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Citazioni riguardanti l'opera

Falstaff

Dal labbro il canto estasiato vola

Commedia lirica in tre atti.
Libretto di Arrigo BOITO.
Musica di Giuseppe VERDI.
Prima esecuzione: 9 febbraio 1893, Milano.




Verdi e Boito

⚫ «Voi nel tracciare Falstaff avete mai pensato alla cifra enorme de’ miei anni?». Cominciò così, nell’estate del 1889, un colloquio sempre più affascinante, lettera dopo lettera, tra Verdi e Arrigo Boito, impegnati nella temeraria impresa di un’altra opera tratta da Shakespeare. Anche in quest’occasione, dopo il trionfo di Otello nel 1887, il loro rapporto fu improntato al rispetto reciproco. Boito era sempre pronto a sciogliere qualsiasi dubbio del suo interlocutore, ed ebbe il suo premio quando Verdi, il 17 marzo 1890, poté scrivergli: «il primo atto è finito senza nissun cambiamento nella poesia». Era la prima volta che il compositore faceva una simile dichiarazione a un suo librettista. E le ragioni non gli mancavano. Aveva tra le mani un piccolo gioiello, intessuto di preziosismi linguistici incastonati in una perfetta sagoma drammatica. Boito lo aveva ricavato dalla commedia, la cui trama, fatti salvi i cambiamenti dovuti a necessità di sintesi -sfoltimento dei personaggi e riduzione a due delle beffe, cambio di nomi e prole fra le coppie- è l’asse del libretto.

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Fenotipo dell’arguzia

⚫ […] Le Merry Wives [di Shakespeare] (1597) ci mostrano […] un furfante beffato, facile preda per tutti i poveri di spirito che lo circondano. Ma Boito riuscì a restituirgli tutta la sua dignità, elevandolo a fenotipo dell’arguzia. Per realizzare ciò estrapolò dalle due parti del dramma tutti quei passaggi brillanti che animano i grandi monologhi del primo e terzo atto, e altri ancora li sparse qua e là in tutta l’opera. Sir John ritornò così a essere quello scintillante incrocio tra il miles gloriosus di Plauto e il Panurge di Rabelais in abiti inglesi. Questo non rimase l’unico merito di Boito: fu lui che insistette, contro l’iniziale diffidenza di Verdi, a inserire nella trama, come un ricamo, gli incontri fra Fenton e Nannetta. Il loro amore doveva essere l’altro polo della vicenda, un amore che costituisse una luce di speranza in un mondo fatto talora di atroci amarezze.

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Maestro ottantenne

⚫ Mancava a Verdi un grande successo nell’opera comica -dopo il mezzo fiasco di Un giorno di regno nel 1840- ed egli aveva già dato molte prove della sua buona disposizione al buffo -si pensi alla ‘tinta’ brillante del Ballo in maschera, e alle parti di contorno che affollano La forza del destino. Sin da quando Boito propose a Verdi il nuovo soggetto shakespeariano, Falstaff fu cosa fatta, senza fatiche né dolori, fino al successo che accolse l’ultima, miracolosa opera del Maestro ottantenne alla Scala.

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Andatura indiavolata

⚫ Per ricreare uno degli aspetti più caratteristici del genere buffo, Verdi impresse alla sua ultima partitura un’andatura indiavolata dall’inizio alla fine. Partendo dalla parola egli scavalcò ogni forma tradizionale, e creò un’opera in cui veri e propri motti sorgono da un flessibile declamato vocale e vengono offerti all’orchestra. Si respira aria nuova nella forma sin dall’inizio: nella sfavillante cornice di do maggiore serpeggia un motivo discendente, mentre l’orchestra si muove con frenetica leggerezza. Su questo flusso s’innesta un tema contrastante in mi maggiore, poi le due sezioni si alternano come in un Allegro di sonata sino all’uscita di Cajus, sigillata dall’Amen dei due servi. La vitalistica esaltazione dell’addome del protagonista viene dopo che l’orchestra ha disegnato, mediante un vuoto nel registro centrale, la magrezza da lui aborrita, e sfocia nel monologo dell’onore, dove il declamato di Falstaff suggerisce agli strumenti un caleidoscopico giro d’immagini.

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Arguzia delle donne

⚫ L’arguzia delle donne domina il secondo quadro, e trova la sua celebrazione nella lettura delle lettere, conclusa da una frase appassionata, e al tempo stesso ironica, di Alice («Ma il viso tuo su me risplenderà»), che sigillerà poi l’atto. Apoteosi dello stile buffo è poi il concertato in versi ottonari degli uomini, che si contrappone per il metro a quello in senari delle donne. Verdi le allontana per far udire le ragioni dei maschi, ma fra i gruppi contrapposti sbuca un delicato traît d’union : Nannetta e Fenton colgono la prima occasione per isolarsi e intonare il loro motto «Bocca baciata non perde ventura/ Anzi rinnova come fa la luna», celebre distico tratto dal Decameron. Il loro amore sarà l’unica isola di vera felicità in un mondo che trama seduzioni e beffe e, nella conclusiva ripresa del concertato, Verdi ribadisce la forza di questo sentimento isolando l’ampia melodia lirica di Fenton.

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Inno materialistico

⚫ Le lusinghe che Quickly, all’inizio [del secondo atto], offre al grasso cavaliere mettono a nudo la sua sensibilità all’adulazione: «Dalle due alle tre», ennesimo motto che ritroveremo disseminato qua e là, è un invito alla risata costruito su una semplice cadenza perfetta. Credendosi desiderato Falstaff intona il brevissimo arioso, “Va’, vecchio John”, un inno materialistico alla sua carne che è l’unica certezza. In fugaci istanti come questo si condensa una complessa vicenda umana, ma l’arrivo di Ford nei panni di un improbabile signor Fontana dà vita a una scena all’insegna del puro paradosso, in cui questi chiede al rivale di sedurre la propria moglie perché «da fallo nasce fallo», ed è difficile persino per Falstaff comprendere il senso di questa «strana ingiunzion». Ma intanto abbiamo udito un nostalgico ‘madrigale’ a due, e il tintinnio di tutta l’orchestra che dipinge il sacco di monete offerto da Ford, cui seguono le corna su cui sparare una «girandola di botte», disegnate dalle aggrovigliate terzine della linea vocale, fino al provocatorio motivetto «Te lo cornifico, netto, netto!». Il successivo monologo di Ford inizia nel segno dell’allucinazione (“È sogno o realtà?”), prosegue nell’ira, evolve nel disincanto, involve nell’insulto alle mogli: pochi minuti di tensione, che contengono una varietà impressionante di atteggiamenti, rotta dal leggiadro tema di danza che accompagna il rientro in scena del Pancione.

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Inno al sorriso

⚫ La gioia innocente con cui le donne si dispongono all’impresa, nel [quarto quadro], fa quasi dimenticare i guai che incombono sul cavaliere, soprattutto quando Alice intona “Gaje comari di Windsor”, lucente inno al sorriso. Accordi di chitarra accolgono il seduttore che narra senza rimpianto, nell’unico ‘pezzo chiuso’ (“Quand’ero paggio”) dei tempi in cui era magro. Ma quando irrompe la masnada di Ford, un traffico pesante inizia intorno al paravento e alla cesta del bucato posti al centro della scena, e in quella «casa di pazzi» soltanto i due giovani mostrano saggezza, acquattandosi dietro al paravento che li separa dal mondo. Il putiferio intorno a loro si blocca e lo schiocco del loro bacio nel silenzio generale innesta un complesso concertato, che Verdi conduce con mano fermissima fino al clamoroso tuffo nel fossato. Nel ritrarre l’enorme disillusione di Falstaff, infradiciato, all’inizio del terzo atto, Boito si supera, offrendo a Verdi una lingua preziosa che stimolò al compositore una fra le più memorabili invenzioni di tutto il teatro in musica. Il lungo monologo è un brano di carattere, che dalla situazione prosaica dell’umiliazione subita solleva il protagonista in un’epicurea esaltazione dei conforti della vita, primo fra tutti il prediletto «vin caldo». Il benefico influsso della bevanda sullo spirito e sulla carne maltrattata ispira al protagonista un eccentrico ‘ditirambo’ accompagnato da un virtuosistico trillo a piena orchestra che è uno scorcio da manuale. Falstaff, rigenerato, è pronto a cascare in nuove trappole e neanche la macabra storia del cacciatore nero riuscirà a fermarlo.

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Classica mascherata

⚫ Quale finale migliore per un’opera ‘magica’ e shakespeariana, che un bosco fatato e una classica mascherata? Risuonano i richiami del corno, e Fenton si affaccia al contatto della natura. Intonerà uno splendido sonetto che è un canto d’amore appassionato verso l’altro da sé. Istanti d’infinita tenerezza, conclusione formalmente perfetta, in cui l’ultima terzina riprende il motto «bocca baciata» e chiama la risposta dell’innamorata. Ma l’azione incalza e tronca l’estasi sul nascere: le botte dell’orologio che batte dodici rintocchi, una vertiginosa girandola armonica di accordi tra loro differenti che ruotano sul perno del fa diesis, colgono il pancione travestito, due corna in testa, sotto la quercia, e precedono l’arrivo delle due donne. Ma Nannetta guida gli abitanti di Windsor, travestiti da personaggi silvani, intonando la Canzone delle fate “Sul fil d’un soffio etesio”, accompagnata da un’orchestra leggera e delicata come una tela di ragno. Falstaff ci ricasca, sta fermo immobile per terra mentre tutti lo pungono, lo pizzicano. Ma ha ancora lo spirito per inserirsi in un gioco antifonale (“Domine fallo casto!”; “Ma salvagli l’addomine”) che è l’ultima garbata satira anticlericale di Verdi. Infine trova le forze per reagire, incalzando i suoi derisori: “Un poco di pausa. Sono stanco”, reclama, ed è la rottura dell’illusione scenica che gli restituisce dignità.

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Lieto fine

⚫ Dopo tanta amarezza e struggente disincanto, manca solo l’obbligato lieto fine. Credendo di maritare Nannetta a Cajus al suono di un ironico minuetto, Ford congiunge la figlia, salvata dall’astuzia femminile, a Fenton. Il padre, come in ogni opera buffa che si rispetti, è costretto a fare buon viso a cattivo gioco, mentre le «ansie leggiadre» dei due ragazzi sono la tangibile consolazione di ognuno. Che rimaneva ancora da dire? Che tutti quelli che avevano supposto troppo, e a torto, erano stati puniti: da Falstaff a Ford, al dottor Cajus. Mancava solo la licenza finale. Era stato il primo brano che Verdi aveva composto, e l’aveva scritto a Boito nell’agosto del 1889: «Mi diverto a fare delle fughe!… Sì signore: una fuga… e una fuga buffa… che potrebbe stare bene in Falstaff!… Ma come una fuga buffa? perché buffa? direte Voi?… Non so come, né perché, ma è una fuga buffa!».

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Intenso affetto

⚫ Di tutte le forme musicali Verdi scelse la più severa - e dunque sulla carta una delle meno adatte a terminare un’opera comica. Ma egli volle scrivere così la licenza della sua vita, e insieme il suo più bel testamento di artista per celebrare con vitalità la fine di una stagione indimenticabile del melodramma. Ai tempi della commedia dell’arte, qui rivissuta con intenso affetto, si chiedeva al pubblico se si fosse divertito o avesse ben compreso il significato dell’opera mediante la licenza; così fece Verdi, trascinando con lui gli interpreti per cantare un coro finale insieme a Falstaff. “Tutto nel mondo è burla”: l’arte si è miracolosamente congiunta alla vita. Dopo cinquantaquattro anni di presenza ininterrotta sui palcoscenici del mondo, per Verdi era davvero impossibile chiudere meglio di così.

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