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Scena prima |
Titon, Aurora. |
Titon, Aurora
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TITON |
Delicata fanciulla
delle dolcezze mie
principio singolar, fonte, e radice,
Aurora mia diletta,
perché sorgi sì in fretta?
Perché godi vedere
con feroce talento,
mentre lagrimo, o bella,
aspergersi di brine dolorose
di mia canizie il vilipeso argento?
Se di rugiade dispensiera sei,
rugiade non voler dagl'occhi miei.
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AURORA |
E che vuoi ch'io consumi
in sciapite dimore
la vita mia con ozïoso amante,
che in pigra volontà le forze tiene,
e gode in fredda immagine il suo bene.
Abbraccia queste piume,
bacia questi guanciali,
con essi puoi sfogar in dolci errori
tuoi disarmati, et impotenti amori.
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TITON |
La mia fede così
tra scherni, e sprezzi va,
sdegnosa meco sta
colei che mi ferì.
Infelice Titon
malvoluto amator,
colei, che t'arde il cor,
non vuol udir ragion?
Ma lasso ad ogn'ingiuria, ad ogni oltraggio
si fa scopo, et oggetto
chi col peso degl'anni aggrava il letto.
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AURORA
Giovanetta, che tiene
il senso pien dell'amoroso affetto,
tramortisce, et isviene
s'è sforzata a tenersi un vecchio al petto,
che solo sa tra stenti, e tra rumori
tossir i baci, e barbottar gl'amori.
La possanza, che manca,
empie di sdegno il garrulo canuto,
quant'egli più si stanca,
più crede da sue forze aver tributo,
ma disingannato alfin dagl'anni oppresso
volta sue rabbie a bestemmiar sé stesso.
La man tremula crede
resuscitar le forze seppellite,
ma ben tosto s'avvede,
che chi non ha vigor non può far lite,
per il temporeggiar bastano i carmi,
ma al combatter alfin ci voglion l'armi.
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Però Titon non fia
tuo dispiacer, ch'il vero io ti racconti,
il tuo amor è follia,
credi a star sul meriggio, eppur tramonti;
credi alle rughe tue, credi allo specchio,
compendio d'ogni noia è l'esser vecchio.
Ma però non temere
caro Titon, affé credi ch'io t'amo,
e se teco talora
scherza, e ride l'Aurora,
non è però, ch'ella ti sprezzi, e scherna;
ti dirò la cagione
del mio sì tosto abbandonar le piume:
pregommi il dio del lume,
che volend'ei per suo diporto in terra
oggi scender a volo,
io voglia in vece sua
regger l'aurato, e luminoso carro;
e però qui ti lascio
tra i riposi felici,
e vado ad eseguir del Sol gl'uffici.
Or va', di' tu, che femminil bellezza
non fia pompa divina
se il sol istesso, il Sole
imperator degl'astri a lei s'inchina.
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TITON |
Vanne felice, ma sta' ferma, aspetta;
guarda, che tu non perdi
le redini, e non volga
sossopra il lume un'altra volta, e 'l mondo,
come fece Fetonte,
abbi gl'occhi, e le man veloci, e pronte.
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AURORA |
Dimanda all'alma tua,
interroga il tuo core,
se mia bellezza saprà far da Sole.
Volgiti in là, e t'acqueta,
che ben saprà con ordine novello
trattar raggi di Sole un viso bello.
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| Aurora, Titon ->
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Scena seconda |
Cirilla vecchia, Alfesibeo. |
<- Cirilla
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CIRILLA
Gradita povertà,
mentre beni non ha
a litigar non va:
stolto il mondo non sa,
ciò, ch'entro all'oro sta.
Dorme in piume innocenti
di rondini e colombe,
o pur cortese paglia
adagia i miei dolcissimi riposi
in onta vostra, o letti alti, e pomposi.
Gradita povertà,
mentre beni non ha
a litigar non va.
Il rio, che qui vicino
corre con piè d'argento,
comparte a questo corpo,
che rassembra del tempo il simulacro,
dolce lavanda, e comodo lavacro.
Gradita povertà,
mentre beni non ha
a litigar non va.
L'invidia, o l'ambizione
non appesta i miei sensi,
genio semplice, e puro,
ch'all'innocenza altrui frodi non tesse,
non conosce perfidia, né interesse.
Gradita povertà,
mentre beni non ha
a litigar non va.
Questa cadente etade
sempre più mi rallegra,
perché di giorno in giorno
più m'avvicino alla beata sorte,
che per passare al ciel ponte è alla morte.
Gradita povertà,
mentre beni non ha
a litigar non va.
Chi scaccia il sonno a forza
traballa, et isbadiglia,
e gl'occhi stanchi, e fralli,
che per l'età chiaro guardar non ponno,
per non si contristar, stan chiusi al sonno.
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Ma che torbido sogno
m'inquieta stamane.
Mi par che in questa piaggia
una donzella vaga, e delicata
si fu in ruvido tronco trasformata.
Ma colà vedo il saggio
Alfesibeo, ch'intende
di natura, e del cielo
le ragioni recondite, e profonde,
ei saprà dir ciò, che 'l mio sogno asconde.
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| <- Alfesibeo
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ALFESIBEO |
Sorgi bianco principio
del luminoso giorno,
e coi tuoi vivi, e lucidi splendori
risuscita dall'ombre i bei colori.
Par che rinasca il mondo
dal grembo della notte,
e mentre dalle tenebre ei rinasce
i primi albori a lui servon di fasce.
Deh quanto è più felice
quel mondo glorioso,
che non soggiace all'ombre oscure, e rie,
e lieto gode un infinito die.
Ma che fai sì per tempo
cadente vecchierella,
il cui passo in andando
misura gl'intervalli al tuo sepolcro;
perché non dai quest'ora
al riposo, ed al sonno? Ove ne vai?
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CIRILLA |
Cerco te solo Alfesibeo gentile,
per intender da te quel, che portenda
un sogno, che m'apparse poco dianzi.
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ALFESIBEO |
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CIRILLA |
Or l'intenderai tu.
Pareami che nel suol
s'abbarbicasse il piè
d'una ninfa gentil,
ch'arbore divenuta in un momento
rumoreggiasse con le frondi al vento.
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ALFESIBEO |
Altrettanto vid'io
già poco d'ora in sogno,
e interpretar non so tanta figura.
Andianne, e sia mia cura
di ritentar gl'antichi studi, et arti,
per ritrovar un così occulto senso,
che istupidir mi fa più, che ci penso.
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CIRILLA |
Vanne, che passo passo
l'andar tuo seguirò.
Tremulo piè non può
mover celere il corso,
e vicino al suo fine il moto umano
tardo vien, lento move, e va pian piano.
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| Alfesibeo, Cirilla ->
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Scena terza |
Giove, Venere, Amore. |
<- Giove, Venere, Amore
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GIOVE |
Figlia, le cui bellezze
illustrano di raggi il cielo, e gl'astri,
qual novello cordoglio
osa introdur i pianti
negl'occhi tuoi divini?
Come, come son fatte
fonti di stille amare
le fontane del lume?
Qual dispiacer promuove
il tuo bel petto ad esalar sospiri?
Come nella tua fronte,
che di serenità sovrasta al sole,
osa mestizia oscura aver soggiorno?
Deh non scenda all'inferno
l'allegrezza del cielo,
né godan mai quei spirti indegni, e rei
veder piangenti in paradiso i dèi.
Se consolar si ponno
dell'alma tua l'angosce,
tutte si tenteran l'arti, e le prove,
tutto farà sol per giovarti Giove.
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VENERE |
Quel temerario Apollo
ch'ardì mostrarmi ignuda
al mio zappo marito,
quand'io stavo con Marte
ad imparar della milizia gl'usi,
sempre più mi schernisce,
e dalle offese mie cava lo scherzo,
né comparir può in cielo
l'amorosa mia stella
senza sentir da lui gl'oltraggi, e l'onte.
Padre, e signor ti prego,
mentre puoi ciò, che vuoi,
e vuoi sempre giustizia,
con una voce sola
leva il mal, lui castiga, e me consola.
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GIOVE |
Non ti turbar, o Citerea gentile,
sono scherzi giocondi,
non ingiurie, e dispetti
quelli, che teco adopra il biondo dio.
E s'egli chiamò tutta
la stellante contrada,
perché vedesse le tue membra ignude,
fu perché non essendo egli capace
di tanta gloria in vagheggiarti solo,
chiamò compagni tutti gl'altri numi,
e gli diedero aita,
per non restar confuso in tanti lumi.
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VENERE |
Io vorrei castigar tanta baldanza,
vorrei fiaccar l'ardire a tanto orgoglio.
L'offesa perdonata
provoca l'offensore
a farne una maggiore,
chi vendica la prima
non ne riceve d'altre.
Chi si sa vendicar, sempre è sicuro,
che la vendetta armata
l'onor circonda di custodia, e muro.
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GIOVE |
Al tuo possente figlio
imponi le vendette.
Egli ha ben tanto ardire,
e può vibrar tal armi,
ch'Apollo sentirà del tuo disdegno
qualche per sempre memorando segno.
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AMORE |
Comanda, o genitrice,
ch'io farò, non dirò,
e 'l sole oltraggiator castigherò.
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VENERE |
Vattene figlio va',
nel tuo valor la mia vendetta sta.
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GIOVE |
Amore impiega l'armi,
contro Apollo insolente,
ma guarda, ch'egli alfin non ti disarmi,
onde poi senza l'arco, e senza i dardi,
con cui costumi di ferir gl'amanti
non venghi il cielo a riempir di pianti.
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AMORE |
Io torrò l'arco a lui,
e lo farò restar di glorie privo.
Madre fo' questo editto,
oggi mesto, ed afflitto
della Tessaglia in fra le selve, e i sassi
di corruccio vestito il sol vedrassi.
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| Venere, Giove, Amore ->
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Scena quarta |
Dafne, coro di Ninfe. |
<- Dafne, ninfe
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DAFNE
O più d'ogni ricchezza
prezioso tesoro,
disoccupato core
dalle voglie d'amore,
gradita libertade,
volontà non offesa,
contento sovraumano
aver l'arbitrio sano,
anima, che non sente
sforzo, che tiranneggi,
veramente confessa
esser cielo a sé stessa.
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Mentre limpida, e pura
concede a' suoi pensier liberi i voli,
core, che non soccombe
all'amorosa forza,
felicità sospira in vece d'aure,
e se palpita mai
lo fa per allegrezza, e non per guai
aprimi l'uscio d'oro
condottiera del dì lucida diva,
sempre mi troverai
in libertà sicura
del velenoso amor senza paura.
Espero, che racchiudi
del sole, che tramonta i raggi stanchi,
tu non mi lascerai
in preda a notte sospirosa, e trista.
Amore non m'avrà sua prigioniera,
vedrammi in libertà l'alba, e la sera.
Erbe dalla rugiada
vagamente imperlate,
vegetanti smeraldi,
dilettose verdure,
riconoscete Dafne a tutte l'ore
inimica d'amore.
Mormoranti ruscelli
ondosi specchi, e cristalline fonti,
da lubrico zaffir correnti vene
di benefatto argento,
preziosi, e dolcissimi canali
non ho timor degli amorosi strali.
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Colle aprico,
bosco ombroso,
verde prato,
siano delizie mie, siano diletti,
stiano in disparte gli amorosi affetti.
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Porgimi ninfa bella
l'armonica mia cetra,
ch'io vuò cantar con giubilosi modi
dell'alma libertà le vere lodi.
Libertade gradita,
balsamo della vita,
che ne preserva il core
dall'infezion d'amore,
l'alma mia ti richiede,
che in lei tu voglia stabilir tua fede.
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Tu sei l'unico bene,
che la vita sostiene,
tu sei la sola pace
della vita fugace,
che dove tu non vivi
i cori in servitù d'alma non privi.
Stiansi pure perdute
e ricchezza, e salute,
che se ben ricco, e sano
vive lo stato umano,
se cinto è da catena,
venen gli è d'oro, e la salute pena.
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Ma però non ancora io son contenta,
se con danze, e carole, o belle ninfe,
del mio libero core
non si celebra il gaudio senza fine.
Danzate con pastori
liberi dagli amori.
Schietta dolcezza,
pura allegrezza
sian de' Tessali cori i godimenti,
né lascivo sospir mai turbi i venti.
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| <- pastori
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Qui cade il ballo. | |
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CORO
Danzate, o ninfe, e pastorelli, e siano
le vostre danze sacrifici al genio,
pria che l'età ci adduca al freddo senio,
di letizia gentil segni si diano.
Cantico e giubilo
mormori armonico,
danzino, e saltino
femmine, ed uomini,
ridano, esultino
gl'animi tessali.
Deponga l'alma ogni gravoso incarico,
mentre or gaie allegrezze si rinnovano,
mentre felici i nostri cori provano
vacanza d'ogni torbido rammarico.
Cantico e giubilo
mormori armonico,
danzino, e saltino
femmine, ed uomini,
ridano, esultino
gl'animi tessali.
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DAFNE |
Musica dolce, musica tu sei
vera similitudine celeste,
ecco al suono del ciel fan le foreste,
e imitati da noi ridono i dèi.
Seguite pur l'incominciato ballo
giulive ninfe, allegri pastorelli,
facciano i piedi vostri i paralleli
a chi lassù non pon mai piede in fallo.
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CORO |
Or rinnoviamo i lieti balli, e vengano
dal ciel sopra di noi vere letizie,
chi vive senza amor sempre ha delizie
dunque d'amar i saggi cor s'astengano.
Cantico e giubilo
mormori armonico,
danzino, e saltino
femmine, ed uomini,
ridano, esultino
gl'animi tessali.
Chi sprezza libertà stolto si nomini,
servitute d'amor indegna, e ignobile,
chi libero non è, non può esser nobile,
la sola libertà fa illustri gl'uomini.
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| ninfe, pastori ->
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Scena quinta |
Filena. Dafne. |
<- Filena
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FILENA
Quel bel fior di giovinezza,
che le guance t'invermiglia,
quel candor d'alta bellezza,
che le mani, e 'l sen t'ingiglia,
l'oro fin, che per vaghezza
ne' tuoi crini s'assottiglia,
perirà, caderà,
più fugace del lampo è la beltà.
Quel tesor del labbro bello,
che vezzozo coralleggia,
quel loquace spiritello,
che tra perle rubineggia,
quel purpureo serpentello,
che dolcissimo lingueggia,
perirà, caderà,
più fugace del lampo è la beltà.
Sconsigliata verginella,
tu non sai del tempo i danni,
gl'aurei titoli di bella
calca alfine il piè degl'anni,
questa età fresca, e novella,
vana Dafne, non t'inganni,
perirà, caderà,
più fugace del lampo è la beltà.
| S
(♦)
(♦)
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DAFNE |
Quanto più breve è il termine vitale
tanto più lietamente
spender si deve in dilettosi uffici,
cara amica Filena, e tu che dici?
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FILENA
Dico, che senza amore
la vita è un fumo oscuro,
una nebbia infelice,
e che la gioventù,
april del viver nostro,
se non consente al sangue,
e se non s'innamora
dolce non gode, e consolata un'ora.
Le vive granatiglie
delle tue guance belle,
se non sono baciate
da innamorata bocca
cadran sfiorite alfine.
La bellezza invecchiata
da tutti è beffeggiata.
Ninfa non vagheggiata, e non goduta
è una morta pittura,
che soggiace alla polve,
è una fredda sembianza
una tella insensata,
che in superficie vana
conserva l'ombra sol di cosa umana.
Dafne, credilo a me,
tardi ti pentirai,
vorrai gl'amanti, e non li troverai.
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DAFNE |
Pur sempre mi tormenti
con queste tue follie,
e vorresti condurmi
a tradir la mia vita,
a porre in servitù l'arbitrio mio,
se d'altro non mi parli, io parto, addio.
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FILENA |
Ferma insipida ninfa,
non esser aspe agl'ottimi consigli.
Se non ami, che vuoi far?
Chi non conosce amore
serra nel petto un ozïoso core.
Ti produsse natura,
il cielo ti creò,
perché fosse il tuo fiore
nell'alba de' tuoi dì colto, e goduto,
e tu aspetti l'occaso
dell'inutile età sol per vedere
secco il fior di bellezza
cadente, e infracidito
dal vilipendio altrui mostrato a dito.
Ho pietà della tua
stolidità insensata:
sappi superba sappi,
che i veri documenti
chi presto non riceve
diffuso in pianti il pentimento beve,
e negl'anni canuti
la volontà pentita
non sa tornare indietro
la già trascorsa vita,
ed il battersi il petto
ed in singulti consumar i fiati
non reca giovamento a disperati.
Una volta si nasce,
una volta si more,
lo spazio della vita
è una carriera sola.
Godiam la luce infin, che dura il giorno,
che l'andata mortal non fa ritorno.
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DAFNE |
Orsù non replicar, Filena mia,
ch'io vo' di queste selve
godendo bell'ombre, e i grati orrori,
e lascio te con tuoi cantati amori.
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| Dafne ->
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Scena sesta |
Filena sola. |
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Come folle sei tu,
superba, e pertinace gioventù.
Il colorito pomo,
che in alto ramo è nato,
sdegna d'esser toccato
dalle mani dell'uomo,
ma cade a terra alfin da' rami infermi,
e la superbia sua finisce in vermi.
Così pazza donzella
non vuol ch'altri la miri,
e par ch'ella s'adiri,
se d'amor si favella,
ma se i nobili amanti aborre, e sprezza,
alfine è de' plebei vile dolcezza.
Imparate, imparate
donne finché potete
il grano raccogliete
nel calor dell'estate.
Qualche frutto all'autunno ancor si coglie
ma fa quella stagion cader le foglie.
Ogni pianta più vile,
se d'ottobre è spogliata
torna ad esser ornata
dal bel fiorito Aprile,
ma nell'uman brevissimo viaggio
si gode sol per una volta il maggio.
Donna amata, e servita
dal gentil amatore
non frapponga dimore
all'amorosa aita;
dura un sol lampo il fior del nostro sesso,
e la vita del lampo è un solo adesso.
Il ben dura momenti,
ma duran sempre i guai,
né più ritornan mai
i passati contenti,
chi convien soggiacere ai casi umani
rise ieri, oggi piange, e muor dimani.
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| Filena ->
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Scena settima |
Cefalo, Aurora. |
<- Cefalo, Aurora
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CEFALO |
E quando farà il dì,
che ti piaccia qua giù
scender, luce mia sola, Aurora mia,
quando il punto verrà,
ch'il tuo Cefalo avrà
quel con tanto ardor sempre desia.
Tormentoso aspettar
quando finirai tu
coll'arrivo fatal della mia vita?
Che più sperar non so,
resister più non può
l'anima da sospiri indebolita.
Lacrimato mio ben
pon fini a' miei martir,
discendi a consolar l'angosce mie;
vieni dal puro ciel
in braccio al tuo fedel,
fa', ch'io goda beato un solo die.
Conosco ben, conosco,
che l'amar una dea
trascende troppo le fiacchezze umane,
castigato rimane
l'ardimento del core
dal mio proprio acerbissimo dolore.
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AURORA |
Ben è cieco Titon, se crede, ch'io
siasi per tempo sorta,
per regger inesperta
del pianeta maggior l'aurato carro.
Altro mi punge il core,
che dimostrare al mondo
d'esser vicaria in ciel de' rai del sole.
Ho fabbricato un'apparente scusa
sul discender d'Apollo in queste piagge,
ma in terra m'ha condotto il sol desio
di veder il mio Cefalo, il cor mio.
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CEFALO |
Se il lume non m'abbaglia
ecco la mia diletta;
sì ch'ella è dessa, sì:
mio cor lascia i lamenti,
risorgi da tormenti,
mira quegl'occhi cari,
raffigura il dolcissimo sorriso,
divinizza il tuo foco in quel bel viso.
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AURORA |
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CEFALO |
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AURORA |
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CEFALO |
Ohimè quanto indugiasti
a venir, vaga mia,
la penosa dimora
ha fatto del mio core anatomia.
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AURORA |
Ho finto con Titone
d'ascender l'orbe quarto,
per sostener le veci oggi del sole,
mentr'egli è sceso in queste selve amene,
e intanto son venuta a te mio bene.
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CEFALO |
Non nominar Titone:
il suo nome è un coltello,
che passa ohimè per questi orecchi, e vien
a far dell'alma mia strage, e macello.
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AURORA |
Pazzarello sei tu: quel vecchio adunque
agita la tua pace,
e quel canuto mento,
in cui decrepita registra gli anni
ti move gelosia?
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CEFALO |
Tu dormi seco, ed io
qui per le selve vo mendico amante,
ed egli tra guanciali agili, e lievi
gode in piacer eterno
del tuo bel seno l'incarnate nevi.
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AURORA |
Io non lo bacio mai.
Quelle barbute, e setolose labbra
son boschi odiosi,
né in quelli mai potrei
inselvar, imprunar i baci miei.
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CEFALO |
Deh non parlar de' baci,
che quella soavissima parola
mi martirizza dolcemente i sensi.
Titon, Titon è il tuo,
il solo, il caro, il fortunato amante.
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AURORA |
So, che vaneggi, o Cefalo gentile,
e mi pungi da scherzo, e d'allegria.
L'amante giovinetto
non dée temer del vecchiarello inerme;
amor può dar a tutti
guiderdone, e mercede,
ma non può sua virtute
far amabili mai chiome canute.
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Ben da dovero stolti
son gl'amanti canuti,
se in paragon de' lor rugosi volti
credon, ch'un giovinetto si rifiuti.
Son sempre mal veduti, e mal graditi
vecchi Narcisi, e Adoni rimbambiti.
Sappia l'ispida piuma,
che la lanugine d'oro
è quella, che alle ninfe il cor consuma
in dolce, e soavissimo martoro.
Cedano i padri pur, cedano ai figli,
ch'amor ricerca forze, e non consigli.
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La fresca giovanezza
è 'l giardin degl'amori,
e la fredda, ed insipida vecchiezza
è l'arca dei dispetti, e dei rancori,
mentre non può allenar le forze frali
proverbi intreccia, e riferisce annali.
E se ben rade, e cava
il pel pungente, e vecchio,
però gl'anni non scema, e i dì non lava,
né bugie gli può dir l'amico specchio.
Né l'ambra, negli odor più delicati
pon far tornare indietro i giorni andati.
Disamar dolce pomo,
per gradir rozzo sorbo
è un tralasciare in abbandono l'uomo,
è infracidirsi per gustare al corbo
insomma ninfa, ch'ama un vecchio frale,
mostra de' cimiteri esser rivale.
Però Cefalo mio,
non temer di Titone,
né sospettar, che la mia fede pura
abbia lusinghe in bocca, e frodi in seno.
Te solo adoro, e per te solo amando
in dolcissima fiamma ardo, e sfavillo;
in me t'impresse amor, né può stampare
impronti differenti un sol sigillo.
Oh dio, tu pur vaneggi,
e formi sospettando
un ideale inferno
alla tua fantasia,
e pur tu solo sei l'anima mia.
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CEFALO |
Credo, che m'ami sì, ma il cor vorrebbe
un giuramento, sai?
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AURORA |
Giuro per questi rai,
che m'han trafitta l'anima innocente,
e giuro finalmente
per te stesso a te stesso,
che in questo core ha scritto il cieco dio,
Cefalo sei il mio ben, l'idolo mio.
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CEFALO |
Andianne adunque, o bella,
e nell'antro più cupo
confessino gl'orrori
di non invidiar la luce al die,
mentre nel fosco loro vederassi
meco scherzando in dilettosa guerra
sul meriggio albeggiar l'Aurora in terra.
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AURORA |
Andiam, Cefalo, andiamo,
e non più le parole,
ma il fatto t'assicuri,
e l'opra stessa i miei tormenti giuri.
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| Aurora, Cefalo ->
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Scena ottava |
Procri sola. |
<- Procri
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Volgi, deh volgi il piede
bellissimo assassin della mia fede.
Dico rivolgi il piè
o mancator, perché
dal tuo novello, ed invocato amore
non spero più, che tu rivolga il core;
sia pur la tua rival de' sensi tuoi,
e di pensieri il punto, ed il compasso,
e lasci a me sol del tuo piede un passo.
Io son pur quella Procri,
che dagli amori tuoi delizia fu.
Lassa, io m'inganno, io non son quella più.
O spergiuro infedele,
io nell'Aurora tua
sospiro la mia sera,
e vedo il disperato mio desio.
Nell'altezze di lei l'abisso mio,
e pur ancora io t'amo,
il tradimento, ohimè mi svena il core,
e al mio dispetto adoro il traditore.
Così povero adunque
è il cielo di bellezze,
che cercano le dèe gli amanti in terra?
Ha penuria l'Olimpo
d'amabili sembianze?
Né sa l'aurora ritrovarsi amanti,
s'alle mie calde innamorate voglie
le dolcezze non ruba, e 'l ben non toglie.
| S
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Cefalo torna a me,
io son colei, che tua diletta fu,
lassa, io m'inganno, io non son quella più.
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Ohimè la gelosia
mi stimola a bestemmie, ed a furori.
Ma perch'è diva l'alta mia rivale,
religione, e riverenza insieme
sul fondo al core i miei singulti preme,
ma 'l peggiore del mio non ha l'inferno.
Pon maledire i miseri dannati,
io trafitta, ed ardente, e lacerata
dannata son, e maledir non posso.
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Cefalo riedi a me,
io son colei, ch'idolo tuo già fu,
lassa, io m'inganno, e non son quella più.
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Deh ricevete, o selve,
accettate, o deserti
d'un pianto amaro il tacito tributo:
eccessivo è il dolor quand'egli è muto.
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