Atto secondo

 

Scena prima

Apollo, coro di Muse.

Apollo, muse

 

APOLLO

Discendo dall'Olimpo  

in queste piagge apriche

favorite così da raggi miei,

che non veggio del mondo,

più bella mai, più dilettosa parte.

Non può increscer il cielo

aggregato immortal di tutti i beni,

ma se potesser mai

fastidirmi le stelle,

qui tradurrei la sede, il caro e 'l lume:

così Tessaglia bella

sarebbe al sole eclittica novella.

Rassomiglia così, così confronta

questa bella contrada

con le celesti amenitade eterne,

che se potesse equivocare un dio,

deluso all'improvviso

crederei questo loco il paradiso.

O Tempe, o vaga Tempe,

sito delle delizie,

prospettiva del cielo,

pompa dell'universo,

metropoli di Flora,

bel teatro d'aprile

scena di primavera, idea degl'orti.

 

 

Il fiume mormora,  

l'acque sussurrano,

le frondi brillano,

con dolce saltellar l'acque zampillano.

Soave musica,

concento armonico,

gli augei gorgheggiano,

e col canoro fiumicel gareggiano.

 

 

Umanità mortale,  

ben sei cieca ignorante,

se dalle forme del tuo basso mondo

non argomenti il bel, che lassù regna,

che se qui, dove alfine

dividono tra lor la morte, e 'l tempo

le spoglie della vita,

son le cose sì belle,

quale stimi lassù l'Etra, e le stelle?

Dirimpetto a' tuoi sguardi

stanno i terreni oggetti

quasi perpetui cenni,

che t'additano il bel dell'alte sfere.

Le più belle pitture

stanno sempre velate

da preziosa, e nobile cortina;

in questa guisa appunto

delle pompe del cielo

la luce è la pittura, e il mondo è il velo.

Or pensa, or pensa tu,

la beltà, ch'è lassù,

e quali sian quelle mirabil opre,

s'è così bello il vel, che le ricopre.

Ma vo' per mio diporto

per questo bosco esercitar gli strali,

e quest'arco famoso,

che distrugge i pitoni, e atterra i mostri,

voglio incurvar contro le serre erranti.

Oprar certo bisogna,

che come star non ponno uniti insieme

la memoria, e l'oblio,

così mai s'avvien l'ozio con dio.

Voi ritornate, o mie dilette muse,

del sacro monte alla beata cima.

Di vostra pura ed immortal bellezza

innamorate i peregrini ingegni.

Ogni nobile fronte per voi sudi,

perché vincon la morte i vostri studi.

 

CORO

Sulle rive d'Ippocrene,    

sotto l'ombra di bei mirti

nube va;

resta solo, caro Apollo,

senza te la nostra schiera

ben non ha.

Torna tosto, torna Febo

orna il colle, illustra il fonte

di splendor;

la Tessaglia non ritardi,

e non rubi agl'occhi nostri

i raggi d'or.

Armonia di glorie, e lodi

celebrando il tuo decoro

canterà,

il tuo nume da noi tutte

veri ossequi, umili affetti

sempre avrà.

Da te pende, da te nasce

quel che l'uom dopo la morte

vivo fa,

quell'onor che tu comparti

per girar di lustri, ed anni

fin non ha.

Tutto invecchia, tutto cade,

si corrode il duro bronzo,

e 'l marmo fin;

la virtù contrasta sola,

con l'etade, con la morte,

e co 'l destin.

S

 

Apollo, muse ->

 

Scena seconda

Alfesibeo.

<- Alfesibeo

 

 

Ahi, che gli studi, e l'arti  

praticati da me più d'una volta,

per intender il sogno,

che trasformò in un arbore una ninfa,

mi vaticinan precipizi, e mali.

Il cielo in varie guise

parla con noi mortali.

Son le sue voci, e fulmini, e comete,

e terremoti, e sogni,

e tutto quello, che trascende e varca

l'uso della natura,

col partorir de' mostri

vien per addottrinar gl'ingegni nostri.

La ninfa trasformata in verde pianta

accenna, che le pertinace umane,

che sprezzano del ciel la voce eterna

sono alfin castigate,

e in selce, o in duro tronco trasformate.

Deh voglia il cielo, ch'oggi

la Tessaglia non vegga

spianato il sogno in nostro danno espresso.

Cerco la vecchia per narrarle il caso,

né so, dove trovar la possa: in tanto

cielo pio divertisci il nostro pianto.

 

Alfesibeo ->

 

Scena terza

Amore, Apollo.

<- Amore, Apollo

 

AMORE

Io voglio certo  

far le vendette

della mia genitrice;

a questi dardi,

a questa face

ogni grand'opra lice.

Voglio ch'Apollo

senta nel core

del mio poter la forza,

perché 'l mio foco

dove si apprende

non mai non mai, s'ammorza.

Tra queste selve

per suo diporto

Apollo vien talora;

voglio ferirlo

con questo dardo,

per beffeggiarlo ancora.

Ei fa del grande,

superbie adopra

contro la mia possanza.

Oggi sper'io,

che sua alterezza

debba cangiar usanza.

 

APOLLO

Vanne, Amor, col tuo dardo  

a ferir l'ombre, a saettar i venti,

nudo guerriero,

soldato in fasce

Marte bambino,

campion lattante,

gran cavalier, che pargoleggia in culla,

nume pigmeo dell'ozio, e dio del nulla.

 

 

Io so d'arco, e di strali  

esercitar onnipotenti prove,

e all'utile comun donar le forze.

Eccoti là tra 'l sangue, e tra 'l veleno

estinto di mia mano

in gloriosa, e nobile tenzone

l'orribile pitone;

quel mostro de' serpenti

peste delle contrade,

terror dell'universo

oggi con breve guerra

ho pur co' dardi miei confitto in terra.

Io ch'Apollo mi chiamo

con opere sì belle

quasi con vivi, e lucidi colori

la mia divinità dipingo, e mostro

agl'occhi de' viventi,

e mi acclaman lassù l'eterne menti.

 

 

Vanne, Amor, col tuo dardo  

a ferir l'ombre, a saettar i venti.

 

AMORE

Così, Apollo, tu mi chiami  

un imbelle garzoncello

scioperato, e sfacciatello?

Che sì, Febo, che sì

che ti faccio pentire in questo dì.

Così picciolo, e minuto

come appunto tu mi vedi

ho sconvolte ognor le fedi

e degl'uomini, e del ciel.

Oggi tu ancora mi sarai fedel.

Con la punta pargoletta

del men forte de' miei dardi,

vuò far sì, che pianghi, ed ardi.

Tu non me 'l credi no?

Proverai, sentirai s'io lo farò.

Tu se' Apollo, tu se' il sole,

sei chiamato il biondo dio,

ma che forse non son io

del tuo nume assai maggior,

ti pentirai d'aver schernito Amor.

 

APOLLO

Vanne in grembo alla mamma,  

va', va'

e fuggi il caro latte, il dolce umore;

non t'adirare Amore,

sdegno sì picciolo

sì angusta collera

il riso movono;

quando mai videsi

da un'ira minima

nascer l'ingiuria.

 
(qui Amor ferisce Apollo, e fugge via)

Amore ->

 

Scena quarta

Apollo, Dafne.

<- Dafne

 

APOLLO

Ma che veggio, che scorgo?  

Ohimè che dolce raggio

lampeggiator di glorie agl'occhi miei

balenator d'imperïosa luce

veggio tra quei cespugli?

O bellissimo viso,

o ninfa leggiadrissima, e gentile,

questa è la vaga Dafne,

la stella delle selve

la deità novella

d'ogn'altra ninfa bella.

Ahi come in un momento

ferito il cor mi sento,

ahi come in un istante

amor da me oltraggiato

avventa in me l'acute sue saette,

e vede nel mio mal le sue vendette.

Bella ninfa

volgi il guardo

saettami sul core un raggio omai

di quei soli gemelli,

ch'a questo caro dì fan doppio lume,

stampa sol col mirarmi

un paradiso novo

su quelle luci mie;

passi, e venga l'imago

del tuo bel viso ad arricchirmi il core,

e vinca te, se già me vinse Amore.

 

DAFNE

Più tosto cadami  

dal seno il cor,

che persuadami

voce d'amor.

E perché tu t'accorga,

ch'io non voglio ascoltarti,

impenno l'ali al piè

fuggo da te.

Più tosto cadami

dal seno il cor,

che persuadami

voce d'amor.

Venti sull'ali vostre

portate il corso mio,

perché non vuò ascoltar,

chi vuole amar.

Più tosto cadami

dal seno il cor,

che persuadami

voce d'amor.

 

APOLLO

Dafne, chi ti consiglia  

a fuggir sì veloce

da me, che sono un dio?

Ferma gl'alati passi,

acciò che le mie braccia

ti possan far dolce catena al collo;

gradisci omai l'innamorato Apollo.

Apollo io son, quel biondo

indorator de' giorni,

distinguitor dell'ore,

delle stagioni padre,

de' pianeti monarca,

mastro dell'armonie, nume de' carmi,

piegati dunque, o Dafne, a consolarmi.

 

 

Io sono il sol, e miro  

me medesimo diviso

nelle tue luci ladre.

 

 

Vorrei pur con un bacio

recuperarmi, o cara,

con tentativi amorosetti, e novi,

lascia ben mio, ch'in te me stesso io trovi.

Suol la turba devota

baciar umilmente

le immagini dei dèi,

or vedi, o Dafne, vedi,

qual ventura t'innalza,

mentre d'amor l'acuto stral mi tocca,

tu puoi d'un vivo dio baciar la bocca.

Metamorfosi strana,

appendono i mortali

voti alle deitadi,

e io pur son condotto

idolatrante dio

tra singulti di foco, e pianti amarmi

mia bella Dafne, a fabbricarti altari.

La deità, che valmi,

se una donna m'accora?

Ma s'è pur mio svantaggio

l'esser nume celeste,

io mi disimmortalo

diseterno me stesso, e in dolce sorte

per goderti cor mio soccombo a morte.

Ah Dafne, ah fuggitiva,

al mio dispetto io devo

viver eternamente;

non posso andar in polve:

non ponno gl'alabastri

delle tue mani immacolate, e pure

esser le mie soavi sepolture.

 

 

Non fuggir mia diletta

volgimi un guardo solo,

mostrami per passaggio

un lampo ancorché irato

di quei beati lumi.

 

 

La mia luce abbagliar le viste suole,

or nelle stelle tue s'abbaglia il sole.

Accogli, accogli un solo

de' miei sospir dolenti,

bevi un semplice sorso

delle lagrime mie,

che diranno al tuo core,

ch'a tua beltà nata a ferir gli dèi

inchino lo splendor de' raggi miei.

 

DAFNE

Lascia Apollo ogni speranza,    

torna in ciel, se tu sei dio,

non tentar la mia costanza,

ch'ascoltar non ti vogl'io:

porta in pace i tuoi martir

verginella io vuò morir.

Se dei giorni il lume sei

l'occhio destro di natura,

non voler, che gl'onor miei

sian sepolti in notte oscura,

nato sei per illustrar,

e me sola vuoi macchiar?

Tu sei biondo, come l'oro,

e mia fama vuoi far negra,

di salute è il tuo tesoro,

e vuoi farmi inferma, ed egra,

l'uom mortale or che farà,

s'è sì rea la deità?

Delle sante verginelle

tu sei pur l'eccelso nume,

come vergini son elle,

se lascivo è il tuo costume?

Se impeccabile sei tu,

non mi usar insidie più.

Ma ostinato più che mai

deflorar vuoi mia bellezza,

vuoi col lampo de' tuoi rai

abbagliar mia debolezza.

Se nel labbro ho dolce il mel,

non vuò darlo a te crudel.

S

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Dafne ->

 

Scena quinta

Apollo.

 

 

Era miglior consiglio,  

ch'io non mi dimostrassi

esser nume celeste,

che men mi graverebbe

un sì grato disprezzo.

E pur al mio dispetto

la maestade lesa

la mia grandezza offesa

è sforzata patir l'ingiurie, e l'onte.

Orme d'un piè rubello

pur v'inchino, e vi seguo,

e per forza d'amor pongo in oblio

la vostra colpa, ed il ludibrio mio.

 

Apollo ->

 

Scena sesta

Cefalo, Aurora.

<- Cefalo, Aurora

 

CEFALO

Dunque tu vuoi partire?  

Saran dunque, ben mio,

le nostre giocondissime dolcezze

infrequenti spezzate,

e da rapidi istanti misurate?

A pena il cor risorge

dagli andati sospiri,

ch'a sospiri mestissimo ritorna.

Ohimè restano oppressi inabissati

i brevissimi nostri godimenti

da una serie infinita de' tormenti.

AURORA

Soffre, e taci mio caro,

che mentre da te parto,

tutto ch'io sia immortal, sento la morte.

E 'l viaggio, ch'io tento verso il cielo

mi par una discesa al cupo inferno.

CEFALO

Io resterò tra queste oscure chiostre

destituto piangente,

peregrin sospiroso,

e tu godrai del tuo diletto sposo.

 

AURORA

No no, Cefalo, no  

te sempre bramerò d'aver in seno,

la memoria di te

sarà perpetua in me,

non dubitar ohimè,

nel pensar di lasciarti io vengo meno.

Più spesso, che potrò

a te discenderò mia sola spene,

nessun oggetto in ciel

(sia pur quanto vuol bel)

dal mio core fedel

torrà l'immagin tua mio dolce bene.

Vanne mio solo amor,

vanne mio vero cor, Cefalo mio.

Qui mi nasconderò,

e Apollo aspetterò,

la lingua, e non il cor ti dice, addio.

Addio, Cefalo, va',

ahi che partir non sa, da te il mio piede.

Penoso palpitar

questo cor vuol spezzar,

ma alfin conviene andar,

teco resta il mio pianto, e la mia fede.

 

Aurora ->

CEFALO

Non t'asconder diletta,  

che 'l tuo lume ti accusa, e ti palesa,

tua bellezza immortale

illumina le tenebre, e non puoi

nasconder il tuo nume,

se de begl'occhi tuoi non spegni il lume.

 

Ecco rimango solo, ecco finito  

su 'l meriggio il mio dì, chi mi consola?

Pensiero innamorato or corri, or vola

al tuo bene ineffabile infinito.

Mentre me n' vo per solitarie vie

ramingo, gemebondo, e senza vita,

mendico d'ogni ben chiedendo aita

a' miei cordogli, e alle angosce mie.

Per una dea patisco: adunque viene

dal mio dolor la gloria, ed il decoro:

se per cosa immortal languisco, e moro,

martirio illustre, e glorïose pene.

 

 

Chi per bellezza nobile, e sublime

diffonde pianti, e pubblica lamenti,

veste di maestade i suoi tormenti,

e in marmo eterno il proprio nome imprime.

 

Scena settima

Procri, Cefalo.

<- Procri

 

PROCRI

Ove, Cefalo, ascondi  

il rossor, che t'accusa,

quel sangue che le guance ti colora

scampa dal tuo cor empio

e corre nel tuo volto

a scriver le querele

contro l'anima tua più che infedele.

O de' miei fidi amori

de' miei costanti affetti

ingrato, iniquo, e perfido compagno,

delle lagrime mie questo è 'l guadagno?

Se 'l mio nome disturba

il seren di tua pace,

consegnalo all'oblio,

e tua memoria intanto

si degni di lavarsi entro al mio pianto.

CEFALO

Violenza di cielo

ha provvisti di scuse i falli miei.

Ove una dea m'alletta,

non s'adiri una ninfa,

e ceda pur con retto e giusto esempio

la piaggia al cielo, e la capanna al tempio.

PROCRI

Quell'amor che ti scalda per l'Aurora,

è quel medemo nume

che per me ti scaldò;

se lo stral, ch'or ti punge, è stral d'un dio,

anco quella saetta

che per me ti piagò,

fu saetta divina.

Amore è nume uguale a tutti i cori:

or tu dal ciel non mendicar ragioni

sono odiosi tutti i paragoni.

CEFALO

Se Amor per te piagommi,

ora m'ha risanato,

la seconda ferita

ha saldata la prima,

ma non s'incolpi d'incostanza un core,

non sempre adopra un solo dardo Amore.

PROCRI

Vesti, o Cefalo, vesti

di studiati arnesi il tuo misfatto,

che quanto più l'adorni

deformità gli accresci.

CEFALO

Ti torno a dir, che il ciel ha fatto forza.

PROCRI

Ogni reo per salvarsi incolpa il cielo.

CEFALO

Dunque amar una dea stimi peccato?

PROCRI

Dunque non è peccato il tradimento?

CEFALO

Traditore son io, perché non t'amo?

PROCRI

Chi promette, e poi manca, è un assassino.

CEFALO

Se promisi d'amarti, io già t'amai.

PROCRI

Non è perfetto amor, se non eterno.

CEFALO

Ma come dessi eternitade in terra.

PROCRI

Con l'anime s'eterna un vero amore.

Ma teco io non contrasto,

e parto accompagnata

da disperate angosce.

Tu con l'Aurora intanto ti consola,

ch'io vado afflitta, desolata, e sola.

 

Procri ->

 

Scena ottava

Cefalo solo.

 

 

Quanto a ragion costei  

si lamenta di me; ma che poss'io?

Pietade mi commuove a segno tale,

che sopra ai suoi lamenti io piangerei,

ma l'affetto che m'arde per l'Aurora

ad ogni altro rispetto in me sovrasta,

così l'amor con la pietà contrasta,

e mentre fra di lor vibrano i colpi,

l'anima mia, che si vuol porre in mezzo,

per sedar la lor lite

in sé stessa rileva le ferite.

Miserabile Procri,

t'ho abbandonato, è vero,

e de' miei dolci pianti per te sparsi

l'oblivïone disseccò le vene.

Merita compassion la tua fortuna,

ma non merta castighi il fallo mio;

fallo però non può chiamarsi, quando

l'umano sentimento

lascia un oggetto, che finisce in polve,

e alla divinità s'innalza, e volve,

ohimè qual grave errore

ho commesso impegnando

il mio pensiero in compatir la ninfa,

e distornando il core

dall'adorar la dèa.

Procri il cor mio più non ti compatisce,

Aurora, a te l'anima mia s'unisce.

E voi lagrime mie

per la pietà di Procri già venute

a scrivermi sul viso

caratteri dolenti, e lamentosi,

perdon chiedete or ora

alla mia bella Aurora.

Non ha per sostentar più d'un Amore

sostanze equivalenti un solo core.

 

Fine (Atto secondo)

Prologo Atto primo Atto secondo Atto terzo
Apollo, muse
 

Discendo dall'Olimpo

Umanità mortale

Apollo, muse ->
<- Alfesibeo

Ahi, che gli studi, e l'arti

Alfesibeo ->
<- Amore, Apollo

Io so d'arco, e di strali

Apollo
Amore ->
Apollo
<- Dafne

Ma che veggio, che scorgo?

Dafne, chi ti consiglia

 

Apollo
Dafne ->

Era miglior consiglio

Apollo ->
<- Cefalo, Aurora

Dunque tu vuoi partire?

Cefalo
Aurora ->

Non t'asconder diletta

Cefalo
<- Procri

Ove, Cefalo, ascondi

Cefalo
Procri ->

Quanto a ragion costei

 
Scena prima Scena seconda Scena terza Scena quarta Scena quinta Scena sesta Scena settima Scena ottava
Prologo Atto primo Atto terzo

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