Signor poeta mio,  

voi siete un capo ameno;

l'affar né più, né meno

sta come vi dich'io:

il signor conte vuole

che musica e parole

sien fatte in quattro dì.

Avete inteso male.

Conosco il conte Opizio,

che dar vuol questa festa;

è un uomo di giudizio,

né può venirgli in testa

idea così bestiale,

ridicola così.

S'ella un po' più m'inquieta,

trovo miglior poeta.

Caro signor Maestro,

non si comanda all'estro.

Ma cieli! che sproposito!

Un dramma in quattro dì?

La cosa è arcipossibile,

e deve andar così.

Vorrei pria condur l'aratro

ch'esser mastro di cappella.

Meglio è far il pulcinella,

che il poeta di teatro.

Or tant'è; decidete: sì, o no.  

Dunque credete che parole, e musica

si possa in quattro dì...

Circa a la musica

non ve ne date pena, ella è già pronta.

E voi sol vi dovete

le parole adattar.

Questo è l'istesso,

che far l'abito, e poi

far l'uomo a cui s'adatti.

Voi signori poeti, siete matti.

Amico, persuadetevi; chi mai

credete che dar voglia attenzione

alle vostre parole?

Musica in oggi, musica ci vuole.

Ma pure questa musica conviene

ch'esprima il sentimento o male, o bene.

La mia musica ha questo d'eccellente,

che può adattarsi a tutto egregiamente.

E gli attori chi son?

Non so finora,

ma il signor conte Opizio

l'altr'ieri mi parlò d'una famosa

insigne virtuosa,

almen per quanto ei dice, ed io lo credo,

perch'egli, (e questo ancor lo so da lui)

ha un singolar talento musicale.

I signori san tutto.

È naturale.

Avrei a tal proposito da farvi

una proposizion.

Via dite su.

Ma non vorrei che ve l'aveste a male.

Oh, che diavol sarà?

Proposizioni ognuno far le può.

L'affar consiste in accettarle o no.

Un principe qua c'è

che ha gran bontà per me;

ma un principon coi baffi, il qual vorrebbe

in qualche occasion da farsi onore,

come appunto sarebbe la presente,

al pubblico produrre una ragazza

brava in genere buffo,

ma veramente brava, e di più onesta,

per cui ha molto impegno.

È amica vostra?

Sì.

Cattivo segno.

Perché?

Non dico già... ma... son idee.

Ditemi in confidenza,

il vostro signor principe vorrebbe

or con buona maniera uscir d'impegno,

ed accollarla a me; non è così?

Dite il vero.

Anzi no; ma se riesce,

promette un regaletto

di cento bei zecchini; e voi vedete

che un cento di zecchini a' giorni d'oggi

non è da ricusarsi.

Io non ricuso

cento zecchini: ma...

Pian piano, amico:

questi si devon ripartir fra noi;

cioè cinquanta a me, cinquanta a voi.

Amico: l'interesse

non è la mia passion; ma pur dovreste

pensar che la fatica è tutta mia.

Onde parrebbe giusto,

che la ripartizion far si dovesse

con un po' d'equità distributiva.

Cioè?

Per me novanta, e per voi il resto.

Cotal ripartimento è molto onesto.

Venga avanti.

Io, per servirla.

Grand'aria!

Io non ci son per nulla.

Ed ella, in grazia?

Ah, ella è quella signora

celebre virtuosa,

che il signor conte Opizio...

(Sta a vedere che gli accorda

la sua protezion.)

Gran sorte senza dubbi, mi figuro

ch'ella avrà fatti de' teatri.

Che sono i pezzi duri?

Non capisco.

Dunque pezzi duri eh?

(sorridendo ad Eleonora)

Io no.

Neppur.

Oh, non ne dubito.

Il merito, signora, fa gran cose.

Massimamente nelle virtuose.

Questo è un po' forte.

Come? Sei volte!

Sei volte, e non seccar; questo è un gran merto.

Ma mi dica: e qual genere...

Epponina!

Epponina!

Nel Giulio Sabino?

Guardate che accidente!

Ancora qui s'è data ultimamente.

La parte di Sabino

l'ha fatta un gran cantor.

Canarino.

A questo poi bisogna

cavarsi di cappello.

Non v'è che dir.

Oh, questo è molto dir.

(al poeta)

Ell'ha ragione.

(prende, ed apre lo spartito)

Giusto ho qui lo spartito; ed ecco qui

la prima cavatina di Salieri,

che comincia: Pensieri...

Vorrebbe ella far grazia?

Scusi: ma par che si dovria dar qui  

maggior espression.

Così.

(fa sconciamente un altro passaggio)

È il poeta.

Sapete, amico, che un passaggio istesso

può variarsi spesso.

O in meglio o in peggio.

Lo scusi: ha la comune qualità

di mostrar di saper quel che non sa.

Vuol l'aria di bravura?

Eccola qua: vogliam sentirla

col suo recitativo strumentato?

(voltando lo spartito, e accennando un poco sottovoce il motivo dell'aria)

Oh, meglio.

Qui?

(muta luogo)

Qui?

(in positura)

Così?

Non pensi.

(interrompendola)

Non sia, signora, per darle molestia.  

Qui un contrassenso v'è.

Non saprei.

Cheto: ognuno ha i sensi suoi. ~

Non gli dia retta, in grazia.

Brava; seguiam: Là tu vedrai chi sono.

Oibò oibò.  

Cos'è?

Ho sentita una brutta alamirè.

Ma tacete una volta.

Signora, compatitelo: è poeta;

ed apparir vi deve

sempre il lampo poetico.

Ma sentiam, se le aggrada,

qualche pezzo patetico.

Sì, sì, sentiam.

Stupenda...

(canticchiando e toccando il cembalo)

Compatite i casi miei.

Cheto voi, tocca a lei.

Subito ve la trovo... eccola giusto.

(scartabellando lo spartito)

Un rondò? Ci ho proprio gusto.

Una difficoltà solo ci trovo.

Or cosa c'è di nuovo?

Mancano i figuranti.

Non siamo tanti.

Oh che bei figliolini!

E chi accompagnerà?

E l'accompagnamento si suppone.

Ed Annio e la consorte?

(levandosi dal cembalo)

Oh che gran testa.

Cari oggetti...

Chetatevi: Sabino

esser deve un soprano,

e voi parete un toro transilvano.

Non fiato più.

Il quadro è un po' buffone.

Zitto.

Che colpa abbiam?

Vossignoria si slunghi.

A questo modo?

(si abbassano)

Non si può andar più giù.

Mi scappa fuori un osso.

La cintola si strappa.

Son tua colpa i mali tuoi.

(ritorna al suo posto)

Caro sposo, oh dio! tu piangi...

È virtù l'imitar gli esempi buoni.

(stando accovato)

Per pietà, finisca omai.

Gran seccata che è costei!

Casco casco.

Casco anch'io.

Compiangete il dorso mio,

che si è fatto un bel tumor.

Compiangete il naso mio,

che se è intero, è uno stupor.

Ohimè! son direnato.

Poco mancò non ammaccassi il naso.

Veramente ora mai noi siam nel caso

di far meglio da padri, che da figli.

Alfin la prova ha terminato in buffo.  

Io già temea che terminasse in serio.

Non può però negarsi, che costei

non sia cantante, e comica eccellente.

E soprattutto per stroppiar la gente.

Ora non più discorsi.

Non v'è tempo da perdere.

Lo credo;

quattro dì.

Così è.

(tirando fuori della carta di musica)

Dunque dovete

trovar primieramente

parole per quest'aria.

Difficile sarà.

Oh, non mi state a far difficoltà.

Non si conosce qui.

Otto o dieci anni sono

la composi in Forlì sulle parole:

«Se possono tanto

due luci vezzose»...

Credo, che andrà d'incanto.

La musica è superba,

e deve far del chiasso, e messa bene,

vedrete, che qui ognuno se la becca

per nuova, anzi nuovissima di zecca.

Son versi di sei sillabe: vediamo.

(osservando e contando le sillabe tira fuori uno scritto)

Giusto un tragico dramma ho per le mani

intitolato: «I vespri siciliani».

(ponendo l'occhio sullo scritto)

Uh, quanti attor!

Ne feci

quindici, ma di questi muoion dieci:

cerchiam, se vi è qualche aria al caso nostro.

Eccone una: è bellissima.

(legge)

«Ferma, oh dio! non son francese»...

Vi son di più due sillabe.

Non c'entra.

Avanti.

(voltando foglio)

Eccone un'altra.

(legge)

«A che proposito

vuoi tu ammazzarmi?»

Versi di cinque sillabe: passiamola.

Oh questa andrà benissimo.

Sentiamola.

«Se questo mio pianto,

se questo mio canto

ancor non espugna

quel barbaro sen,

via sfodera, impugna

quel ferro spietato,

e questo costato

trafiggimi almen.»

(confronta l'aria con la musica)

Bravissimo: or va bene...

però mancan due versi.

Aggiungergli conviene.

Questo sarà un imbroglio.

Piuttosto si potria...

No: ce li voglio.

(pensando, cercando il verso)

«Se questo... mio... pianto...

non mi... non ti...» non va.

Su via coraggio.

«Il cor...» Eccolo qua.

«Il cor non ti tocca.»

(scrive)

Ottimamente: «non ti tocca»; all'altro.

Qui bisogna trovar la rima in occa.

Non ho il rimario addosso;

ma farò come posso.

(cercando la rima)

«Rocca... sciocca...»

Ben ben.

«Trabocca... bocca...

Questo canto di bocca.»

Sì, sì: così va bene.

«Se questo mio canto

che m'esce di bocca...»

(scrive)

«...di bocca», è uno stupor: gran cervellaccio!

Quel vostro scartafaccio

datemi intanto, e discorriamo un poco.

Se il vostro signor principe lo brama,

vedo, che non potrem disimpegnarci

di prender questa buffa.

(Ah! ah! già fatto

hanno i cento zecchini il loro effetto.)

Ma l'una è buffa, l'altra è seria: or come

potrem metterle insieme?

Eh, veramente

facil non è.

Pensateci un tantino:

impasticciate su qualche cosetta.

Via, via, lesto, da bravo.

In tanta fretta

non si può far nulla di buon.

Che importa?

Tanta musica ho qui già bell'e fatta;

di farvi le parole sol si tratta.

Ma possibil vi par?

Tanto ci vuole

per far quattro parole? ricordatevi

che dée tutto esser fatto in quattro dì.

E sempre siamo lì.

Su questo poi

il signor conte Opizio è inesorabile.

Zitto: vediam se qui trovo qualche aria

che possa convenir.

(prende un'aria)

Sentite questa.

(legge)

«Capitan di due sciabecchi

sopra l'alpi guerreggianti»...

Che sproposito!

Udite: eccone un'altra.

(prende, e legge un'aria)

«Se prigione andasse il sole,

che sarebbe delle stelle?»

Peggio assai.

Troverem delle più belle.

«Per pietà, padrona mia,

per pietà non v'affliggete»...

Questa potrebbe andar.

Ebben, tenete:

eccovi carta, calamaio, e penna;

(li accosta ad un tavolino, e gli dà da scrivere)

ponetevi costì a tavolino.

Trovate qualche idea, qualche pensiero

per porli entrambo insieme:

cotest'aria aggiustate,

acciò provar si possa

quando verrà la buffa.

E così su due piedi...

Su due piedi, o su tre, convien sbrigarsi.

Su, su, coraggio: intanto

a quest'altr'aria io le parole adatto.

Ma...

Spicciatevi voi, che anch'io mio spiccio.

Un pasticcio si vuol? Sarà un pasticcio.

(col cembalo)

«Se questo mio pianto  

il cor non ti tocca»...

Qui v'è fin l'istessa rima,

a puntin tutto convien.

(pensando)

Quel che comico era prima,

farlo eroico convien.

«Se questo mio canto

che m'esce di bocca»...

Ciò benissimo confronta

e ne son contento appien.

Ecco qua l'idea già pronta

e ne son contento appien.

«Ancor non espugna

quel barbaro sen»...

Io mi sento alquanto sete.

Un sorsetto farà ben.

(va al tavolino, ove son le bottiglie, empie un bicchiere, e beve; poi torna al cembalo)

Dove leggesi «affliggete»,

«ammazzate»... ed andrà ben.

(leggendo la scrittura del poeta)

Che carattere bisbetico!

Proprio stizza mi ci vien.

Ho un cervel proprio poetico,

tutto facile mi vien.

«Via sfodera, impugna

quel ferro spietato»...

Cosa diavolo qui dice?

Il pensiero è pur felice!

Non v'è a dir: dice «castrato».

Ecco tutto terminato.

Rileggiamolo un pochino.

Ah! sì sì: Giulio Sabino

è un soprano: or mi sovvien.

«E questo castrato

trafiggimi almen.»

«Castrato»! cosa diavolo mai dite?  

Dico come sta scritto.

(sentendo gli ultimi versi cantati dal maestro, si leva e bruscamente se gli accosta)

Oibò! «costato»

sta scritto, e non «castrato».

«Castrato» va benissimo, e non cangio.

Eh, che burlate?

Quel che scrissi, scrissi.

Ma che? Siete impazzato?

«Castrato» scrissi, e resterà «castrato».

E poscia si dirà che fu il poeta

che fe' tal scioccheria.

Né la prima, né l'ultima saria.

Più a questo non si pensi; ora sentiamo;

cosa avete voi fatto?

Ho fatto ciò che non parea possibile,

ho buffa, e seria unite

a meraviglia insieme.

Udiam.

Sentite.

Fingo una bella, e giovin principessa

sposa, e gravida già d'un figlio maschio.

V'è il solito tiranno,

che già lo sposo ha condannato a morte,

perché ama la consorte,

e al solito non può ridurlo al quia.

È una bricconeria:

e allor la principessa?

Piange, prega:

ma quel crudel non piega.

Poveretta!... sicché?

Sicché va in stanza, smania, si dispera,

e si vuole ammazzar.

Ah!

Onninamente:

ma poi non ne fa niente.

Perché la cameriera

allegra, anzi buffona,

ma della sua padrona

confidente primaria,

per divertirla un po', canta quest'aria:

«Per pietà, padrona mia,

per pietà non v'ammazzate,

ch'è una gran minchioneria.

Queste sono ragazzate,

e può farsene di men.»

Bravo!

Sentite il resto.

«Deh lasciate che si ammazzi

qualche brutta, o scioccherella;

ché l'uccidersi è da pazzi,

sia col ferro, o col velen.»

Graziosa in verità.

Mo viene il buono.

«Voi dovete star nel mondo,

voi, che siete savia e bella,

voi, che avete il sen fecondo,

voi, che avete un figlio in sen.»

Superba! superbissima!

E così?

Non son un uom?

Quasi direi di sì.

Allegramente dunque.

Ite a prender colei

delli cento zecchini;

conducetela qui,

e si vedrà cos'è.

Vado: se preme a voi, preme più a me.

(parte)

La cosa va prendendo buona piega.  

Eppur questi poeti,

sapendoli dirigere a mio modo,

si potria forse forse

ridurli ad esser buoni a qualche cosa.

Basta sol, che depor voglian la sciocca

idea, che tutto il mondo

deggia far conto delle lor parole.

Eh... ci vuol altro: musica ci vuole.

Ecco un'aria a buon conto: a Eleonora

or or la manderò: vediam quest'altra.

«Per pietà, padrona mia,

per pietà non v'ammazzate»...

Ah! ah!... Così... d'incanto,  

egregiamente bene:

a le parole il canto

benissimo conviene.

Or passiam dal copista,

acciò speditamente

a quest'altr'aria adatti

i cangiamenti fatti:

e avanti i quattro dì farassi il resto:

in somma non fa ben, chi non fa presto.

Non so: ma poco

dovria tardar: ei sa, ch'io qui con voi

dovea venir.

Dunque, Tonina mia, tanto v'annoia

di star meco un pochino.

Ma sapete ch'io vi amo.

Gran castigo è l'amarvi.

Non v'alterate.

Ma voi mandate tutto alla malora.

Tonina mia, ma che dirà il Maestro?

Fuori del desinar bever non posso.

(empie un bicchier e l'assaggia)

Ma Tonina...

Via, beviamo...

(assaggia un poco)

Stomacar mi farete.

Che martirio.

(beve con atto di disgusto)

Ora, Tonina...

Signor Poeta,  

e la buffa?...

(vedendo la musica per terra si adira contro il Poeta)

Cos'è?

O poveretto me! tutta sossopra

è la musica mia. Che avete fatto?

Diavol! che siete divenuto matto.

Non son stat'io.

Chi dunque?

(accennando Tonina)

Eccola...

(rivolgendosi)

Chi? che miro!

Chi è qui col mio mantello?

È appunto...

Il mio mantello, il mio cappello buono!

Non era alcuno in stanza...

Scusate...

Ma voi...

Giudizio,

Tonina.

Misericordia!

Costei tutto rovina, ed abbaruffa.

Un diavol mi par, non una buffa.

Dissimulate in grazia

di quei cento... capite?

Sì... ma intanto...

Via, che avete ragion.

Oh bella!

Or sta a veder, ch'io torto avrò, non ella.

Orsù, tronchiam questi discorsi, e omai

parliam di ciò, che importa più.

Quai sono

i caratteri suoi più favoriti?

È tutta roba, che l'abbiam veduta.

Si vorria qualche cosa nuova, e bella.

Oh cari quei caratteri!

Deliziosi, è ver: ma, poco o nulla

conoscendosi qui gli originali,

non si posson gustar.

Son vari i gusti.

Ma poi il più bello è che ciascun pretende

essere il gusto suo miglior d'ogni altro.

La papera?

Sì, squacquera.

Cioè?

Bella esser dée la scena.

Né dovrebbe costarvi una gran pena.

Pare ossessa.

E chi sa che non lo sia.

Per carità, finite questa scena.  

Eppur non la fa male.

Anzi un pochetto troppo al naturale.

Io per me ne ho già abbastanza.

Tonina, dite un po': vi ricordate

di quella cavatina,

che giusto ier mattina

fe' rider tanto il principe?

Cessate in grazia, ché mi fate pena.  

Vedete ben, ch'ella sa far di tutto.

Ella saprà che qui

dée darsi un'operetta in quattro dì.

Se però si compiace

d'accettare una parte, evvene appunto

una per lei, che parmi

moltissimo a proposito.

Ella è una cameriera allegra, e scaltra,

che divertir procura la padrona,

e toglierle il pensier, che ha d'ammazzarsi.

Giusto ho un'aria qui pronta.

Volentieri: è un allegretto.

Sentirete, maestro, sentirete

come ella canta all'improvviso.

Dunque a noi.

Signora mia... scusate, un sol momento...

Subito torno.

Subito; quando sbrigo

quell'altra virtuosa, e son da lei.

(va per mettersi di nuovo al cembalo)

È una buffa eccellente.

(accostandosi a Tonina)

Adesso.

Quell'è donna Eleonora

che ora vien di Spagna.

Aspetti un poco.

Quella signora ha cominciato omai.

(Qui nasce uno scompiglio.)

Or se tutti son d'accordo,  

se nessuno è muto, o sordo,

se la musica è già pronta,

se il libretto non si conta,

se il vestiario, se scenario,

se gli attori, i sonatori,

se ogni cosa in somma è lesta,

se chi paga e dà la festa

vuole, ed ordina così,

sarà cosa facilissima

di far l'opra in quattro dì.

Grazie al ciel, che la ragione

alla fin l'ostinazione

d'un poeta convertì.