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Fra cento affanni

sospiro, e peno,

per me non splende

mai dì sereno,

per me non trovasi

felicità.

Sono infelice,

son sventurata,

mi vuole oppressa

la sorte ingrata

di me più misera

no non si dà.

(accennando il Podestà)

Con quella scimmia

già s'è incantato,

fa il cascamorto,

lo spasimato

ma se mi stuzzica

la pagherà.

Celar conviene

la pena ria.

Son troppe grazie,

troppa bontà.

Vedrò placata

l'iniqua stella.

Son pieni gl'uomini

di falsità.

Non v'è che dir, mi sembra

il giardino incantato, eppur non basta

a farmi rallegrar.

(a Sandrina)

Uh, che sia maledetta.

Dopo giunta costei

non mi guarda più in faccia.

Patisce il mal di core.

Io non merto, signore,

tanta vostra bontà. Dovrei godere,

sperar dovrei. Ma sento

che in seno un fiero affanno

del povero mio cor si fa tiranno.

Mi sento dalla rabbia divorare.

Ah che procuro invano...

Invan mostro scioltezza...

Purtroppo è ver; per una donna infida

son ridotto a languire...

Mi guardi il ciel, che appena

dalle catene sciolto, cercar voglia

nuovi ceppi per me; non fia mai vero,

che mi venga in pensiero idea sì stolta

e m'accenda d'amore un'altra volta.

Se l'augellin se n' fugge

dalla prigione un giorno,

al cacciatore intorno

non più scherzando va.

Libero uscito appena

da un amoroso impaccio,

l'idea d'un altro laccio

ah che tremar mi fa.

(parte)

Vo' restar con Sandrina in libertà.

Vanne, rompiti il collo, ecco la strada.

Signor, che dite?

Povera villanella...

(si fa avanti)

Venga Sandrina anch'ella

a travagliar con noi.

Ubbidisco.

(a Sandrina)

Stregaccia.

(si ritira)

Ah pensate signore al vostro grado,

voi nobile, io meschina...

Ma una donzella onesta

permetter non deve che s'avvilisca...

(torna come sopra)

Signore compatisca

se interrompo nel meglio.

Dica la toeletta

di madama la sposa

dove poi la destina?

Mi perdoni.

(a Sandrina)

Sfacciata.

(si ritira)

Che sperate?

(come sopra)

Già direte che son...

Ma sentite

una parola sola...

(Vado, vado, pazienza.)

Ma tu la pagherai, brutta fraschetta.

(parte)

Permettete, signor...

(vuol partire)

Della nemica sorte

quante vicende mai finor soffersi!

Trafitta, abbandonata dall'amante

sotto spoglie mentite,

in esercizio abietto son contenta

passare i giorni miei:

almen potessi, oh dèi!

l'ingrato riveder: ma che mi giova

così struggermi in pianto...

Ah taci per pietà, potrebbe alcuno

qui ascoltarti.

Tu sai, che l'anno è scorso

da quell'infausta notte,

che il Contino Belfiore

invaso da una pazza gelosia

mi trafisse spietato, ed all'istante

credendomi già morta

mi lasciò, si partì.

Ah caro servo

sai pur, che a solo oggetto

di ritrovar l'amante, in queste spoglie

teco m'indussi andar raminga, e ognuno

mio cugino ti crede.

Ma quivi giunta appena,

si preparan per me nuovi disastri.

Questo motivo appunto

or mi sprona a partir, vedermi astretta

i sospiri, le smanie,

i rimproveri udire in ogni istante

d'un importuno amante...

Oh non mi piace

questo moderno stile:

nemmen per gioco io voglio

arder di nuovo amore; il cor degl'uomini

già conosco abbastanza

vo' subito partire...

(vuol partire)

Gl'uomini s'han da amar, non da fuggire.

Ah perché mai

voi gl'uomini aborrite?

Perché finti, e incostanti...

Eppur vi sono

degl'uomini fedeli; io tal mi vanto,

amai nobil donzella

(ahi rimembranza!)

ed allor ch'io m'offersi

ad unirmi con lei, l'empia mi sprona,

mi tradisce, mi lascia, e m'abbandona.

Ecco lì! Tutto il male

già provien da noi, povere donne,

che fier destino è il nostro!

Pace non v'è per noi, né contentezza,

né ci serve la grazia e la bellezza.

Noi donne poverine,

tapine sfortunata,

appena siamo nate

ch'abbiamo da penar.

Disgrazie da bambine,

strapazzi grandicelle,

e dell'età nel fiore,

o siamo brutte o belle

il maledetto amore

ci viene a tormentar.

Meglio saria per noi

non nascere, o morir.

(parte)

Sarei felice appieno,

se più non fosse in vita Arminda ingrata,

o che al mondo per me non fosse nata.

(parte)

Questa tardanza

è una somma increanza; egli dovea

prevenire il mio arrivo.

Non sa ch'io sono

testina, e capricciosa.

Sediamo.

Eh, qui venghino sedie.

(porta sedie)

Ecco sedie, ecco sedie, non gridate.

Ch'io non sono già sorda.

Chi è costei?

Io son la cameriera...

E non venite

a fare il vostro debito,

a inchinarvi, ossequiarmi,

a baciarmi la mano?

Or volea farlo...

Andate.

Vado.

Eh ragazza, ragazza.

(Che pazienza!)

V'è nuova del mio sposo?

No signora;

ma credo...

Andate.

(Con costei

non farem troppo bene.)

(si ritira)

Ditemi signor zio,

avete voi notizia, se il mio sposo

sia bello manieroso?

(correndo)

Signori, presto, presto,

è giunto un carrozzino...

Questo sarà il Contino.

(s'alzano)

Eccolo qua.

Or mettiamoci un poco in gravità.

(sostenuta)

Contino, vi son serva

e vi accetto nel cor.

(Non mi dispiace.)

(Quanto mi vien da ridere,

bella caricatura.)

E voi sembrate appunto un girasole,

che si volge qua e là tutti i momenti.

Anzi una banderuola a' quattro venti.

Perché vi scorgo

volubile e leggero:

(al Podestà)

che dite signor zio?

Beh lo vedrò, ma ditemi

voi mi amate?

Adagio, adagio

sapete chi son io?

Io son capricciosa

cervellina insolente.

Ho buone mani e faccia.

Adopro anche il bastone.

Ci siamo intesi.

Io v'amerò; ma guai

se vi scopro incostante;

anche se foste in mezzo della via

io vi do quattro schiaffi, anima mia.

Si promette facilmente

dagl'amanti d'oggidì,

e la semplice zitella

se lo crede, poverella,

e si fida a dir di sì.

Io però non fo così:

patti chiari, e patti schietti;

pria di dirvi sì o no

voi sarete l'idol mio

il mio ben, la mia speranza;

ma se mai, com'è l'usanza,

mi mancaste, m'ingannaste,

io le mani adoprerò.

In questa casa non si può più stare:

dopo giunta costei

almeno cento volte

chiamerà in un momento

e di schiattar per lei non me la sento.

Ma Nardo qui s'appressa;

da costui già m'aspetto

la musica ordinaria de' sospiri;

fingerò non vederlo, e qui seduta

mi spasserò a cantare

un'arietta novella,

come vuole il marito una zitella.

(siede)

Un marito oh dio, vorrei

amoroso, e pien d'affetto,

ma un marito un po' vecchietto

mamma mia non fa per me.

Bravo, signor buffone,

chi vi ha dato licenza

di penetrar fin qui?

Se volete il padrone

sta da quell'altra parte, andate, andate.

Cinque volte l'ho detto,

e questa che fan sei;

no, non son per voi gl'affetti miei.

Non più; parlo sincera;

fatto per me non siete.

Non mi piacete.

(ride)

Ah, ah!

Rido perché credete

che a trovare un marito

ci voglia una gran cosa.

Ve ne son tanti e tanti:

basta ch'io volga un sguardo ho mille amanti.

Appena mi vedon

chi cade, chi sviene,

mi vengon appresso,

nessuno li tiene.

E come insensati,

storditi, stonati

così van gridando,

smaniando così:

«mirate che occhietti,

che sguardi d'amore,

che vita, che garbo,

che brio, che colore

bellina, carina,

vi vo' sempre amar».

Io tutta modesta

abbasso la testa

neppur gli rispondo

li lascio passar.

Geme la tortorella

lungi dalla campagna,

del suo destin si lagna,

e par che in sua favella,

vogli destar pietà.

Io son la tortorella che mi lagno

lungi dal mio tesoro

senza trovar sollievo al mio martoro.

Armata di costanza

farò coi miei sospiri

impietosir le stelle e il caro amante

finch'io non troverò

tortorella infelice ognor sarò.

(Questa sarà la bella giardiniera.)

Eh ragazza sentite?

Mia signora.

Dimmi pur che cos'hai

che ti sento lagnar?

Penso a' miei guai.

Ho capito, ho capito tu sospiri,

forse pe 'l Podestà.

Mi meraviglio,

io son povera, è ver, ma sono onesta,

conosco il grado mio...

Taci fraschetta, olà, sai chi son io?

Misura i detti, e pensa

che parli con Arminda.

Perdonate...

io non sapea...

Ti compatisco; or sappi,

ch'io quella son, ch'oggi darò la mano

al Contino Belfiore...

(Ohimè che sento!)

(sorpresa ed agitata)

(Il Contino è lo sposo?

E sarà vero? Oh numi!)

Ei giunse poco fa, se lo vedessi

quanto è vago e gentil.

(smarrita e tremante)

(Ah ch'io non reggo,

io mi sento morir.)

Tu impallidisci?

Che mai ti turba?

Un fiero

improvviso dolore... oh dèi m'assale...

sento strapparmi l'anima...

mi manca il cor... nel seno.

Sudo... gelo... non reggo... io vengo meno.

(sviene)

Misera!... Olà, chi la soccorre? Oh dio!

Non v'è alcun che mi senta?

Presto, caro Contino,

assistete un momento

quest'infelice giovane svenuta,

che intanto io vado a prendere

antidoto valevole

a richiamarla in vita.

(parte in fretta)

(nello svenimento si muove e poi torna ad abbandonarsi)

Deh vieni ingrato core,

guardami son pur quella.

(rinviene)

Ah della pena mia

pietà sentite, oh dèi!

(s'accorge del Conte e resta attonita)

Il Conte? Oh dio! Che miro!

Ecco il liquor, prendete...

Contino, permettete...

(Che dico?)

(ad Arminda)

Barbara!

(Che dirò?)

(Son confusa, ho il cor smarrito

è sì barbaro il dolore

che mi forza a lacrimar)

(Che stupor, sono insensato,

resto immobile, mi perdo;

io non so che mai pensar.)

(Che m'avvenne, cos'è stato,

non comprendo più me stessa,

parmi, oh dio! di vaneggiar.)

(Che rispondo?)

(Son perplesso.)

(Non ardisco.)

Oh mi rallegro

caro signore,

la giardiniera

con il Contino

fanno l'amore

qui nel giardino

con tutta pace

con libertà.

Se con quest'occhi

con quest'orecchie

non osservata

l'ho visti, e intesi.

Costui mentisce.

(al Conte)

Ma voi che pretendete,

da un'infelice, oh dio!

Arminda non son io,

il vostro dolce amor.

(al Podestà)

(accennando Sandrina ed il conte)

Vedete quante smorfie

gli fa quella fraschetta.

Voi siete in grande errore.

Da un perfido burlata

dovrò così restar.

(ad Arminda)

È poco a un'alma ingrata

avvezza ad ingannar.

(risoluta al conte)

Barbaro senza fede

è questa la mercede

del mio costante amor?

Misero, in che mancai?

Dimmi che feci mai,

perfido traditor!

Eh non son io già quella;

Violante la meschina

diceva pur così,

ma oh dio! ch'ella morì.

Seguitate!

Signor Conte!

Non tremate!

(Pur convien ch'io soffra e taccia.)

(al Contino con ironia)

Amoroso mio Contino.

(ad Arminda con ironia)

Mi consola, mi diletta.

(a Sandrina come prima)

Che bel volto modestino!

(al Conte con sdegno)

Perfido! Indegno,

vorrei strapparti

dal petto il core.

(ad Arminda)

Ma tanto sdegno

tanto furore

non so capir.

(a Sandrina)

Vorrei sbranarti,

brutta sguaiata.

Che pena barbara,

che crudo affanno!

Mi sento oppressa

da un duol tiranno,

non so rispondere,

non so parlar.

Non fuggirmi spietata

ingratissima donna, arresta il passo.

Che ardire è il tuo, che vuoi,

che pretendi da me?

Barbara infida,

che pretendo, che voglio?

E hai cor di mirarmi?

Se immaginar potea, che tu nipote

fossi del Podestà, no, non avrei,

a te data la pena

di vedermi, e arrossir.

Ma se la sorte

tua non mi vuol...

Troppo legger pretesto:

il tuo fasto, l'orgoglio,

e l'ambizion t'indusse

a lasciar l'amor mio; ma il ciel spergiura,

che mille volte in testimon chiamasti

di tue promesse, il cielo

farà le mie vendette.

Olà, che troppo

or t'avanzi con me; sì lo confesso,

ti tradii, t'ingannai;

conosco il fallo mio,

ma non so detestarlo; è troppo bello

il mio Contino...

Ah frena

gl'accenti, audace, e non vantarmi in faccia

l'odiato rival; no, non godrai

de' torti miei, che quell'indegno core

la vittima parte del mio furore.

(parte)

Eppur mi fa pietà: comprendo appieno,

che mi sgrida a ragion; ma no, che all'arco

non ritorna lo stral; son nell'impegno

di sposare il Contino,

sarà questo in capriccio, oppur destino.

Piano, piano;

ditemi, son curiosa di sapere

chi sia colei, che ricercando andate?

Non vi scostate.

Ma sentite.

Ma non posso in distanza.

Taci bugiardo,

va' a' piedi di colei...

Che dir potrai?

(con ironia agitata)

«Dacché vidi Sandrina non ho pace...»

Perfido, e in faccia mia?

Nel giorno stesso, oh numi

che meco unir si deve,

mi tradisce così, così m'inganna

un amante infedel? Sorte tiranna!

Vorrei punirti indegno,

vorrei strapparti il core

ardo nel sen di sdegno,

ma mi trattiene amore

che sospirar mi fa.

Questa mercede, ingrato,

tu rendi all'amor mio?

Ah Mi confondo, oh dio,

fra l'ira, e la pietà.

(parte)

Signore...

Che cos'è stato?

Vorrei dirvi,

se mi date il permesso

che vidi poco fa la vostra sposa,

che pareva una fiera scatenata,

minacciava vendetta

contro di voi.

Eh non dite così. Voi non sapete

che bestie sien le donne

quando sono sdegnate; io vi consiglio

d'andar tosto da lei tutto sommesso,

chieder scusa del fallo,

e baciargli la man.

L'ubbidienza, il rispetto,

ch'esigono le donne,

il dovere, la moda...

Quanto lo compatisco; aver che fare

con una donna strana...

O bella, o brutta,

io non son per voi.

Non piangerei.

Fate, fate.

V'ingannate davver, ci avevo gusto.

Mi par, che a poco a poco

cominciate a piacermi.

(Voglio farlo impazzir.)

Or ben, sentite:

io v'amerò, ma voglio

che mi veniate avanti

con un'aria smorfiosa appassionata:

la mano dritta al petto

strisciando il piede all'uso forastiero.

Su via, da bravo, a voi, presentatevi;

fatemi degl'inchini,

dritto, brillante, snello.

Costui mi dà piacer, sarebbe bella

che così non volendo

avesse a innamorarmi; ma che dico,

che mi viene in pensiero?

È cugino a Sandrina; ah non fia vero.

(parte)

Che strano caso è il mio!

Trovar l'amante

ed esser in procinto

di perderlo per sempre!

Pronto a sposare Arminda... eh s'abbandoni

un crudele ingrato

che mi trafisse... oh dio! Se fu un trasporto

di gelosia, e se mi crede estinta

condannarlo potrò? Con troppa forza

mi parla amor per lui; si cerchi solo

di frastornar le nozze;

è ver, potrei svelarmi,

ma non è tempo... ei viene... ah qual tumulto

provo nel sen allor che m'è vicino.

Signor, qual meraviglia,

cosa vedete in me?

Ed io ravviso un barbaro incostante.

Perfido, non rammenti

quant'io già piansi un giorno

e sospirai per te, quanto piangesti

tu per me, e sospirasti!

Dimmi, barbaro mostro, qual delitto

punisti in me? Oh dio! Tu senza colpa

mi trafiggi, m'uccidi,

innocente mi scorgi, eppur mi lasci

misera desolata...

(piange)

Così disse morendo la meschina.

Meglio di voi

chi può saperlo?

Or via partite

che volete da me? Se viene Arminda,

miseri noi.

A chi parlate?

Oh dio! Che a torto,

signor, mi strapazzate.

V'ingannate.

(tenera)

Mio caro padroncino... ah se sapeste

quanto sono infelice.

Perdonate.

Io non deggio, non posso.

(risentita)

Perché non voglio; al fine...

Di così grand'onor io non mi curo.

(risoluta)

E qual ragione,

qual dritto avete voi

d'insultarmi così, di minacciarmi?

Da me che pretendete? Una donzella

si tratta con rispetto,

altrimenti sappiate,

che ho spirto, ho petto, ho core... ah perdonate

il trasporto, o signor; lo so, lo vedo

che trascorse il mio labbro.

Ma scorgo ancora... sì, già il cor me 'l dice

che vi move a pietade un'infelice.

(con tenerezza)

Una voce sento al core

che mi dice pian pianino:

il tuo caro padroncino

tutto è pieno di bontà.

E in quel volto, in quegl'occhietti

che pur sembran sdegnosetti

vi si scorge la pietà.

Ah mi fugge, non m'ascolta,

già divien con me tiranno;

dalla smania, dall'affanno

io mi sento lacerar.

Fanciullette che m'udite,

se pietà di me sentite,

una figlia sventurata,

infelice, abbandonata,

deh venite a consolar.

(parte)

Signor zio,

già pentito il Contino

d'avermi disgustata,

sollecita i sponsali: in questo punto

voglio dargli la mano.

Signore, da Milano

mi giunge adesso un foglio

d'un mio stretto parente, in cui mi acclude

un'istanza formata

al regio magistrato, e a voi rimessa

per far seguir l'arresto

d'un omicida, che qui alberga, e questi

è il Contino Belfior, no 'l crederete?

Ecco leggete.

(gli dà il foglio)

Un sogno sarà questo.

Purtroppo è ver: mi spiace,

contessina gentil.

(Per vendicarmi

che propizia occasione

mi presenta la sorte!)

Eh non credete...

(Lo comprendo ben io.) Signor pensate,

che non dée la giustizia

per qualunque ragion restar negletta;

io vi lascio...

Eh lasciate che parta.

Sì, me n'andrò, ma d'ogni vostro passo

darne conto dovrete

al magistrato.

Sappi Arminda, ben mio...

Chiudi quel labbro

perfido menzogner.

T'inganni, io sono...

Odioso agl'occhi miei.

Dell'amor tuo...

Non sei degno.

Rammenta...

No.

M'ascolta...

Ardo di sdegno.

(parte)

Eppur dalla costanza

ch'io serbo nel mio petto

mi sento lusingar; non ingannarmi,

o speranza fallace,

a te fido il mio core, e la mia pace.

Dolce d'amor compagna,

speranza lusinghiera,

in te quest'alma spera,

tutta riposa in te.

Tu mi sostieni in vita,

tu mi conduci in porto,

o amabile conforto

di mia sincera fé.

(parte)

A voi non manca

maniera di salvarlo.

Se volete,

sol dipende da voi.

Deh taci.

Non parlate.

(piano al Contino)

Di' che non sai.

(piano al Contino)

Che dite?

(piano al Contino)

Niega, se vuoi salvarti.

(piano al Contino)

Non v'imbrogliate.

(Che sciocco!)

Io lo difendo.

Oh buona!

Oh bella!

Forse la villanella...

Qualche cosa saprà.

Parla,

Sandrina mia.

Di' pure,

cara amica.

Dal Conte

cosa mai si pretende?

Di qual delitto è reo?

È una calunnia.

Ferita fu Violante

ma non morì, ciascuno

vegga Violante in me; sì, quella io sono,

lode al cielo son viva, e gli perdono.

(a Sandrina deridendola)

Tu marchesa?

Tu dama?

Sì, son io, né mentisco...

Dite ciò che volete,

ma ben presto vedrete

con tante prove, e tante

ch'io son la marchesina Violante.

Comincio a dubitar; ma o sia Sandrina,

o sia Violante, in fretta

or vado a meditar la mia vendetta.

(parte)

Ancor io me n'andrò,

venga chi sa venire, io riderò.

(parte)

(lo rigetta)

Indietro. Vi sognate.

Quella mi finsi solo per salvarvi

e mi prevalsi a tempo

della gran somiglianza

che diceste aver io

colla morta Violante.

Andate pure, andate

dalla vezzosa Arminda,

dal vostro dolce amore;

ella attende da voi la mano, il cuore.

(parte)

(discorrendo col barone)

Deve però provare

che Violante ella sia.

E ben, qualora

resterò persuaso...

(finge di essere affannata)

Che accidente, che caso!

È fuggita Sandrina.

Non mi capacito.

Ma già siamo alla notte.

Va' pur, ma questa volta

ti strapperei li denti.

Si credeva

la sciocca giardiniera

con spacciarsi una dama

metter tutti in scompiglio:

e Arminda con ragione

l'ha fatta trasportare

in un luogo remoto

qui nel bosco vicino,

pieno d'animalacci, e forse adesso

qualche lupo affamato la divora.

Da una parte mi spiace, ma dall'altra

se l'è andata cercando: ed oggigiorno

politica ci vuol, bisogna fingere,

ed usar secretezza nell'amore,

né dir giammai, quel che serbiam nel core.

Chi vuol godere il mondo

lo lasci come sta.

Di niente mi confondo,

lo prendo come va.

Lo so che una fanciulla

dev'esser di buon cuore,

andar sincera e schietta;

ma ciò non serve a nulla

cogl'uomini oggidì

bisogna esser accorta,

mostrarsi indifferente,

finger la modestina,

fare la gattamorta,

saperli lusingar.

Quand'ero ancor fanciulla

mamma mi diè la scuola,

la voglio seguitar.

(parte)

Crudeli, oh dio! Fermate:

qui sola mi lasciate...

misera... chi m'aiuta,

soccorso chi mi dà.

Ah numi, son perduta,

muovetevi a pietà.

Dove son! Che m'avvenne!

Dunque son qui condotta

infelice, a morir! Numi pietosi,

se vi muove il dolore, il pianto mio,

deh guidate i miei passi...

Ma oh dio! Per questi sassi

non so dove m'inoltro...

Dovunque il guardo io giro, altro non vedo

che immagini d'orror, e solo io sento

le voci del mio duol, del mio tormento.

Ah dal pianto, dal singhiozzo

respirar io posso appena:

non ho voce, non ho lena,

l'alma in sen mancando va.

Ma qui niuno m'ascolta e niun si vede,

ahi che vacilla il piede...

Manca lo spirto... oh dèi!

Odo strepito, e parmi

veder tra quelle fronde

un orrido serpente

che coi sibili... ohimè... dove mi celo,

dove corro... che fo... quivi... mi sembra.

Ah non m'inganno... un antro,

in questo, sì, vedrò pur di salvare

questa misera vita;

assistetemi voi, o cieli, aita.

(si ricovera dentro la grotta)

Parmi udire qui d'appresso

un confuso mormorio:

ah che sol la morte, oh dio!

può dar fine al mio penar.

In quest'orrido deserto

sarà certo capitato

il Contino disperato

la sua bella a ricercar.

Voglio bene assicurarmi.

Sento gente in quella parte.

Sola sola, piano piano

son venuta qui ancor'io

per vedere il fatto mio

e potermi regolar.

Ohimè meschina!

Ah poverina!

Ahi che terrore!

(al Podestà credendolo il Contino)

Sì son io. (Quest'è il Contino.)

(al Contino credendolo il Podestà)

Sì, son io. (È il Podestà.)

Questo è Nardo, non pavento.

(verso la scena)

Qui fermate amici il piede,

nascondetevi per poco,

che a suo tempo chiamerò.

Che sventura!

Che paura!

Ah cosa è questa!

(ad Arminda)

(entra)

Ora il tutto scoprirò.

Eccomi pronta.

Pronta son io.

Tremo, oh dio!

(verso la scena da dove apparisce un gran chiarore di faci accese)

Via correte, amici, a volo,

su venite un poco qua.

Mi rallegro, mi consolo

di sì gran felicità.

Qui il Contino?

Il Podestà?

(al Podestà)

Eh v'ingannate,

io non son quella.

(a Nardo)

Eh voi scherzate,

non son la bella.

(al Contino)

Eh voi sbagliate,

non son già matta.

(al Contino)

Ah, vile indegno,

ah traditore,

or or vedrai

la mia vendetta.

Ohimè! Vacilla,

gira la testa,

parmi che il suolo

vada a mancar.

(a Nardo)

Questo non deve

premere a lei.

(ad Arminda)

Perché, tiranna,

cotanta asprezza.

(a Ramiro)

Oggetto odioso

tu fosti e sei.

Mio Tirsi, deh senti

le dolci sirene,

con placido incanto

qui sciolgono il canto;

e in dolce riposo

ci fanno goder.

(al Contino)

Mio signor, non se ne vada,

un duello colla spada

lei non deve ricusar.

Deh per pietà, fermatevi.

(freneticando)

Io son Medusa orribile.

Largo, non v'affollate.

(ad Arminda)

Sol la cagion tu sei

di tal fatalità.

Sentimi, Nardo mio,

io te la dico schietta; agl'occhi miei

tu non piacesti mai,

ma pur chi sa.

Sì, sì, sperate pur, che non v'è male.

Oh non ti posso dir, né no, né sì.

(parte)

T'arresta.

Non fuggirmi, idol mio, che non ravvisi

la tua fedele amante:

la bella Erminia fra l'ombrose piante?

Presto la mano, o caro;

voglio sposarti adesso.

Forti, non vi lasciate.

(spaventata)

Ohimè le stelle cadono!

Avete fatto il conto senza l'oste.

Dite ciò che volete,

strapazzatemi pure, bastonatemi;

ma guardatemi almeno, e ricordatevi

che mi diceste un giorno

di far la sorte mia.

L'amor, che tante volte...

Oh questa è bella;

alfin, che male c'è, se faccio anch'io

quel che fan l'altre donne, padron mio?

(parte)

Signor zio

voglio da voi dentr'oggi

il mio Contino.

Signor, da voi dentr'oggi

bramo Arminda in consorte.

D'una nipote,

voi scorgete l'affanno.

D'un amico

voi vedete il dolore.

Stabilito è il contratto.

Me ne diè la parola.

Il Contino... credete...

La nipote... sappiate...

Voi dovete obbligarlo...

Costringerla dovete...

Ascoltate...

Sentite...

Presto...

Che dite?

Ramiro, orsù, alle corte; da una donna

che ti sprezza e non t'ama, che mai speri?

Che ti sovvenga alfine,

del mio affetto sincero,

delle promesse tue.

Sì, tutto è vero

di rimproveri adesso

non è più tempo; ascolta il mio consiglio:

giacché non posso amarti

scordati pur di me, soffrilo e parti.

Per compiacerti appieno

già m'involo, o crudel, da' sguardi tuoi

pentita forse un dì...

Fa' ciò che vuoi.

(parte)

E giunge a questo segno

la tua perfidia ingrata!

Dimmi, barbara donna, iniquo mostro

di crudeltà, di qual delitto è reo

questo povero cor? Ah, che la rabbia

m'impedisce il respiro.

E sento nel mio petto,

odio, sdegno, furor, ira e dispetto.

Va' pure ad altri in braccio,

perfida donna ingrata:

furia crudel spietata,

sempre per te sarò.

Già misero mi vuoi

lontan dagl'occhi tuoi,

misero morirò.

(parte)

(con stupore)

Dove mai son!

Mi sembra

d'aver qui riposato.

E in questo vago, e bello

ameno praticello

chi mi condusse?

S'io vaneggio non so, che incanto è questo!

Che miro?

(lo discaccia)

Ti scosta.

Chi cerchi?

Sì, Violante son io:

ma se cerchi la bella

la tua sposa gentil, io non son quella.

Oh, non ardisco

a una dama sì degna

gli affetti contrastar; fra poco anch'io

del Podestà diverrò sposa; addio.

(vuol partire)

Sì, ti lascio, ingrato amante;

per te il cor non vive in pene,

non son io l'amato bene,

e ti deggio abbandonar.

Vado anch'io.

Oh scusi, no 'l permetto,

non voglio complimenti.

Vada di qua lontano.

Eh no, pensate voi;

forse c'incontreremo.

Signor no.

Lei ritorma?

(torna indietro)

Vo cedendo, piano, piano.

Non saprei...

Non vorrei...

Resto...

Oh tradimento!

Oh che gran sorte!

Mi son tolta una spina.

(accennando Nardo)

Cessi ogni dubbio

dell'esser mio cangiai

con Roberto, mio servo, e nome, e stato:

né volli mai svelarmi,

sol per far col mio sposo

una dolce vendetta.

Marchesina,

vi prego a perdonarmi; io son la rea;

io vi tramai la morte...

Non più, amica

cessate, e un caro abbraccio,

conoscer vi farà l'affetto mio.

Se piace al signor zio,

il fedele Ramiro...

Anch'io se si contenta

vorrei...

Di più bramar non so.

Sarà memore ognora, e in ogni stato,

della vostra bontà, del vostro core,

la finta giardiniera per amore.