial;
ogni cor lodi la man,
che svenato il stese al pian.
Colpo tal, di tanto pro
degn'arcier giammai scoccò;
come quel, ch'oggi uscì fuor
da man regia, e un arco d'or.
Fu di femina il ferir,
fu d'eroe l'invitto ardir;
nel bel sesso feminil
regnan ben cori viril.
Versa il sangue il mostro fier
su l'erboso ermo sentier;
per gran gioia, in que' confin,
versa manna il faggio, e 'l pin.
S'oggi ogn'un ovunque vuol
sta sicuro all'ombra, al sol,
tuo valore, tua mercé,
bell'Andromeda sol è.
Serto d'alto, e vero onor
cinga dunque il bel crin d'or;
sia al regal tuo mortal vel
destro il fato, amico del ciel.
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Scena terza |
Mago, Andromeda, Coro. |
<- Astarco
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ASTARCO |
Figlia non sbigottire,
s'improviso mi trassi a te davanti;
voler del cielo, e zelo di pietate
(anzi d'amor) qui per tuo ben mi spinse,
mi sei a cuore, amata figlia, e cara,
che dal ceppo real, onde discendi,
anch'io l'origin traggo.
Compia tre lustri appunto,
quando lo scettro, la corona, e 'l manto
lasciai; d'intender vago
quegli arcani, che fanno
famoso un indovino, illustre un mago,
e mi ridussi in parte sì remota,
che d'uom mai non vi giunge orma, o pensiero;
ove un albergo edificato in breve,
che non invidia alle più eccelse reggie,
fortunate, e tranquille
guidate ho sempre di mia vita l'ore.
Da le cure lontan noiose e gravi,
da cui van sempre accompagnati i grandi,
a segno tal son giunto di vecchiezza
(e robusta qual vedi)
che (per vostra bontà menti divine)
del vigesimo lustro io tocco il fine.
Astarco è 'l nome mio;
quell'Astarco son io
per magica virtù celebre, e noto;
zelante del tuo ben, figlia gradita,
del dover, dell'onor, della tua vita.
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ANDROMEDA |
Padre, e signor; più di stupor, che tema,
ingombra è la mia mente,
in veder qui presente
uom di tanto valor, e del mio sangue.
Vive Astarco? de' miei
antenati famosi onor, e pregio?
Gloria dei miei grand'avi?
Vive Astarco? o beate queste luci,
ch'in te pur una volta si specchiaro,
felici queste braccia
cui si concede incatenarti il collo,
ma qual in te discerno
effetto di cordoglio, e di stupore?
Dimmi (padre) che pensi?
Fors'è presago d'alcun male il core?
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ASTARCO |
Sappi, ch'al bene invigilando sempre,
di te, de' tuoi, del regno,
ieri gittai le sorti;
e vidi, ch'un influsso empio, e mortale
correr (o figlia) devi, ed oggi appunto,
non v'è (tranne sol un) riparo, o schermo,
e fuggendo s'impetra.
In questo clima sol t'è infausto il cielo.
Talché (diletta mia)
alla fuga t'accingi, e meco vieni;
se vuoi, ch'oggi il tuo piede,
che tenerello ancora
calca del mondo i campi,
nella falce di morte non inciampi.
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ANDROMEDA |
Oggi perir io devo,
in questo clima sol m'è infausto il cielo,
e fuggendomi teco salva sono.
O qual mi turba il core
insolito spavento?
O ciel, o dèi, ove son io, che sento?
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ASTARCO |
Vicino è il mal, vicina è la salute,
se tu non la rifiute.
Prendi meco il cammino:
puoi col piè calpestare il tuo destino.
S'al mio dir fé non presti,
sappi, che la gran dèa de la ragione
dal regno de' celesti
scese poc'anzi, a mia magion se 'n venne;
per sdegno, del tuo male,
tinta la faccia di color di rose,
la mia venuta, e la tua fuga impose.
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ANDROMEDA |
Infelice mio core,
anima mia, che pensi?
Dura è sempre la morte a ogni mortale,
ma in giovanile etate
durissimo è il lasciar l'aura vitale.
Canuto il legno volontier s'infiamma,
ma giovinetto amaramente abbrugia;
e stridente, e fumoso,
o per doglia, o per ira
(bench'insensato) si lamenta e piagne,
e 'l duro suo incenerir sospira.
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ASTARCO |
Se tanto è grave allo spuntar dell'alba,
di nostra frale vita
ne l'Espero incontrarsi della morte,
perché l'esecuzione
della tua vita indugi?
Allor che più bramati
mancheranno i rifugi.
Dall'arco de la sorte
scoccate le sciagure
periran di magia carmi, e figure.
Quando si può si voglia;
che vicino al volere
non va sempre il potere.
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UNA DEL CORO |
Ah non fia ver (donna real) che sprezzi
in sì grave periglio,
del tuo grand'avo l'ottimo consiglio.
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CORO |
Fuggi veloce, umili ti preghiamo,
poiché se mori tu tutte moriamo.
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ANDROMEDA |
Chi desia la mia morte, e chi la chiede?
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ASTARCO |
Possente diva di pietà nemica.
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ANDROMEDA |
Dunque s'il ciel la vuol, come la fuggo?
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ASTARCO |
A la fuga, e a la morte il ciel t'appella.
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ANDROMEDA |
In ogni loco morte è sempre morte.
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ASTARCO |
Chi fa quel, ch'il ciel vuole
perir giammai non suole.
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ANDROMEDA |
Si dispogli d'onor chi morte teme.
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ASTARCO |
Brutte son l'ore de la vita estreme.
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ANDROMEDA |
Non peccai contro voi supreme menti,
a che bramar il fin degl'innocenti?
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ASTARCO |
Ahi ch'il tempo se 'n vola,
e un'oncia di momento
vale un peso del mio, e tuo tormento.
Astarco il tuo grand'avo
è quel, che t'ammonisce, e ti consiglia.
Or che risolvi o figlia?
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ANDROMEDA |
Risolvo, o padre, di voler morire,
poiché la morte mia al cielo aggrada;
sovra 'l mio capo cada
la sentenza fatal, che nulla temo.
So che nel punto estremo
la mia innocenza griderà sì forte,
che potrà fin ne cieli, e negli abissi
sbigottir gli astri, e spaventar la morte.
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ASTARCO |
O infelice, che sento?
Lasso! qual scampo all'innocente or resta?
Gittata è l'opra, e la fatica mia,
ch'a rapirla non val forza, o magia.
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ANDROMEDA |
Padre il mio duro fin, deh, non t'aggreve,
al fonte de la morte ogn'uno beve.
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CORO |
O ciel, o dèi, aita a tanti guai;
e 'l gel d'ostinazion rigida, e dura,
ch'a la regia donzella il seno indura
con calor di pietà struggete omai.
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ASTARCO |
Fuggi, o rimanti, figlia,
tanta pietà di te l'alma m'ingombra,
ch'io vuò sempre seguirti, e corpo, ed ombra.
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ANDROMEDA |
Deh non più pianti, o padre,
o fida schiera amica!
Per le lagrime vostre,
gonfie d'affetto, e d'amarezza piene,
più fera a nuoto la mia morte viene.
Andianne al tempio a render grazie al cielo,
dell'estinto cinghiale.
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ASTARCO |
Et a pregarlo con divoto zelo,
che l'ira freni al tuo destin mortale.
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CORO |
O ciel, o dèi, aita a tanti guai;
e 'l gel d'ostinazion rigida, e dura,
ch'a la regia donzella il seno indura
con calor di pietà struggete omai.
| Andromeda, Astarco, ninfe ->
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Scena quarta |
Giove, Giunone. |
<- Giove, Giunone
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GIOVE |
Chi sovra gli altri impera
dée con giusta bilance
l'opre contrapesar di cui si sia,
e a i devoti, e a i ribelli
rettamente partir grazie, e flagelli.
Ma per lo più dev'esser mite un dio;
troppo sono possenti
le mondane cagioni
da far dal dritto traviar le genti.
Giunon placida riedi;
frena le voglie tue crude, e rubelle,
nidi non son di ferità le stelle.
L'ire, e gli sdegni tuoi vadan altrove,
stan con Pluto le furie, e non con Giove.
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GIUNONE |
Può ben Giunon Giove lasciar, e 'l cielo,
ma lo sdegno lasciar non può Giunone.
La sete della rabbia non estingue
altro liquor, che l'inimico sangue.
Pria negli abissi splenderan le stelle,
e tufferassi il sole in Flegetonte;
sarà prima di furie il ciel adorno,
che privo di vendetta il mio gran scorno.
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GIOVE |
Ah non sia ver, che morte,
per adornarne un drago,
dell'Etiopia 'l fior recida, o sterpe;
né ch'a un corpo reale,
di tomba d'oro in vece,
formi sozza magion ventre di serpe.
Diva segui ragion, tempra il rigore,
regna in ciel il dover, non il furore.
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GIUNONE |
Seguo ragion, mentre castigo i rei.
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GIOVE |
Non è rea chi tu sai.
E 'l punir gl'innocenti è tirannia.
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GIUNONE |
A' grandi il tutto lice,
a' dèi nulla disdice.
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GIOVE |
Oprano sempre rettamente i numi.
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GIUNONE |
Or dunque operar male non poss'io.
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GIOVE |
Allo sdegno crudel, ch'in te discerno
diva non sei del ciel, ma dell'inferno.
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GIUNONE |
Nella mia mente è rea chi morta voglio.
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GIOVE |
La sua bella innocenza in seno accoglio.
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GIUNONE |
Ove l'odio comanda il giusto serve.
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GIOVE |
Se vaga d'odio sei,
lascia i buoni, odia i rei.
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GIUNONE |
O innocente, o innocente, o buona, o ria,
diva qual io mi sia,
dell'abisso, o del cielo,
(rabbia pazienza la giustizia, e 'l zelo)
morirà la malvaggia.
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GIOVE |
Ben se' tu poco saggia.
Tanto di te presumi? e dove lasci
l'onnipotenza mia? e non t'avvedi
chi se' tu chi son io?
Non sai, che de le stelle, e dell'inferno,
de la terra, e del mar l'arbitro sono?
Io con un cenno sol movo, ed acqueto
i nembi, e le procelle,
e lampeggiar fo il sol, rider le stelle.
Ergono riverenti al nume mio
d'ogn'intorno le genti altari, e tempi.
Non v'è cosa creata,
o spirante, o insensata,
che non tema di Giove onnipotente,
a questa destra il folgore s'aspetta;
e delle deitati
niuna pareggia il mio sublime stato;
da me dipende la natura, e 'l fato.
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GIUNONE |
Signor, se 'l tutto puoi
(non m'annoiar tu più) fa' ciò, che vuoi.
Movi in aiuto a le deserte arene
(che tardi omai?) col folgore tonante;
una femmina vil vesti di gioia,
e una diva immortal cingi di pene.
L'infame a morte togli;
teco la guida, e per maggior sua gloria
inciela i mari, e imparadisa i scogli.
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GIOVE |
Non più diva non più; quel ch'è prescritto
de la regal fanciulla
ne' registri del cielo il fato ha scritto;
voler no 'l cassa, e niun poter l'annulla.
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