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Scena prima |
Filena, Dafne. |
Filena, Dafne
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FILENA |
E sarai così stolta,
che gl'amplessi d'un dio rifiuterai?
Dunque dunque te stessa
deificar tu puoi,
pazzarella, e non vuoi,
e la tua volontà s'indura, e nega
mentre sì caldamente un dio ti prega?
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DAFNE |
E non posso, e non voglio
metter gli orecchi miei
in sicuro da' tuoi
fastidiosi accenti,
e m'istighi, e mi provochi, e mi tenti?
Non intendo d'amor principio alcuno,
affetto forestiero alla mia pace
non voglio in questo petto;
non voglio, che si muti
di mia vita il tenore,
scherzi, con altri pur, non meco Amore.
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FILENA |
Quel bel viso ridente,
che risplende, e diletta
nell'amoroso Apollo,
quella soave bocca
che sì dolce ragiona
l'alma non t'imprigiona?
O dio del caro nume
quel bellissimo aspetto
non ti muove nel petto
il sentimento dolce, e non ti chiama
a riamar chi t'ama?
S'egli pregasse me,
Dafne ti giuro affé,
tutta tutta ei m'avrebbe,
e sempre troverebbe
dalla mia volontà bandito il no;
ma io, che son sì sconcia
e di viso, e di seno,
se con lui mi stringessi in dolce laccio
sembrerei proprio un'ombra al sole in braccio.
Ama, Dafne, e sia gloria
delle tue guance belle
l'esser tanto piaciuta
al principe del lume, e delle stelle.
Se l'occhio non fallì
sì ch'egli è desso, sì:
vedilo di lontano
venir a noi pian piano.
Ei torna a cimentare i preghi suoi
con la cote agghiacciata
dell'alma sua spietata.
Lascia le ritrosie
guarisci le pazzie,
e se terreni amanti aver non vuoi
volgi al ciel, drizza al sol gli amori tuoi.
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DAFNE |
Fuggirò, ma che bado,
che non ricorro al mio diletto padre,
perch'ei mi guardi da nemici oltraggi.
Padre, padre Penèo,
sorgi dal cupo fondo
delle tue limpid'acque,
salva, deh salva omai
dalle mani impudiche
del dissoluto Apollo
la tua piangente figlia,
che per sottrar sé stessa
da temerari insulti,
non può vibrar altr'armi, che singulti.
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| Filena ->
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Scena seconda |
Penèo, Dafne. |
<- Penèo
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PENÈO |
Figlia indarno da me soccorso attendi,
che contro il biondo dio
resister non poss'io,
però che il sol può disseccar quest'acque,
ma quest'acque non ponno
spegner la luce, ed ammorzare il sole.
Dispari forza inferior talento
riconosca sé stesso,
ed a' maggiori suoi non vada appresso.
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DAFNE |
Dunque sugl'occhi tuoi,
o indebolito nume,
o vilipeso fiume
cadrò preda infelice?
Così a chi il tutto puote, il tutto lice?
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PENÈO |
Trovo un rimedio solo,
per far riparo agl'imminenti mali,
trasformar ti poss'io
in pianta, che di frondi
abbia perpetue chiome,
e non più Dafne no, Lauro avrai nome.
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DAFNE |
Vada la vita mia, com'a te piace,
per salvar l'onestade,
se non basta in un arbore, in un sasso,
trasformami a tuo senno.
Vada peregrinando
per mille forme varie l'esser mio,
pria, che cader dal virginal decoro
delle grand'alme singolar tesoro.
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| Penèo ->
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Scena terza |
Apollo, Amore. |
<- Apollo, Amore
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APOLLO
Ohimè, che miro? Ohimè dunque, in alloro
ti cangi, o Dafne, e mentre in rami, e in frondi,
le belle membra oltredivine ascondi,
povero tronco chiude il mio tesoro.
Qual sento umano, o qual celeste ingegno
a sì profondo arcano arrivò mai?
Veggo d'un viso arboreggiare i rai,
trovo il mio foco trasformato in legno.
Misero Apollo i tuoi trionfi or vanta
di crear giorno, ove le luci giri,
puoi sol cangiato in vento de' sospiri
baciar le foglie all'adorata pianta.
Sgorghino omai con dolorosi uffici
dai languid'occhi miei lagrime amare,
vadino in doppio fonte ad irrigare
d'un lauro le dolcissime radici.
Era meglio per me, che fuggitiva,
ma bella oltre le belle io ti vedessi,
che con sciapiti, e non giocondi amplessi
un arbore abbracciar su questa riva.
Giove, crea novo lume, io più non voglio
esser chiamato il sole, e dentro all'onde
delle lagrime mie calde, e profonde
immergo il caro, e de' miei rai mi spoglio.
Spezza tu la mia sfera, o tu l'aggira,
al zodiaco per me puoi dir addio;
de' pianti in mar novo Nettun son io,
suona agonie la mia lugubre lira.
A te ricorro onnipotente Amore,
al mio gran mal le medicine appresta;
di questo alloro un ramoscello innesta
con incalmo divin sopra il mio core.
Così, lauro mio bello, e peregrino,
orto sarà il mio petto ai rami tuoi,
sarà con union dolce tra noi,
la mia divinitade il tuo giardino.
| S
(♦)
(♦)
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AMORE
Dimmi, Apollo dolente,
del bambin, del pigmeo pungono l'armi?
Sei tu quell'insolente,
che vaneggiò così nel disprezzarmi?
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Or trionfa di te la mia saetta,
nuota ne' pianti tuoi la mia vendetta.
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Tu con Amor puntigli,
e gonfio d'ambizion sprezzi i maggiori,
e con ciechi consigli
trescan con il mio dardo i tuoi splendori;
col sangue di tua piaga or scritto sia,
l'irritar i più forti è una follia.
Asciuga gl'occhi, Apollo,
che'l vano lagrimar non sana i mali;
piega al mio giogo il collo,
giura servaggio agl'amorosi strali:
il cedermi non è tuo disonore,
perché se tu sei il solo, io son Amore.
Che su tu apporti il die,
io scopro il paradiso a' miei devoti,
e all'immagini mie
assai più, ch'alle tue s'appendon voti.
Anzi, che i miei vassalli han per costume
d'andar notturni, e rinnegar tuo lume.
Di tue lacrime omai
ho fatto perle, e me n'ingemmo l'arco;
tu da qui innanzi andrai
nel dirmi oltraggi più modesto, e parco.
Mortali or chi da me salvar si vuole,
se 'l mio dardo ha trafitto il core al sole.
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| Amore ->
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Scena quarta |
Pan, Apollo, Dafne trasformata. |
<- Pan
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PAN |
Che lagrime son queste,
o luminoso dio?
Invece di apportare al basso mondo
allegrezza col raggio,
il sereno del ciel turbi col pianto?
Che stilleran le nubi,
se in nova pioggia si distilla il sole?
Se curioso affetto
non accresce i tuoi mali
dimmi, cortese Apollo, i tuoi cordogli.
Servirà di singulti questo petto,
abbonderà di lagrime pietose
il mio core a' tuoi casi.
Non toglier a te stesso
i benefici dell'affetto mio,
ben è infelice il tuo presente stato,
se aborre i modi d'esser consolato.
| S
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APOLLO |
Pietosissimo Pane,
non sanno le parole,
come venir dal core alla mia bocca,
perché a mezzo viaggio
il duol le prende, e le dissolve in pianto;
e 'l concetto, che parte
dall'anima dolente
crede esser favellato
ma resta lagrimato.
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PAN |
E quale è la cagione
di tanto tuo dolore.
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APOLLO |
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PAN |
O disturbo del mondo,
o scompiglio del cielo,
o furia dell'Olimpo, o cieco nume.
La madre tua si generò nell'acque
ed il zoppo tuo padre è dio del foco,
e tu fai scaturire a mille a mille
da cori amanti e lagrime, e faville.
Ma come è quale amore
t'ha sì mal concio, o sconsolato Apollo?
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APOLLO |
Vedi tu là quell'arbore gentile,
che smeraldeggia nelle belle frondi?
Quella è Dafne, il cui viso
con armi di beltà piagommi il seno.
Io volea darle a bere
nella coppa d'un bacio i pianti miei;
ella sdegnosa mi fuggì repente,
io la seguia pregando,
ed ella per schernirmi,
e toglier a' miei baci
di sua bocca il dolcissimo tesoro
s'è cangiata di ninfa in un alloro;
d'ogni tuo bene o derelitto Apollo.
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Son geloso del bosco,
che con le sue radici
unir si può per sotterranea via
con le radici della vita mia.
Son geloso dell'aure,
che baciano sovente
la sempreverde ed onorata fronde,
e quando sarò in cielo
i raggi manderò sovra di lei,
sarò geloso ancor de' raggi miei.
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Pan, tu non piangi? E dove
serrasti la pietade,
se dagl'occhi non t'esce in torbid'onde.
Piangete erbe, ombre, antri, aure, augelli, e fronde.
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PAN |
Vedi tu queste canne,
son della mia Siringa
armoniche memorie aspre membranze.
Or non sai tu, ch'amai
la mia bella Siringa,
e ch'ella ricusando
riamar chi l'amava
trasformossi in istante in canna lieve?
Lo san le selve, e i sassi,
e ne piansero i rivi.
Io come Amor dettommi
della canna adorata
quest'organo silvestre
di calami sonori
ho poi formato,
e se abbracciar non puoti
la bella ninfa in sua sembianza vera
me l'ho legata trasformata al collo,
e feci sospirando
della necessità virtute, o Apollo.
Così lo spirto mio
si racconsola, e in questi
calami sospirati
musico innamorato impiego i fiati.
Prendi tu di quei rami,
e te ne fa' corona al biondo crine;
coronane la cetra, e ti consola,
che ne' fronzuti, ed immortali allori
la memoria vivrà d'eterni amori.
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DAFNE |
Ohimè dunque sì crudo
contro ninfa innocente
stendi la man feroce?
Questi sono gli amori,
o insidioso Apollo,
nemico del mio onor, mentre fui donna;
frattor de' rami miei, mentre son pianta.
Perdona almen perdona
alla vivente umanità sepolta,
abbian pace una volta
da ingiurïoso amante
se non le ninfe imbelli, almen le piante.
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APOLLO |
E che fieri consigli
mi desti, o Pane? Ahi come ho lacerato
il prezïoso tronco.
Senti le voci, senti
della mia cara vita
dalle mie proprie mani, ohimè ferita.
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DAFNE |
Questo povero tronco,
se non merta pietà, svellasi omai.
Sia però noto al mondo, Apollo ingrato,
ch'io non t'offesi mai.
Miserabile Dafne
che trovar puossi paragone in terra
alle tue disventure.
Perché il destin le tue sventure vuole,
fatt'è un sicario, un omicida il sole.
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APOLLO |
Perdona, o ninfa cara,
sotto cortecce ruvide, e silvestri
singolar mio conforto, anima mia.
Perdona a questa mano,
e se 'l castigo mio brami vedere,
sappi, ch'a questo mio misero core
patiboli, e torture appresta amore.
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DAFNE |
Assai son soddisfatta, anzi mi pento
di esserti stata cruda, o biondo dio
rasciuga i pianti, ch'io
con le frondi, e coi rami
con le radici a te mi prostro, e dico
in idïoma umano,
e in linguaggio d'alloro
te come amante, e come sole adoro.
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PAN |
O parole ben degne
d'esser scritte in caratteri di stelle.
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DAFNE |
Amico Apollo, addio;
quest'arbore non può più lungamente
organizzar parole;
della sua Dafne non si scordi il sole.
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APOLLO |
Se sopra l'esser dio
si ritrovasse altezza,
colà su porterei la tua bellezza.
Eterna avrò memoria
di te, mia cara Dafne,
e staranno in perpetuo uniti insieme
nel verace amor mio
l'esser di Dafne amante, e l'esser dio.
Or consolato vivo,
Pane, e m'accordo teco,
or a vicenda sia
di tua zampogna, e di mia cetra il suono;
cantiam di Dafne, e di Siringa insieme
con sinfonie gioconde
le belle metamorfosi gradite.
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APOLLO |
Dafne mia, Dafne bella
delle tue frondi omai mi cingo il crine;
ceda pure ogni stella
a corone sì altere, e peregrine.
Più della luce mia de' miei splendori
stimo il caro diadema aver allori.
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PAN |
Siringa, a te s'inchina
ogni forma terrena, ogni celeste,
tua bellezza divina
sempre si canterà nelle foreste.
Né sarà mai ch'in terra, o in ciel dipinga
più bel sembiante mai, che di Siringa.
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APOLLO |
Questa bella, alma fronde
verdeggierammi eternamente in fronte,
né sie mai, che si sfronde
suo ramo fulminato in valle, o in monte.
Se al zodiaco mancar potesse un segno,
l'alloro andar lassù saria ben degno.
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PAN |
Canne mie preziose,
memoria del mio foco, e del mio pianto;
l'angosce mie penose,
sì come vuole Amor, rivolgo in canto.
Le nostre ninfe trasformate in piante
canti ognuno di noi giocondo amante.
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APOLLO E PAN
Sì sì vivano eterne
di nostre fiamme l'amorose luci.
Sia perpetuo il decoro
a chi ci nutre in sì beato ardore.
Né rimbombare il ciel sia mai satollo
sempre Siringa, e Pan, Dafne, ed Apollo.
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Qui macchina s'abbassa per ricever Apollo, e condurlo in cielo. | |
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Scena quinta |
Aurora, Apollo, Pan da una parte. |
<- Aurora
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AURORA |
Mentre ritorni in cielo,
o luce, ed allegria dell'universo,
non isdegnar, che teco
venga la tua foriera.
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APOLLO |
E quando, e come
in queste valli apriche
discendesti, o lucente
pittrice mattutina?
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AURORA |
Di mia venuta in terra
l'amorosa cagion ti dirò poi.
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APOLLO |
Vientene meco pur; vagheggi intanto
l'occhio mortale, e additi
l'Aurora, e 'l sol in bella nube uniti.
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AURORA |
Se Titon ti dimanda
s'oggi ho retto il tuo carro,
rispondi un sì mendace;
bella maschera sia
di stratagemmi miei la tua bugia.
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APOLLO |
Come vuoi, che la luce
gl'uffici delle tenebre eseguisca?
Nacqui a svelar, non a coprir i falli.
Del temerario mondo
purtroppo sentirei
incolpar di bugiardi i raggi miei.
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AURORA |
Orsù, quando bisogna, e altrui non nuoce,
è gentilezza il falseggiar bugie,
e tra due contendenti
sempre è sicuro direttor di pace
prudente mentitor, scaltro mendace.
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APOLLO |
Così parlan le donne, e non le dèe,
così s'usa nel mondo, e non nel cielo.
L'uom scellerato, ch'ha smarrite omai
della sincerità tutte le vie
chiama prudenza il rimbellir bugie.
Ma non dimen per compiacerti, o bella,
ti prometto mentir, quanto vorrai,
e al tuo vecchio Titone
creder farò, che tu sii stata in cielo,
e ch'all'uscir del luminose die
hai sostenute in ciel le veci mie.
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Qui Apollo e l'Aurora ascendono in cielo. | Apollo, Aurora ->
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PAN |
L'Aurora afferma al sole,
ch'amorosa cagione
l'abbia condotta in terra,
e vuol ch'al suo Titone
bugie sian dette, e stratagemmi orditi?
O folli amanti, o poveri mariti,
o donne, o belle donne,
mora pur mora
chi non v'adora,
ma chi è possente
d'andar esente
dalle scaltre bugie del vostro sesso,
se guardar non sen n' puote il cielo stesso?
O bellezze, o bellezze
non merta fama
chi non vi brama,
ma se il pensiero
penetra il vero,
dappertutto abbondar beltà si vede,
e sol si prova carestia di fede.
Quel è saggio e prudente
che solo crede
a ciò, che vede.
Negozia sano
col pegno in mano,
ma con voi donne belle, a quant'io vedo,
non presto fede, e al pegno ancor non credo.
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| Pan ->
<- fiori danzanti
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Segue il ballo de' Fiori. | |
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CORO
Novo alle selve
nume s'aggiunge
novo decoro
e meraviglia
riceve la frondosa ampia famiglia
celebriamo così
sì lieto dì.
Virtù celeste,
voler divino
cangia, e trasforma
in verde alloro
della Tessaglia il singolar decoro;
così lodata va
tanta beltà.
Balliam Giacinto,
danziam Narciso,
alzati Adone
né star afflitto
a tue radici, o vago ciparisso;
ora con lieve piè
formisi un «D».
Trecce, e catene
groppi, e viluppi
e labirinti
in vari giri
a ritrar, a formar ognuno aspiri,
e in bella novità
stampisi una «A».
La leggiadria
impenni l'ali
al nostro piè,
men presti, e snelli
sian del nostro danzar gl'istessi augelli;
faccia un, «F», gentil
musico stil.
Pure venite
al paragon,
venti non sete
sì presti al volo
com'è di nostra danza un salto solo.
Or l'«N», in un balen
formato vien.
Formiamo al metro
d'alta armonia
danze volanti,
e a dolci corde
moviamo il passo, e 'l piè sempre concorde.
E 'l passo istesso, e 'l piè
riposi in «E»?
Comincia in, «D»,
poi segue in, «A»,
indi, «F», vien,
continua in, «N»,
e a terminare in «E», suo nome viene.
Sempre onorar si vuol
Dafne, ed il sol.
Dafne si canti
ninfa del sole
amor d'Apollo
baciate, o fiori
il piede alla regina degli allori.
Finché il ciel durerà
Dafne vivrà.
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| fiori danzanti ->
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Scena sesta ed ultima |
Filena, Cirilla. |
<- Filena, Cirilla
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FILENA |
Or hai finite, o Dafne,
l'indomite pazzie.
Non era meglio, o stolta,
compiacere ad Apollo,
che diventare un tronco?
Or delle colpe tue soffri la pena
sì pazza già non sarà mai Filena.
Ricusar dolci baci
rifiutar godimenti,
per crescer alle selve arbori novi,
ben il volgo ha ragione
nel dir, che 'l mondo tutto è opinione.
Un incalmo de' fiori
si paga a prezzo d'oro,
ed è pompa, e tesoro de' giardini,
un incalmo de' frutti
si guarda, e custodisce,
e gli si dà a misura e pioggia, e sole,
e negl'orti de' sensi innamorati
e nei giardini amabili dell'alme
opinion non vuol, ch'amor s'incalme,
quel che lice, e conviene
alle colombe stesse,
che della purità sono l'idee;
quel che lice agl'agnelli
esempi d'innocenza, e d'umiltade.
Tra le ninfe, e i pastori
è nota di vergogna, e disonori.
O Filena infelice
non serenar più mai la faccia mesta;
tempi, e costumi rei, che legge è questa?
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CIRILLA |
Alfesibeo m'ha detto
il mistero del sogno,
ed è toccato a Dafne il trasformarsi.
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FILENA |
Guarda, Cirilla, guarda,
ecco l'arbore novo,
in cui cangiossi l'ostinata Dafne.
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CIRILLA |
Metamorfosi bella, ed onorata,
ninfa degna d'eterne ricordanze.
E tu circondi di mordace biasimo
un'azione sì nobile, ed illustre?
Trangugia quelle voci
scostumata Filena,
che il fiore virginale conservato
divide per metà con Giove stesso
il titolo d'eterno, e di beato.
E donzella ben nata
più stimar dée la gioia dell'onore,
che le proprie pupille, e 'l proprio core.
Sebbene (o nostri dì caliginosi)
or sono le citelle
purtroppo baldanzose,
né tali io le vorrei
così già non s'usava a' tempi miei.
Ora la giovinetta
dal guscio appena uscita
alla finestra aspetta,
se al vezzo alcun la invita,
mentre di latte ancor sua bocca sente
studia co' sguardi avvelenar la gente.
Morde il labbro lascivo
poi con la lingua il molce
fa l'occhio semivivo
in un deliquio dolce,
mentre l'incauta madre è intenta all'ago
getta la sfacciatella i baci al vago.
Nel fior dell'età verde
coglie d'infamia il frutto.
Ma sull'onor, che perde,
apre un fondaco brutto,
perché subordinando inganni rei
si vende per donzella a cinque, e a sei.
Se fosse in mia balia
citella senza ingegno,
le trarrei la pazzia
a fé con questo legno,
che può solo un baston co' suoi rigori
mortificar pruriti, e pizzicori.
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FILENA |
Ma se tu non fossi vecchia
avresti altri pensieri,
ma insomma così va
fredda decrepità,
che rincresce a sé stessa, e gli altri annoia,
mentre di dolce brillo i spirti ha privi,
fa la satrapa addosso ai sensi vivi.
Queste vecchie befane
insensate, ed insane
mordon sempre co' detti lor pungenti,
mentre per morder pan non hanno denti.
Sempre fanno bisbigli
con sciapiti consigli,
e stanche omai di godimenti mille,
or che non posson più, fan le sibille.
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