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La maga fulminata

LA MAGA FULMINATA

Favola rappresentata in musica.

Versione sintetica a cura di www.librettidopera.it.

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Libretto di Benedetto FERRARI.
Musica di Francesco MANELLI.

Prima esecuzione: febbraio 1638, Venezia.


Personaggi:

ARTUSIA maga

sconosciuto

FLORIDORO principe di Ponto

sconosciuto

RODOMIRA sua sorella in abito di cavaliere

sconosciuto

ROSMONDO principe d'Armenia

basso

FILAURA sua sorella in abito di cavaliere

sconosciuto

FILAMPO cavaliere errante

sconosciuto

ROSILLO cavaliere errante

sconosciuto

GIOVE

sconosciuto

MERCURIO

sconosciuto

PALLADE

sconosciuto

PLUTONE

sconosciuto

ECO

sconosciuto

SCARABEA governatrice d'Artusia

sconosciuto


Tre Sirene. Tre Cavalieri trasformati. Coro di Cavalieri.



All'illustrissimo ed eccellentissimo...

All'illustrissimo ed eccellentissimo signore viceconte Basilio Feilding ambasciatore d'Inghilterra alla Serenissima signoria di Venezia.

I fulminati sono ribelli del cielo, ma la mia Maga fulminata è divotissima del nome di v. eccellenza illustrissima.

Se ne viene in cenere a posare nell'urna della sua grazia.

Benché impolverita, sorgerà nova fenice, vivificata dal calore, della protezione, di v. eccellenza.

È da lei stata goduta, ed applaudita nel teatro; non sia per dispiacerle nel gabinetto e bella dama alletta in pubblico, diletta in privato.

Già presentai all'eccellenza vostra canori i tributi della mia riverente servitù; ora glieli porgo poetici; perch'io voglio, ch'il mio ossequio verso di lei gareggi di durabilità con gli anni; e (se mi fosse concesso) lo vorrei adottare per figlio all'eternità.

Degnisi, di gradire i vivissimi segni, del mio affetto; i miei doni (dirò) gemmati, perché virtuosi, è più che preziosa quella gemma, a cui l'oro di virtù serve di carcere.

Se a gli occhi di v. eccellenza porgo non chiari, non stellati, ma caliginosi, e tetri i concetti, si raccordi ch'al sole anco talvolta presentate sono tenebre, e nubi. Con che a v. eccellenza illustrissima umilmente m'inchino.

Venezia 6 febbraio 1638

Di v. eccellenza illustrissima

umilissimo servitore

Benedetto Ferrari

Lo stampatore a' lettori

Se l'Andromeda, del signor Benedetto Ferrari l'anno adietro rappresentata in musica dilettò in estremo, il presente anno, la sua Maga fulminata ha fulminato gli animi di meraviglia.

Non contento d'aver addolcite l'onde dell'Adria col non più inteso suono della sua dolcissima Tiorba, con i concerti delicatissimi di due volumi di musica da lui fatti stampare, ha voluto anco far d'oro questo clima con i caratteri oscuri d'una penna. A me toccò di dare alle stampe la sua Andromeda, resto onorato non meno della sua Maga, la quale è stata prima stampata ne' cori, che su le carte. Accoglietela, lettori, come parto meraviglioso, uscito da autore insigne, quale ha potuto del suo, e con quello di cinque soli musici compagni con spesa, non più, di due mila scudi, rapir gli animi a gli ascoltanti co' la reale rappresentazione di quella; operazioni simili a principi costano infinito denaro. In oltre, ove s'è trovato a' tempi nostri privato virtuoso, a cui sia dato l'animo, di porre le mani in tali funzioni, e riuscirne con onore, come ha fatto egli la cui gloria e de' compagni, il grido universale della serenissima città di Venezia proclama? Accogliete non meno intanto l'intenzione mia, qual è di giovarvi, e dilettarvi, col porgervi in dono, col mezzo delle mie stampe, le fatiche illustri, di così nobile virtuoso, e col descrivervi la musicale rappresentazione, dell'opera, la quale seguitò in questa guisa.

Dileguata la cortina si vide la scena aria tutta, e terra; il suo cielo era come l'altro, quando la notte il vela. Tempestato di stelle facea credere, che in un teatro fosse venuto ad abitare il cielo. Scese per via semicircolare nel suo cerchio d'argento la luna, la quale cantato il prologo si nascose sotterra. Divenne il cielo luminoso e chiaro, e uscito un palazzo reale a far pompa della sua meravigliosa architettura comparve con seguito di cavalieri Artusia maga, e poco dopo Floridoro principe. Il vestire di questi due personaggi era alla foggia turca. La preziosità dell'abito, la squisitezza del canto si può ben ammirare, ma non ridire. Con leggiadrissimo assalto si videro due cavalieri a far battaglia; tra la ferocia de' colpi brillando la bizzarria dell'abito, stava la gente perduta, e tra due spade languivano di piacer, non di dolore i cori. Spuntò dalla reale il principe Rosmondo. Questi adorno all'uso perso, fece altri perdere col grave aspetto, co' la pomposità del manto. E colla soavità della voce. Scarabea vecchia rimbambita spiegò con sì argute vivezze i suoi amori, che non vi fu giovane, né vecchio, che non ne divenisse amante. Si oscurò il giorno, tremò la terra, balenò il cielo; invocando la maga Plutone s'aperse l'inferno. Col seguito de' suoi neri signori comparve il principe di quella regione. Tornò chiaro, e in una nube d'oro si lasciò vedere Pallade, che scorreva le vie del cielo. Cantò costei da personaggio, qual era, divino. Era di così lucida veste ornata, ch'ogni occhio comprava la di lei vista a prezzo d'abbagliamenti. Uscirono dalla reale sei nani a formare una ridicola danza, e qui ebbe fine l'atto primo.

Divenne la scena un bosco; pareano le di lui fronde tremolare, ed i ruscelli scorrere; al suo bel verde non mancava altro di naturale, che il voto d'un augello, e 'l corso d'una fera. Cinta d'un bizzarissimo succinto arnese si vide la maga: al cenno della verga, un albero, una fonte, e un sasso figliarono tre cavalieri. Così bella trasformazione trasformò in giubilo mill'anime. Si cambiò in un baleno l'imboschito apparato in spumoso, e marittimo; veleggiava per lo mare una navicella con due cavalieri dentro, e un timoniere a poppa, si vedea tracciata da tre sirene al lito. Schernite al fine si attuffarono nell'acque. Fu l'occhio del riguardante dall'onde false a i sentieri del cielo chiamato da Mercurio, che leggiadrissimo passeggiava per le nubi; s'aperse poco dopo il cielo, e si glorificarono le viste per il tonante, che sopra d'un aquilone posava; giunse Pallade sopra d'un carro d'oro da due civette tirato, e nella gran sala dell'aria si formò un concistoro di deità. Non si può narrare, ne l'artificio, ne l'ornamento di queste macchine, chi vuol sapere il rapidissimo volo di Mercurio, diventi augello. Chiuso il cielo, si vide l'inferno, da cui uscirono otto spiriti a figurare stravagantissimi diversi intrecci; e qui ebbe fine l'atto secondo.

Tornò la reggia d'Artusia, e uscito il principe Floridoro, vide al cenno della maga mutarsi la prospettiva in orrida spelonca, colle due principesse legate a due macigni, e Rosmondo principe cangiato in drago, che le giva dilaniando. Sparì il funebre spettacolo. Artusia infuriata, dopo aver fatto tornare il mare, la selva, l'inferno, e bestemmiate le sue deità, e quelle del cielo, le cadde un folgore nel seno, e apertasi la terra profondò. Tornarono di nuovo ad indorare con i suoi splendori le nubi Giove, Pallade, e Mercurio; indi non più veduti questi numi, sopravvenne un'oscurità densa, la quale accompagnata da tuoni, e lampi, e da tempesta, scagliò terrore, e diletto insieme ne' circostanti, ad un orribile scoppio andò in fumo il palazzo d'Artusia, e tornato all'essere suo innato il loco, cioè aria, e terra, si videro liberati eroi con altri cavalieri, e Pallade a loro nel mezzo, la quale dopo avergli licenziati, sovra una nube d'argento, che sotto de piedi le nacque salì meravigliosamente al cielo. Otto de' cavalieri fecero una bellissima danza, e qui ebbe fine l'ultimo atto. Vivete sani.

Argomento

Decantava la fama per i più valorosi cavalieri dell'Asia Floridoro principe di Ponto, e Rosmondo principe d'Armenia; uno spirito in due vite, ed in due corpi un'anima. Gareggiavano con essi loro in valore le principesse Rodomira, e Filaura: la prima a Floridoro, la seconda a Rosmondo sorella. I principi per suggellare un tanto affetto fra di loro, vollero cambiare le sorelle, e se n'attendevano in breve gli effetti del reale, e glorioso maritaggio. Ma la sorte, come quella, che sempre vuole un voto nell'umane deliberazioni, condusse prigione d'Artusia il principe Rosmondo. Era questa Artusia principessa libera, e dell'arti magiche peritissima posseditrice; Donna in vigor di quelle così barbara, ed empia, ch'in lei non altro era d'umano, che l'umana effigie. Nell'incantato suo regno, entro una superbissima reggia, pure per incanto formata, viveva costei a voglia del senso suo, senza tanto riguardo, né del cielo, né de gli dèi. Inciampò nello stesso laberinto il principe Floridoro, quale giva per lo mondo cercando il perduto amico; e di questo cavalier s'accese d'amore così fieramente la maga, che la caduta in cenere per lui l'avrebbe sempre riputata un sorgere di fenice. Pure amò sola; che Floridoro composto di virtù sdegnò sempre amori impudichi, ed opere non degne. Rodomira, e Filaura avendo perduti i principi amanti si armarono, e si misero all'inchiesta di quelli. Sconosciute le guidò, e congiunse il caso al regno d'Artusia, e venute all'armi fra loro, al fine sotto la reggia della maga, per volere del cielo, si conobbero, ed abbracciatesi insieme entrarono in quella per liberare i due principi con un anello, ch'aveva Filaura in dito, il quale scioglieva ogni incanto. Artusia intanto, non potendo espugnare la crudeltà di Floridoro, intenderne vuole la cagione da Pluto; gli è risposto, che Floridoro vive amante di Filaura, Rosmondo di Rodomira; gli è significato l'arrivo delle principesse, e rivelata la virtù dell'anello di Filaura; ond'ella ben tosto, per mezzo delle sue arti fa, che cada in suo potere. Pallade vedendo dal cielo il perdimento di questi eroi, protettrice de' valorosi, e de' sapienti, come dèa dell'armi, e della sapienza, dispone di volere la morte d'Artusia, e la libertà, de' principi. Rodomira, e Filaura addolorate per la grave perdita dell'anello, trattano con Rosmondo, (che consentir no 'l vuole) di levar la vita alla maga in una caccia, che si doveva fare alla campagna, e così riavere, e la gemma, e la libertà. Giove prevedendo la ruina loro, comanda Mercurio, che scenda in terra ad impedire la caccia, e ricuperare l'anello, per consegnarlo poi a due cavalieri di Ponto, quali venivano navigando al regno d'Artusia, per avventurare la loro vita, per la salute de loro principi. Proseguendo Floridoro nell'odio contro la maga, ella così s'adira, e disumana, che dato di piglio ad ogni sorte di crudeltà, incanta le due principesse a due Tufi legate entro d'una caverna col principe Rosmondo nel mezzo di loro trasmutato in un serpente, che le va lacerando a brano a brano. Indi studiando una pena spietatissima per Floridoro, tratta dalla disperazione, scioglie in sì sacrileghe voci la lingua contro del cielo, che dal cielo le cade un folgore nel seno, e la terra per non sostenerla, l'inghiotte. Pallade, ottenuta da Giove licenza, scende repente alla terra, e disfatto l'incantato palazzo, libera, con molt'altri cavalieri, i quattro eroi, i quali uniti in matrimonio, ed instrutti del camino, gl'indirizza felicemente a i regni loro.

D'incerto all'autore

Fra gli innocenti amori

la ministra d'inferno empia commove

scellerati furori;

ma l'arco di tua lira emulo a Giove,

mentre avvien, ch'ella mora,

FULMINA con l'oblio le colpe ancora.

Del signor Francesco Sbarra all'autore

Qualor prendi a toccar legno sonoro,

doni l'alma alle corde, e altrui la togli;

sì vario, e dolce è il suon, ch'entro v'accogli

delle sirene, e delle muse il coro.

Se poi le voci in FULMINE canoro

quest'empia Maga a debellar disciogli,

atterrando d'abisso i fieri orgogli

ne riporti non men palma, che alloro.

Ceda il tracio cantor, ceda di Delo

il nume a' pregi tuoi; che ben discerno

ch'un angelo tu sei sott'uman velo;

che se puote espugnar forze d'Averno

la tua bell'opra, è un'armonia del cielo,

non ad altri, che al ciel cede l'inferno.

Del sig. Francesco Peruzzi all'autore

S'alcun desia fra un'amorosa sfida

di femmina mirar gli sdegni, e l'arte,

miri amante una Maga a parte a parte,

se dov'abita Averno amore annida.

Quasi novella insidiosa Armida

eccola segni oprar, e maghe carte,

poscia fede, e pietà, tratta in disparte,

scardinar ciel, mondi atterrar confida.

Ferrari, opra è tua questa; ch'uno sdegno

faccia folgor cader di mano all'Etra

per ferir con un'empia anco un ingegno.

Ah che tanto stupor la mente impetra,

che ridir ben non sa, qual sia più degno,

o 'l bel plettro d'Apollo, o la tua cetra.

Della signora S. C. all'autore

Chi diede a te quella melliflua cetra

dotto Ferrari, che mill'alme, e mille

soave infiamma d'amorose stille,

e alle rupi nel sen le selci spetra?

S'incanta l'aura, ed il ruscel s'impetra

al suon, ch'acquietar può l'orride scille;

da melodie sì tenere, e tranquille

l'armonia delle sfere oggi s'arretra.

Certo i dèi te 'l donar; che non si tolle

da mortale terren frutto beato,

né un umile virgulto al ciel s'estolle.

Ah non Apollo, od altro a te l'ha dato.

Teco il traesti allor, che (amico) volle

dar alla terra un Benedetto il fato.

Del signor Angelo De' Rossi all'autore

Non più la fama oggi fra noi rammenti

del trace Orfeo l'armoniosa lira;

lo dio non pensi, che splendori spira

instupidir con cetra d'or le menti.

Restan de' pregi loro i vanti spenti

dal tuo valor, che il mondo oggi rimira

ergersi al ciel; e 'l tuo saver più ammira

che i carmi suoi, che i suoi canori accenti.

L'un per Dafne opra invan note divine;

da implacabili baccanti estinto giace

l'altro, che gir fece le rupi alpine.

Ogni alma, o gran Ferrari, in te si sface;

puoi col canto addolcir alme ferine,

e di là dalla morte esser vivace.

Del signor Paolo Bossio all'autore

Nell'ondosa città reggia de' regi

la musa tua sì rilucente appare,

che sembra, come 'l sol, sorger dal mare

il mondo ad illustrar con novi pregi.

Quivi d'eroi gli amori, e i fatti egregi

fai da voci spiegar soavi, e rare,

onde le glorie tue rendi più chiare

col giungerl'anco de' concenti i fregi.

Per te si vede da superno telo

rea Maga aver castigo a' falli eguale,

e come absorto il suo corporeo velo.

Quinci s'impari; chi trascorre al male

punito cade, e 'l fulmine del cielo

quanto men presto scende è più mortale.

Del signor Lelio Altogradi all'autore

Se d'instrumento musico, e sonoro

prendi, o Ferrari, ad animar le corde

parmi sentir, che l'armonia s'accorde

già del tracio garzone al plettro d'oro.

Quinci nel, se d'Adria in sen, cigno canoro,

tu canti, al tuo bel canto il suon concorde

han le sfere celesti: e 'l labbro morde,

e 'l ciglio inarca delle muse il coro.

Ah se mai del Castalio in sulle rive

traessi i giorni: ogn'altro duce a scherno

prenderebbor per te l'aonie dive.

E s'alle porte del dolore eterno

t'udisser l'alme di dolcezza prive

più ch'ad Orfeo si placheria l'inferno.

Prologo
Scena unica

La luna.

Poesia d'incerto.

Io che nell'alte adamantine rote

reggo pianeta errante il freddo lume,

ora dal primo giro, oltr'il costume,

mi svelle il suon di temerarie note.

Meraviglia inaudita: il corso eterno

son pur costretta abbandonar del cielo,

e cangiar il mio puro, in fosco velo,

fuggir le stelle, e valicar l'inferno.

Ben talor porto, a' tenebrosi abissi

i chiari raggi miei Febo secondo;

e illuminando or l'un or l'altro mondo,

che così ha 'l fato i suoi decreti fissi.

Ma che fuor dell'usato all'ombre oscure

mi tragga a forza lingua iniqua, e ria,

perché del suo fallir ministra io sia

fatta soggetta alle sue voglie impure.

Quest'è di magic'arte empio tenore:

ma già non ponno i suffumigi, e i detti

d'innamorato cor sforzar gli affetti,

che non patisce violenza amore.

Lunge lunge da noi dame gentili,

ch'avete pari al volto animi regi,

sì fieri esempi; i vostri nobil fregi,

non deturpin giammai opre sì vili.

Ma sian del vostro merto il pregio, e 'l vanto,

di rapir l'alme, e incatenar i cori;

cedono di Tessaglia a' vivi ardori

de' bei vostr'occhi ogni poter d'incanto.

Che più puote un bel guardo, un dolce riso,

che d'infernal virtù tiranno effetto;

amor nasce dal bello, e dal diletto,

né val forza d'abisso in paradiso.

Atto primo
Scena prima

Artusia, Floridoro.

ARTUSIA

Grave cosa è l'amar senza mercede,

e agl'idoli dell'odio, e dello scherno

porger in sacrificio amore, e fede.

All'orlo d'un sepolcro il cor confina

amator senza speme,

e i dì, benché vitali

sempre per lui girano l'ore estreme.

Rose da rose il rustico ne tragge,

frutti da frutti toglie,

e chi semina amor pianto raccoglie.

O sventurata Artusia! Ah troppa fede

avesti a un divin volto,

ma ben perverso è chi nel ciel non crede.

Due luci avida troppo vagheggiai,

ma a chi non piacciono del sole i rai?

O mia fede schernita

o mia gioia aborrita!

Io per voi pur (chi 'l crederia giammai)

trovo sott'uman velo

perfido il sole, e traditore il cielo.

Floridoro ador'io

che porta in belle ciglia

stellante meraviglia;

ch'entro bella, e real spoglia sovrana

richiude alma villana.

Alle mie voglie Floridoro impera

con legge sì severa

che con men sella assai si regge abisso:

quella ai rei pena rende,

e questa (ahi lassa) gl'innocenti offende.

O mie glorie superbe!

Dite, non son io quella

che posso al suon di magica favella

fin nelle tombe ravvivar gli estinti?

Eppure il morto affetto

nel marmo d'un bel seno

di svegliar m'è interdetto.

Piacevoli al mio cenno

rendo i soggetti del tartareo fondo,

e del ciel d'amor (d'amore sciolto)

un angelo piegar (lassa) m'è tolto.

Ma se dall'esser mio varia non sono

farò farò ben io, non andrà molto,

che del crudel cada l'orgoglio altero,

un picciol folgor le grandi torri abbatte.

Donna fa quanto vuole

doppio mostro nel mondo

d'inganno, e di bellezza;

ma vedi l'adorato che mi sprezza.

FLORIDORO

Floridoro son io del regio trono

di Bitinia, e di Ponto

principe glorioso?

Un'ombra un'ombra sono

dell'Erebo di morte

trofeo caliginoso.

ARTUSIA

Un chiaro sol tu sei,

al cui raggio son fatti, aureo, e giocondo

aquila 'l cielo, ed Elitropio il mondo.

FLORIDORO

O perch'al primo passo

non inciampo in un sasso

nel cui lacero sen sepolcro io trovi!

ARTUSIA

S'avvien ch'alla tua doglia un sasso giovi

volgi le luci al tuo bel petto algente

del mio doglioso cor tomba dolente.

FLORIDORO

Lasso? Fra strani incanti

perdo me stesso, e 'l caro amico a un punto,

e tacer so delle mie glorie i vanti.

ARTUSIA

Fra l'amorose, e barbare malie

(lassa) me stessa perdo

né lieto di mia vita io conto un die.

FLORIDORO

Che vuoi da me?

ARTUSIA

Che m'ami.

FLORIDORO

Chiedi foco alle nevi, e raggi all'ombra.

ARTUSIA

Pur il verno ha calor, lume la notte.

FLORIDORO

Dunque aver senza me puoi quel che brami:

mille volte esclamai,

ch'amar non ti vuò mai.

ARTUSIA

Vuole, e disvuole umana mente in terra.

FLORIDORO

Pertinace è il pensier, ch'il cor m'afferra.

Odimi, fiera donna,

salirà pria nel ciel fiamma d'abisso,

che per lo tuo sembiante

ascenda nel mio cor fiamma d'amore;

quando fia vano ogni mio schermo al fine,

piuttosto ch'il mio affetto

al voler tuo soccomba

vuò far scudo al mio petto

del marmo d'una tomba.

E s'il piè mai sulla mia fossa poni,

prego il ciel, ch'in quel punto

avvampi la mia polvere gelata,

ond'accesa, e minata

in un col monumento,

voli per l'aria ad atterrire il vento.

ARTUSIA

O da labbri d'Aconito, e cicuta

(non di porpore, e rose)

fulminati veleni, iniqui accenti!

Misera Artusia! Ah dove sei, che senti?

È pur questi una furia, o Floridoro?

Ohimè ch'io manco, io moro.

FLORIDORO

Convien, ch'io la sostegna,

ch'ad ogni donna è un cavalier tenuto.

Deh chi tanto mi sdegna?

A danni miei congiura il ciel, o Pluto?

L'altr'ier mia libertà fu colta al laccio,

ed or, senza morir, la morte ho in braccio.

Ove Filaura sei, o mia Filaura

ove sono Rosmondo, e Floridoro?

Come senza di loro

t'è sano il clima, e t'è vitale l'aura?

Corri corri a mirare

quest'empia Maga impura

che dell'Asia le due lampe più chiare

col vel d'un incantesmo ombra, ed oscura.

O mio destin feroce!

Se questa destra torpe in ozio vile,

come i rami schiantar potrà agli allori

per cingermi la fronte!

O mia sciagura atroce

se n' va delle mie glorie il sole a monte.

ARTUSIA

Ah ben ora m'avveggio,

che sull'ali d'amor volo al sepolcro!

Crudo, inumano, e barbaro che sei,

precorreranno alfine

i precipizi tuoi le mie ruine.

FLORIDORO

Chi le fasce real ebbe, e la cuna

non teme il contrastar d'aspra fortuna,

poco stimo, empia maga, i tuoi furori;

s'onorata virtute irraggia un seno

fin dalla tomba ancor scaglia splendori.

Scena seconda

Rodomira, Filaura.

RODOMIRA

Levati cavalier, non mai si dica

che con vantaggio i combattenti opprima;

alma gentil è del dovere amica.

FILAURA

Generoso guerrier l'armi ti cedo:

seco l'alma ricevi

del tuo valore amante,

ben hai tu regio il cor, com'il sembiante.

RODOMIRA

Riponi il ferro, e sia tra noi finito

ogni litigio; non mi diè fortuna

in te ragione alcuna;

vacillò 'l piè, ma non il core ardito:

l'armi rifiuto, e la tua grazia accetto.

FILAURA

Troppo s'avanza il tuo gentile affetto,

o caduta felice

per cui salir nell'amor tuo mi lice;

benedetto quel sasso,

che per venirmi a te mi tolse il passo.

RODOMIRA

Giungi sempre gradito nel cor mio.

Ma dimmi (e a' desiri tuoi sta 'l ciel secondo),

perché tacendot'io

quel che di Floridoro, e di Rosmondo

mi ricercar le tue preghiere, e i carmi

(di sdegno acceso) mi sfidasti all'armi?

FILAURA

Lungo fora narrar quanto mi chiedi;

saper ti basti intanto,

ch'io desio, pien d'affetto, e di pietate,

i nobil cavalier scior dall'incanto.

RODOMIRA

O qual al cor mi scende

soavissima gioia,

che men amara rende

l'angosciosa mia noia?

Amico: all'alma, di non poco affanno

m'è di Rosmondo, e di Floridoro il danno;

or quando vuoi t'adopra,

m'avrai compagno all'opra.

FILAURA

Non come pensi agevole è l'effetto.

S'il ver a me fu detto

da negromante amico

tal è d'Artusia l'incantato intrico.

Se parte un cavalier, di lei malgrado,

che mai di suo consenso alcuno parte,

egli oltre non s'avanza un tiro d'arco,

che d'improvviso un muro gli s'oppone

di fiamme, e mostri carco.

Altrettanto lontano

un ne forman (inver orrido, e strano)

ben mille spietatissimi animali,

e di squame, e di pelo armati, e d'ali.

In distanza simil, quand'i duo primi

per valor oltrepassa, il terzo ei trova

d'ombre, e d'orror guernito,

e da venti fierissimi munito.

Questi sì impetuosi, ed arrabbiati

scagliano i loro fiati,

che per forte che sia un uom di guerra

convien che giaccia a terra;

onde per non perire di disagio

(nulla giovando incontro il vento l'armi)

mesto alfin riede al barbaro palagio.

Or, quand'uopo ne sia,

di queste orrende inespugnabil mura

cinto va 'l regno della Maga impura.

Quindi è, che nessun mai,

che l'iniqua ritenne

in libertà rivenne.

Ah quest'è 'l mal minore;

ella ha sì fero core,

che a ben cento guerrier la forma invola;

chi rade il suolo, e chi per aria vola.

Ma durar non può molto

sì fera ferità, sì cruda frode,

che breve tempo in tirannia si gode.

RODOMIRA

Tante volte girò farfalla al lume

ch'incenerite vi lasciò le piume.

Ma ve' dell'empia Maga

l'incantato ricetto?

O nido maledetto

d'inganno, e tradimento

possi in polve posar sull'ali al vento.

FILAURA

Ah tolga 'l ciel gli auguri,

né tal destin la nobil coppia estingua.

RODOMIRA

Errò l'incauta lingua,

e de' prigioni eroi non mi sovvenne.

Stupor non ti confonda,

che ragion manca ove gran duol abbonda.

FILAURA

È dovere, s'amico tu mi sei,

che sii amico a Rosmondo a me fratello.

Ah che diss'io?

RODOMIRA

Tu fratel di Rosmondo?

Che sento, o dèi?

FILAURA

Fratel è a me Rosmondo

io non a lui.

RODOMIRA

O mi beffi, o vaneggi.

FILAURA

Né ti beffo, o vaneggio; io son scoperta.

RODOMIRA

Insensata ch'io sono

il mio signor german non ha, son certa.

Qual speme mi lusinga?

Sì, sì t'intendo, o cavalier mentito,

Filaura sei; lascia ch'al sen ti stringa.

Dunque con pigri modi

alla sorella del tuo Floridoro

gli amplessi, e i baci frodi?

FILAURA

Che ascolto, o dèi, che veggio?

Itene lunge, o doglie,

Filaura in seno Rodomira accoglie.

RODOMIRA

O benedetto incontro, o cieli amici.

FILAURA

O cara conoscenza, o lieti auspici.

RODOMIRA

Lieti, s'il fiero incanto

strugger potesse d'un guerrier il vanto.

FILAURA

Questa gemma rimira, e ti consola;

tal valor ella serra

ch'ogni opra di magia strugge, ed atterra.

RODOMIRA

Andianne (or che si tarda?) a trar d'incanti

i sposi gloriosi, i regi amanti.

FILAURA

Entrian secure.

RODOMIRA

Amor ne sii tu guida.

FILAURA

Anzi il cielo ne scorga; erra la via

quel che d'un cieco, e d'un fanciul si fida.

Scena terza

Rosmondo.

O perduto Rosmondo!

Terminata ha due volte

il suo corso maggiore

il principe dell'ore,

da che le glorie tue quivi sepolte

uscir non ponno ad illustrare il mondo.

Ma che? Uno spirito augusto,

se perde libertà non perde ardire;

sempre di gloria è un regio core onusto,

e sostien coraggioso ogni martire.

Pur in vostro poter talor i' cado

angosce, e lai; quando pensando vado,

ch'il mio fedele amico

(l'invitto Floridoro)

sol per me liberar, senta martoro.

Chi stabil della sorte il moto rende?

Col sì del cielo or quale no contende?

Che pera oggi d'Armenia il real germe

il rampollo pregiato

nulla mi curo, io sottoscrivo al fato;

e 'l cor finor risolve

i suoi decreti idolatrar in polve.

Ma che Filaura, e Rodomira mia

(com'in sonno mi parve)

oggi sian preda della Maga ria,

cieli, d'empi, o di stolti

deggio titoli darve?

Dansi alle furie gli angioli in governo?

Fansi le stelle lampade d'Averno?

Terra, quando sia 'l vero,

a contanti di sangue

vendimi allora allora un cimitero.

O mortal cecità! S'ange, e contrista

chi va di scettri, e di corone inerme;

stolto, né sa, che se ben sane in vista,

le grazie di quaggiù son sempre inferme.

Scena quarta

Scarabea.

Ciascun mi burla, perché sì vecchia

io fo l'amor;

perché la chioma, ch'il tempo invecchia

orno di fior;

cancher vi venga; se ben son grinza

io voglio amar;

che non per tutto l'età m'aggrinza

chi vuol giocar?

S'alcun m'incontra, le spalle stringe

si volta in là;

son una donna, non una sfinge,

che diavol ha?

Io non son brutta, se ben in bocca

denti non ho;

per far sgabello a chi 'l cor mi tocca

sì gobba vo.

Possa morir, se settant'anni fa,

preda, e diletto

mezz'il mondo non fu di mia beltà;

or l'ingrataccio

mi dà di calcio, come fossi un straccio.

A tuo dispetto,

se ben mi par decrepita sorella,

io son pur tra le vecchie la più bella.

Delineamento di faccia tale

chi vide mai?

Un sì bel naso piramidale

dove l'avrai?

Sì belle rughe non portan noie,

ma voglia fan;

in queste fosse d'amor le gioie

nascoste stan,

e pur il letto convien, ch'io veggia

vedovo, e sol;

di dieci amanti, c'ho nella reggia

nessun mi vuol;

Rosmondo bello, che più mi piace

m'è più crudel;

della mia grazia non si compiace,

poco cervel.

Tal a un vago sembiante sì s'inchina,

che poi stenta a levar senza la china

non si dia tanto tanto

di naso alla vecchiaia.

Vediam, che portan di sostanza il vanto

sol que' polli, ch'invecchiano nell'aia.

Donna canuta, e crespa

la borsa mai all'amator discrespa.

Maturo il frutto ha succo peregrino,

miglior è vecchio, che fanciullo il vino.

Vadin al diavol tutti i governi

tutti gli affar;

se non ho un cane, che mi governi

ho da crepar?

O Scarabea, ci sei ridotta,

che farai tu?

O poveretta son tanto cotta

non posso più.

Ma qual tremoto, ahi lassa,

il terreno conquassa?

Qual nube orrenda oscura il volto al giorno?

Io più non vedo intorno;

aiuto, ohimè,

io cado affé.

Artusia fa' un incanto; o mia signora,

ricordati mia dèa,

c'ha paura de' spirti Scarabea.

Contentati, ch'io mora innamorata,

ma non ispiritata.

Scena quinta

Artusia, Plutone.

ARTUSIA

Spiri l'aria terrore,

e dal suo cerchio d'oro

scagli, annottato il sol, lampi d'orrore.

Crolli il bosco le piante:

dubbioso, e vacillante

il terreno si scota

or che le forma in sen magica rota.

Ecco tre volte all'occidente miro,

e col piè scinto, e nudo il suol percoto

o fiero rege del tartareo giro.

Mentre nubi sanguigne ammantan l'aria,

mentr'al suon di tremoto il suolo varia,

d'Artusia innamorata

ascolta il grido, odi la voce irata.

O dell'eterno orribile martoro,

voi deperduti spirti dolenti

spalancatevi or or ricetti ardenti;

che s'una furia adoro

dell'inferno d'amore

non sia per dispiacermi il vostro orrore.

Su su pronto, e veloce

dal sen di confusion portami pace

o degli antri d'orror Giove feroce.

Sorgi dall'aspra, e rugginosa sede

tenebroso signor del crudo impero;

dimmi perché disdegni il rio guerriero

l'amor mio, la mia fede?

Discopritemi 'l ver tartaree grotte,

rischiara i pensier miei torbidi, e foschi

o imperator della perpetua notte.

PLUTONE

Per picciol raggio, che t'abbaglia il seno

vuoi che pronto al tuo cenno

delle tenebre eterne il dio si mova?

Adunque il re dell'odio, il fiero Pluto

(o meraviglia nova?)

dovrà agl'amanti provveder d'aiuto?

Tempra il folle desir alma dolente,

non si scherza col dio, del mondo ardente.

ARTUSIA

Basta basta d'amor l'atroce scherno

senza che dagl'infami orridi liti

rigido mi ti mostri o re d'Averno.

Ah per dio non s'irriti

donna amante adirata

donna amante sprezzata.

Ancor indugi? Ed io qui 'ndarno aspetto

principe maledetto?

Che sì, che sì?

PLUTONE

Dal fiammeggiante regno

ecco ch'a te ne vegno

arbitro de' dannati

esplorator veridico de' fati.

Ahi con quanto cordoglio

il bell'etereo soglio,

in cui beato il mio destin già femmi,

or vagheggiar conviemmi.

ARTUSIA

O meraviglia! I miei superbi vanti

sforzan le stelle, e l'ombre,

e nulla pon nel regno degli amanti.

PLUTONE

Donna l'acceso core

arde solo per gloria d'una tomba,

ma suol con morte star unito amore.

Floridoro è d'altrui, virtù l'avvince;

di Filaura l'annoda il regio aspetto.

L'esser tuo ti convince;

non val contro virtù lascivo affetto.

ARTUSIA

O degno d'un tal nunzio

amarissimo annunzio!

Dunque amor la mia fera a freno pone?

Non è dunque di sasso il cor ch'adoro?

Or dimmi s'altro a desir miei s'oppone?

PLUTONE

Gemma in dito ha Filaura,

che s'agli occhi d'alcun si pone avanti

più no 'l può dominar forza d'incanti.

In abito guerriero

con Rodomira di Rosmondo amica,

per trarne l'un, e l'altro cavaliere

or or giunta al tuo albergo s'affatica.

Ma fa' quello, che vuoi,

i disegni del ciel romper non puoi.

ARTUSIA

Vita pur, che del ciel nulla mi curo,

or or tutto assicuro.

Perfidi ingannator, vostr'ombre sole

oscureran della mia vita il giorno.

Non cade un'alta mole

che non spaventi, e non atterri intorno.

PALLADE

L'orizzonte di Ponto oggi scolora

perfida maga, e disonesta amante;

laccio duro vieppiù d'un adamante

quella fama trattien, che l'Asia onora.

Del silenzio un gran cor dall'ima valle

vuol portarsi di gloria al giogo degno;

ma libero di rado ei corre al segno,

che pien d'inciampi è della terra il calle.

L'empia a colpi amorosi, ecco, ch'intende

della virtù gittar il forte al suolo;

ma seco un cor sempre s'innalzi a volo,

non s'invischia l'augel, s'al pian non scende.

Fuggir denno a ragion egregi spirti

lascivo amplesso, ed impudico amore;

di Marte, e non d'amor degno è 'l sudore,

non ben convengon colle palme i mirti.

Oggi Pallade atterra amori, ed odi,

Floridor toglie alle catene immonde,

oggi quest'asta ogni malia confonde,

chi è caro al ciel non tema danni, e frodi.

Troppo l'empia s'avanza ne' difetti,

e 'l flagello divin trascura (indotta);

non si corruccia il mar, che non inghiotta,

e non s'adira il ciel, che non saetti.

Atto secondo
Scena prima

Rosmondo, Filaura, Rodomira.

ROSMONDO

Ecco che vuole il fato

che per novo miracolo si veda

entro magico orrore

rotar soli d'amore.

Generosa germana

o mia sposa sovrana

cadute sete al laccio,

e per trarvi d'impaccio

non val regno, od impero,

forte destra, gran cor, spirto guerriero.

Sovra incantate piume

graverà 'l valor vostro eterno sonno

che colle furie i demoni sol ponno.

FILAURA

Misura il ciel ogni potere, e forza,

ma niun il suo valor misura, e sforza.

ROSMONDO

Sognai vostra venuta, ed ebbe effetto

non è dunque il sognar sempre fallace.

Così sognar potessi la partita

della morta mia vita.

E pur vere foriere

dei levanti dell'Asia voi mi foste

tenebre tetre, e nere?

O insoliti stupori;

vidi l'aurore precursore al sole,

ma non vane fantasme, e foschi orrori.

RODOMIRA

D'auguri d'ombre non temian la guerra,

quand'il ciel coi splendor le larve atterra.

ROSMONDO

È la gemma perduta

unico refrigerio a' nostri mali,

vostra condizione

già dalla scaltra Maga è conosciuta,

in difesa or da voi, che si propone?

FILAURA

Che muoia la malvagia incantatrice.

Allo spuntar della novella aurora

dée di nitriti, e gridi,

di corni, e di latrati

strepir il piano, e risonar il monte

per la caccia a voi nota

dalla maga ordinata.

Io nel fervor maggiore

della silvestre mischia

acuto un strale avventerolle al core.

Ditel augelli voi, s'è la mia destra

nel saettar maestra?

Voi che ben spesso per i strali miei

con stupor, e dolor in un provaste

i sentieri del ciel funebri, e rei.

Perché fortuna i desir nostri adempia

rimedio altro non trovo

che la morte dell'empia.

La cara gemma mia ricuperata

avrem la nostra libertà salvata.

ROSMONDO

Non può se non al segno

giunger lo stral, che la tua mano avventa,

che bella donna è per natura avvezza,

da begli occhi scagliar or fiamma, or frezza.

Ma quando pure estinta Artusia cada,

i cavalieri suoi, ch'in guardia tiene,

e fede data l'hanno

per sua difesa abbandonar la vita,

or come pensi, e quando

di superar pugnando?

L'ardir tropp'oltre vaga,

non può far uno stral più d'una piaga.

RODOMIRA

Chi può contr'il valor di Floridoro?

Aggiunti al brando suo i brandi nostri

vengan d'Artusia i cavalieri a squadre

vomiti abisso un nuvolo di mostri.

Per tema io non rimango, e non mi celo;

a chi punisce un empio

si fa compagno il cielo.

ROSMONDO

Un forte, e regio core

nemico è del timore.

Pur in ciò, che propon Filaura mia

dobbiam temer; che non è degna azione

dar la morte a una donna, e a tradimento.

FILAURA

Lice la frode usar col fraudolente.

RODOMIRA

Pianta d'ombra nociva al pian si getta.

ROSMONDO

Chi d'inganno si veste

di bella gloria l'abito ricusa.

RODOMIRA

Coll'inimico lealtà non s'usa.

FILAURA

L'opprimere chi contro ti congiura

è legge di natura.

ROSMONDO

È legge di pietate

il venerar la donna

simulacro d'amore, e di beltate.

RODOMIRA

Orsù prence Rosmondo,

segui nostro desire;

chi nasce al dominar non dée servire.

FILAURA

Son i sepolcri ai grandi

più degni assai, e men gravosi impacci

che di vil servitù catene, e lacci.

Andianne Rodomira

a far palese al prence Floridoro

quant'amor, e disdegno al cor ne spira.

RODOMIRA

Andianne, e tu Rosmondo, ove rimani?

ROSMONDO

Io fra poco vi seguo, itene liete.

FILAURA E ROSMONDO

Cieli a bon fin nostri desir scorgete.

Scena seconda

Rosmondo.

Contr'un grave martir non val fermezza.

Ahi ch'un seno mortal, benché reale,

ai colpi di fortuna è schermo frale.

Come nave da venti combattuta

nel sasso fende mobili sentieri

sta mia mente perduta

in un penoso mar d'aspri pensieri.

Che risolver poss'io

ov'il destin comanda?

Che val un cor feroce

se lo regola il fato?

Che giova arte, e prudenza

s'amor tutto confonde?

Mondo infido, e fallace!

Sono le tue salite

ruinosi trabocchi;

son tue gioie gradite

i tuoi riposi placidi, e sereni

terminati veleni.

O quant'è meglio in rustici tuguri

nascer vile, ed abbietto,

che riguardevole in real ricetto!

Piaccion al folgor gli eminenti muri.

Raccoglie un monumento

scettri, e vincastri in un, bassezze, e pregi.

Delle reggie dorate

son le selve più liete,

e provan più quiete

i rustici, che i regi.

Ma che fai qui Rosmondo?

Teco espon sorte fella

a precipizio orribile, e profondo,

e l'amico, e l'amante, e la sorella.

E irresoluto te ne stai a bada?

Io vado, ove, a qual fine

non so; voi lo sapete

o cieli, ordiniam noi, voi disponete.

O infelice l'augel che cade in rete.

Scena terza

Artusia, Eco.

ARTUSIA

Per la gemma involata

per la reggia cangiata

non involo al dolore

l'innamorato core;

non si cangia il desio

del bell'idolo mio;

ei vieppiù fero ogn'ora

le mie reggie disdegna

le mie delizie aborre,

gli amori miei, le grazie mie non degna.

Ahi sconsigliata amante!

In tale stato i tuoi penosi guai

non ti pensar di raddolcir giammai.

ECO

Mai.

ARTUSIA

Ma chi tra queste selve

il duol m'accresce, e prende a scherzar meco?

E tu da puro speco

vomiti fausti annunzi all'amor mio?

ECO

Io.

ARTUSIA

O sasso infame, e rio!

Ti sia il folgor amico, al tuo dispetto

troverò quiete al mio lamento, al grido.

ECO

Rido.

ARTUSIA

Tanto Artusia ritarda ad agitarti

l'usata impazienza?

ECO

Pazienza.

ARTUSIA

Fia dunque ver ch'il mio crudele amante

si mostri all'amor mio sempre severo?

ECO

Vero.

ARTUSIA

E degno cavalier la fama il canta

pieno di fellonia, colmo di sdegno?

ECO

Degno.

ARTUSIA

Mente, che titol di gentil riporti

villana alma scortese.

ECO

Cortese.

ARTUSIA

E tu menti non meno

ch'esser non può cortese

chi ferino desire accoglie in seno.

Ma dimmi; per pietà nessun vi sia

che rallegri, o conforte

l'ore del viver mio pallide, e smorte?

ECO

Morte.

ARTUSIA

È troppa cortesia.

E la feroce, e ria

quand'avverrà, che nel mio seno alloggi?

ECO

Oggi.

ARTUSIA

Qual fia quel scioperato degli dèi

ch'estinta Artusia oggi mirar le giove?

ECO

Giove.

ARTUSIA

Orsù supplice un foglio

porgasi a Ganimede, e non sia nulla.

Ma Floridoro sentirà cordoglio

quando la parca la mia vita annulla?

ECO

Nulla.

ARTUSIA

Verserà per pietà della mia morte

l'ingratissimo amante, un sospir solo,

una lagrima almeno?

ECO

Meno.

ARTUSIA

Ah fero cor! Di qual durezza t'armi,

di macigno non già, ch'ancorché duri

soglion talvolta lagrimar i marmi.

O meraviglia! Infin da cavi spechi

perfido Floridoro

van predicando gli echi.

Scena quarta

Floridoro, Artusia.
Tre Cavalieri trasformati.

FLORIDORO

Corona di perfidie

non mai ornò le mie reali tempia,

se perfido non è chi aborre un'empia.

ARTUSIA

Meravigliosi labbri

e di fele, e d'ambrosia in uno gravi,

fin nell'ingiurie ancor sete soavi.

FLORIDORO

Il rio secca, il fior langue, il frutto cade,

non è 'l mondo di tempre adamantine,

ogni cosa quaggiù corre al suo fine;

tutt'è vano e fugace,

sol eterna è la doglia, che mi sface.

ARTUSIA

O qual dolce armonia

formano quegli accenti!

Chissà, ch'in terra il ciel sceso non sia

sol per farmi sentire i suoi concenti?

FLORIDORO

S'io ti son greve, a che reggermi o terra?

ARTUSIA

Non deve star sì bel tesor sotterra.

FLORIDORO

Sian pestifere in ciel per me le stelle.

ARTUSIA

Le stelle al sol mai fur nocive, e felle.

FLORIDORO

L'empia, una volta, che non fa ch'io mora?

ARTUSIA

Non si può tormentar un che s'adora.

FLORIDORO

Odami 'l ciel (e pera Floridoro

Rodomira, e Rosmondo,

pera Filaura, e quanto Armenia, e Ponto

al nostro impero espone)

a que' semi di gloria,

ch'infuse nel mio core

mai nocerà verme d'infame amore.

Anima grande avvien, ch'ogni or apprezzi

più che trombe d'amor bellici plettri;

con le lusinghe, e i vezzi

non si confanno le corone, e i scettri.

I' vuò che di mia vita il fior innaffi

d'onorato sudore onda stillante:

so ben che d'ignominia aure fetenti

spirerebbe alle genti.

Se l'irrigasse mai lagrima amante.

Io d'amor impudico oggi soggetto?

Che di fiamma sì indegna arda 'l mio petto?

Non sia mai ver; t'aborrirò in eterno

o dei vivi spirante orrido Averno.

Né mie voglie ver te sian men rubelle

per variar di stelle;

anzi, se tanto lice,

sciolto dal mio caduco, e fragil velo

io non ti voglio amar manco nel cielo.

ARTUSIA

Odami Floridor: chi s'ama, e prezza

anco s'odia, e s'aborre.

Non sempre il rivo limpido trascorre,

per soverchio piegar l'arco si spezza.

Guai a colui, che donna si concita,

e femmina mia pari;

fera infantata con men rischio irrita.

Pietà le mie fierezze non corregge;

non ho fé, non ho legge,

e per lo senso mio

pongo in non cale il ciel, natura, e dio.

Odami Floridor: regi, ed eroi,

imperi, e monarchie

a questa verga, a questi fogli a fronte

un nulla stimo; alle mie voglie pronte

ardono in ciel le stelle,

gelan sotterra l'ombre.

Onora l'universo

le meraviglie mie;

il mio valor ogni valor trascende.

Dal mio voler dipende,

ch'altri in fera si cangi, in sasso, o in loto,

altri in fronda sussurri, o gema in rivo,

abbia volante, ovver natante il moto.

Ma più d'ogni favella

l'esperienza sforza;

su su del valor mio mostra la forza

a questa di pietate alma rubella

chiaro rio, dura selce, annosa scorza.

Qui da una fonte, da un sasso, e da un albero escono tre Cavalieri trasformati.

ARTUSIA

Metamorfosi belle, se per voi

il mio signor cangiasse

in amante pietà gli sdegni suoi.

FLORIDORO

Te ne vai cruda fera?

E non t'arresta il passo

un baratro improvviso, o un cavo sasso?

Dell'umanata schiera

conosco l'arti, e 'l fine.

Ma sfoga i tuoi rigori

sempre mai ti darà per frutti, e fiori

il terren del mio cor triboli, e spine.

CAVALIERE

O ciel, o dèi!

IIº

Artusia è quella?

IIIº

È dessa,

ch'or volse altrove il passo.

Io come da una fonte esco alla luce?

IIº

Io da una verde pianta?

IIIº

Ed io da un sasso?

Il cor mi palpita.

IIº

I crin mi s'ergono.

IIIº

Mi s'inarcan le ciglia.

O che veggio!

IIº

O stupore.

IIIº

O meraviglia.

Scena quinta

Rosillo, Filampo, Tre Sirene.

ROSILLO E FILAMPO

Cangin l'acque costume,

e piacevoli

s'increspin al camin confuso, e torto.

Arbitri delle spume

(favorevoli)

scorgete omai la navicella in porto.

ROSILLO

Chi vago è di virtù non dée perire.

FILAMPO

Prezza la sorte un generoso ardire.

ROSILLO E FILAMPO

Rosmondo, e Floridor gl'invitti eroi

per liberargli andiam cercando noi.

Cangin l'acque costume,

e piacevoli

s'increspin al camin confuso, e torto.

Arbitri delle spume

(favorevoli)

scorgete omai la navicella in porto.

SIRENA

Bella è la vita, se si sa godere.

IIº

Il mondo è amaro agl'infedeli, e stolti.

IIIº

La gioia di quaggiù si fa vedere.

SIRENE

Talch'è mera follia

creder che fuor di qua diletto sia.

ROSILLO

Amico, or più tem'io del mar rubello

il canoro drappello:

le Sirene omicide abbiamo al lido.

ROSILLO E FILAMPO

Turiam l'orecchie al dolce canto infido.

SIRENA

O quanto piace un bacio d'un bel volto.

SIRENA

IIº

O quanto gusta un amoroso amplesso.

SIRENA

IIIº

Frutto tal fuori di qua non vien mai colto.

SIRENE

Tal ch'affatto s'inganna

chi 'l piacer di quaggiù biasma, e condanna.

FILAMPO

Cantino a loro voglia, or che siam sordi.

ROSILLO E FILAMPO

Così greco sagace

l'omicida armonia rese fallace.

SIRENE

Godiam dunque su, su,

or che si tarda più?

Che stia con noi la gioia?

Sì, sì.

E la pena, e la noia?

No, no.

Che cangi 'l mondo tenore o fé?

Perché?

Giri pur sempre per noi così,

che meglio il mondo mai non andò,

sì, questo sì.

ROSILLO

Già la piaggia dispare,

e del coro falsissimo del mare

il concerto crudele

arrestar più non può le nostre vele.

ROSILLO E FILAMPO

Lunge dal lito infame, o naviganti,

che quei concenti perfidi, e canori

porgon manna all'orecchio, e fede ai cori.

SIRENA

Ah ch'il legno è sparito!

IIº

Ahi che la cara preda ne s'invola!

IIIº

Così deluse ne sostiene il lito?

SIRENE

Fuggiamo; e i nostri scorni

celino l'onde amare;

sia del nostro rossor lavanda il mare.

Scena sesta

Mercurio, Giove, Pallade.

MERCURIO

Io vado, io volo, o stelle,

a idolatrar in terra

luci di voi più belle.

Meco scendete, e dall'amato viso

imparate ad ornare il paradiso.

Occhi benché mortali

voi sete più del sole

mirabili, e vitali.

Qual fia più gloria? Produr erbe, e fiori,

o figliar grazie, e partorir amori?

Occhi belli, e ridenti

esser Argo vorrei

a vostri rai lucenti.

O meraviglia! Bench'in frale velo,

attrae più un occhio bel ch'il sole, e 'l cielo.

GIOVE

Mercurio, arresta il volo;

attento ascolta il principe degli astri,

l'imperator del polo.

MERCURIO

Ecco all'aure sul dorso i vanni inchiodo;

imponi ciò che vuoi

o gran monarca de' celesti eroi.

GIOVE

A tempo giungi o bellicosa diva.

Vanne (o fido del cielo

interprete facondo)

vanne d'Artusia all'incantato regno,

opra con scaltro ingegno

che boschereccia stabilita guerra

cada fallace a terra.

Non vuò, che delle nobili guerriere

per anco arresti il passo

d'una diva la falce,

d'un monumento il sasso.

Sdegno rio, crudo amore

le disconcerta il core;

ah bene spesso con sì false scorte

per gir dietro al gioir si corre a morte.

Osserva poi sagace,

di cangiante colore,

gemma in dito vedrai d'alto valore

alla maga fallace;

a Filaura rapilla,

quand'a la reggia sua amor sortilla.

Orsù questa le fura; e del suo regno

giunto all'ultima sponda,

che con argentea spuma il mare inonda,

due cavalier Bitini troverai

di lor, qual più t'aggrada, a questo, o a quello,

a nome di Filaura lascerai

il prezioso anello.

Così delusa l'ingannevol donna

s'avvedrà chi ravvolge orror profondo,

che fugace è quel ben, che vien dal mondo.

PALLADE

Non basta ad una piaga incancherita

del crudo ferro il semplice rigore;

fiamma bisogna al corrusco umore.

Tolga alla maga un folgore la vita,

finché l'iniqua viva

vivranno per gli eroi frodi ed insidie,

ch'al perfido non mancan le perfidie.

MERCURIO

Il ciel pria che saetti

i rubelli infelici

vuol usar di pietà tutti gli uffici.

PALLADE

Qual pietate si deve a una impudica,

ch'indegna va del titolo di donna?

Ch'esalta il vizio, e la virtù calpesta?

Che per più duol, lasciandole la vita,

l'esser toglie alle genti?

Ch'offusca le memorie

de' cavalieri illustri, e il corpo arresta

all'onorate glorie?

Che non ha legge, o fede,

che scherne i dèi, e che nel ciel non crede?

Ah tosto una scintilla

del divino furor quest'empia furi

ai mortali abituri;

può divenir incendio una favilla.

MERCURIO

Tutt'il frutto corrompe un picciol verme.

PALLADE

Chi dal terren non svelle

la maligna radice

coglie amara la messe, ed infelice.

GIOVE

Chi sa regger le stelle, e gli elementi

anco sa moderar tutti i viventi.

Vanne ratto, e leggero

Mercurio ad eseguire

quant'il re brama del stellato impero.

MERCURIO

Per ubbidirti, o sire,

l'aure, e le nubi varco

più veloce di stral, ch'esce dall'arco.

PALLADE

Quand'è in tempesta il mar

teme morte il nocchier;

quando placido appare

ha d'arricchir, non di perir pensier.

Se flagello divin non scuote il rio

ei non conosce più cielo, né dio.

Ecco femmina rea

dorme negli error suoi;

e dall'impura idea

scarcera vizi, ed imprigiona eroi.

Ma non usa uno stilo sempre la sorte,

e ogni umano piacer termina in morte.

Atto terzo
Scena prima

Scarabea.

O cieli, o mari, o terra,

o fere, o furie, o genti

lagrimate dolenti

una disgrazia rea

è morta Scarabea.

Son morta (meschinella) e s'io ragiono

è perché amante ho il core;

questi i primi non sono

miracoli d'amore.

O pianti dolorosi,

che gli asciutti canali del mio volto

rendete rugiadosi,

ingrossatevi tanto,

che s'io vissi in ardor mora nel pianto.

M'hanno tolto Rosmondo;

il bel corpo gentile

han fatto un drago immondo;

che maledetta sia

l'empia negromanzia.

Come curva, e tremante

potrò incarco portar di doglie tante?

A fronda secca, e frale

ogni vento è mortale.

Amor forse mi scherne

perch'ho 'l volto caverne?

Ah che se ben sfiorio

posso con l'altre stare

ho le mie grazie anch'io.

Ti lascio infame reggia,

né vuò, che più mi veggia

se non orrida grotta, aspro deserto;

scinta andronne al scoperto

per vie sassose, e torte

ai soli ardenti, ed alle fredde piogge

chiedendo in elemosina la morte.

Entro concavi tufi

nasconderò gli orror di mie sventure;

piangerò mie sciagure

insieme co' le nottole, e coi gufi.

Mi strapperò la chioma,

e de' falsati argenti

farò l'aure cassiere

e tesorieri, i venti.

Mi graffierò le gote;

e gioirò nel duolo

di lacerar alle noiose etati

le fredde pompe, i lividi apparati.

Poca discrezione

d'ingiustissima stella,

por in tal confusione

debole vecchiarella

cara almen, se non bella.

Ma così va chi veste umano velo;

donna, impara a mie spese,

infelice è l'amar fuor che nel cielo.

Scena seconda

Floridoro, Artusia dentro la scena; Rodomira, e Filaura incantate; Rosmondo cangiato in drago.

FLORIDORO

Poiché tacito ognuno

di questa regia no, ma infernal chiostra

al mio parlar si mostra,

dal mio duolo percossi,

invece di faville,

vibrate lingue o sassi;

di fiati invece, o venti,

spirate voci, e sussurrate accenti.

Ove posi, ove sia, deh, voi mi dite,

la sospirata mia

soave compagnia.

Deh voi mi favorite;

aure, se moderate

del sole i raggi ardenti

temprate i miei tormenti;

sassi, e voi, s'ai mortali

di sepolcri servite

il mio duolo (pietosi) seppellite.

ARTUSIA

(dentro)

A me tocca, a me tocca

(barbaro cavaliere)

farti questo piacere;

a me, che spero in breve

(così sei di cor pio, d'alma amorosa)

servirti in maggior cosa.

Addietro volgi il guardo che vedrai

(degno del tuo desire, e del tuo core)

un spettacol bellissimo d'amore.

Qui s'apre la prospettiva, e si vedono gl'Incantati entr'una spelonca.

RODOMIRA E FILAURA

Ahi che fiero martire

provar la morte, e non poter morire!

FLORIDORO

O amarissima vista!

Rodomira, e Filaura, ogni mia gioia,

a brano a brano un fero drago ingoia;

e per più doglia è fatt'un serpe immondo

il mio caro Rosmondo.

RODOMIRA E FILAURA

Ahi che per evitare

d'inimico destino i colpi, ohimè,

non basta aver tesor, nascer di re.

FLORIDORO

Vengo a penar con voi

o, bench'in seno a un incantato orrore,

vive lampe di gloria, astri d'onore.

Qui si chiude la prospettiva, e spariscono gl'Incantati.

FLORIDORO

Ma ch'il passo m'arresta, e mi vi toglie

onorata cagion delle mie doglie?

Occhi frenate il pianto;

rade volte il ciel piange,

e bagna il suol di lagrimosi umori,

che non ombri, ed oscuri i suoi splendori.

Ho perduto l'amico

o memorabil danno!

È perdita dogliosa

la sorella gentil, la regia sposa,

ma al cor non reca si penace affanno.

Ahi che a un egro mortale

più degl'affini assai giova un leale;

e dove han loco le miserie, e i pianti

radi gli amici son, molti gli amanti.

Ecco un abisso eretto

sotto regia struttura

per orror di natura;

a questo ogni guerriere

accorre per vedere

meraviglie gentili, e singolari

(tal sua fama rimbomba)

e i spettacoli amari vi trova della morte

strana vi trova inusitata sorte;

a questo il mio Rosmondo

corse di gloria vago,

io lo seguii per trarnelo d'inganni,

ei venne a conquistar spoglia di drago

io venni a fare sempiterni i danni.

O nostra vita, quanto sei penosa!

Tu se' un tronco, e un rosaio,

che porgi a nostre voglie

più spin che rose, e più che frutti foglie.

Pessima donna, abominevol Maga

di mal oprar sì vaga,

ombri la mente pur d'errori il velo,

tutti i registri uman rivede il cielo.

Il fio tu pagherai d'ogni mal opra;

piede nel fango avvolto,

e nel vizio sepolto

a fuga non soccombe;

abbiam sotto le tombe

e i fulmini di sopra.

Morte de' tetri avelli

formidabil reina

il mio sasso funebre omai disserra;

è felice ruina

per ascender al ciel cader sotterra.

Alfin son sogni le grandezze umane;

senza la tomba mai non va la culla,

e dée chinarsi l'universo a un nulla.

Scena terza

Artusia.

E di sdegno, e d'amore

ho sì gravido il core,

che d'amor, e di sdegno

al sicuro ho spogliato

e de' beati, e de' dannati il regno.

Ma diventa o mio seno

di rabbia, e di furor tutto veneno,

e amor, che da tue poppe

latte non vuol, ma sangue,

fa' ch'egli cada avvelenato esangue.

Sdegnose amanti faci,

che nel mio seno ardete,

spegner non vi volete?

Ardete pur vivaci,

servirete all'esequie

del perfido ribelle

di tetre lampe, e d'orride facelle.

Sì sì ch'io t'odierò quanto t'amai

barbaro traditore:

sì sì spegnerai

l'ardor mio col tuo sangue;

sì ch'io sarò una vipera al tuo core

s'al mio sen sei un angue.

Qui leggendo sul libro in basse note cangia la scena in mare.

O del spumoso cristallino impero

umidi abitatori

qual è vostr'onda errante

datemi alma incostante;

tutti i vostri rigori

corrano nel mio seno ad ondeggiare,

ch'io vuò vendetta fare

de' miei scherniti amori.

DEITÀ INVISIBILI DEL MARE

Mostro di vanità

rigor pari al rigor

del tuo barbaro cor

tutt'il mare non ha.

Cangia cangia consiglio,

il mal oprar non va senz'il periglio.

ARTUSIA

Iniquissimi numi!

Onde tutti n'andiate arsi, e distrutti,

possano i vostri flutti

i cocenti adeguar tartarei fiumi.

Mentre dice i tre seguenti versi, va colla verga delineando in terra, e muta la scena in bosco.

ARTUSIA

Sprezzata Artusia in questa forma? E tanto

indugiai la vendetta?

ma i castighi più rei non vanno in fretta.

Su, su numi campestri,

voi di verdi contrade, e tetti alpestri

frondose deità; convenienti

a mie vendette acerbe

insegnatemi or or radici, ed erbe.

Vuò formar un incanto,

con cui sia da me tanto

l'odiato traditor martirizzato

quanto da me fu amato.

DEITÀ INVISIBILI DEL BOSCO

Insana femmina

qual idea strania

tanta zizzania

nel sen ti semina?

Cangia il pensiero nubilo,

chi 'l ciel ha contro anco inimico ha 'l giubilo.

ARTUSIA

Barbari numi, i nostri infami tronchi

eterno gelo opprima;

e dal piede alla cima

li copra ombra sì ria,

che di lei l'infernal men fera sia.

Sia maledetto amore

ammantato d'inganni, ancorch'ignudo.

Quale selva, qual bosco

produce per i strali il legno crudo?

Li forma in ciel, o in terra, o al centro fosco?

Sia l'aria, ch'il sostiene

aria d'inferne arene,

che ben merita un serpe aer di tosco.

Al primo volo possa

rompersi 'l collo, e l'ossa.

Per miracolo strano

possa mirar sbendato al primo colpo

l'arco impetrir, marmoreggiar la mano.

Tropp'è fiera la sorte

che struggano i mortali amore, e morte.

Qui reiterando i carmi, e le linee in terra formando segni nell'aria, volta la scena in inferno.

ARTUSIA

O del regno d'orror numi di foco

ombrose deità, spirti tremendi,

de' vostri spechi orrendi,

e mostri, e furie invoco:

vuò la terra agitare

cozzar con gli elementi, e la natura,

e di chi non mi cura

ai posteri d'amor norma lasciare;

vuò che lavi onda stigia amante scherno,

e che piaga d'amor sani l'inferno.

DEITÀ INVISIBILI D'AVERNO

O senza senno, e fé

donna cruda, e bestial,

di furie, o d'altro tal

cede l'abisso a te.

Cangia cangia desio

o quant'è grande delle stelle il dio.

ARTUSIA

Olà? Dunque sì poco Artusia cura

la terra, il mar, l'inferno?

Perch'io mi volga forse

a colui, ch'a suo modo il freno porse

al fato, e la natura,

mia beltà, mio valor, prendon'a scherno?

Mi volgerò ben io

ribelle sì, ma non mai fida a dio;

che s'è vero, ch'il cielo

è del tutto cagione,

altri ch'il cielo rio

inumano non fa l'idolo mio.

Vuò ravvivar titani,

vuò dar spirto a Nembrotti,

acciò ch'in modi strani

ti dian eterne noie

cielo crudo, ed avverso;

altri che tu, perverso,

non frastornò, né mi rapì mie gioie.

Che ciel, che ciel? Sian i cieli a noi stessi,

e finché non si sciolga il vital nodo

ognun viva a suo modo.

Qui vien fulminata dal cielo, ed inghiottita dalla terra.

Scena quarta

Giove, Pallade, Mercurio.

GIOVE

A chi dell'arco non sovvien del cielo,

quando se 'l crede meno

ratto le giunge al seno

l'irreparabil telo.

Troppo tropp'oltre scorse

la temeraria maga;

né insensata s'accorse,

che guida a morte non curata piaga.

Ahi son fatti i mortali

sì del mondo parziali

ch'han per nemico il cielo anco pietoso;

e pur miseria umana a loro insegna

che più doglia, che gioia al mondo regna.

PALLADE

Son cessati i diluvi;

meraviglia non è, dell'umana

folle superbia vana

innumerabil fumano i vesuvi.

Rustico agricoltore,

se lascia un tempo di piagar la vite

non speri, di raccor sano l'umore.

MERCURIO

O quant'è degno di pietà un mortale!

Ben sa quel, ch'opra il cielo;

è grave peso a un'alma il frale velo,

e di gran spoglia augel poco alto sale.

GIOVE

Creai l'uomo per gemma

del pavimento eterno

per compagno agli dèi

non per bersaglio mai de' folgor miei;

ma non cura l'ingrato un tanto dono,

e più prezza, e desia

goder di fango, che di stelle un trono.

Benché noto le sia

ch'al cenno mio si giri

la gran mole de' cieli,

che d'orror tutto geli

al mio gran nome Averno,

ch'al mio volere eterno

riverente soggiaccia.

Quanto chiude la terra, e 'l mar abbraccia

(qual talpa) gli occhi della mente serra,

e gli apre allor, che gir convien sotterra.

MERCURIO

È sì dolce a un vivente

il letargo del mondo,

ch'allor ei si risente,

che morte il desta dall'oblio profondo.

Con sì soavi scorte, e lusinghiere

lo tragge a sé 'l piacere,

ch'ei più non pensa, ch'ogni umano passo

va d'una tomba ad inciampar nel sasso.

PALLADE

Qual nobile scultore,

che di materia informe

fabbrica belle forme,

tal dell'alto motore

abbellisce la grazia, e la pietate

quant'han l'alme d'immondo al mondo nate.

O monarca sovrano

che i divoti sublimi,

ed i rubelli opprimi;

or or dal tuo gran soglio

volò folgor acceso

d'un'empia donna ad ammorzar l'orgoglio,

amica or la tua mano

diffonda i favor suoi

sul nobil stuol degl'incantati eroi;

quant'ha l'Asia di chiaro, e di pudico,

ed al mio nume amico

strazia barbara reggia,

e 'l tesoro d'onor Lete saccheggia.

GIOVE

Vanne, struggi l'incanto

coll'asta tua fatale,

lieta fa' la gentil coppia reale;

non dée gemma d'onor notar nel pianto.

PALLADE

Quel padre è giusto, e pio,

che sa al suo tempo esser pietoso, e rio.

MERCURIO

Ecco che pur si mira

gioir alfin chi per virtù sospira

pene dogliose, e felle

laggiù soffriro gl'innocenti eroi,

le reali donzelle,

ma ferito mortal di pene, e guai,

s'ha per medico il ciel non pere mai.

GIOVE

Ecco a qual fine giunge

chi 'l furore del ciel instiga, e punge.

Specchio alle genti sia

la Maga fulminata,

ch'ogni onta al cielo fatta, ogni opra ria

non resta invendicata.

Chi de' frali diletti avvolge il core

vive tre volte, e tra le spine more.

MERCURIO

Giove ne' raggi è chiuso

della sua gloria; ed io

profondar non ricuso

ne' bellissimi rai dell'idol mio.

Begli occhi senza par

di voi torno a cantar;

esser vuò sempre, ovunque spiego il vol,

Icaro al vostro sol;

né cader temo, poich'al sol d'amore

arde bensì, ma non trabocca un core.

Meco ogn'or vi vorrei

occhi d'amor trofei;

ma Febo allor, se voi foste quassù,

non piacerebbe più.

Val più (chi 'l crederia, luci mie belle?)

un vostro raggio sol, che mille stelle.

Qui s'oscura la scena, lampeggia, e tuona.

Ma tempestoso, e ner

fatt'ecco, l'emisfer,

per ira, ch'è più bel vostro splendor

forse cambiò color?

Volo all'idolo mio, veloce, e sciolto,

non ha lampi, e tempeste il ciel d'un volto.

Qui cade la tempesta, e va in fumo il palazzo della Maga.

Scena quinta

Pallade in terra.
Floridoro, Rosmondo, Filaura, Rodomira, Coro di cavalieri.

CORO DI CAVALIERI

Godete illustri eroi, amanti sposi,

vi unisce il cielo amico,

v'annoda amor pudico.

Varcando un ocean d'aspri martiri

salvi giungete al porto;

non può restar assorto

chi fa servi del cielo i suoi desiri.

Non più timor d'incanti

le grand'alme v'ingombre;

chi fu cagion di pianti

or di riso è cagion sotterra all'ombre.

Itene ai regni vostri;

e dove nasce, e dove more il sole

viva d'un nodo tal l'alta memoria,

fate d'illustre, e generosa prole

festeggiar l'Asia, e giubilar la gloria.

Acciò con men disagio

ritrar possiate il piè dal regno infido

(che a molte miglia intorno

dal distrutto palazzo

la sciocca maga rese

deserto il rio paese)

per volere di Giove

bitina nave al mar vicin v'attende;

troverete per via scorta, ch'or prende

il cammin verso voi, e di là move.

Nel penoso viaggio della vita,

ch'arresta morte, e stanca,

a chi ha foriero il ciel nulla non manca.

Vado alle stelle; uniti, o cavalieri,

date gloria agli dèi con puro zelo:

seguitemi coll'alme, e coi pensieri,

che mal si regge chi non pensa al cielo.

CORO

Diva de' nostri errori

regolatrice amica;

spiegar del ciel le lodi

non è lieve fatica;

tu vigor danne, e tu n'insegna i modi.

Ma se taccion le labbra i suoi onori

gradisce il ciel più che gli accenti i cori.

O dèi, vostri favori

narreran sugli altari,

ed Armeni, e Bitini

balsami ardenti, e chiari,

ricchi olocausti, e voti peregrini;

s'ora taccion le labbra i vostri onori

gradisce il ciel più che gli accenti i cori.

Nettuno e Giove
Scena unica

Per la Maga Fulminata del Signor Benedetto Ferrari. Nettuno, e Giove.

Argomento.

L'apparato degl'avvenimenti d'Artusia, non è ch'un nuovo spettacolo di sciagure incantate; concorrendovi Giove, e Pallade per personaggi fulminatori; ambi per altre volte avvezzi nel trattar fulmini. Per il colpo d'un solo, raffiguratomi il luogo, non mai tocco da folgore ostile, mi fingo il dio del mare adirato, mover in questi accenti per la rampogna.

NETTUNO

(a Giove)

Troppo sull'onde, ov'ha reina impero,

che del mondo è splendor, la destra esse

e d'altrui regni, oltreggiatore altero, (di,

co 'l tuo fulmine, o Giove, i mari offendi.

Fetonte in cielo, e colà in Flegra il fero

stuol de' giganti a saettar t'accendi;

che qui tra l'acque è mio dominio intero

né so come a ragion tanto ti prendi.

Maga estingui all'amor? Circe, e Medea

vissero amanti; e s'all'oprar co 'l canto,

più ch'Anfione, ed Orfeo l'Artusia è rea!

Sia tuo sdegno, e furor: che l'atto incanto!

In teatro, ov'ha d'or l'etade Astrea,

mov'anco il ferro a risonar co 'l pianto.

GIOVE

(a Nettuno)

Osi troppo alle voci, e nulla invero,

verso il veneto mar di Giove intendi:

ti sia creta, d'amor norma al pensiero,

s'alla nascita mia Nettuno attendi.

E dai folgori pur contra il primiero

autor de' maghi, il mio furor comprendi:

Zeroastro il dirà, noto al mestiero,

per cui senza ragion parli, e riprendi.

Pari all'empie, che noti, Artusia è rea,

varia alle pene sol; fella nel canto,

ch'Anfion ne' sassi, Orfeo ne' tronchi avea.

E qual ferrea, che fu, caduta accanto

l'aureo leon ch'in libertà ne bea,

ben move il ferro a risonar co 'l pianto.

Fine del libretto.

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Locandina Prologo Scena unica Atto primo Scena prima Scena seconda Scena terza Scena quarta Scena quinta Atto secondo Scena prima Scena seconda Scena terza Scena quarta Scena quinta Scena sesta Atto terzo Scena prima Scena seconda Scena terza Scena quarta Scena quinta Nettuno e Giove Scena unica