www.librettidopera.it

La Flora

LA FLORA

Favola rappresentata in musica.

Versione sintetica a cura di www.librettidopera.it.

Da qui accedi alla versione estesa del libretto.
Da qui accedi alla versione in PDF del libretto.

Codice QR per arrivare a questa pagina:
QR code

Libretto di Andrea SALVADORI.
Musica di Marco DA GAGLIANO.

Prima esecuzione: 14 ottobre 1628, Firenze.


Personaggi, che intervengono:

IMENEO fa il prologo

tenore

MERCURIO

contralto

BERECINZIA dèa della terra

soprano

ZEFFIRO vento di primavera

soprano

VENERE

soprano

AMORE

soprano

CLORI ninfa de' campi toscani, chiamata poi Flora

soprano

CORILLA ninfa sua compagna

soprano

PANE dio de' pastori

tenore

LIRINDO pastore amante di Corilla

tenore

TRITONE dio marino

tenore

Pasitea, Aglaia e Talìa, LE TRE GRAZIE (soprani)

altro

PLUTONE

basso

EACO giudice infernale

tenore

RADAMANTO giudice infernale

tenore

MINOSSE giudice infernale

tenore

GELOSIA

contralto

AUSTRO vento di mezzogiorno

tenore

BOREA vento di tramontana

tenore

NETTUNO

tenore

GIOVE

tenore

APOLLO

tenore


Coro di Napee, Silvani, e Satiri. Coro di Tritoni, e di Nereidi. Coro d'Amori. Coro di Deità infernali. Coro di Tempeste. Coro d'Aure.

La scena è figurata ne' campi tirreni.

Serenissimi sig.ri e padroni colendissimi

Zeffiro, e Clori, figurati dagli antichi deità di primavera, sereniss. e felicissimi sposi, hanno tanta proporzione con la vostra giovanile età, e con la gioia de' vostri cuori, che per avventura non potevano i toscani teatri, trovar canto più alle vostre reali orecchie accomodato, di quello de' loro amori. Resta, che, si come dal congiungimento di questi, per ornamento della terra, nacquero fiori, così dalle vostre fortunate nozze, per ornamento d'Italia, nascano frutti di magnanima, e bellissima prole. Io, tale all'altezze vostre augurandola, questo parto del mio sterile ingegno, mando ad essere avvivato dal serenissimo sole della vostra gloria, ed ad ambi umilissimamente m'inchino.

Dalla corte di Toscana il dì 14 d'ottobre 1628.

Di vv. aa. ss.

umilissimo, e devotissimo servo

Andrea Salvadori

Argomento della Flora

Era ordinato da Giove, che la terra a paragon del cielo, avesse le sue stelle, cioè i fiori: Questi dovevano nascere dagl'amori di Zeffiro, vento di primavera, e di Clori ninfa de' campi toscani; manda perciò Mercurio ad avvisarne Berecinzia, dèa della terra, e le ninfe de' campi. Venere intanto con tutta la sua corte sbarcata nelle rive tirrene, ode da Zeffiro il suo amore verso Clori, e l'assicura, che farà sua quella ninfa; ma Amore per un suo fine contraddicendole, e negando assolutamente, che ciò segua, è da lei con aspre parole discacciato; trovatolo allora Mercurio col canto delle Grazie, l'invita al sonno, e furandogli in quel tempo l'armi, le porta a Venere, ed ella con la saetta d'oro, che induce corrispondenza, fa innamorare Clori di Zeffiro; veggono i satiri Amor senz'armi, e lo beffeggiano, e Venere, per maggior dispetto di lui manda l'arco, e lo strale d'oro a Giove, getta l'altro di piombo, che genera odio, in mare, e per sé ritiene la face, Amore allora fieramente sdegnato fa aprir l'inferno, e ne cava la Gelosia; questa, per mezzo d'una doppia menzogna maneggiata da Pane, turba in maniera le gioie de' due amanti, che Zeffiro, scacciato da Clori, lascia i campi toscani in preda alle tempeste; cangiata allora la letizia delle ninfe in pianto, Nettuno, per timore della Gelosia, rende lo strale di piombo ad Amore, Giove la saetta d'oro, e l'arco, e Venere la face: Recuperate Amor le sue armi, scaccia la gelosia da Clori, ond'ella richiama a i suoi campi Zeffiro, il quale piange per gioia, e le sue lagrime cadute in terra divengono fiori; Clori allora mutato il suo nome in quel di Flora, augura le future grandezze di Fiorenza, così detta da lei; le muse, visto nati i fiori portano ad irrigargli il lor fonte, ed Apollo loda particolarmente i gigli, insegna di Fiorenza, e della serenissima casa di Parma.

Prologo
Scena unica

Imeneo.

Io, che con aurea face, ed aureo laccio

sereno l'aria in sì beato lume,

son il giocondo nume,

ch'in santi nodi i casti amanti allaccio,

son Imeneo, che dalle patrie stelle

discendo a due reali anime belle.

Regi consorti, giovinetti amanti

della Parma, e dell'Arno alto tesoro,

ecco il mio cinto d'oro,

i vostri serenate almi sembianti:

ecco vi lego, ecco vi stringo, ed ardo

Margherita reale, ed Odoardo.

Per questa face, o regia coppia, io giuro,

ch'io non arsi giammai le più bell'alme:

porpore, scettri, e palme,

figli, e nipoti altissimi v'auguro,

figli, che de' trionfi ornin la terra,

nestori in pace, e nuovi achilli in guerra.

Odimi tu dall'ocean difesa

d'isole ribellate iniqua fede;

già move armata il piede,

già corre Parma alla fatale impresa,

e per vincerti appien solo le basta

d'un novello Alessandro il core, e l'asta.

Tremi la Schelda, e disdegnosa impari

il giogo a sostenere Olanda infida;

veggio, ch'in van s'annida

perfido stuolo entro i fiamminghi mari;

veggio, ch'abbatte omai la rea contrada

fulmin del ciel nella farnese spada.

Gioite intanto; io quanti accolgo in seno

pregi d'Ebe, e d'Amor dispenso a voi:

gioite amanti eroi,

e 'l bel vostro desio non venga meno:

gioite lieti, avvinti palma a palma,

sen a sen, cor a core, ed alma ad alma.

Or mentre l'ore il fortunato letto

con le Grazie v'apprestino, e gl'amori,

di Zeffiro, e di Clori

sia le fiamme ascoltar vostro diletto:

permesso a gloria vostra oggi le finge,

e negl'altrui vostr'imenei dipinge.

Atto primo
Scena prima

Mercurio, Berecinzia, coro di Napee, e di Silvani.

MERCURIO

Odimi, o degli dèi famosa madre

antica Berecinzia, odi d'Atlante

il celeste nipote;

e al suon di queste note

diva dell'ampia terra

le viscere de' monti oggi disserra.

S'apre un [monte] ond'esce la dèa della terra.

BERECINZIA

Chi dall'antro profondo

a rivedere il ciel quinci mi chiama?

Or che da te si brama

o del gran Giove messagger facondo?

MERCURIO

L'alto avviso giocondo

udite ancora voi

amadriadi, driadi, napee;

udite quante sete

campestri ninfe, e dèe;

udite, e nuovi onor liete attendete.

Escono da fonti e dalle piante Ninfe, e Silvani.

CORO

Dive de' monti,

dive de' fonti

lasciamo, e selve, e linfe:

tu narra intanto

qual nuovo vanto

liete farà le ninfe.

MERCURIO

S'al bel notturno velo

talor alzando il guardo

di cotanti suoi lumi

avesti invidia, o Berecinzia, al cielo;

s'allor ti parve vile

in paragon dell'immortal sereno

il tuo povero seno;

or più non l'invidiar, che s'ei di stelle

ha tremoli splendori;

tu di vari colori

avrai nel seno immagini novelle,

che saran dette nuove stelle, o fiori.

Questi saran prodotti

dalle felici fiamme

di dolcissimo vento innamorato;

Giove sì dice, e sì prefisse il fato.

BERECINZIA

Fortunata novella:

per sì vago tesoro

già rimerommi esser del ciel più bella,

ben ch'ei s'ingemmi il sen di lampi d'oro.

CORO

Cinzia s'irraggi

il crin di raggi,

io porterovvi fiori:

faran men belle

l'eterne stelle

nostri terreni onori.

MERCURIO

Vedete, o ninfe, o dive

vedete, che gentil vezzoso coro

per l'argento dell'onde

viensene a queste sponde:

ivi è 'l vento bramato,

dal cui fiato giocondo

deve nascer al mondo

il bel parto odorato,

l'altra è di Citerea dolce famiglia,

ch'ora dal terzo cielo

ritorna a innamorar gli dèi del mare:

or io mi vo' celare

tra queste amene piante,

e qui gioire al volo

del bel Zeffiro amante:

tu nel tuo vasto regno

chiudeti, o Berecinzia, e lieta attendi

l'alto natal de' fiori:

voi salutate, o ninfe

l'alma dèa delle grazie, e degl'amori.

CORO

Bella diva al tuo ritorno

ride il giorno,

ride in calma il cielo, e 'l mare:

non è fera in erma piaggia

sì selvaggia,

che disdegni oggi d'amare.

Scena seconda

Zeffiro, Venere, coro di Tritoni, e di Nereidi, e Amore.

ZEFFIRO

Bella amorosa diva,

e voi leggiadri amori,

ch'or su frenati mostri

trascorrete di Dori

i salsi ondosi chiostri,

e seminate in mezzo all'acqua ardori;

Venere bella, avventurosi amori,

queste, che qui vedete

son le rive tirrene,

pompa della natura,

seggio di dèe terrene:

qui mia soave cura,

mio dolcissimo foco

vive la ninfa Clori;

e qual per voi Citera

tal è per lei la bell'Etruria altera.

VENERE

O bel Zeffiro mio,

mio soave nocchiero,

che per l'umido impero

reggi il mio corso al ventilar dell'ale;

zeffiretto immortale

ferma l'argentea conca, ov'io m'assido.

Ferma al tirreno lido.

Faretrati fanciulli,

e voi tritoni, e voi

frenatrici del mar cerule dive,

da' nativi cristalli

scendete ad onorar le tosche rive,

e vezzosi intrecciate, or canti, or balli.

CORO

Bella diva al tuo ritorno

ride il giorno,

ride in calma il cielo, e 'l mare:

non è fera in erma piaggia

sì selvaggia,

che disdegni oggi d'amare.

ZEFFIRO

Io vi saluto, o belle

care piagge dell'Arno, e del Tirreno;

io vi saluto ed ora,

ch'a più fulgida luce apresi il giorno,

con la dèa ch'innamora

dall'Esperidi piagge a voi ritorno.

Qui soave m'aggiro,

qui mia dolc'aura spiro;

e quinci un vago riso, un bel crin d'oro

è mia dolce rapina, e mio tesoro.

VENERE

Deh, s'al tuo nuovo foco

risponda grata la beltà ch'adori;

dimmi Zeffiro amato,

dimmi il principio de' tuoi cari ardori,

e posa il volo in questo ameno prato.

ZEFFIRO

Da' lidi d'occidente

rugiadosa destando aura leggera

io ne venia ridente

alato messagger di primavera;

quando leggiadra arciera

stanca di seguitar fera selvaggia

vidi posar sulla tirrena piaggia.

All'arco, alle quadrella

del primo cielo io la stimai la dèa;

ma vidila più bella

e credei, che tu fussi, o Citerea:

l'aria, e la terra ardea,

e mi sembrava dir la tosca riva

ferma, che qui d'amor posa la diva:

entro dolce quiete

le due sfere d'amore ella copriva;

ma nell'oblio di Lete

chiuso ancor il bel guardo i cor feriva:

ancideva, e dormiva:

allora ascoso in quel bel sonno amore

arrestommi lo sguardo, e prese il core.

Là ove 'l mio sol riposa

placidissimo in aria io volo, e spiro:

della chioma amorosa

bacio l'oro con l'ali, erro, e m'aggiro:

spiro insieme, e sospiro.

E vago, e lieve in lento mormorio

le dico in questo crin lascio il cor mio.

Apre intanto il bel guardo,

e doppio sole a' rai del sole aggiunge:

io gelo allora, ed ardo,

or m'appresso al bel volto, or ne vo lunge:

tema, e desio mi punge;

ed ardendo, e seguendo il bel sembiante

stommi tacito ancora, e ignoto amante.

VENERE

Zeffiro, in me t'affida:

io per l'almo diletto,

c'ho del tuo vago, amorosetto fiato,

oggi nel sen di Clori

ti vo' render beato:

così ti do mia fé, così prometto.

AMORE

Ed io, ch'i cor saetto,

invincibil arcier, fatale amore,

giuro altrimenti; e voglio

oggi d'odio, e d'orgoglio

contro Zeffiro armar di Clori il core:

io così giuro, e così voglio amore.

VENERE

Temerario fanciullo

meco queste parole?

S'in grembo io mi ti metto

arrogante aspidetto

tante te ne vo dare,

ch'io t'insegni a parlare.

AMORE

Madre, non è più tempo omai di sferza:

a questa destra mia Giove soggiace;

arde Nettuno in mar questa mia face;

e pentirassi alfin chi meco scherza.

VENERE

Or, perché superbetto

vuoi contrastar al mio

così giusto desio?

AMORE

Così di far mi piace:

dell'amoroso soglio

reggo io lo scettro, e dar altrui no 'l voglio.

VENERE

Senti; o tu fa', che Clori

fortunata Napea de' toschi campi,

oggi d'un egual fiamma

di Zeffiro a sospir soave avvampi;

o tu, da me ti parti,

né mai più ritornare ov'io mi sia,

figlio non più, ma furia ingiusta, e ria.

AMORE

Ecco, ch'or or mi parto:

forse ti pentirai

d'avermi oggi sbandito;

madre mi mordo il dito.

ZEFFIRO

Misero, or che poss'io

sperar se non dolore,

se parte dalla madre irato Amore?

Ma, sia pur quanto vuole

rigidetto, e crudele

il mio gradito sole;

che sempre arder io voglio al suo bel raggio:

diva, prendo il viaggio

dov'io creda veder la vita mia

cruda almen, se non pia.

VENERE

Vanne Zeffiro, e spera:

in fanciullesco petto

troppo non suol disdegno aver ricetto.

Così, così mi sprezza

il mio superbo figlio?

E pur il mondo amante

gode avvisarsi al sol di mia bellezza:

così, così mi sprezza?

Ma forse invendicata oggi non sia

superbissim'amor l'ingiuria mia.

Questi, che di qua veggio

è Cillenio, il messaggio

de' sempiterni dèi:

oh, com'appunto vien dal divin seggio

pronto agl'affari miei.

Scena terza

Mercurio, e Venere.

MERCURIO

Gioia dell'universo,

del terzo giro innamorata stella;

la superba risposta

so del tuo pargoletto,

e quanto può mia destra, e mia favella

tutto, o mia bella diva, io ti prometto.

Sai, ch'i fati hanno eletto,

che dagl'amor di Zeffiro, e di Clori

debban nascer ne' prati

terrene stelle, ad emulare i fiori

de' zaffiri beati;

or mentre, che contende

il tuo cieco fanciul sì dolce effetto,

perturba i fati, e l'universo offende.

Quindi Giove presago

di tua discordia col superbo figlio

m'impose, ch'io scendessi a questa riva;

e se quegli impediva

il tuo giusto desire;

io ti fussi d'aita, e di consiglio

a farnelo pentire.

VENERE

Mercurio, opra ben sia

del tuo sublime ingegno

far, che segua di Giove il gran decreto,

e 'l temerario arcier punito sia.

MERCURIO

Sappi, che 'l maggior male,

ch'io temer possa del tuo rio fanciullo,

è l'impiombato suo temuto strale;

che s'ei con quello assale,

come la bella Dafne, il cor di Clori,

vani a Zeffiro sian nostri favori.

VENERE

Ohimè, che mi sovviene

là, sull'alto Peneo d'Apollo il pianto;

e che nulla giovogli

la medic'arte, il suo bel lume, e 'l canto.

MERCURIO

Or, s'io son quel, che soglio,

per tua dolce vendetta

destinato ho di torgli

la mal nata saetta:

ho destinato ancora

torgli l'altro quadrello,

che fatto di sinor l'alme innamora;

tu poscia, o dèa, con quello,

trafiggi a Clori il seno

di sì dolce ferita,

che chieggia al caro amante amore, e vita.

VENERE

Se giammai questo segue,

chiedi quanto può darti il regno mio;

chiedi, Mercurio, ancor più caro pegno,

che ben ne sei tu degno.

MERCURIO

Basta, o mia Citerea,

che ti ricordi dell'antica face,

ch'ambi n'accese entro la valle idea:

ma, diva, se ti piace

dammi di questa schiera

chi più soavi ha le parole, e 'l canto;

ch'io col gradito incanto

d'ingannevol voce, e lusinghiera

voglio al sonno invitar l'incauto Amore

per involargli poi l'armi, e 'l valore.

VENERE

Ite voi seco, o mie tre fide ancelle,

belle Idalie sorelle;

ite, eseguite voi l'alta vendetta:

io tra quei vaghi mirti

intenta a vagheggiar l'onda tirrena,

con sì lieta speranza

del core intanto addolcirò la pena.

Scena quarta

Pane, Corilla, coro di Tritoni, e di Nereidi.

PANE

Corilla mia, s'al volator Cupido

fura Cillenio l'impiombato strale,

il disperato core in parte affido.

Effetto del villan dardo fatale

è questo orgoglio tuo, ch'alma gentile

non ricompensa amor d'odio mortale.

Cerca dal Gange, a' termini di Tile,

di me non troverai più degno amante,

e tu folle mi scacci, e tieni a vile.

Gradì Cinzia dal cielo il mio sembiante;

e s'altra mi fuggì sul greco monte,

la vidi divenir canna tremante.

Mi specchiai l'altro dì sul vicin fonte,

vidimi il petto, e le robuste braccia,

e gl'onor vagheggiai di questa fronte;

poi dissi; fia mai ver, ch'io le dispiaccia,

s'anco parer può bello a Citerea

questo setoso tergo, e questa faccia?

Ma, te non odio, odio quell'arma rea,

onde desta al tuo cor tanta fierezza

l'empio fanciul dell'amorosa dèa.

CORILLA

Corilla, o rozzo Pan, non ti disprezza

per lo dardo d'Amor di piombo, o d'oro,

ma cagion, ch'io ti fuggo è tua bruttezza.

Non è dal mar degl'indi al lido moro

sembiante alla mia vista il più noioso,

e vuoi, ch'io per te senta al cor martoro?

Guarda, che bell'avrei leggiadro sposo?

Uno, ch'irta ha la chioma, ispido il viso,

le corna al fronte, e tutto il sen peloso.

Deforme sei, quanto fu bel Narciso;

degno sol di seguir capra montana,

e non d'arder al sol d'un bel sorriso.

S'alla valle tegea scese Diana,

non fu per amor tuo, fu per lusinga

della tua bianca, e preziosa lana.

Brama piuttosto canna esser siringa,

che sopportar, chi 'l tuo noioso braccio,

il bianchissimo collo, e 'l sen le cinga.

Amo Lirindo mio, per lui mi sfaccio,

per lui di bel desir l'alma sfavilla;

egli è mio dolce ardor, mio dolce laccio:

segui le capre, e lascia star Corilla.

PANE

A me sì fatti accenti?

A me dio de' pastori,

e de' lanosi armenti?

A me sì fatti accenti?

CORO

Taci Pane; un bel sembiante

non offende in sue parole:

dica donna quanto vuole;

quest'è legge d'ogni amante.

PANE

Ingiusta legge; io voglio

con la mano non men, che con la linguaccia

punir sì fatto orgoglio.

CORO

Taci Pane; un bel sembiante

non offende in sue parole:

dica donna quanto vuole;

quest'è legge d'ogn'amante:

or movendo noi le piante

a dolcissime carole,

salutiamo Ciprigna, Amore, e 'l sole.

Coro di Tritoni, di Nereidi, ecc. con ballo.

CORO

Bella diva, al tuo ritorno

ride il giorno,

ride in calma il cielo, e 'l mare:

non è fera in erma piaggia,

sì selvaggia,

che disdegni oggi d'amare.

Per la mobile campagna

t'accompagna

Zeffiretto innamorato:

ei dolcissimo respira,

ei sospira,

ed ingemma il bosco, e 'l prato.

Te superbo, e ritrosetto

pargoletto

oggi segue, e vibra strali:

egli avvampa gl'elementi,

arde i venti,

e trafigge i cor mortali.

Ardon oggi arene, ed onde;

d'alme fronde

per amor si veste il faggio:

per amor sua dolce pena

Filomena

va cantando al nuovo maggio.

Or, se togli al serpe il tosco,

se nel bosco

fai men cruda errar pantera;

sarei folle al tuo bel foco

non dar loco,

alma luce di Citerea.

Arder voglio, e mille, e mille

vo' faville,

vo' quadrella accorre in seno:

ma chi m'arde, e m'innamora

arda ancora,

e beato io verrò meno.

Atto secondo
Scena prima

Clori, e Zeffiro.

CLORI

O campagne d'Anfitrite,

come lieta vi rimiro?

Come sete a me gradite

pure valli di zaffiro?

Qui dell'onda increspa il grembo

ventilando amica auretta,

qui distilla al core un nembo

del piacer, che più m'alletta.

Chi non crede, che Cupido

là nascesse ov'è Citera;

dalla vista d'un bel lido

veggia il mar di primavera.

Creda pur guardo terreno,

che l'oggetto più gentile

è mirar cielo sereno,

e mar lieto in vago aprile.

ZEFFIRO

Giovinetta, che sì dolce

qui del mar dispieghi i vanti,

mentre l'aura il cor ti molce,

da quest'ombre odi i miei canti.

CLORI

Qual di non più sentita amabil voce

almo divino suon l'aria serena?

Qualunque tu ti sia

di questo mar sirena,

o pur nume gentil di queste piante;

segui pur la dolcissima armonia,

ch'arresta l'onde, e rende il cielo amante.

ZEFFIRO

Ben ragione hai di lodare

di Nereo le valli ondose,

poi che quanti ha pregi il mare

tutt'il cielo in te ripose.

Là, nell'indiche maremme

mille son perle ridenti;

tu più liete, e care gemme

bella ninfa hai ne' bei denti.

Serba porpore pregiate

la marina alma di Tiro;

ma più belle, e più beate

ne' tuoi labbri, io le rimiro.

Sorge il sol dall'onde fuore

dileguando il fosco velo;

da te sorge il sol d'amore,

e languir fa l'altro in cielo.

Ma, sì come nel suo letto

chiude il mare alpestre scoglio;

così temo, chi 'l tuo petto

non sia tale al mio cordoglio.

CLORI

Bramo insieme, e pavento

veder chi sì soave

fa l'aria innamorare al bel concento;

bramo insieme, e pavento;

che forse in simil canto

Giove venuto augello

ingannò Leda al chiaro Eurota accanto.

Deh, se qual sei gentile

nella bella tua voce,

tal con pudica ninfa

nell'opre non sei vile;

a mia preghiera umile

mostrati, amabil nume, agl'occhi miei,

mostrati qual tu sei.

ZEFFIRO

Eccomi in quel sembiante,

onde l'aria innamoro;

ecco Zeffiro amante,

o mia Clori, o mio sole, o mio tesoro:

tu taci, e chini a terra

i leggiadretti lumi?

Tu taci, non mi guardi, e mi consumi.

Mirami; io son quel vento, io son quel dio,

ch'apporto primavera;

conforto della sera,

dell'erbette desio;

quel bel vento, quel dio,

ch'a far la terra, a far il ciel ridente

spiego vanni d'amor dall'occidente.

Tu taci, e chini a terra

i leggiadretti lumi?

Tui taci, non mi guardi, e mi consumi.

CLORI

Taccio, perché mi pento

del mio folle desio,

né voglio per amante, o vento, o dio.

ZEFFIRO

Ah Clori; io non son Austro,

ch'a d'atri nembi coronato il crine;

non son Borea nevoso

orrido apportator delle pruine:

lusinghiero vezzoso

son io de' cari sonno; e dell'estate

refrigerio amoroso;

né di te forse indegna è mia beltate.

CLORI

Per le valli odorate,

per l'aria rugiadosa,

altra cercati pure amante, e sposa;

io nemica d'amore,

seguir voglio di Cinzia il bel desio;

addio Zeffiro, addio.

ZEFFIRO

Ferma il piede, o mia vita:

puoi far di non amarmi,

ma non puoi far giammai,

ch'io non t'ami, e ti segua ove tu vai.

Scena seconda

Amore, e Mercurio.

AMORE

È pur gran cosa, o Marte,

che tu, come t'aggrada

roti l'asta, e la spada;

e tu, come ti pare,

sferzi l'alto tridente,

superbo dio del mare;

e tu, come ti pare, invitto Giove,

disserri giù dal cielo

l'onnipotente telo;

sol io tra tutti voi,

sol io non posso oprar, come desio

la mia face, il mio dardo, e l'arco mio.

Vana, superba madre,

or mi prega, or mi sforza;

e quasi non fuss'io

solo signor dell'alma,

vuol de' trionfi miei per sé la palma.

MERCURIO

O vezzoso fanciullo,

se tu non fussi, come sei sdegnato,

teco a goder quest'aura,

oggi mi fermerei su questo prato.

AMORE

Mercurio, ho ben ragione

di cotanto disdegno.

MERCURIO

Deh, se pur ne son degno,

pargoletto gentile,

dimmi dell'ira tua l'alta cagione.

AMORE

Io, per fare i miei pregi,

per due discordi affetti,

in cielo, in terra, in mar vie più famose;

nel mio petto disposi,

ch'al dolce ardor di Zeffiro, rubella

fusse Cloride bella:

Vener mi contraddice;

e per farmi dispetto,

e per darmi cordoglio,

il contrario vuol far, di quel, ch'io voglio.

MERCURIO

E perché cotant'ira

contro vento sì bello, e sì gentile?

Credimi, amor, che tanto

Zeffiro è nel sembiante a te simile;

che s'ei portasse l'arco,

o tu fussi maggiore;

forse io non saprei dire,

quale Zeffiro fusse, e quale amore.

AMORE

Io, seco non ho sdegno:

così di far mi giova,

per far del mio valor l'usata prova.

Ma, senti, io ti vo' dire

qual mi move cagione;

che sebben son fanciullo,

tutte l'imprese mie fo con ragione.

MERCURIO

Di', che lieto t'ascolto;

e intanto rasserena

degl'occhi il pianto, e del tuo cor la pena.

AMORE

Zeffiro è, qual tu sai,

dal piè vezzoso, alla vezzosa fronte,

tutto grazia, bellezza, e leggiadria;

ora, s'egli vedesse,

ch'a' suoi dolci sospiri, in un istante

provasse egual martiri,

fatta Cloride amante;

crederebbe, che fusse

sola la sua beltà, non il mio dardo

cagione in lei dell'amorosa face.

Ora, perché mi piace,

ch'apprendan questi leggiadretti amanti

tanto a non superbir di lor beltade;

eletto ho, che ritrosa

di Zeffiro all'ardore Cloride sia;

acciò non fresca etade,

non aurora d'un viso,

non sol d'almo sorriso;

ma sol la destra mia

di soggiogar un cor vanto si dia.

Vener, ciò mi contrasta;

e quas'io non le fusse

figlio, vita, e sostegno;

ammi fa sé scacciato,

m'ha sbandito dal regno:

ma, io piuttosto voglio

ne' deserti Rifei

starmene in abbandono,

ch'a mio modo non far de' strali miei.

MERCURIO

Certo, hai ragione amore;

fa' pur quanto ti piace

de' tuoi strali, dell'arco, e della face.

Ma già non ti vorrei

veder così sdegnoso.

De' mortali diletto, e degli dèi,

orsù, prendi riposo;

ed ecco, ecco rimira

le tue care nutrici,

l'alme grazie felici,

or ascolta il lor canto, e lascia l'ira.

Scena terza

Coro di Grazie, Mercurio, e Amore.

LE TRE GRAZIE

Lascia l'ira,

lascia l'ira pargoletto

se s'adira,

meno è bel tuo bello aspetto:

lascia l'ira,

lascia l'ira pargoletto.

MERCURIO

Amor, per tuo diletto

vo' dir qual alte prove

facesti già nel petto

del sempiterno Giove;

ascolta, or tu, mio canto,

e godi l'aura intanto.

Già vinto il gran tonante,

Encelado, e Tifeo.

Del folgor trionfante

alzava in ciel trofeo;

Amor, tu sorridesti,

e volto, a lui dicesti.

Se, tra l'immagini belle

del luminoso campo,

fregiar vuoi d'auree stelle

il tuo fulmineo lampo;

qual al mio stral darai

onor, d'eterni rai?

Ferì tuo fiero telo

i figlio della terra;

te regnator del cielo,

mio dardo ogn'ora atterra;

or, vedi quanto vale

il mio, più del tuo strale.

AMORE

Oh, come lieto ascolto

il dolcissimo suon delle mie lodi?

Segui, Mercurio, segui:

ecco, in sì vago lido,

per meglio udir tuo canto,

tutto lieto m'affido.

MERCURIO

Ei n'ebbe allora sdegno,

e minaccioso disse:

fanciul, nel divin regno

non seminar più risse;

son l'armi tue di gioco,

son l'armi mie di foco.

Tu, gli mostrasti allora

là, tra Fenici armenti,

bellezza, ch'innamora

le stelle, e gl'elementi,

e gli dicesti poi,

or, chi più val di noi?

D'Europa, allora acceso,

lo dio del sommo coro,

a Creta, il caro peso

portò, cangiato in toro;

e tu, con mille scherzi,

per l'onde il pungi, e sferzi.

Or, per quest'acque muggi,

or, solca toro il mare,

e per l'innanzi fuggì

di meco mai pugnare;

così dicendo Amore,

gli sferzi il dorso, e 'l core.

LE TRE GRAZIE

Lascia l'ira,

lascia l'ira pargoletto,

se s'adira,

meno è bel tuo bello aspetto:

lascia l'ira,

lascia l'ira pargoletto.

AMORE

O sia quest'aura, o sia

vostro soave canto;

sento un placido sonno,

che dolce al cor mi stilla alto riposo:

ecco, la fronte, io poso

sulla faretra mia,

e qui m'adagio sulla vaga erbetta:

or, seguitate voi,

che gioconda armonia

i sonni non perturba, anzi gl'alletta.

PRIMA GRAZIA

Dormi Amor, che Pasitea,

con le Grazie sue sorelle

vuol baciar tue luci belle,

ove lieta ella si bea:

dormi Amore, e 'l cor ricrea,

dormi Amore, e da' tuoi strali

abbian pace i cor mortali.

SECONDA GRAZIA

Dormi Amore; è qui Talìa,

che ti diede il primo latte,

ribaciar le nevi intatte

del tuo seno ella desia:

dormi, o cara gioia mia,

dormi Amore, e per un poco

ferma i dardi, e spegni il foco.

TERZA GRAZIA

Dormi Amore; e intanto Aglaia,

che tua chioma accoglie in nodi,

loderatti in mille modi,

col gentil figlio di Maia:

or, le braccia al seno appaia,

or, ascondi queste belle

care luci, care stelle.

MERCURIO

Dormi Amore; oh, tu pur sei

ingannevole, e bugiardo:

tu non chiudi ancora il guardo,

tu non dormi, ed io 'l vorrei:

dormi, o gioia degli dèi,

dormi Amor, dormi amor mio,

mia speranza, e mio desio.

PRIMA GRAZIA

Or, sì dormi; or, sì, ch'ascolto

tuoi dolcissimi respiri;

veggio chiusi i due bei giri,

veggio in pace il caro volto:

tieni il guardo Amor sepolto,

il bell'arco posa in terra,

e nel sonno non far guerra.

(qui Mercurio toglie l'armi ad Amore addormentato)

LE TRE GRAZIE E MERCURIO

Amor dorme; Amor ascosa

de begl'occhi tien la face,

l'augelletto, e l'onda tace,

mormorar l'aura non osa:

dormi Amor, dormi, e riposa,

dormi Amore, e 'l duolo inganna,

fa' la ninna, fa' la nanna.

Scena quarta

Coro di Satiri, e Amore.

CORO

Lascia il sonno Amore, e mìrati

arco, e stral tu più non hai:

svelli il crine, e fiero adìrati,

non per questo il troverai:

guai, guai,

guai a te, ch'ogni mortale

vuol punirti d'ogni male.

Te Nettuno in mar sommergere,

fulminar Giove te vuole,

vuolti al cor suoi dardi immergere,

da te sempre offeso, il sole;

non mi duole,

non mi duole, empio Cupido,

de' tuoi danni, anzi ne rido.

AMORE

Ahi, dov'è l'arco mio?

Dove son i miei strali, ov'è la face?

Ah, Cillenio rapace,

tu me la pagherai:

ahi, ahi,

dite Satiri, dèi, dite mortali,

ove sono i miei strali?

CORO

Io no 'l so, né 'l voglio intendere;

sta per me pur senza foco;

ma ben voglio a scherno prendere,

chi di me si prese gioco

o dappoco,

o dappoco, o amor codardo,

che vuoi far, se non hai dardo?

AMORE

Così, così son io,

e tradito, e schernito,

del ciel trionfatore, e d'ogni dio?

Mi pagherete il fio

d'oltraggio tanto acerbo;

madre, Zeffiro, Clori, io ve la serbo.

CORO

Su, su tutti fauni, e driadi,

spennacchiamo a lui quest'ali:

su silvani, ed amadriadi,

ei non ha faville, o strali:

or assali,

or ferisci, or fa' vendetta,

o arcier senza saetta.

AMORE

Anco i satir villani,

vil plebe degli dèi,

osan oggi in Amor di por le mani;

oh arco onnipotente, oh dardi miei.

Coro di Satiri, che ballando scherniscono Amore.

Su, su tutti fauni, e driadi,

spennacchiamo a lui quest'ali,

su silvani, ed amadriadi,

ei non ha faville, o strali,

or assali,

or ferisci, or fa' vendetta,

o arcier senza saetta.

Atto terzo
Scena prima

Corilla sola.

I' era pargoletta,

quand'altri mi narrò,

ch'Amor è viperetta,

che morde quanto può:

quel dir, sì m'ingannò,

ch'Amor gran tempo odiai,

temendo affanni, e guai.

Ma, poi, ch'un giorni vidi

Lirindo, ed egli me;

ben chiaro allor m'avvidi,

che serpe Amor non è;

ma ben è per mia fé,

un caro, un dolce affetto,

un bel desio del petto.

Allora, il mio tesoro

stimai la sua beltà;

or, ardo, e non mi moro,

che morte Amor non dà,

dic'altri quanto sa,

d'Amor mille tormenti,

io provo ogn'or contenti.

Lodar vo' sempre il guardo,

che l'alma m'invaghì,

lodar la fiamma, e 'l dardo,

che m'arse, e mi ferì;

o caro, o dolce dì,

ch'io vidi il bel sembiante,

ch'io ne divenni amante.

Non è, non è più mio

il cor, che mio già fu;

l'ho dato al mio desio,

e core io non ho più:

amor, deh narra tu,

tu narra il mio gioire,

lo provo, e no 'l so dire.

Folle, io canto, e non penso,

ch'oltraggiato da me l'incolto Pane

potrebbe in questo loco

venir a far vendetta

del suo sprezzato foco;

che da rozzo amatore

ben ogni ingiuria a gran ragion s'aspetta:

ma, ecco, io di qua veggio

il mio soave ardore,

veggio il mio bel Lirindo,

mio desio, mio diletto, anima, e core.

Scena seconda

Lirindo, e Corilla.

LIRINDO

O mia vaga Corilla,

Corilla, del mio cor dolce conforto,

che gioconde novelle oggi ti porto:

quella tua bella Clori,

quella Cloride, quella

d'amor tanto rubella;

oggi, al soave foco

di bello amante dio,

è fatta tutt'ardor, tutto desio.

CORILLA

Dimmi, gentil Lirindo,

di', come in un istante,

di sì fiera, e selvaggia,

la bellissima Clori è fatta amante.

LIRINDO

Là, de' mirti sul prato

stavasi Citerea;

quando, venuto a lei,

così le disse il messaggero alato;

eccoti l'arco aurato

del tuo malvagio figlio;

eccoti, o dèa, gli strali, ecco la face;

or, ardi, e feri i cor, come a te piace.

Credimi, o mia Corilla,

ch'in ricever quel dono,

tutti della sua stella

Vener, per alma gioia, accese i rai,

né fu più bella mai, la dèa più bella.

CORILLA

Tra le gioie maggiori,

il nostro cor diletta,

una cara vendetta.

LIRINDO

Quindi, con tutte l'armi,

ch'usa portar il volatore arciero,

inviossi là, dove

il bel fiume toscan scioglie tesori

di purissimo argento;

e quivi ritrovò Zeffiro, e Clori,

ella a sdegnarlo, egli a pregarla intento.

CORILLA

Fu gentil cortesia

di Zeffiro amoroso, a non rapire,

ma pregare, e languire;

così Borea non fe' con Orizia.

LIRINDO

Giunta là, d'improvviso

la bellissima dèa,

con un gentil sorriso,

nella ninfa crudel le luci affisse,

indi, così le disse:

«Semplicetta, ove vai?

Mira prima chi t'ama, e chi ti segue,

fuggi poi, se tu sai:

mira, se questo crine

merta da te rigore;

mira, se queste labbra

mertano crudeltade, oppure amore»;

così le disse; e saettolle il core.

Fiso nel vago amante

Clori tenta lo sguardo;

e qual novella Aurora

vestia vari color nel bel sembiante:

taceva, e ad ora, ad ora

frenava un sospiretto,

che con ali d'amor l'uscia dal petto.

«O mio dolce diletto»,

disse Zeffiro allora, «i' ardo, io moro;

gradisci la mia morte, o la mia face»:

tinse d'ostro vivace,

Cloride, le gentil guance amorose,

e con languido suono,

dopo un tronco sospir, così rispose:

«ardi Zeffiro pure, ardi ben mio;

ardi, ch'i ardo anch'io».

Ardete fortunati,

Venere, allor, soggiunse,

in reciproca fiamma ambi beati;

ardete; ed a malgrado

del mio superbo figlio,

godete i vostri avventurosi amori,

e date vita a desiati fiori.

CORILLA

O dolcissimo avviso,

o gioconda novella,

gioisco al tuo gioir, Clori mia bella.

LIRINDO

Ma, che vo io narrando

le lor gioie, il lor foco?

Vedi la bella coppia,

ch'avvinta palma a palma, e core a core,

viensene in questo loco;

or, ambi accogli, e 'l lor gioir raddoppia.

Scena terza

Corilla, Clori, e Zeffiro.

CORILLA

Avventurosi amanti,

della terra vaghezza,

pregio della bellezza;

deh, mentre il cielo applaude

a vostre fiamme belle;

mentre, con lieti auguri,

vostro laccio gentil cantan le stelle;

piacciavi di gradire,

tra gl'applausi del cielo, e degli dèi,

piacciavi di gradir gl'applausi miei.

Gradisco, o bella ninfa,

il tuo cortese affetto:

lo gradisce non meno

il bel Zeffiro mio;

ed egli sempre, ed io

sì care note serberemo in petto.

Ma, deh, tu, ch'al mio seno

spargi sì vivo ardore;

tu, per cui vengo meno

di desire, e d'amore;

tu, Zeffiro mio core,

dimmi s'avverrà mai,

quando io sia tutta foco,

a' tuoi soavi rai;

dimmi s'avverrà mai,

che tu cangi volere, o cangi loco,

o per farmi morire,

farai delle mie gioie altra gioire?

ZEFFIRO

Ch'io t'abbandoni mai?

Che tu sempre non sia,

il mio cor, la mia vita, e l'alma mia?

Prima, Clori, vedrai

l'eterno corso abbandonare il sole;

prima vedrai nel cielo orrore, e pianto,

gioia, e riso in Averno,

che tu non veggia il mio desire eterno.

Ah, che vano timore

di ciò l'alma ti fiede

né tua beltà conosci, o la mia fede.

CLORI

Se di ciò m'assicuri,

se sempre, o mio bel sol, mi sarai fido;

votisi tutta in me l'aurea faretra

dell'arciero di Gnido;

e quanto have Nereo minute stille,

tanti scendanmi al cor strali, e faville.

Scena quarta

Amore, e Clori.

AMORE

Clori, che voci ascolto

d'amoroso desio?

Se non fu l'arco mio,

che ti trafisse il core,

chi ti ferì d'amore?

CLORI

Fanciullo, io per la mano

della diva più bella, e più vezzosa;

per man di Citerea,

questa porto nel sen piaga amorosa.

AMORE

Tanto puote, tant'osa

mia genitrice rea?

Tanto puote, tant'osa,

importuna, superba, e dispettosa.

Scena quinta

Venere, Amore, e uno del coro degl'Amori.

VENERE

Che di', folle, che sei?

Pensi tu d'esser solo

in saper fulminar uomini, e dèi?

Che di', folle, che sei?

AMORE

Ah cruda, ah traditrice;

ah ingrata genitrice:

or, intendo a qual fine

Cillenio, il rio ladrone,

le belle, hammi immolate, armi divine;

hai voluto alla fine,

sol per farmi dispetto,

per Zeffiro ferir di Clori il petto.

VENERE

Quest'appunto ho voluto:

or, per l'innanzi impara

a non esser contrario al voler mio,

fanciul superbo, e rio.

AMORE

Madre; io per quella giuro

di Stige inviolabile riviera;

giuro, di tanto offesa,

vendetta far sì fiera,

che con acerbo lutto

ne senta oggi il castigo, il mondo tutto.

VENERE

Che puoi tu fare? Io rido

del tuo superbo ardire,

spennacchiato Cupido:

godon, lor puri ardori

amati, quanto amanti,

questa coppia gentil, Zeffiro, e Clori;

e acciò più non ti vanti

di dare altrui cordoglio,

vedi quel, ch'io far voglio:

prendi lieve amoretto,

prendi del rio Cupido

l'arco famoso, e la saetta d'oro;

portagli da mia parte al sommo Giove;

e digli, ch'ei del cielo

sempiterno rettore,

regga non men la monarchia d'Amore.

UNO DEL CORO

Dispiego tosto il volo:

obbedirti a me piace,

e non darti cagion d'ira, e di duolo.

VENERE

Questa sì bella face,

ch'avvampa gl'elementi,

serbare io per me voglio,

e dispensar altrui gioie, e contenti.

Ma questo, di vil piombo, iniquo strale,

onde tu spiri al petto

crudel odio fatale;

questo, rio pargoletto,

perché tu più non faccia

altri amare, altri odiare,

ecco, io getto nel mare.

Con la vota faretra

or tu rimanti in terra,

e fa', cieco fanciul, quanto ti pare.

AMORE

Spiratemi nel seno

fiere serpi di Libia,

crude furie d'Averno,

spiratemi nel seno

ira, rabbia, veleno.

Non mi schernite, o dèi;

non ridete, o mortali,

che sebben non ho face, arco, né strali,

non son però sopiti i vanti miei.

Ascolta, ascolta, o dell'orrenda Dite

formidabil signore,

s'un tempo già nella Trinacria arena

provasti il mio valore,

apri l'orrido centro, e ascolta Amore.

S'apre l'inferno.

Scena sesta

Plutone, Amore, Eaco, Radamanto, Minos, coro di Dèi infernali, e Gelosia.

PLUTONE

Fanciullo, ardor dell'alme,

ricordevole ancor del mio bel foco,

al tuo soave impero

apro gl'orror del tenebroso loco:

vedi pronta a' tuoi cenni

la formidata Dite,

l'orribil Acheronte,

Stige, Lete, Cocito, e Flegetonte.

AMORE

Io, bell'Amore terno,

da' celesti tradito,

da' mortali schernito,

a te ricorro, o regnator d'Averno:

or tu, per mia vendetta,

dammi il mostro più rio, c'hai nell'inferno.

PLUTONE

Vuoi tu, di cento braccia

armato Briareo?

Vuoi terror delle stelle,

l'implacato Tifeo?

Vuoi Cerbero? Vuoi Scilla? O vuoi Pitone?

O 'l tergemino orror di Gerione?

AMORE

Noto ho 'l valor di queste

spietatissime fere:

ma per punire un core,

voglio de' regni tuoi più fiera peste.

PLUTONE

Io ti comprendo Amore:

una tu vuoi dell'orride sorelle

di serpenti crinite,

terrore incomparabile di Dite.

AMORE

Ben è crudele Aletto:

ben Tisifone è fiera:

ben orrenda è Megera:

ma voglio peggior furia in uman petto.

PLUTONE

Qual furia posso darti,

che delle furie più spietata sia?

AMORE

Dammi la Gelosia.

PLUTONE

Ditemi, arbitri voi

degl'eterni tormenti;

dite, se dare io deggio

furia così spietata a' cor viventi.

EACO

Pluto, s'al mondo dai

l'orribil Gelosia,

togli a te stesso il regno,

o vi è minor lo sai;

che non Stige, ed Averno,

ma degl'amanti il cor sarà l'inferno.

RADAMANTO

Mira quanti ha martiri

la regia spietatissima del pianto;

tutti son lievi accanto

al gelato veleno,

ch'infernal Gelosia sparge in un seno;

onde giusto non parmi,

che 'l mondo abbia dolore,

dell'inferno peggiore.

MINOSSE

Se decreto è de' fati,

decreto inviolabile, che queste

sieno le piagge del tormento eterno;

ritieni, o re d'Averno,

ritien quaggiù questa malvagia peste,

se non, che tu vedrai

liete, nelle lor pene

starsi le stigie, e le tartaree arene.

AMORE

Deh, per lo dolce foco,

ch'arse il tuo cor nella montagna etnea;

deh, per lo dolce monte

di tua consorte dèa,

appaga, amato Pluto, il voler mio,

di quanto oggi desio.

PLUTONE

Saggio è 'l vostro consiglio,

figli eterni di Giove;

ma fors'io meglio intendo

quanto nuoca al mio regno, e quanto giove.

I' ardo al dolce foco

di Proserpina mia,

e stimo eguale alla beltà, sua fede;

or, s'un giorno avvenisse,

che l'empia Gelosia

d'un suo gelido strale il cor m'aprisse;

ditemi, qual avrei

nel regno delle pene,

pena crudel, re de' tartarei dèi?

Or io, per non provar simil dolore,

voglio darla ad Amore.

Odimi dunque; poi, ch'Amor sì vuole,

dal lago orribilissimo di ghiaccio,

col fiero serpe in braccio

sorgi, o rea Gelosia, e mira il sole.

GELOSIA

Eccomi, o fiero Pluto,

s'al ciel muover vuoi guerra,

io varrò più di quanti

spietatissimi figli armò la terra.

PLUTONE

Servi l'Idalio arciero;

né mai più ritornare al regno nostro,

inferno de' viventi, orribil mostro.

AMORE

Vieni; a me spiega il volo

indissolubil mia fida compagna,

e tra le gioie mie spargi il tuo duolo.

Re degl'orridi abissi,

per cotanto favor sempre a te grato,

più ti farò nell'ardor mio beato.

CORO INFERNALE

Dileguati

dal centro orribile

mostro terribile,

né tornar più:

va' col tuo gelido

tosco amarissimo,

inferno asprissimo

altrove fa.

Torna la scena al suo solito.

GELOSIA

Poi, che la tua mercede,

miro i campi dell'aria, e 'l puro cielo,

Amor, come t'aggrada,

del mio tosco disponi, e del mio gelo.

AMORE

O cara Gelosia,

quinci tra queste piante

vive la ninfa Clori,

che riamata amante

gode felice i suoi novelli amori;

io voglio, ch'al suo petto

tu stilli tal veleno

d'amoroso sospetto;

che tutto amareggiando il suo gioire,

provi de' ciechi abissi ogni martire.

Così farò, che veggia

la mia spietata madre, e veggia il mondo,

che privo ancor dell'armi mie fatali,

per tormentare un core,

non mancano giammai modi ad Amore.

GELOSIA

Io, furia degl'amanti,

avventerogli al seno

quell'orribile serpe,

e farò vieppiù chiari i tuoi gran vanti.

AMORE

Or, quinci statti ascosa;

io vo' trovar chi con bugiarda lingua

al tuo veleno agevoli la via.

GELOSIA

Vanne, Amore, e 'l tutto osa,

ove pugna per te la Gelosia.

Scena settima

Pane, e Tritone.

PANE

Dimmi Triton, se lungo il mar di Gnido

segui ancor di Cimmodoce la traccia?

Dimmi, se t'arde più l'empio Cupido?

TRITONE

O Pane, il nudo arcier vieppiù m'allaccia;

e sempre, or nel Carpazio, or nel Tirreno

ho Cimmodoce mia nelle mie braccia.

PANE

Non posso più tener lo sdegno a freno;

trovato io non ho mai donna cortese,

ma sempre crudeltà, sempre veleno.

TRITONE

Grata fiamma dal cielo in me discese;

e sempre loderò mia dolce pena,

è 'l bellissimo stral, che 'l cor m'accese.

PANE

Orsù, loda Tritone, in questa arena

oggi le donne; io biasimerolle; al suono

tu d'alta tromba, io di selvaggia avena.

TRITONE

La donna, è delle stelle il più bel dono;

raggio è del sole; e in un bel volto io scerno

tutto il bello del mondo, e tutto il buono.

PANE

La donna, è rio veleno, e serpe interno,

che rode il core; è mostro al ciel rubelle;

peste dell'alme, e de' viventi inferno.

TRITONE

Vorrei più lingue aver, che non son stelle,

per i vostri lodar pregi immortali,

care pompe d'amor, donne mie belle.

PANE

Vorrei tutti di Giove aver gli strali,

per tutte fulminarvi ad una, ad una,

perfidissime femmine infernali.

TRITONE

Mira quanti ha tesor sotto la luna,

rose, perle, coralli; in bel sembiante

questa schiera gentil tutti gl'aduna.

PANE

Mira, quanti ha terror Libia, ed Atlante,

angui, serpi, ceraste; in un sol petto

tutti gl'have il crudel sesso incostante.

TRITONE

Gioia del cielo, e d'ogni cor diletto;

è di Venere il figlio; or questi solo

in bel volto di donna ha 'l suo ricetto.

PANE

Tormento degl'abissi, orrore, e duolo,

è la furia Megera; or questa prende

da femmina sdegnata, il foco, e 'l volo.

TRITONE

È più dolce mirar riso, che splende

il bel labbro gentil, ch'al nuovo albore

mirar raggio di sol, ch'al cielo ascende.

PANE

È più dolce laggiù nel cieco orrore

sentir Cerber latrar, ch'udir la voce

di femmina, che gracchia a tutte l'ore.

E sempre, o vegli, o dorma, offende, e nuoce.

Coro d'Amori, che ballando sferzano Pane.

Va' d'inselva

mezza belva,

né mirar la luce più:

non è stella,

che più bella

sia di donna; or, che di' tu?

Fa', che taccia

ria linguaccia,

se non, ch'io ti svellerò:

e con l'ugna,

con le pugna,

volto, e sen ti ferirò.

Questo dardo

nel tuo sguardo

vo' passare; or ferma lì:

fa' tua scusa,

l'ira accusa,

se non, ch'io t'uccido qui.

Non è degno

di mio sdegno,

né mio stral l'anciderà:

meglio sia

sua follia,

s'un flagello or punirà.

Toh, caprone,

toh, fellone,

non biasmar, le donne, e me:

questo strale,

questo vale

con le belve; a fé a fé.

Atto quarto
Scena prima

Mercurio solo.

Oh miseri mortali,

qual veggio a' danni vostri

venuta furia da' tartarei chiostri?

Meglio fora per voi

provar tra 'l pianto eterno,

ruscello, ogn'or vorace,

che mai nel vostro petto

dar alla cruda gelosia ricetto.

Troppo spietata, e rea

è stata tua vendetta,

figlio di Citerea:

e se questo puoi fare,

tu non sei dio d'Amore,

ma di rabbia, e furore.

Io voglio far ritorno

al bel regno immortal, per dire al Fato,

che con eterna legge

vieti l'entrare in cielo

al mostro dispietato:

che s'al ciel Gelosia spiega il volo,

nell'eterno gioir porrebbe il duolo.

Scena seconda

Amore, e Pane.

AMORE

Pane, il cui nume adora

ogni custode de' fecondi armenti;

s'io ti tolsi pur ora

all'importuno affanno

de' garruli Amoretti, ed insolenti,

tessi, in mia grazia, un menzognero inganno,

e due lieti amator fa' men contenti.

PANE

Io, che sempre provai

nel mio petto amarezza;

stimo ventura mia

poter amareggiar l'altrui dolcezza:

or narra, Amor, quanto il tuo cor desia.

AMORE

Trova la ninfa Clori;

e dille, che da scherzo

son verso lei di Zeffiro gl'amori

dille, ch'in occidente

la ninfa Esperetusa,

alma custode de' bei pomi d'oro,

è suo dolce tormento, e suo ristoro.

Darà fede al tuo detto,

la semplicetta ninfa:

che mai sempre il timore

è compagno d'Amore.

Io poi tra queste piante

dell'Eco imitatrice,

imitator venuto,

cercherò nel suo petto

il nuovo confermar falso sospetto.

PANE

Farò quanto tu brami;

ma, deh, per ricompensa

fammi un giorno trovar donna, che m'ami.

AMORE

Vivi contento appieno;

che s'io ricovro i miei rapiti strali,

per te ferir vo' d'una ninfa il seno:

ma, vedi; che soletta

quindi Clori se n' viene:

io, tra quest'ombre amene

mi celo; e lascio a te la mia vendetta.

Scena terza

Clori, Pane, ed Amore finto Eco.

CLORI

Aria, per dove passa

il mio bene, il mio sole,

digli, ch'a lui lontana

non so gioia trovar, che mi console:

digli, che non mi pare

senza lui, bello il cielo,

senza lui, bello il mare;

digli, che tosto torni a darmi vita,

né più faccia giammai da me partita.

PANE

Come sei così sola,

o bellissima Clori?

Il tuo novello vago,

dunque sì tosto agl'occhi tuoi s'invola?

CLORI

Ita è con Citerea

per breve spazio, il mio gradito amante,

mentr'ella al terzo cielo or fa ritorno,

tranquilla il suo viaggio,

e serena le nubi a lei d'intorno.

PANE

Oh folle, oh semplicetta;

altra, credimi pure, è la cagione,

che qui ti lascia Zeffiro soletta;

ma, io non la vo' dire,

per non ti far per gran dolor morire.

CLORI

Misera, che sospetto

già mi serpe nel seno?

Deh, tu narrami appieno

qual si sia la cagion di sua partita;

che tacendo, non meno

tu mi privi di vita.

PANE

Poi, ch'a narrar mi sforzi

l'altrui perfidia, e 'l tuo tradito amore;

sappi, ch'ove tramonta

là, nell'ultima Esperia il dio del giorno;

è mirabil giardino

d'almi smeraldi, e d'aurei pomi adorno:

ivi è 'l proprio soggiorno,

del tuo gradito vento; e quando a noi

soffia Aquilon gelato,

o 'l torbid Euro, o 'l fiero Noto spira;

col dolcissimo fiato,

egli il vago giardin bear si mira:

cagion di sua dimora,

in quel felice loco

è la vezzosa ninfa Esperetusa,

una dell'alme Esperidi sorelle;

questa è 'l suo vero foco,

la legittima sua fiamma gradita,

suo conforto, suo ben, sua gioia, e vita.

Ora Cloride mia,

s'egli pur or da te s'è dipartito;

credi, che non è gito

le nubi a serenar per Citerea,

ma ben fatto ha ritorno,

alla sposa gentil, che l'innamora;

con l'altre scherza, e questa sola adora.

CLORI

Oh spietate parole:

dunque creder degg'io

perfido il mio bel sole?

Dunque creder degg'io,

ch'in sì care promesse,

in volto sì gentile

sia perfidia sì vile?

Partiti dal mio petto,

fuggiti dal mio core,

tormentoso sospetto,

agghiacciato timore:

tu del mio caro ardore

o falsissimo Pane, invidioso,

così cerchi turbare il mio riposo.

PANE

Clori, se non è vero

quanto mia lingua dice,

sia Nemesi di ciò vendicatrice.

Ma, se creder non vuoi

alle parole mie;

chiedilo a quella ninfa,

ch'invisibil il tutto ascolta, e vede;

chiedilo ad Eco, e s'ella

conferma il mio parlar, dammi poi fede.

CLORI

Lassa; che fo? Che tento?

Debbo dunque cercar la morte mia?

Sì; che meglio mi fia,

s'infedele è il mio bene,

dar fin, con la mia morte, alle mie pene.

Oh, del vago narciso

gentilissima amante:

se quinci ti raggiri

tra queste amene piante;

dimmi, s'io son tradita,

e dammi, o morte, o vita.

Deh, per pietà rispondi

Eco bella, Eco dolce, Eco gradita:

dimmi, s'io son tradita;

dimmi, se m''è fedele

il bel Zeffiro mio;

oppur ingrato, e rio...

AMORE

(come Eco)

Rio.

CLORI

Ohimè; che sento? Un'altra ninfa egl'ama?

AMORE

(come Eco)

Ama.

CLORI

Un'altra ninfa egl'ama, e me disprezza?

AMORE

(come Eco)

Sprezza.

CLORI

Oh, indegna leggerezza,

sprezzar sì fid'amante,

di cui la più costante

non vede il sol, dovunque spiega i rai.

AMORE

(come Eco)

Ahi.

CLORI

Ti duoli Eco pietosa al mio cordoglio.

AMORE

(come Eco)

Doglio.

CLORI

Ti duoli; e 'l disleal di me si ride.

AMORE

(come Eco)

Ride.

CLORI

Perfido; io pur l'ho visto

tutto d'amore ardente;

udito; io l'ho pur dire,

ch'al mio sincero ardore, arde egualmente...

AMORE

(come Eco)

Mente.

CLORI

Mente il crudele, e d'ogni pena è degno.

AMORE

(come Eco)

Degno.

CLORI

Or, che posso far io,

che più l'empia beltà, non m'innamori?

AMORE

(come Eco)

Mori.

Qui la Gelosia non veduta da Clori gli [mette] al seno un serpe.

CLORI

Oh, cruda man di morte,

ch'ora mi stringi il seno:

oh, dolore, oh veleno.

PANE

Che di'? Parti, ch'io sia

menzognero, o verace?

Orsù, Cloride mia,

prendi novello amante, e datti pace.

CLORI

Oh dio, che fiere tempre,

che tempre sì contrarie, e sì diverse

prova il mio seno in uno istesso loco?

Ho qui ghiaccio, ho qui foco:

nasce il gel dall'ardor, l'ardor dal ghiaccio;

così tra foco, e gel mi struggo, e sfaccio.

PANE

Oh, se degno fuss'io

di queste, nel cordoglio, ancor gioiose

belle luci amorose,

come fido sarei,

come t'adorerei?

Su, Cloride mia bella,

dilegui dal tuo petto

il mio gradito ardore, fiamma novella:

prendi me per amante,

che s'io non ho di Zeffir la bellezza,

almeno io son costante;

ei sempre vola, e non ha nai fermezza.

Ma vedilo (o bugiardo,

oh mentitor fallace)

vedilo, che già stanco

dagl'amplessi di quella, onde sì sface;

a questo bel soggiorno,

per di nuovo schernirti, or fa ritorno.

Scena quarta

Zeffiro, e Clori.

ZEFFIRO

O mio bene, o mia vita;

scusa la mia dimora:

sin alla terza sede

ho servito le dèe, che Cipro adora;

poscia subito ho volto indietro il piede,

per mirar la beltà, che m'innamora.

CLORI

Perfido, a che di nuovo

a lusingare, ad ingannar ritorni

un'amante schernita,

un'amante tradita?

Ah, già noti mi sono

i tuoi perversi inganni,

e di mai più tradirmi invan t'affanni.

ZEFFIRO

Io tradirti, o mia diva?

Tolga il ciel, tolga Amore

da me sì detestabile furore.

CLORI

Crudel, se d'altra face

era acceso il tuo petto;

perché, perché mostrarmi

tant'amor, tant'affetto?

Perché, perché chiamarmi

tuo desio, tuo diletto?

Perché fingerti mio,

se d'altra era il tuo core, e 'l tuo desio?

ZEFFIRO

Ah, che null'altra amai:

Clori, tu del mio petto

fusti la prima fiamma,

e l'estrema sarai.

CLORI

Ohimè, qual ria vaghezza

ti mosse a perturbar mio lieto stato?

Ohimè, ch'io mi godea

un viver tranquillissimo, e beato:

mentitor dispietato,

lusinghiero mendace,

tu, con mill'arti, e mille

venisti a mover guerra alla mia pace:

o glorioso vanto,

o superbo trofeo,

semplicetta ingannar pura donzella,

fida almen, se non bella.

ZEFFIRO

Oh parole, oh ferite

che tanto ingiustamente

con ogni vostro detto il cor m'aprite.

CLORI

Ingrato; troverai

più fin oro in un crine;

porpore più ridenti

in due labbra amorose;

stelle vieppiù lucenti

in due luci vezzose;

ma, già non troverai più bel tesoro,

di questa pura fede, ond'io t'adoro:

ma, che dico, t'adoro?

Ah falso; t'adorai

quando i tuoi non conobbi iniqui inganni:

or, conosciuta tua perfidia appieno,

odio te, odio me, perché t'amai.

Deh, non avessi mai

tu, nelle rive mie fermato il piede;

deh, no avess'io mai

al suo falso parlar prestato fede;

oh inganno, oh perfidia, oh ria mercede.

ZEFFIRO

Misero; in sì brev'ora,

così cangiata sei,

luce degl'occhi miei?

Deh, mie care pupille,

rasserenate queste

importune tempeste;

altre, che voi non amo,

altre, che voi non bramo.

CLORI

Togliti a me davanti;

vanne, ingrato, a colei,

vanne a colei, ch'adori;

ridi de' miei dolori;

narrale i pianti miei:

vanne ingrato, che sei;

vanne, ch'io prego il cielo,

che quanti, ivi tu godi amplessi, e baci,

tanti ti sieno al cor serpenti, e faci.

ZEFFIRO

Non fuggir, o mia vita:

arresta, arresta il piede,

rimira la mia morte, e la mia fede.

CLORI

Torna addietro importuno;

né più fissar nelle mie luci il guardo:

prima mai di mirarti,

prima mai d'ascoltarti,

giuro passarm'il cor con questo dardo.

ZEFFIRO

Fugge, lasso, e s'invola,

s'invola agl'occhi miei

quella, per cui beato esser credei.

Oh mie vane speranze,

oh fallaci contenti,

oh veraci tormenti.

Qual dagl'orridi abissi

nuova furia è venuta,

con lingua tanto ingannatrice, e ria,

a turbar la tua pace, anima mia?

Io, mancar mai di fede?

Io, che sì fido adoro

il sol degl'occhi tuoi?

Io, che non ho tesoro

più caro, che sapor d'esserti amante,

io perfido son detto, ed incostante?

Per chi vuoi tu, ch'io lasci

il mio fermo desio?

Per chi vuoi tu, ben mio,

ch'oblii la tua bellezza, e la mia fede?

Chi vuoi, che m'invaghisca,

s'altra più di te bella, il sol non vede?

S'in cielo, in terra, in mare,

Clori, tu non hai pare?

Qualunque tu sei stata,

lingua bugiarda, e rea,

c'hai tanta mia dolcezza avvelenata,

possi provar ogn'ora

quest'acerbo martir, che sì m'accora.

PANE

Zeffiro; io non vorrei

per donna sì volubile, e leggera,

provar pena sì fiera;

sappi, che la tua Clori,

ama dell'Appennino il chiaro figlio,

rigator dell'Etruria, ama il bell'Arno:

ella, stassi mai sempre

alle sue liete sponde,

ed arde amata amante, il dio dell'onde.

Questa, per leggerezza

oggi finse d'amarti;

ma visto poi, che 'l tuo servente foco

l'era d'impedimento

al suo dolce contento;

fingendoti spergiuro, e d'altra amante,

liberar s'è voluta

dall'importunità delle tue piante:

or tu, se saggio sei,

quanto disprezza te, disprezza lei.

ZEFFIRO

Acerbissimi detti,

spietatissimi strali,

che tanti, quanti sete,

l'alma mi trafiggete.

Perfida è la mia donna;

la mia fede è tradita;

traditrice è colei,

ch'amo più della vita:

la mia fede è tradita:

io son deluso, ed altrimenti

gode il mio bel tesoro;

altri gode, altri è lieto, ed io mi moro.

Oh frode, oh tradimento

non visto mai, non mai sentito innante;

me, chiamar incostante,

ed esser tanto infida?

Oh, misero amante,

ch'in donna mai si fida;

oh, misero chi crede,

che possa la perfidia aver mai fede.

Crudele, imposto m'hai,

ch'io mai più non rimiri

gl'occhi, che tanto amai;

crudele, imposto m'hai

ch'io più non fermi il piede, ove tu sia;

farollo, anima mia:

per non vietare i tuoi

fortunati diletti,

andronne a più solinghi ermi ricetti

degl'iperborei mari,

delle libiche arene,

che pria voglio lontano a te morire,

che turbar col mio volto, il tuo gioire.

Lasso; ma, perché deggio

del mio caro tesoro altri far lieto?

Perché deggio lasciar sì cari lumi?

Perché morir degg'io,

privo, ohimè, del ben mio?

Ardisci, o core, o destra;

sul famoso Cefiso

rapì Borea Orizia:

che non rapisco anch'io

la bella Clori mia?

Ah, che d'ignobil petto

la violenza è figlia:

e vieppiù, che diletto,

deve dirsi dolore,

gioir del corpo, e non gioir del core.

Porgi ad altri pur vita,

poiché neghi a me darla,

o mia fiamma gradita;

fate ad altri Oriente,

nelle tenebre mie, care mie luci:

io, privo de' bei rai,

vi piangerò lontane,

se vicine v'amai:

e benché a me scortesi, ad altri grate,

sempre vi adorerò luci spietate.

Piagge, un tempo, mio bene,

unico mio conforto;

care piagge tirrene

vi lascio, e 'l mio dolor meco ne porto:

se gioisse ridenti

a' miei cari contenti,

or meste accompagnate il pianto mio;

care mie piagge addio.

Addio cari arboscelli,

addio limpidi fonti,

addio puri ruscelli,

addio gelidi specchi, ombrosi monti:

se gioiste beati

a' miei giocondi fiati,

or mesti accompagnate il pianto mio,

cari arboscelli addio.

Io parto; al mio partire

voi bei mirti languite;

al mio fiero martire,

lauri, l'eterna chioma inaridite:

cangisi in fosco orrore

l'alma scena d'Amore;

e languenti, e spogliati,

piangan la mia partita i boschi, e i prati.

Voi più non m'udirete

spirar tra stelo, e stelo;

voi più non mi vedrete

ornar la terra, e innamorare il cielo,

tirrena aria gradita,

Zeffiro fa partita,

Zeffiro t'abbandona,

e già soffia Aquilone, ed Austro tuona.

La scena di verde si cangia in orrida.

Scena quinta

Austro, Borea, e coro di Tempeste.

AUSTRO

Borea, non per disdegno,

non per odio tra noi; ma per vendetta

di Zeffiro oltraggiato;

nelle tosche foreste

spargi tu le pruine, io le tempeste.

BOREA

Eccomi d'aspre nevi,

e d'orribili ghiacci i vanni armato;

eccomi al tosco ciel Borea sdegnato

abbattiamo, atterriam, l'ingrate selve,

e ne' campi ancidiamo uomini, e belve.

Cade pioggia, e grandine, con lampi, e tuoni.

CORO DI TEMPESTE

Suonino,

tuonino

sdegnate nubi in cielo:

cadano,

vadano

in giù tempeste, e gelo.

Coro di ninfe Napee, e di Nereidi, che con ballo mesto piangono la rovina de' lor campi.

NAPEE

Son queste, ohimè, son queste

le nostre amene rive?

Lagrimiam, sospiriam silvestri dive.

NEREIDI

Son queste, ohimè, son queste

le nostr'acque gioconde,

lagrimiam, sospiriam ninfe dell'onde.

NAPEE

Dov'è l'alto mio faggio?

Dov'è l'ombra gentil del mio bell'orno?

Ahi, dove fa soggiorno

il bel platano mio?

Vi svelse oltraggio rio;

vi recise dal suol turbo spietato,

piante, pregio del bosco, onor del prato.

Lagrimiam, sospiriam afflitte dèe

Nereidi, e Napee.

NEREIDI

Dov'è 'l ceruleo grembo

cari ondosi cristalli?

Dove più guiderem gl'usati balli?

Nel bel regno celeste

suonan nembi, e tempeste;

mugge il marino armento,

gonfia il mare, arde l'aria, e stride il vento.

Lagrimiam, sospiriam afflitte dèe

Nereidi, e Napee.

UNO DEL CORO

Ecco, d'orrida nube

tutto si copre omai l'aereo campo:

fuggiam ninfe, fuggiamo il tuono, e 'l lampo.

S'oscura la scena e cadono saette.

Coro di Tempeste, con ballo strepitoso.

Suonino,

tuonino

sdegnate nubi in cielo:

cadano,

vadano

in giù tempeste, e gelo.

Atto quinto
Scena prima

Nettuno, Austro, e coro di Tempeste.

NETTUNO

Qual pioggia orribilissima, quai nembi

scendon ne' regni miei?

I secoli di Pirra,

forse son ritornati eterei dèi?

Ite, fermate i tuon, fermate i lampi

empi figli d'Astreo,

re degl'ondosi campi,

io Nettuno il comando;

ite dal cielo, ite dal mare in bando.

In quest'alma stagione

il bel Zeffiro regna,

e non Austro importuno, ed Aquilone:

all'eolia magione,

ite dal cielo, ite dal mare in bando,

io Nettuno il comando.

AUSTRO

O monarca dell'onde,

per crudeltà d'un core,

quinci ha fatto partita

il bel vento d'Amore:

or lascia tu, che noi

nelle tirrene piagge

lasciam memoria degl'oltraggi suoi.

CORO DI TEMPESTE

Suonino,

tuonino

sdegnate nubi in cielo:

cadano,

vadano

in giù tempeste, e gelo.

Scena seconda

Amore, con la Gelosia, Nettuno, un de' Tritoni, e coro di Tempeste.

AMORE

Nettuno, io son, che muovo

queste fiere procelle, e questi venti,

e tu di raffrenargli indarno or tenti:

ma ben altra tempesta

nel tuo regno vedrai,

se il mio dardo fatal tu non mi dai:

sentimi; o tu mi rendi

l'impiombato mio strale,

o l'empia Gelosia nell'alma attendi:

dirai poi s'è maggiore

la tempesta del mare, oppur d'un core.

NETTUNO

Tolga il ciel, che giammai

mostro tanto spietato

turbi il mio cor, turbi il mio lieto stato.

Oh tritoni, oh tritoni

dall'arenoso fondo,

portatemi d'Amor l'aspra saetta,

e 'l nostro liberate umido mondo.

TRITONE

Eccoti, o frenator del falso regno,

eccoti il fiero strale,

cagion d'odio, e di sdegno.

NETTUNO

Prendi Amore il tuo dardo,

tratto nel regno mio da Citerea;

prendilo, ch'io non voglio

mai nell'alma albergar furia sì rea;

prendilo, che piuttosto

vo', ch'amata beltà cruda mia sia,

ch'un bel volto goder con Gelosia.

(rende lo strale di piombo ad Amore)

AMORE

Or, ch'io comincio in parte

a ricovrare i miei perduti vanti,

serenatevi voi nembi tonanti;

fugga la pioggia, la tempesta, e 'l gelo;

torni tranquillo il mar, sereno il cielo.

Qui si rasserena la scena.

CORO DI TEMPESTE

Partiam nembi, partiamo, Amor sì vuole,

partiam nere tempeste, e torni il sole.

NETTUNO

Nel tranquillato regno,

ecco io mi celo Amore;

tu meco non aver giammai disdegno;

è tuo questo tridente, e questo core.

AMORE

Ora, teco la voglio

Giove moderator del sommo coro:

rendimi l'armi mie,

rendimi l'arco, e la saetta d'oro;

o proverai qual sia

il mio disdegno, e la vendetta mia.

Scena terza

Giove, e Amore, con la Gelosia.

GIOVE

Così tu parli con Giove

superbo pargoletto,

né sai come i giganti ancor saetto?

AMORE

Oh, tonante immortale

rendimi l'arco mio,

rendimi l'aureo strale;

se non, che peggior mostro,

che non fu già Tifeo,

moverà guerra al sempiterno chiostro,

e tu della mia man sarai trofeo.

GIOVE

Qual è questo tuo mostro

in cui tanto ti fidi, o folle Amore?

AMORE

È l'empia Gelosia verme del core.

GIOVE

Su bell'aquila mia,

porta nel fiero rostro,

porta queste ad Amore armi fatali;

ch'udito il nome sol dell'empio mostro

tremo, re de' celesti, e de' mortali;

prendi i tuoi belli arnesi,

caro amoroso arciero;

perdona s'io t'offesi,

né far, ch'io provi mai serpe sì fiero.

L'aquila di Giove porta ad Amore il suo arco, e lo strale d'oro.

AMORE

O mie bell'armi, o mira

sovrana incontrastabile possanza;

or, sì, ch'io on contento;

or, sì, mi cresce al cor gioia, e baldanza.

Scena quarta

Gelosia, e Amore.

GELOSIA

Dimmi, se brami Amore,

ch'io per tua gloria tenti

altra impresa maggiore?

AMORE

No; ch'a baldanza ho dato

a' due miseri amanti,

oggi cagion di pianti:

or tu riedi in Averno

al tuo gelato rio,

e narra a Pluto il tuo valore, e mio.

GELOSIA

Folle sei, se tu pensi,

ch'io più faccia ritorno

al tartaro soggiorno:

Pluto più non mi vuole

nella squallida Dite;

Nettuno il mar mi nega, e Giove il cielo;

ond'io per mio ricetto

vo' delle donne innamorate il petto.

AMORE

Approvo il tuo parere;

ma sia con questa legge,

che mai di regia altissima donzella,

del bell'Arno ornamento,

tu non turbi il contento:

ella rimiri ogn'ora

nel real cavaliero,

a cui congiunger alla amica Fato,

costantissima fede, e cor sincero,

e sempre l'un per l'altro arda beato.

GELOSIA

Eccomi donne a voi:

altro loco non ho, ché 'l vosto seno,

vengo, e porto timor, ghiaccio, e veleno.

Scena quinta

Pane, e Amore.

PANE

Amore, io ti rammento

la promessa mercede:

Corilla, che mi sprezza,

fa', ch'arda, o caro Amor, per mia bellezza.

AMORE

Pane; migliore assai

stimo la tua fortuna,

s'invece d'amarn'una,

queste donne crudel tutte odierai:

or vien qua, ch'io ti voglio

render appien beato:

ecco, ti passo il cor con questo strale,

or va', sprezza ogni donna, odia, e di' male.

PANE

Spento è 'l foco, e rotto è 'l nodo;

più non amo empia beltà;

lieto vivo, e lieto godo

mia gioconda libertà:

lagrimate, o folli amanti,

io mi rido a' vostri pianti.

Più non sia, ch'all'empio sguardo,

io dimandi ogn'or mercé:

più non amo, più non ardo,

più mio cor servo non è:

lagrimate, o folli amanti,

io mi rido a' vostri pianti.

Caro sdegno, amato sdegno,

stammi al cor la notte, e 'l dì;

fa', che sempre io stimi indegno

l'empio stral, che mi ferì:

lagrimate, o folli amanti,

io mi rido a' vostri pianti.

Odio tanto, quanto amai

la crudel, che mi sprezzò;

e se sia possibil mai

più d'odiarla, io l'odierò:

lagrimate, o folli amanti,

io mi rido a' vostri pianti.

Va' crudel, ch'io sol mi pento,

che mio cor fedel ti fu;

se per te provai tormento,

credi, ch'or no 'l provo più:

lagrimate, o folli amanti,

io mi rido a' vostri pianti.

Scena sesta

Mercurio, e Amore.

MERCURIO

Eccoti Amore innanzi

chi tanto oggi t'offese;

prendi qual vuoi vendetta,

Amor caro, Amor bello, Amor cortese.

Dannami, se ti pare,

qual nuovo Prometeo,

là nel giogo Rifeo,

a' fieri morsi del vorace augello;

fammi tizio novello;

ma non far, ch'io ti veggia

meco giammai sdegnato,

che più d'ogni avvoltore

temo l'ira d'Amore.

AMORE

Ah lingua adulatrice;

ah perfido, ah bugiardo;

taci, ch'io non mi scordo

dell'un, e l'altro mio rapito dardo.

MERCURIO

Amore, o tu perdona

al mio leggiadro furto,

ch'io feci, intento solo all'altrui bene;

o, se pur di castigo, io sembro degno

scenda contro me solo il tuo disdegno.

Che colpa have la terra

di tanti tuoi furori?

Nel suo fiorito manto

ella potrebbe gareggiar col cielo;

e tu vietando gl'altrui cari ardori

le neghi il parto de' bramati fiori.

Ah dolce, ah bello Amore,

tu, che conservi il mondo,

con sì gentil vaghezza

rendilo più giocondo:

torni alla bella Clori

il suo dolce desio,

e nel seno di lei viva beato:

per me ti parla il fato,

ti supplica il gran Giove,

ti domanda la terra il suo bel velo,

ti prega il mondo, e ti scongiura il cielo.

AMORE

Opri l'arco, e gli strali

chi meglio sa di me ferire i cori:

Venere accese Clori;

ella le porga aita;

e la risani alfin chi l'ha ferita.

MERCURIO

Dove vai, dove fuggi?

Ah troppo crudo sei:

placati, o bello Amore;

placati a' preghi miei.

Scena settima

Clori, Corilla, Lirindo; Mercurio, e Amore.

CLORI

Fortunata Corilla,

fortunato Lirindo,

seguite il bel desio, che v'innamora:

lasciatemi, ch'io mora,

lasciatemi, ch'io pianga

mia fé tradita, e l'altrui fiero inganno,

lasciatemi, ch'io mora in tanto affanno.

CORILLA

Ah Clori, ah quanto bella,

credula, e semplicetta;

ah, non dar fede a così rea novella:

creder giammai non voglio

in celeste beltade,

perfidia, e crudelitate.

CLORI

Ohimè, che questa asconde

in sembianza di cielo, alma d'inferno:

misera, io mi credea

nelle nomadi selve, e nell'ircane,

trovar fiere inumane,

e le furie laggiù nel cieco Averno;

per prova, ora m'avveggio,

che sono ancora fiere in un bel viso,

e furie in paradiso.

Oh bello, quanto credo,

oh crudo, quanto bello; or da me lungi,

in dolcissimo laccio,

ti godi ad altra in braccio, e me consumi:

piangete afflitti lumi,

piangi tu sconsolata anima mia:

quante son le sue gioie, e i suoi contenti,

tanti spargete voi pianti, e lamenti.

LIRINDO

Non è sì duro scoglio,

Clori, che non si spezzi

a sì dolce cordoglio.

CLORI

Altra gode il mio sole;

io misera m'agghiaccio,

lontana a' dolci rai:

io misera mi sfaccio,

perché troppo credei, troppo bramai:

crudel, cui tanto amai,

sono le tue dolcezze a me veleno,

e mentre tu gioisci, io vengo meno.

MERCURIO

Amore; aspe ben sei,

se non senti pietade

di sì mesta beltade.

AMORE

Credi, che s'io l'avessi

oggi ferito il core,

farei tornare in gioia il suo dolore:

ma vedi Citerea

fender il ciel su rugiadosa nube,

ella tranquillerà doglia sì rea.

Scena ottava

Venere, Mercurio, Amore, e Clori.

VENERE

M'è forza alfin, s'io voglio

far beati in amor Zeffiro, e Clori,

m'è forza di depor l'ira, e l'orgoglio;

e invece d'imperare,

conviemmi oggi pregare:

orsù; preghisi pure

il superbo Cupido;

benché crudel, benché perverso, e rio,

alfine è figlio mio.

Non più, non più disdegno,

figlio, del ciel conforto, e degli dèi;

non più, non più disdegno;

vendicato abbastanza oggi ti sei:

ecco, a placarti io vegno;

ecco, porto dal ciel tua bella face;

più non ti grido, e ti domando pace.

Sia tuo, non sia mia dono,

l'alma gioia d'un core innamorato;

più di ciò non ragiono;

fa' chi tu vuoi nel foco tuo beato:

su, vieni in queste braccia,

o dolcissimo figlio;

vieni, ch'io dar ti voglio

nelle tue labbra, e nelle tue pupille,

e cento, e cento baci, e mille, e mille.

MERCURIO

Placati, o bel Cupido;

corri alla madre in seno;

prendi tua bella face,

e due fidi amator fa' lieti appieno.

AMORE

Madre; più d'ogni forza,

ha meco forza un amoroso prego:

io mi placo, io mi piego;

e al folgorar di questa face mia,

Clori scaccio da te la Gelosia.

È falso, o bella ninfa,

che 'l bel Zeffiro tuo

arda per altra face in occidente;

e se Pane ciò dice, ei finge, e mente.

Furon dell'Eco ancora

le risposte mendaci:

io, così finsi allora

col ghiaccio mio, per inasprir tue faci:

or serena il bel viso,

or tu deponi i pianti, e le querele;

Zeffiro quant'è bel, tant'è fedele.

CLORI

Deh, che novelle ascolto?

È fedele il mio bene?

È mia la vita mia?

Partiti Gelosia,

partitevi dall'alma affanni, e pene;

non so, come sostiene

tanto diletto il core;

non so, come di gioia oggi non more.

Torna, se fido sei,

o bel Zeffiro mio;

torna a far rimavera agl'occhi miei:

torna, se fido sei;

torna, ch'ogni momento,

ch'io sto lungi da te, morir mi sento:

tu sei la mia vaghezza, e 'l mio desio;

torna Zeffiro mio.

Scena nona

Zeffiro, Clori, e Lirindo.

ZEFFIRO

Dimmi, sei tu, mia vita,

che mi chiami al gioire?

O piuttosto al morire.

CLORI

Son io, che fatta certa

del tuo sincero amore,

ti do me stessa, e 'l core.

ZEFFIRO

Ah, tu dell'Arno amante,

sprezzi ogn'altro consorte;

e sol fingi così per darmi morte.

CLORI

Credi, dolce mio bene,

credi, te solo adoro;

in te spiro, in te vivo, e per te moro.

ZEFFIRO

Oh cari, oh dolci accenti:

le mie rare dolcezze

ammirate elementi:

udite, o cieli, o terra

la mia gioia infinita:

Clori ogn'altro disprezza, e a me dà vita.

Apritevi voi tutte

viscere del mio petto;

venite tutt'ardor, tutto diletto:

piovetemi dagl'occhi

lagrime di dolcezza;

piovetemi dal seno

faville di vaghezza;

della mia gioia in segno,

la mia fede in pegno,

memoria eterna de' miei cari ardori,

nascete al mondo avventurosi fiori.

LIRINDO

O spettacol giocondo,

o stupore, o vaghezza,

ecco gemmato il suol, fiorito il mondo.

Venite a schiera, a schiera

belle amorose ninfe,

le pompe a rimirar di primavera:

vedete, (oh meraviglia)

vedete a mille, a mille

germi spuntar da rugiadose stille:

o nuovi pregi, o meraviglie belle,

o fiori, o gemme, o stelle.

Scena decima

Coro di Napee, Corilla, Berecinzia, Zeffiro, Clori, Venere, e Amore.

CORO

O spettacol giocondo,

o stupore, o vaghezza,

ecco gemmato il suol, fiorito il mondo.

CORILLA

Odorati tesori,

chi di bell'ostro è tinto,

chi del color del cielo

il bel volto ha dipinto,

chi ride in bel candore,

chi arde in bel pallore:

o nuovi pregi, o meraviglie belle,

o fiori, o gemme, o stelle.

BERECINZIA

Fiori, riso del prato,

di Zeffiro gentil vezzosa prole;

fiori, gioia del sole,

orbamento del mondo innamorato;

del bel manto stellato

vada pur nella notte il cielo adorno,

io spiegherò le stelle mie di giorno.

ZEFFIRO

Deh, perché più non turbi

il mio sommo gioir geloso affetto,

vientene in vago cielo,

vientene amata Clori al tuo diletto:

dammi la bella destra,

ch'è dell'anima mia soave laccio;

calca quest'aura nube,

e vivi eterna al tuo fedele in braccio.

In questi aerei campi

vivrai de' fior regina:

tale io t'eleggo, e tale

te de' fati il voler oggi destina:

compagna dell'Aurora,

spargerai nel mattino i miei tesori;

ed invece di Clori,

sarai da' sommi dèi chiamata Flora;

di questo sì bel nome il ciel t'onora.

CLORI

Gioite al gioir mio

tirreni campi, ov'ebbi vita, e cuna;

gioite lieti all'alta mia fortuna:

sorga nel vostro seno

del mio nome novello alta cittade,

Flora, che regga il freno

delle belle d'Etruria alme contrade,

Flora, seggio di gloria, e di beltade.

Questa ogn'or gloriosa

negli studi di Marte, e di Minerva,

madre d'eroi famosa,

per magnanima prole

sia fior d'Italia, e dell'Europa il sole.

VENERE

Su mio giocondo figlio,

su diletto Cillenio, ancora noi

sovra nubi volanti

accompagniamo i due felici amanti.

AMORE

Ninfe, qualora ardete

da mia face gradita,

e non altronde aita, unqua attendete:

or, mentre voi godete

il bel parto de' fior, che v'innamora,

fate in ciel risonar Zeffiro, e Flora.

CORO

O spettacol giocondo,

o stupore, o vaghezza,

ecco gemmato il suol, fiorito il mondo.

Apollo sopra il caval pegaseo, col fonte portato dalle Muse.

Dal dorso altier del mio famoso monte,

or, che 'l vento d'Amor pinge le valli,

i fiori ad irrigar d'almi cristalli,

porto, Febo immortal, l'aonio fonte.

Del sangue di Medusa alato figlio

Pegaso spargi tu l'eterna vena,

e tra gl'onor della fiorita scena

più dell'onde celesti irrora il giglio.

Il giglio nell'Italia ogn'or frondeggi,

del nobil Arno, e della Parma onore;

Giove l'avvivi, e lo secondi Amore,

né fiore in terra sia, che lo pareggi.

Oh, qual sue glorie fioriran più vive?

Qual d'almi pregi ingemmerassi allora,

che la perla dell'Arno, e 'l sol di Flora

andrà del Taro a serenar le rive?

Gioisca allora il Tebro; allor la chioma

dalle nobil ruine erga il Tarpeo;

e dalle faci allor d'alto Imeneo

nuovi solo di gloria attenda Roma.

Farnesi gigli, avventuroso stelo,

del fatidic'Apollo udite i carmi;

nasceran sotto voi virtudi, ed armi,

e a voi le stelle invidieran dal cielo.

Or, mentre Flora i pregi suoi diffonde,

aure del mio bel fonte abitatrici,

intorno a' nati fiori aure felici,

guidate balli, al dolce suon dell'onde.

Qui ballano l'Aure, e finisce l'opera.

Fine del libretto.

Generazione pagina: 14/01/2016
Pagina: ridotto, rid
Versione H: 3.00.40 (W)

Locandina Prologo Scena unica Atto primo Scena prima Scena seconda Scena terza Scena quarta Atto secondo Scena prima Scena seconda Scena terza Scena quarta Atto terzo Scena prima Scena seconda Scena terza Scena quarta Scena quinta Scena sesta Scena settima Atto quarto Scena prima Scena seconda Scena terza Scena quarta Scena quinta Atto quinto Scena prima Scena seconda Scena terza Scena quarta Scena quinta Scena sesta Scena settima Scena ottava Scena nona Scena decima