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Mercurio e Marte

MERCURIO E MARTE

Opera-torneo.

Versione sintetica a cura di www.librettidopera.it.

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Libretto di Claudio ACHILLINI.
Musica di Claudio MONTEVERDI.

Prima esecuzione: 21 dicembre 1628, Parma.


Personaggi:

L'AURORA

sconosciuto

MARZO

sconosciuto

GIUGNO

sconosciuto

SETTEMBRE

sconosciuto

GENNAIO

sconosciuto

ETÀ DELL'ORO

sconosciuto

DISCORDIA

sconosciuto

MERCURIO

sconosciuto

MARTE

sconosciuto

VENERE

sconosciuto

APOLLO

sconosciuto

ORFEO

sconosciuto

GIUNONE

sconosciuto

BERECINZIA

sconosciuto

PROSERPINA

sconosciuto

PLUTONE

sconosciuto

AMORE

sconosciuto

BELLONA

sconosciuto

SATURNO

sconosciuto

NETTUNO

sconosciuto

GALATEA

sconosciuto

GIOVE

sconosciuto


I Mesi, le Furie, Tritoni, le Muse, Amoretti, Dèi marini.



Alla serenissima principessa...

...Margherita di Toscana e duchessa di Parma, e di Piacenza padrona colendissima.

Il valor di quei talenti regali, che sì nobilmente v'arricchiscono l'animo, trapassa senza dubbio, o serenissima Margherita ogni termine dell'umana condizione: già ne fan fede al mondo le lingue, le penne, e i cuori di tutta Italia. Che però meglio campeggiavano le vostre lodi nella bocca degli dèi, che in quella degli uomini, e più, che gli ossequi terreni, convenivano i ministeri celesti a gli applausi delle vostre nozze. Quindi, nella composizione di questo torneo, ho data materia alla maggior parte de gli dèi de gli antichi di lasciarsi vedere sovra insolite, e superbissime macchine, sui campi, or delle fiamme, or della terra, or de l'acqua, or dell'aria, or dei Cieli, per promuover la felicità di quegli affettati spettacoli, ch'erano istituiti, e preordinati a gli onori dei vostri imenei. Né doveva quest'opera, uscendo alla luce ad altr'idolo consagrarsi, che al vostro serenissimo nome. Graditela come parto prodotto più dalla fecondità della mia devozione, che da quella dell'ingegno, ed all'a. v. serenissima umilmente m'inchino.

Di Parma il dicembre 1628, di v. a. sereniss. servit. umiliss. e devotiss.

Claudio Achillini

Si protesta, che le parole dio d'amore, dèa d'amore, deità, divinità, paradiso, adorare, beato, ed altre simili s'intendono conforme all'uso de' poeti, e non mai in senso, che offenda in parte alcuna immaginabile i sensi, e i dogmi purissimi della religione cattolica.

Ristretto del torneo

Avea pubblicato il serenissimo signor duca, come mantenitore del torneo il cartello della sua disfida, quando giunto il giorno, e l'ora dell'abbattimento, comparvero sovra superbissime macchine l'Aurora prima, e poi nel zodiaco i mesi, e finalmente l'età dell'oro, cantando la felicità dei presenti giorni, e preludendo, per così dire alle future feste.

Dopo questi sorge dall'inferno la Discordia, accompagnata dalle furie, e schernendo il giubilo de i suddetti personaggi, anzi vantandosi d'avere, poco prima, seminate risse, tra Mercurio, e Marte, per impedir l'abbattimento, torna in cielo, per mantenere in fede Mercurio, contra i disegni di Marte.

Comparisse Mercurio irritato dalla Discordia, sovra un bellissimo carro in cielo; si querela d'Imeneo, e di Marte, che pretendano di divertire a gl'amori, ed all'armi, un suo seguace principale, che era il sereniss. sign. duca, dedicato prima alla disciplina di tutte le lettere. Si vanta per ciò d'avere, per impedire il torneo, incantato il mantenitore in una rocca, sepolta nei fondi del mare. La prima squadriglia de' Venturieri, dentro le viscere di certi sassi. La seconda, in una palude infernale. La terza, sotto la montagna Etnea. La quarta, nel ventre d'alcuni mostri marini.

Si scopre Marte, dal suo cielo, accompagnato dal suo coro, sgrida Mercurio, risentendosi se i sopra detti impedimenti, e protesta, che quantunque egli potesse, immediatamente, disincantare, e liberar tutti questi combattenti, tutta volta, per pompa del suo potere, egli vuole, mover tutte le deità, perché da varia mano siano liberati. E primieramente invoca Venere, perché scendendo dal cielo venga a liberare il mantenitore.

Scende Venere dal cielo sovra una nube, accompagnata dal suo coro d'amoretti, che all'occasione va cantando, e calata in mare, libera, con varie circostanze dalla rocca incantata il mantenitore, e facendo nascer su quelle sponde la città di Gnido, quivi approda con lui, che accompagnato da paggi, e padrino s'aggiusta in campo, ed aspetta la liberazione de Venturieri.

Sorge Apollo, e dolendosi degli andamenti di Mercurio fa risorgere da i campi elisi Orfeo, il quale canta, con tanta dolcezza, che tira in campo quei sassi, dove era incantata la prima squadriglia, e per virtù celeste, communicatagli dal medesimo Apollo, la libera, avendo spettatore a questa impresa il coro delle muse, sovra il monte Parnaso.

E qui si combatte.

Comparisse Giunone, sovra il suo carro in aria, invoca Berecinzia, come madre degli dèi, perché operi, che Proserpina impetri da Plutone suo sposo la liberazione della seconda squadriglia, incantata nella palude.

Esce Berecinzia dal monte Berecinto, sovra un carro, e prega Proserpina di quanto desidera Giunone.

Sorge Proserpina, sovra un altro carro, e mostrando prontezza a i preghi della madre, prega Plutone della sudetta libertà.

Esce Plutone dall'inferno, sovra un carro di fiamme, e secondando le preghiere di Proserpina, comanda a i mostri infernali, che portino liberati in campo i Cavalieri della seconda squadriglia.

Compariscono i mostri, coi Cavalieri liberati.

E qui si combatte.

Esce dal cielo, librata in aria, l'insegna della sereniss. casa de' Medici, e sovra la palla superiore siede il Dio d'amore, che cantando prima in lode delle sereniss. Margherita, muove poi, e sgrida Bellona, perché non abbia liberato quel drappello de' Venturieri, che stavano rinchiusi, sotto la montagna Etnea.

Compare Bellona, e dice, come dèa delle battaglie, d'aver prevenuti i suoi preghi, per promover l'abbattimento al suo fine.

Comparisse in campo, per la porta laterale del teatro un superbissimo carro, co' i Cavalieri liberati. E qui si combatte.

Si scopre Saturno, dalla più sublime parte del cielo, ad instanza pur di Marte, e prega Nettuno, che liberi dal ventre dei mostri marini l'ultima squadriglia.

Comparisse Nettuno in mare, con un coro di Tritoni, che gli cantano un inno, e pronto alle domande di Saturno, non solo libera i Cavalieri, ma risolve d'allargare il mare, perché si combatta in acqua.

Esce un'acqua improvvisa, che allaga il teatro.

Comparisse nel nuovo mare Galatea, con due isolette, e sovra l'una di queste riceve il Mantenitore, e sovra l'altra i Venturieri. E qui si combatte in acqua.

Finito l'abbattimento.

Giove nel concistoro di tutti gli dèi, concilia Mercurio, e Marte, e precipita dal cielo la Discordia, consegnando al petto de gli sposi una perpetua pace.

Tutte le parole furono cantate dai più famosi musici di cristianità.

Atto unico
Scena unica

L'AURORA

Lascia Titon, deh lascia,

ch'io lasci il roseo letto

ch'io tronchi il tuo diletto,

io fui già messaggera

di quel sol, che fa bello un mondo solo.

In questi dì giocondi,

io son d'un sol foriera,

d'un sol, che nacque ad illustrar sei mondi.

Scaldava il sole antico

il verde alle campagne,

e col raggio fecondo

portava i fiori a rallegrare un mondo.

Ma questo sol novello

coronato d'angelici splendori

porta sei mondi a rallegrar sei fiori.

Già di perle rugiadosa

l'uscio apersi all'aureo dì,

bel Narciso, e bella Rosa

di mia mano allor fiorì.

Or felici i nostri albori

fan fiorir di perle i cori.

Respirate, o zeffiretti,

di dolcezza ai dì felici,

e, garrendo gli augelletti

rispondete, e voi pendici:

tante gioie, e tanti beni

dite voi mesi sereni.

I mesi cantano anch'essi, e prima Marzo.

Io son fine odorato

d'ogni gelido affanno,

io son Marzo fiorito, alba dell'anno.

Già, dileguato il gelo,

di propria man mi coronava il Sole

di pallide viole,

ed or, che in questi lidi,

mercé d'una dolcissima rugiada,

figlia del tosco cielo

previene tutti i fiori

il mio giglio celeste,

amor delle sue foglie il crin mi veste.

GIUGNO

Padre son io della futura messe

de bifolchi il tesoro,

io son il Giugno d'oro.

Già nuda, e solitaria

di queste bionde chiome unica amica

mi coronò la spica,

or, che bella è quest'aria

d'un novo sol d'amore

onde il giglio celeste eterna il fiore,

io delle foglie sue care, e divine

intreccio le mie spiche intorno al crine.

SETTEMBRE

Quel Settembre son io,

che saporite pompe all'aria spiego,

e sul peso de frutti i rami piego.

Fu sol mio pregio, e cura,

dopo l'estiva arsura,

di mature ricchezze ornarmi il crine.

Né fu chi mi vedesse

turbar giammai le belle glorie al Maggio.

Ma poiché, sotto un raggio

più puro, e più sereno

fan lega il frutto, e il fiore,

e fiorita d'amore

la primavera mi sospira in seno,

intreccio questa chioma

e di gigli, e di poma.

GENNAIO

Che fo più qui, che penso

io Gennaio infelice infra le squadre

dei dì cari, e sereni

io di piogge, e di gelo orrido padre?

In questi bei contorni

non è, né sia più mai,

o nubiloso il cielo, o l'aer denso.

Addio sereni giorni, e mesi gai,

quel sol da voi mi caccia,

che dal tosco orizzonte

la bella fronte aprio,

e svelando la faccia

il dolce autunno a primavera unio.

(nel partire)

Respirate, o Zeffiretti,

di dolcezza ai dì felici,

e garrendo gli augelletti

rispondete, e voi pendici,

e tu cara età dell'oro

teco porta il tuo tesoro.

L'età dell'oro.

Io son l'Età dell'oro,

che torno a voi mortali

scorta da quel mio sole,

che sì benigno, e lieto,

nell'adorato suo dolce viaggio

dai paradisi toschi

aprio su questi lidi il suo bel raggio.

Io torno a voi mortali, e meno meco

la bella copia ai campi,

la bella pace ai cori,

e le grazie, e gli amori:

al mio primo apparire,

quasi augelli notturni in faccia al sole,

da voi cari mortali

fuggono tutti i mali.

Vedrete infra le selve,

dal ventilar dell'aure

umide, e mattutine

gli arbori affaticati

sudar le vive ambrosie in grembo ai fiori

vedrete sul mattino,

al dolce lagrimar d'albe ridenti,

o, che giorni beati,

fiorir di manna i prati.

Ma più, ma più vedrete,

sovra i colli dei cori,

or che fiorisce il giglio,

o, che novo gioire,

la cara purità tutta fiorire.

La Discordia accompagnata da due Furie.

DISCORDIA

E qual felicità vantando or vanno,

e seminando questi

personaggi mentiti,

e deità sognate?

La Discordia son io,

che tante risse posi

l'altr'ieri in cielo infra Mercurio, e Marte,

per impedir gli onori

a cotesti imenei,

che intenderete or quale

spettacol si prepari agl'occhi vostri.

Una delle Furie soggiunge.

La pazzarella Aurora

quel mendico barlume,

quella dell'oriente,

cecità preziosa

vanta giorni felici, e non s'accorge,

che nascendo fra l'aure, e fra le brine

seco guida sospiri, e mena pianti.

L'altra Furia aggiunge.

E quell'altra infelice

maschera immaginata

canta lieti ritorni, e seco porta

i titoli dell'oro, e giurerei,

che fu l'età degl'insensati legni.

Tutte tre.

E quei mesi mal nati

figli d'ignoto padre,

che nel fuggire han vita

cantin pur essi ancora i dì sereni.

Sfrondarem tutti i fiori

intorno al crine a Marzo

e le vantate spiche

gravide d'aria pura

vaneggeranno intorno

alle chiome di Giugno,

e quei biondi alimenti

saran gioco de' venti,

getterem tutte a terra,

e pesterem coi piedi

le poma di Settembre,

e gl'intrecciati fiori

perderanno gli odori

e Gennaio pentito

dell'assettate fughe

farà dell'anno a scorno

alla serie de' mesi anch'ei ritorno.

La Discordia sola.

Ingegni marziali,

e voi forensi Achilli

dove son, dove son le nostre figlie

e le guerre, e le liti?

S'inchini al mio parlar prole sì bella.

Una delle furie.

Anzi, dov'è la pace?

Ch'io voglio, in questo punto,

sfrondarle, con quest'ugna,

l'eternità dei sempre verdi ulivi.

L'altra furia.

Anzi, dov'è la copia?

Ch'io voglio i suoi tesori

gittar al vento, e lacerarle il corno.

Tutte tre.

Torniam, torniamo al cielo

valorose compagne,

compagne solo al discordar concordi.

Torniam, torniamo al cielo,

e questo crin de serpi,

e quest'orribil viso

oggi porti l'inferno in paradiso.

Mercurio irritato dalla Discordia.

MERCURIO

Quel dio, che vi ragiona,

stupidi spettatori,

egli è quel dio, che la seconda sfera

move in un giro eterno,

e d'influssi ingegnosi il mondo sparge.

Quel Mercurio son io,

cui riveriva Egitto,

cui l'arabo adorava,

stella de' vostri ingegni,

dio delle vostre menti,

scaturigine eterna

di quei raggi secreti,

onde ragion s'onora infra mortali.

Pende dal mio bel corso

ogni vostro discorso,

e di mille intelletti

vittoriosi in campo

pendono dal mio carro i bei trionfi.

E se fu mai, che si pregiasse, in terra,

la mia divinità d'alcun seguace,

oggi le mie delizie

tutte tutte riposte

stanno nel vostro duce,

regnano nella mente al vostro eroe.

Egli è dell'arti mie l'onor primiero,

e d'ogni studio mio pompa, e decoro.

Io son quassù nel cielo

il suo duce diletto,

il luminoso auriga ai moti suoi;

egli è quaggiù fra voi

raggio della mia luce,

luce della mia stella,

e d'ogni vostro ben stella, e fortuna.

Or che Imeneo mi tolga,

or che Marte mi levi

i miei più degni onori,

mi pesa, o spettatori,

quinci via più di sdegno,

che di splendore acceso

giro per questo cielo, e quasi, quasi,

vo sregolando alla mia sfera i moti.

Ma poiché la mia forza

non basta a sciorre i nodi,

ond'Imeneo congiunse alme sì grandi,

anzi bella speranza

mi vezzeggia lo sdegno, e già m'insegna

a tollerar sì bella gloria in pace,

almen non vo', che Marte,

quel mio fiero nemico,

e turbi le mie glorie,

e s'usurpi il mio pegno,

e ai diletti suoi trarlo si vanti.

Che pubblicar disfide,

e trar di tanti spettatori il guardo

a contese ferine, e non umane?

Che una fronte turbata

versi prodigamente

fra tempeste di sdegno

pioggia di reo sudore

il suo pregio è maggiore.

Trar sudor dagl'ingegni,

e stillar sulle carte

i gloriosi inchiostri è la mia cura.

Che paraggio v'è mai

fra le trombe, e le cetre,

fra timpani, e viole,

fra le lingue, e le spade

tra funesti cipressi, e vivi allori?

O quanto mai più vale

il fulmine felice,

d'una lingua oratrice,

che di brando guerriero alta ferita.

Una lingua efficace

quasi falce sonora

là, nel mezzo d'un campo

miete mill'alme, e mille

all'aura d'eloquenza alfin mature,

e la falce di Marte i corpi miete.

Ed osa quel fellone

scender meco a tenzon nell'arti mie?

Distornerò ben io questi tornei,

e renderò ben io vane, e bugiarde

d'un emulo superbo,

le speranze, i pensieri, e le promesse.

In un castel sepolto,

sotto 'l fondo del mare

lo sfidatore è stretto,

i venturieri anch'essi

stanno parte rinchiusi

d'un monte qui vicino, in mezzo ai sassi;

parte stan relegati

nella palude ombrosa,

e parte prigionieri

nella montagna etnea traggono l'ore,

e finalmente parte

nelle viscere stanno

degli orribili mostri in mezzo al mare,

scendan, se ponno, a torneare in campo.

Marte contra Mercurio.

MARTE

Alla mensa di Giove,

ov'io del quinto ciel splendore, e dio

tra furori beati

nella coppa d'un elmo,

il nettare guerriero or or bevea,

udito ho le querele,

intesi i tradimenti,

e scoperti gl'inganni

del nume de' bugiardi,

autor delle chimere,

del dio delle menzogne, e dirò quasi

del valletto del sole

indignità del cielo

ingiuria delle stelle,

e del nostro collegio orrore, e scorno.

Pretende il dio malvagio

di schernire i miei studi,

e l'opre ingiuriar della mia mano,

et ancor non intende

l'insipido argutello,

che piccante del mondo è la mia destra.

Il pazzarel si vanta

d'esser fatto il monarca, e fatto il dio

d'un suo logico mondo

pieno di mille essenze,

che non sono, e non furo, e non saranno,

e, con siffatte macchine s'è fatto

l'architetto d'un tarlo,

per roder gl'intelletti a voi mortali.

Io, che sottrarre intendo

a cotante miserie il vostro eroe,

e procuro di trarlo

dall'ombra delle carte al sol dell'armi,

e vedrà tosto l mondo

più della lingua altrui

il suo braccio guerrier fatto eloquente,

non avrò dunque forza

a scior gl'indegni nodi, ond'oggi stanno

lo sfidator coi venturieri avvinti?

Carattere infelice,

che in abito di stella,

vai macchiando le sfere,

dal gran libro del cielo vo' cancellarti.

Più felice, e più fausta

del tuo lume più chiaro

giù nei campi dell'aria è la cometa.

Io movo un cielo, ed abito una sfera

più lucida, più grande, e più possente,

che non è di costui

il circolo infelice, onde si vanta.

Sì sì farò ben io, che impallidisca

l'arte delle sue voci al suon dell'armi.

Farò, che, al fiero suono

del gran timpano mio, taccian le cetre.

Intreccerò ghirlanda

di cipressi, e di lauri a quella testa,

che fu scelta dal cielo

a fabbricar felicità per voi;

ma voglio, in questo tempo,

perché sul volto stesso

venga bianco l'ardire al mio nemico

schernir gli scherni suoi, con l'arti sue.

Io vo', con modi dolci, e modi cari,

agl'imenei, che d'onorar mi pregio

trar liberati i combattenti in campo.

Vo spalancar gli Elisi, e trarne Orfeo,

perché sì dolce gorgheggiando canti,

che di perle canore un nembo sparga

sull'alma a Margherita arsa d'amore.

Compariranno intanto,

in queste care arene

tratti dal canto suo sassi guerrieri.

E benché un cenno solo

della mia deità potesse ancora

disincantar tant'altri

dalla costui malvagità ristretti,

io voglio, o spettatori,

e per vostro diletto, e per mia pompa

mover la terra, il ciel, mover il mare,

e far, che tutto quasi

il collegio divin conspiri meco

a liberar i combattenti in campo.

Scendi Venere intanto,

nume propizio, e dolce,

e favorisci pronta a' miei disegni,

e poiché ad altre prove

serbo gli dèi marini

dal profondo del mar libera l duce.

Ecco la mia ciprigna,

o come bella sorge,

or sì, che per vendetta, io son beato.

VENERE

Invocar non potevi, o dio dell'armi,

nume di me più pronto ai cenni tuoi,

or or dai falsi abissi

trarrò su queste arene il tuo gran duce.

Coro di Marte ringrazia Venere partendo.

Volate in questi accenti,

o dolcissime grazie,

perché si renda il meritato onore,

alla diva bellissima d'amore.

Fortunato campione

or ti consola, e godi,

godi ch'or or saranno

da sì beata man sciolti i tuoi nodi.

Venere cala verso il mare, e segue cantando così.

Ei sa, s'io l'amo, e ne fan fede al mondo

mille dolcezze mie,

che, con sì caro dio lieta gustai:

né che pubbliche sian punto mi cale,

poscia, che tutti sanno,

che fiamme di vergogna,

tra le fiamme d'amor loco non hanno.

Chi più di me potea

far delle forze sue pompa nell'acque?

Io son la dèa d'amore, e nacqui in mare,

e ' premio del natale

strinsi, nel nascer mio, l'anime amanti

a dar tributo all'acque salse in pianti.

Suddita del mio foco

vive la dèa dell'acque

la bellissima Teti, essa no 'l nega;

e qui si tratta infine,

una causa comune,

il vassallo comune è prigioniero.

Qui si muterà la nube in conca, e Venere alzando la voce soggiungerà.

Or si converta questa nube in conca.

(e poco dopo)

Sorgi dai cupi fondi infausta rocca

e spezzatevi voi

incantate catene, e resti intera

l'antica libertade al nostro duce.

Coro di Venere.

Amoretti canori

sciogliete il dolce canto,

ch'or or sciolto è l'incanto.

Cantiam, che Citerea

la bellissima dèa

nel mezzo di quest'onde

il dio dell'eloquenza oggi confonde.

Tanto si replichi questo, che sia sorta tutta la rocca col sig. duca, ed allora Venere soggiunge.

Entra libero omai

dall'incantate soglie, in questa conca

generoso campione, anzi piuttosto,

mio novello seguace.

Chi d'amorosi lacci il cor ha cinto

portar già non dovea

di catena men degna il piede avvinto.

Se un'alma innamorata

dovea, per rea fortuna,

prigioniera, e sepolta esser nell'acque;

non era altr'acqua alla sua sorte eguale

che del pianto d'amor l'onda fatale.

(poco dopo soggiunge)

Or solchiam per diporto,

questi flutti tranquilli,

e farem nascer poi

un dolcissimo porto agli occhi tuoi.

Coro di Venere mentre solcano il mare.

Or, che gode un bel sereno,

il tuo cor già sì turbato,

di quest'acque amiche il seno,

lieto solca eroe beato.

Questo mar, se tempestoso,

se cruccioso,

fu ministro a te di noie,

or tranquillo, e dilettoso

campo sia delle tue gioie.

Nel far sorger la città di Gnido, così dice Venere.

Per pascer gli occhi tuoi di novo oggetto,

mutisi questo lido

nella città di Gnido:

e voi canori alati,

finché sorta si veggia

adorate il natal della mia reggia.

Coro di Venere mentre sorge la città.

Questa reggia che nasce a poco, a poco

albergo di Ciprigna, e degli amori,

s'adori pur, con odorati incensi,

e sia l'affetto il foco,

e serviranno intanto,

di turibolo il cor, d'incenso il canto.

Venere, dopo sorta la città.

Quest'è l'antica, e bella

famosissima mia città di Gnido,

là dove il mondo tutto,

e regina m'inchina, e dèa m'adora,

dopo le tue battaglie, io t'offro questa,

per fede al tuo riposo,

per reggia al tuo diletto.

Quinci usciranno or ora,

pronti i padrini, e i paggi ed io tra tanto

mentre nel mezzo all'acque,

delle tue glorie avvampo

ti do quest'elmo, e ti consacro al campo.

Tritoni vibrano un ponte d'oro al Mantenitore: perché possa salir sul lido.

TRITONI

Sovra quest'aureo ponte

generoso campion smonta sul lido.

Prima invenzione, Apollo.

APOLLO

Questa chioma di raggi,

e questo music'arco,

che saetta la morte, e questa lira,

ove l'armi del tempo

contra le glorie altrui

canora sepoltura ebber mai sempre,

mostran, ch'io sono Apollo

il gran padre de' lumi, il dio del canto.

Vivon, nel basso mondo,

consacrati al mio nome

l'aquila fra i volanti,

il lauro fra le piante,

l'elitropio tra i fiori,

e l'oro tra i metalli, è così mio,

ch'io son l'oro del cielo,

ei della terra è divenuto il sole.

Vissi, più che mai lieto

l'altr'ier, che il vostro eroe

consacrasse l'ingegno al dio dell'armi,

per divenir ben tosto

materia di quest'arco, e questa lira.

Ma Mercurio malvagio oggi s'ingegna

di distornar sì gloriose imprese.

Vengo pertanto anch'io,

generoso vicino, amico Marte,

spirito de' miei raggi

a vendicar quel torto

che t'ha fatto tra sassi il tuo nemico.

Ma nel dolce cospetto

di quel volto regale,

in cui fanno armonia mille bellezze,

io vo', che per dolcezza oggi divenga

musica la vendetta.

Spalancatevi intanto

felicissimi Elisi, e n'esca Orfeo,

che sì soave canti

che gl'incantati sassi

tirati dall'armoniche catene

passeggin questo campo,

e sul canto di lui

per ineffabil forza

della mia deità mora l'incanto.

Alle musiche prove

voi del lieto permesso

dive canore mie siate presenti.

Le Muse sul monte Parnaso prima, che Orfeo esca.

LE MUSE

Cinzio quest'è il tuo colle,

l'aura della fatica,

e de' sacri sudori

una rugiada amica

l'han fecondato tutto,

e sono i versi i fiori,

ed è la gloria al suo cultore il frutto.

Orfeo.

Or, ch'io torno a voi mortali,

non so per qual destino

musico peregrino

a spirar dolcemente,

sotto musiche forme aure vitali,

tornino ancora a raddolcir le fiere,

tornino ancora a intenerir le pietre,

a dar senso alle selve,

et a fermar nel maggior corso i venti,

cara cetera d'oro, i nostri accenti.

Può cantar del giglio,

che divino furor pur or m'ispira,

a celebrar col canto

di sì bel fiore il vanto.

Oggi di lui fioriti

spirano tutti i cori

primavera d'Amore.

Oggi di lui dipinti

spiran tutti i pensieri

paradisi di fiori;

per lui da mille voci

fatta canora è l'aria.

L'aure di lui son piene,

e degli odori suoi

odorata la gloria oggi diviene.

Svestitevi amaranti,

or caduchi, e caduti,

dei titoli immortali,

il bel giglio s'è fatto

sacro all'eternitate,

e quinci, con dolcissima catena,

giudizioso Amore

a fiorir sulle sfere oggi l'ha tratto.

O come il tosco cielo

gli fa ricco monile

di bellissima perla,

a cui perla simile,

non produsse giammai fondo eritreo.

Felicissimo cielo,

e voi dell'Arno avventurosi colli,

in cui tanto valor nacque, e fiorio.

Ecco, che i rozzi sassi

figli delle durissime montagne

animati di gioia,

e vivi di stupore,

per opra degli dèi,

vengono anch'essi ad inchinarsi a lei.

Qui si combatte.

Invenzione della seconda squadriglia.

Giunone.

Questa veste dipinta,

di fulmini, di piogge,

di nuvoli, e baleni

mostra, ch'io son dell'aria

la regina, e la dèa

Giunon suora di Giove.

Volano nel mio regno

a far collegio i venti,

e stabilir tempeste,

per castigar talor l'ozio del mare.

Nel mezzo alla mia reggia,

i sospiri del centro

si convertono in pianti,

e tornan poscia, onde partiro in riso.

Nel mio trono sublime,

le lucide comete

hanno imparato ad emular le stelle.

Nel più basso confine

del mio spirabil mondo

insegnata dal sole Iride archeggia.

Da quell'arco si scaglia

colorita la pace agli occhi vostri;

e 'l ceruleo colore in lei prevale.

Ma non però si fidi

il malvagio Cilenio

di quell'arco di pace,

che saprò ben anch'io,

in pro del dio dell'armi,

con l'altre deità movergli guerra

ma vo' tentar intanto,

curiosa vendetta.

Tu madre veneranda

onnipotente dèa

cui tutto il mondo in Berecinto adora,

odi i miei giusti prieghi;

movi priego, deh movi

del tuo potere un cenno,

perché la dèa di Dite

la libertà dal suo Plutone impetri

ai quattro venturieri,

che in mezzo all'ombre eterne

della palude sua vivon sepolti.

Berecinzia invocata da Giunone così risponde.

Dilettissima Giuno,

poiché, la tua mercé, godo mai sempre,

sovra le care cime

di Bercinto mio puro il sereno,

con questo stesso core,

alle tue voci ascendo,

e sull'ali d'Amore

alle preghiere tue descendo a volo.

Giunone, subito, avuta risposta da Berenice, si licenzia così.

Da te sperava appunto,

caro nume adorato,

alle preghiere mie fine, sì grato.

BERECINZIA

(a Proserpina)

Ecate figlia mia,

che in mezzo alle grand'ombre

della notte de' boschi, e dell'inferno

stendi adorata un triplicato impero,

ascendi a queste voci,

e i preghi miei cortesemente ascolta,

per quei dolci sospiri,

per quegli amplessi stretti,

ond'il tuo caro sposo

gode luce amorosa in mezzo all'ombre,

e sente refrigerio infra le fiamme,

deh priegalo, che sciolga

dagl'incantati lacci

quel drappel generoso,

che vive in mezzo all'ombre

d'una antica palude oggi sepolto.

Tu sai quanta fortuna

fra le gioie d'amor trovino i prieghi.

PROSERPINA

(a Berecinzia)

Quel triplicato impero,

che, per mio dolce fato

d'esercitar m'è dato

nelle selve, nei cieli, e negli abissi

non è, non è perfetto

madre, s'ai cenni tuoi non è spoggetto.

Spenderò, col mio sposo

il valor de' miei prieghi,

e da lui spero a sì grand'uopo aita.

(a Plutone)

Pluton, se mai t'apersi,

con questi occhi sereni,

un raggio di bellezza infra quest'ombre.

Pluton, se mai gustasti

in mezzo a queste arsure

una stilla di dolce, in questo volto.

Sciogli quei lacci indegni

spezza quelle catene, ond'oggi stanno

quei cavalieri alla palude avvinti.

PLUTONE

(a Proserpina)

Dilettissima sposa,

ma più diletta amante

poiché il mio core è teco

i tuoi prieghi dolcissimi son meco.

Or or vedrai su questo nobil capo

i tuoi cenni eseguiti,

il tuo desio compito.

(e poi ai mostri)

Tartarei mostri, esecutori arditi

del mio giusto volere

presentatemi tosto, in queste arene

l'incantato drappel libero, e sciolto.

Su, che si tarda?

Berecinzia ringrazia Proserpina, e Plutone.

Se il nodo delle grazie

alberga nell'inferno

grazie vi rendo, o deità d'Averno.

Coro di Plutone prima immediatamente, che compariscano i mostri.

Vedrai tartareo dio,

in questi neri chiostri,

pronti al tuo cenno i mostri.

Qui poi compariscono i mostri coi cavalieri.

Qui si combatte.

Invenzione della terza squadriglia nella quale verranno librate in aria sei nuvolette in forma sferica, e conforme l'ordine dell'insegna de' Medici, in cima alla superiore sederà il dio d'Amore col dardo, e l'arco adorno di perle, nell'altre nuvolette saranno gruppi d'Amoretti.

Il dio d'Amore canterà così.

Quell'io, che qui comparvi

sovra sei stelle assiso,

già volge il sesto lustro a far felice

questa terra, quest'aria, e questo cielo,

e sì beatamente

qui fermai la mia fede,

e fissai le radici,

che più che mai soavi,

in questi giorni ancora

tanta felicità produce i frutti.

Or ora queste sfere,

simboli gloriosi

di bella eternitate

io vengo, o spettatori,

io vengo a far le vostre gioie eterne.

Allor di ricche perle

coronai la faretra,

ed or di perle ancora

pompeggia l'arco, e tesaurizza il dardo,

né sapria d'altre gemme

d'altre, che di Margherite,

mostrarsi bello agli occhi vostri Amore.

E poiché quel malvagio

brutto dio de' sofismi

conturba, ed impedisce

le gioie mie, con Marte oggi comuni,

vengo a sgridar Bellona,

perché non mova anch'essa

in pro del dio dell'armi,

per confonder costui l'ingegno, e 'l braccio.

Sotto l'etnea montagna,

un drappel di guerrieri

per opra di costui viene incantato.

Perché, perché costei non gli trasporta,

velocissimamente in questo campo,

a farsi, in questo punto,

spettacolo beato agl'occhi vostri?

Su Bellona, che tardi?

CORO DI AMORETTI

Agli amorosi prieghi

del nostro dio d'Amore

china, china Bellona il ferreo core.

BELLONA

(ad Amore)

Non mi sgridar Cupido,

ch'io porto in mezzo al core,

e sovra i miei pensieri,

i gusti del mio duce,

gli onori d'Imeneo

gl'interessi di Marte, e i prieghi tuoi.

Prevenni i tuoi lamenti,

ed arrivando alla montagna etnea,

liberai con un cenno

quel drappel generoso,

e sovra un nobil carro

rapidamente spinto,

per secreta virtù di questa mano,

or per terra, or per aria,

gl'intimai la venuta a queste arene.

Cupido or udirai

i timpani forieri

di sì bramato, e maestoso arrivo.

AMORE

(a Bellona)

Gloria de' nostri strali

onor del nostro impero, aver sì pronto

alle nostre querele un cor guerriero.

BELLONA

(gli replica)

Tregua de' nostri ardori, addio addio.

Gruppo d'Amoretti con Amor partendo.

Onnipotenti strali

parole onnipotenti

a soggiogare un core

né la man, né la lingua ha il dio d'Amore.

Qui si combatte.

Quarta ed ultima invenzione.

SATURNO

Io son quel dio, che delle sfere erranti

move la più sublime,

onde il cielo stellato,

con mille bocche sue, bacia il mio cielo.

Padre degli altri dèi

mi riveria la Grecia:

nume della fermezza

m'inchinava l'Arabia.

Idol della prudenza,

mi celebrò talor l'antico Egitto.

Tardi, gelidi, e fissi

sono gl'influssi miei;

ma se fu mai, che fiamma

riscaldasse Saturno

giusta fiamma di sdegno

contra il figlio Mercurio oggi m'accende.

Il mio campione invitto

il mio gran semideo,

per servir a quegl'occhi,

in cui vagheggio il mio bel figlio, il sole,

dispose queste arene,

intimò questo campo,

ed esponendo al marziale arringo,

magnanime querele,

sì generoso scrisse,

che le scritte proposte avrebbon fatto

arrossar gli Alessandri a quegl'inchiostri.

E costui che pretende

dalle carte macchiate il suo decoro,

dalle querce abbattute onore al lauro,

strinse, con vario nodo i cavalieri,

e fin nel mezzo al mare,

e nelle stesse viscere de' mostri

il perfido incantò l'ultima squadra.

Ma tu caro Nettuno,

se del gelido impero a parte meco

vivi nel mondo, e regni,

se nelle conche tue,

preziosi natali,

e favori vitali

le belle margherite ebber mai sempre,

esci dai freddi fondi,

apri la reggia algosa,

e dal ventre de' mostri

quel famoso drappel libera omai.

Sorge Nettuno; e prima ch'egli risponda a Saturno gli Dèi marini gli cantano quest'inno.

Per riverenza il corso

fermate in aria, o venti,

e voi per riverenza,

furibondi torrenti

arrestate sul lido,

il torbido tributo

questi di tutte l'acque è il dio temuto.

E tu la conca imperla,

leggiadra Galatea

e la pianta sabea

dalla scorza ferita,

sovra quest'acque chiare

pianga fumi odorati al dio del mare.

E voi mutoli pesci

i nativi silenzi omai rompendo,

tra questi salsi umori

divenite canori,

e dalle vostre lingue,

oda dell'acque il dio

al suo nome devoto un mormorio.

Orche voi smisurate,

vastissime balene,

qua venite, e piegate,

con un devoto inchino

le lubriche montagne al dio marino.

E tu dell'acque figlia

placidissima auretta,

nudrita alla marina,

su questi flutti inchina

il tuo volo devoto,

e chi nell'onde nacque

mormori mille lodi al dio dell'acque.

E voi ricche conchiglie,

fecondate dal sole,

che alle perle figliole

di nettare celeste

sete soavi poppe,

anzi coppiere, e coppe,

splendan più che mai belle

a questi lidi intorno,

le vostre margherite in questo giorno.

NETTUNO

(a Saturno)

Se ad un cenno del ciel si move il mare,

e 'l flutto ubbidiente

parte dal lido, e torna,

e tranquillo talora, e tempestoso

s'appiana in valli, e si scoscende in monti;

voglio seguir anch'io

l'istinto del mio regno,

e pronto a' prieghi tuoi,

padre Saturno, e dio eseguir quanto vuoi,

anzi vo', che si stenda

il confin del mio regno in questo campo.

Perché, sciolto che sia

quel drappel generoso

dagl'incantati nodi,

in questo giorno vaglia

a mover su quest'acque una battaglia.

Uscite, uscite intanto

pronti da questo lido,

o voi flutti marini,

e gli antichi confini oggi rompete,

e voi mostri crudeli,

che il gran fondo del mar muti abitate,

venite, e trasportate

liberi dagl'incanti

sovra i lubrichi dorsi i cavalieri.

Mentre queste cose si fanno, il Coro di Nettuno.

O che prove, o che prove

inusitate, e nove

del gran dio di quest'onde oggi vediamo,

cantiam, lieti cantiamo,

cantiamo lieti, e mora

in sul confin del canto

fra le musiche gioie oggi l'incanto.

Galatea allagato il salone comparisce sovra una isoletta conducendone un'altra.

GALATEA

Che prodigio inaudito,

spettacol non veduto io qui rimiro?

Dunque dei falsi regni

l'antichissima meta oggi si rompe?

Forse ai toscani legni

era confine angusto il mare antico?

O si dilata di letizia il mare,

poiché per fargli onore

una perla regal gl'ingemma i lidi?

Oppur devota onda

a sì rare bellezze amplia lo specchio

ma poiché questa parte

deve a nova battaglia essere il campo,

io Galatea, per farne

spettacolo più caro a sì begli occhi

prontissima composi

quest'isole vaganti,

per accogliere, in esse i combattenti.

Tu guerrier generoso

scendi, con franco ardire,

su questo mobil campo,

e'n quest'isola, intanto

mira, ch'a te devota

anco, in mezzo del mar vive la terra.

Qui si combatte.

Giove nel mezzo del concistoro di tutti gli Dèi, così dice a Mercurio, e Marte.

Divi, che insieme guerreggiando andate,

se la gloria vi stringe

in questa empirea fede,

stringavi ancora amor, stringavi fede.

Facciano amica parte

delle lor proprie glorie

e le carte alla spada,

e la spada alle carte,

e la Discordia intanto

da questo sole eterno,

precipitosamente

con le compagne sue torni all'inferno.

La Discordia con le Furie.

DISCORDIA

Pietà Giove pietoso.

DISCORDIA, FURIE

Pietà, pietà che merita perdono

chi segue nell'oprar il proprio istinto.

GIOVE

Scellerata Discordia,

e voi furie dannate

al sempiterno pianto

traete pur, traete i giorni dentro

al tenebroso centro,

e la pace beata, e 'l dolce riso

abbian ne' lieti sposi il paradiso.

Qui son precipitate.

Replica tutto il coro degli Dèi il medesimo:

Scellerata Discordia

e voi furie dannate.

Fine del libretto.

Generazione pagina: 14/01/2016
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