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Citazioni riguardanti l'opera

L'Orfeo

Tu se' morta, mia vita, ed io respiro?

Favola in musica.
Libretto di Alessandro STRIGGIO.
Musica di Claudio MONTEVERDI.
Opus: SV 318.
Prima esecuzione: 24 febbraio 1607, Mantova.




Teatro sperimentale

⚫ Da neppure un decennio, specie a Firenze, si andavano sperimentando esempi di teatro tutto cantato: quelle prove avevano avuto una vasta risonanza nell’ottobre 1600, quando le grandiose feste nuziali per il matrimonio di Maria de’ Medici con Enrico IV di Francia avevano dato ampio spazio a tale modalità di rappresentazione. Gli invitati ai festeggiamenti avevano potuto così ammirare quel nuovo modo di fare spettacolo: tra loro figurava anche il duca di Mantova Vincenzo Gonzaga […]. Dunque l’iniziativa di Francesco Gonzaga si può interpretare come un desiderio di emulazione di quanto, in campo teatrale e musicale, stavano promuovendo i Medici.

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Prima rappresentazione

⚫ Era [dell'Accademia degli Invaghiti] (col nome accademico di Ritenuto) il conte Striggio, che provvide a stendere il testo letterario, dato poi da intonare al maestro della musica ducale, Monteverdi. La recita non avvenne nel teatro di corte, ma in una sala non molto grande della residenza gonzaghesca, allestita per l’occasione: alla ‘prima’ del 24 febbraio seguì una replica, il 1º marzo 1607.

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Partitura

⚫ La partitura monteverdiana prevede un’orchestra formata almeno da due clavicembali, due viole contrabbasse, dieci viole da braccio, un’arpa doppia, due violini piccoli alla francese e due ordinari da braccio, tre chitarroni, ceteroni, due organi di legno, tre viole da gamba basse, cinque tromboni, alcuni regali, due cornetti, due flauti piccoli, quattro trombe di cui una chiarina e tre sordine.

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Situazioni sceniche

⚫ Il soggetto sceneggiato da Striggio era il medesimo già impiegato pochi anni prima per una di quelle recite fiorentine del 1600 di cui si è detto: precisamente, per L’Euridice di Ottavio Rinuccini posta in musica da Jacopo Peri. Per quanto di ambiente boschereccio e non privo di rimandi ai modelli di teatro pastorale di Tasso (Aminta) e Guarini (Il pastor fido), rispetto al lavoro di Rinuccini Striggio dà al suo testo una maggior patina tragica: lo divide nei regolari cinque atti chiusi da cori gnomici, lo conforma almeno alle unità d’azione e di tempo anche se non di luogo. Gli imprime poi un taglio più drammatico di Rinuccini: alcune azioni e decisioni del protagonista sono prese in tempo reale davanti agli occhi degli spettatori, e non solo raccontate; all’interno degli atti non mancano grandi strutture, allestite per far risaltare le situazioni sceniche (ad esempio, nel primo il tableau con al centro la coppia Orfeo-Euridice; nel secondo i lieti canti strofici di Orfeo e dei pastori, di contro al successivo ‘parlato’ della messaggera con la ferale notizia della morte di Euridice).

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Brani compiuti

⚫ Monteverdi non per la prima volta si cimentava con le nuove tecniche di canto a voce sola su basso continuo. Fino ad allora, tuttavia, ciò era avvenuto nell’ambito del genere madrigalistico: gli ultimi brani del Quinto libro di madrigali a cinque voci (1605) richiedevano infatti obbligatoriamente il basso continuo, in quanto impiegavano appunto tali tecniche. In questa sua prima prova teatrale secondo i recentissimi dettami fiorentini, Monteverdi diede opportuno rilievo alle parti poetiche strutturate e conchiuse (quelle che corrispondono a situazioni musicali: canti, cori, danze, preghiere), facendone altrettanti brani compiuti caratterizzati da stroficità -integrale o del solo basso continuo-, scrittura polifonica, refrain strumentali, formulazioni melodiche profilate in senso molto cantabile.

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Finalità espressive

⚫ Rispetto a Cavalieri, Peri e Caccini, lo stile recitativo monteverdiano è […] molto più mobile e patetico, e ricorre a soluzioni armonicamente e melodicamente anche assai ardite, ma sempre per finalità espressive. Esempi impareggiabili di questo stile patetico sono il racconto della morte di Euridice e il successivo lamento di Orfeo. Protagonista della ‘favola’, in forza del vario e intenso stile di canto con cui Monteverdi intonò la sua parte, quest’ultimo è davvero una figura a tutto tondo, con notevoli sfaccettature psicologiche e in grado di percorrere una parabola scenica assai varia e articolata: insomma, un vero e proprio personaggio teatrale, e anzi forse il primo autentico protagonista della storia del teatro musicale.

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Caratterizzazione metrica

⚫ Non […] omogenei sono […] certi accostamenti di metri volutamente disparati, e pensati per ottenere frizioni reciproche poi sfruttabili musicalmente. Sulla via del ritorno dagli Inferi, al protagonista della Favola d'Orfeo nell'atto IV Striggio jr affida quartine di settenari ed endecasillabi eccezionalmente introdotte da un ottonario:
Quale onor di te fia degno,
mia cetra onnipotente,
s'hai nel tartareo regno
piegar potuto ogn'indurata mente?
Pare quasi che il mitico cantore, di ritorno dall'oltretomba, rechi con sé qualcosa della forte caratterizzazione metrica che di solito contraddistingueva i personaggi appartenenti a quel mondo, come supplementare connotazione grottesca. Si vedano ad esempio i trisillabi e i quinari sia sdruccioli sia tronchi del coro infernale «Diléguati», nell'atto III della Flora, e più tardi i quadrisillabi, quinari ed endecasillabi in versione sdrucciola e piana per un analogo insieme nel S. Alessio (I, 4: «Si disserrino»). Oltre a quelli già uniti da Striggio nella citata canzonetta di Orfeo, Chiabrera nel Polifemo geloso (ante 1615) aggiunge in sovrappiù il quadrisillabo («Fama corse in queste sponde»), realizzando pure disinvolte associazioni di quaternari ed endecasiilabi («Quando Amore»), e progressive espansioni di metro che, dal quinario di partenza, attraverso senario e settenario raggiungono la maggior estensione possibile, quella endecasillabica («Luci serene»).

Il secolo cantante, Paolo Fabbri (Bulzoni, 2003)

Variazioni

⚫ Oltre alle solite microvarianti […] nel caso dell’Orfeo siamo di fronte a una macrovariante che interessa l’intero finale: nel libretto Orfeo è sbranato dalle Baccanti, mentre nella partitura le Baccanti non ci sono e Apollo, padre di Orfeo, scende col suo carro in soccorso al figlio […] e gli propone di salire in cielo, ove potrà ammirare la bellezza di Euridice nella bellezza dell’universo […] Non sappiamo con certezza quale fosse il finale nelle due rappresentazioni mantovane del febbraio e marzo 1607, né per quale motivo sia avvenuta la sostituzione, né se Monteverdi abbia mai messo in musica il finale bacchico del libretto. […] è a mio parere molto più probabile che la versione originaria fosse quella del libretto, che segue il mito classico, e che, discostandosene, la versione apollinea della partitura sia successiva, come mostrerebbe anche la sua brevità (sia rispetto all’altra versione sia rispetto agli altri atti). Difficile dire di chi sia stata la volontà di cambiare il finale e chi abbia scritto i versi della nuova versione: non escluderei un coinvolgimento diretto dello stesso Monteverdi, la cui sensibilità letteraria è testimoniata dalla scelta di testi sempre di alto livello per le sue composizioni, e ancora di Striggio […].

Orfeo e la potenza dell’arte. La rinascita del teatro e della musica tra Poliziano, Rinuccini e Striggio-Monteverdi, Paolo Divizia, Rhesis International Journal of Linguistics, Philology and Literature

Forma innanzi tutto musicale

L’Orfeo si apre con la Musica personificata, figura chiaramente ispirata alla Tragedia che apriva l’Euridice di Rinuccini, ma allo stesso tempo divergente perché mostra un’evoluzione nel modo di percepire l’opera: mentre a Firenze si era discusso su come fosse la tragedia antica e il melodramma veniva quindi inteso come una forma di teatro, a Mantova la stessa forma d’arte ibrida è ormai intesa come una forma innanzitutto musicale. Ma a parte questa differenza nella classificazione dell’opera, la Musica che introduce l’Orfeo insiste anch’essa sulla potenza dell’arte e si pone dunque ancora una volta come una forma di celebrazione del melodramma stesso […].

Orfeo e la potenza dell’arte. La rinascita del teatro e della musica tra Poliziano, Rinuccini e Striggio-Monteverdi, Paolo Divizia, Rhesis International Journal of Linguistics, Philology and Literature

Autocelebrazione

⚫ […] la ricorrente scelta del tema di Orfeo ed Euridice nelle opere di cui ci siamo occupati non sia una scelta casuale, ma rifletta invece la piena consapevolezza che il mondo artistico tra Poliziano e gli sgoccioli del Rinascimento aveva di ciò che stava facendo: con il recupero del teatro prima e con l’unione di parola e musica poi […] il Rinascimento poteva liberarsi di quel senso di inferiorità nei confronti dell’arte e del mondo classico che sempre lo aveva contraddistinto. Quale altro mito antico avrebbe potuto servire allo scopo di celebrare le ritrovate capacità artistiche e i risultati concretamente raggiunti, se non quello di Orfeo che attraverso l’arte era riuscito a commuovere l’intera natura e persino le divinità infernali?

Orfeo e la potenza dell’arte. La rinascita del teatro e della musica tra Poliziano, Rinuccini e Striggio-Monteverdi, Paolo Divizia, Rhesis International Journal of Linguistics, Philology and Literature

Le cose a caso

⚫ Senza dubbio Monteverdi aveva ben presenti le recentissime esperienze dei fiorentini, e non è difficile stabilire, soprattutto con l'Euridice di Peri, numerose analogie che, ben oltre l'identità di argomento, rivelano un'assai più profonda affinità musicale. Nel suo complesso, tutavia, l'Orfeo si stacca con netta superiorità dalla produzione teatrale coeva, per ricchezza di inventiva, bellezza musicale e potenza drammatica. Ma non è tutto: da una visione generale dell'opera scaturisce un senso di precisa consapevolezza artistica per cui tutti gli elementi di volta in volta utilizzati, siano essi ancora impregnati di spirito rinascimentale o, più spesso, già improntati al nuovo stile espressivo, concorrono a farne un insieme di esemplare coerenza. «Io non faccio le mie cose a caso»: l'affermazione decisa con cui Monteverdi, nella prefazione al Quinto Libro di madrigali, muove in difesa della sua «seconda pratica», troverà anche nell'Orfeo continui motivi di conferma.

Storia dell'opera, diretta da Alberto Basso; volume primo L'opera in Italia, Torino, 1977, UTET

La varietà

⚫ Nella struttura generale dell'opera è subito interessante notare con quanta cura Monteverdi si studi di avvicendare tutta un'imponente varietà di forme differenti, quasi attento a evitare qualunque pericolo di tedio o di monotonia. Nell'Orfeo, infatti, il canto monodico, che assume di volta in volta l'aspetto di recitativo, di arioso o di canto strofico, si alterna a numerosi duetti e cori, concertati o a cappella, e trova continuo e sempre mutevole sostegno in uno strumentale ricchissimo ed estremamente variato. Questa molteplicità di forme non si esaurisce in un aspetto puramente esteriore, ma trova continuo riscontro all'interno di esse in un altrettanto vario atteggiarsi di linguaggio: alternanza di metri binari e ternari, sezioni variate musicalmente e quantitativamente su uno stesso basso, o addirittura sostituite integralmente allo schema originario.

Storia dell'opera, diretta da Alberto Basso; volume primo L'opera in Italia, Torino, 1977, UTET

La voce degli strumenti

⚫ Di particolare interesse si rivela anche l'uso degli strumenti, che, già più volte praticato da Monteverdi in lavori precedenti, assume nell'Orfeo un carattere assolutamente nuovo. L'elenco iniziale, integrato con le indicazioni contenute nelle didascalie ricorrenti nel corso dell'opera, allinea ben quarantasei strumenti di quindici tipi diversi. Ma non tanto deve meravigliare la quantità e la varietà di essi, quanto piuttosto la sorprendente originalità con cui Monteverdi li utilizza. Non bisogna dimenticare che l'Orfeo fa la sua apparizione in un periodo particolarmente fervido di nuovi fermenti, che si riflettono anche nel mondo strumentale con aspetti di eccezionale importanza. Durante il Rinascimento, infatti, la funzione degli strumenti consisteva soprattutto nel sostenere le voci polifonicamente organizzate, cui talvolta esse si sostituivano; il che aveva favorito il formarsi di famiglie omogenee, in prevalenza di strumenti a fiato, che risultavano di gran lunga i più idonei ad imitare il timbro vocale in questa sua veste «corale» e che ebbero per questo motivo una fioritura eccezionale durante tutto il secolo XVI. […] Quando però all'interno della polifonia vocale comincia a manifestarsi la tendenza ad enfatizzare una voce rispetto alle altre e contemporaneamente lo stile vocale si orienta verso un'interpretazione sempre più espressiva degli affetti, si opera di riflesso, in campo strumentale, un vero e proprio rivolgimento: non più, infatti, si richiedevano strumenti che si limitassero a raddoppiare le voci o a sostituirsi ad esse secondo la semplice prassi rinascimentale, ma strumenti elevati essi stessi a dignità di protagonisti e, come tali, dotati di possibilità espressive adeguate al nuovo stile. Nessuno degli strumenti a fiato, preso singolarmente, risultò in grado di sostenere un ruolo tanto impegnativo, date le sue ancora limitatissime risorse tecniche. Né avevano maggiori possibilità in questo senso le viole da gamba, mirabili a sentirsi se riunite in gruppo, ma assolutamente inadatte per il loro stesso timbro a sostenere una parte solistica di carattere espressivo. Ecco la ragione per cui, fra la fine del XVI secolo e l'inizio del XVII, si assiste al repentino sviluppo e all'immediata fortuna della nuova famiglia delle viole da braccio, di timbro più robusto e incisivo, il cui esponente soprano, il violino, assommando in sé possibilità sonore ed espressive fino allora sconosciute, costituiva l'ideale complemento della voce in questa nuova veste solistica.

Storia dell'opera, diretta da Alberto Basso; volume primo L'opera in Italia, Torino, 1977, UTET

L'autorità

⚫ Dove invece Monteverdi manifesta il prorompente interesse tipico dell'epoca per le svariatissime risorse timbriche del momento, che egli sfrutta sino in fondo in un'imponente varietà di contrasti, è nell'accompagnamento dei recitativi. L'intuizione di caratterizzare i personaggi e le situazioni attraverso un variato sostegno strumentale era stata già adombrata da Emilio del Cavaliere, nell'Avvertenza ai lettori della sua Rappresentazione di anima e di corpo («… et il signor Emilio lauderebbe mutare stromenti conforme all'affetto dei recitativi»); ma l'incredibile immediatezza che Monteverdi dimostra nel sottolineare le diverse situazioni, di volta in volta isolando o raggruppando particolari strumenti con l'intenzionale e sorprendente mira di caratterizzare ogni singolo personaggio, non avrebbe certo potuto realizzarsi, se fosse rimasta affidata, con questo solo e generico suggerimento, all'estemporanea improvvisazione di un anonimo gruppo di esecutori. L'atteggiamento di Monteverdi, al contrario, è sempre costante: non lasciare nulla al caso, ma intervenire di autorità con precise indicazioni che impediscano all'esecutore qualunque arbitrio.

Storia dell'opera, diretta da Alberto Basso; volume primo L'opera in Italia, Torino, 1977, UTET

Il basso continuo

⚫ La varietà degli strumenti utilizzati per la realizzazione del basso continuo è quantitativamente imponente: chitarroni, clavicembali, violone («contrabbasso di viola da gamba»), contrabbasso («contrabbasso di viola da braccio»), basso di viola da gamba, violoncello («basso da braccio»), cetere, ceteroni, regale e organo di legno. Dei due organi, il regale è usato, com'è noto, quasi esclusivamente per caratterizzare il personaggio di Caronte, mentre all'organo di legno Monteverdi assegna una funzione ben più significativa: ad esso infatti, cui generalmente si affianca il chitarrone, che ben si fondeva col timbro dolce ed opaco del piccolo organo portativo, è affidato il sostegno del canto nei recitativi e nei cori di più alta drammaticità o mestizia.

Storia dell'opera, diretta da Alberto Basso; volume primo L'opera in Italia, Torino, 1977, UTET

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