www.librettidopera.it

Catone in Utica

CATONE IN UTICA

Tragedia per musica.

Versione sintetica a cura di www.librettidopera.it.

Da qui accedi alla versione estesa del libretto.
Da qui accedi alla versione in PDF del libretto.

Codice QR per arrivare a questa pagina:
QR code

Libretto di Pietro METASTASIO.
Musica di Leonardo VINCI.

Prima esecuzione: 19 gennaio 1728, Roma.


Personaggi:

CATONE

tenore

CESARE

soprano

MARZIA figlia di Catone e amante occulta di Cesare

soprano

ARBACE principe reale di Numidia amico di Catone e amante di Marzia

contralto

EMILIA vedova di Pompeo

contralto

FULVIO legato del Senato romano a Catone, del partito di Cesare, e amante di Emilia

contralto




La scena è in Utica, città dell'Africa.

Serenissima gran principessa

fra lo strepito de' pubblici applausi, che vi risuonan d'intorno, non isdegnate serenissima gran principessa di rivolgervi per un momento al nostro Catone in Utica, che umilmente vi rechiamo in tributo. Il nome di un tanto eroe, e la nota clemenza, con cui generosamente accogliete qualunque benché menoma offerta, possono giustificare in parte l'audacia nostra: e dove tutto ciò non bastasse, è sempre degno di compatimento quel fallo, che deriva da soverchio amor di sé stesso, colpa troppo universale perché debba altri arrossirne. Saressimo stati per avventura meno arditi, se non avessimo conosciuto quanto a noi sia gloriosa la libertà, che benignamente ci permettete di poterci col più profondo rispetto pubblicare, serenissima gran principessa, vostri umilissimi, ossequiosissimi servitori.

Li possessori del teatro.

Argomento

Dopo la morte di Pompeo il di lui contradittore Giulio Cesare fattosi perpetuo dittatore si vide rendere omaggio non solo da Roma, e dal Senato, ma da tutto il rimanente del mondo, fuor che da Catone il minore, senatore romano, che poi fu detto Uticense dal luogo della sua morte. Uomo già venerato come padre della patria non meno per l'austera integrità de' costumi, che per il valore, grand'amico di Pompeo, ed acerbissimo difensore della libertà romana. Questi avendo raccolti in Utica li pochi avanzi delle disperse milizie pompeiane, con l'aiuto di Giuba re de' Numidi, amico fedelissimo della repubblica, ebbe costanza di opporsi alla felicità del vincitore. Cesare vi accorse con esercito numeroso, e benché in tanta disuguaglianza di forze fosse sicurissimo di opprimerlo, pure invece di minacciarlo, innamorato della virtù di lui, non trascurò offerta, o preghiera per renderselo amico; ma quegli ricusando aspramente qualunque condizione, quando vide disperata la difesa di Roma, volle almeno morir libero uccidendo sé stesso. Cesare nella morte di lui diede segni di altissimo dolore, lasciando in dubbio la posterità se fosse più ammirabile la generosità di lui, che venerò a sì alto segno la virtù ne' suoi nemici, o la costanza dell'altro, che non volle sopravvivere alla libertà della patria.

Tutto ciò si ha dagli storici, il resto è verisimile.

Per comodo della musica cangeremo il nome di Cornelia, vedova di Pompeo, in Emilia, e quello del giovane Iuba, figlio dell'altro Iuba re di Numidia, in Arbace.

Le parole numi, fato, etc. non hanno cosa alcuna di comune cogl'interni sentimenti dell'autore, che si professa vero cattolico.

Atto primo
Scena prima

Sala d'armi.
Catone, Marzia, Arbace.

MARZIA

Perché sì mesto o padre? Oppressa è Roma,

se giunge a vacillar la tua costanza.

Parla; al cor d'una figlia

la sventura maggiore

di tutte le sventure è il tuo dolore.

ARBACE

Signor che pensi? In quel silenzio appena

riconosco Catone. Ov'è lo sdegno

figlio di tua virtù? Dov'è il coraggio?

Dove l'anima intrepida, e feroce?

Ah se del tuo gran core

l'ardir primiero è in qualche parte estinto,

non v'è più libertà, Cesare ha vinto.

CATONE

Figlia, amico, non sempre

la mestizia, il silenzio

è segno di viltade, e agli occhi altrui

si confondon sovente

la prudenza e il timor: se penso, e taccio,

taccio, e penso a ragion. Tutto ha sconvolto

di Cesare il furor. Per lui Farsaglia

è di sangue civil tiepida ancora;

per lui più non s'adora

Roma, il Senato, al di cui cenno un giorno

tremava il Parto, impallidia lo Scita;

da barbara ferita

per lui su gli occhi al traditor d'Egitto

cadde Pompeo trafitto, e solo in queste

d'Utica anguste mura

mal sicuro riparo

trova alla sua ruina

la fuggitiva libertà latina.

Cesare abbiamo a fronte

che d'assedio ci stringe; i nostri armati

pochi sono e mal fidi; in me ripone

la speme, che le avanza

Roma, che geme al suo tiranno in braccio:

e chiedete ragion s'io penso, e taccio?

MARZIA

Ma non viene a momenti

Cesare a te?

ARBACE

Di favellarti ei chiede,

dunque pace vorrà.

CATONE

Sperate invano,

che abbandoni una volta

il desio di regnar. Troppo gli costa

per deporlo in un punto.

MARZIA

Chi sa? Figlio è di Roma

Cesare ancor.

CATONE

Ma un dispietato figlio,

che serva la desia; ma un figlio ingrato

che per domarla appieno

non sente orror nel lacerarle il seno.

ARBACE

Tutta Roma non vinse

Cesare ancora. A superar gli resta

il riparo più forte al suo furore.

CATONE

E che gli resta mai?

ARBACE

Resta il tuo core.

Forse più timoroso

verrà dinanzi al tuo severo ciglio,

che all'Asia tutta, ed all'Europa armata.

E se dal tuo consiglio

regolati saranno, ultima speme

non sono i miei Numidi: hanno altre volte,

sotto duce minor, saputo anch'essi

all'aquile latine in questo suolo

mostrar la fronte, e trattenere il volo.

CATONE

M'è noto, e il più nascondi,

tacendo il tuo valor, l'anima grande

a cui, fuor che la sorte

d'esser figlia di Roma, altro non manca.

ARBACE

Deh tu signor correggi

questa colpa non mia; la tua virtude

nel sen di Marzia io da gran tempo adoro.

Nuovo legame aggiungi

alla nostra amistà, soffri ch'io porga

di sposo a lei la mano,

non mi sdegni la figlia, e son romano.

MARZIA

Come! allor che paventa

la nostra libertà l'ultimo fato,

che a' nostri danni armato

arde il mondo di bellici furori,

parla Arbace di nozze, e chiede amori?

CATONE

Deggion le nozze, o figlia,

più al pubblico riposo,

che alla scelta servir del genio altrui.

Con tal cambio di affetti

si meschiano le cure. Ognun difende

parte di sé nell'altro, onde muniti

di nodo sì tenace

crescon gl'imperi, e stanno i regni in pace.

ARBACE

Felice me, se approva

al par di te con men turbate ciglia

Marzia gli affetti miei.

CATONE

Marzia è mia figlia.

MARZIA

Perché tua figlia io sono, e son romana

custodisco gelosa

le ragioni, il decoro

della patria, e del sangue; e tu vorrai

che la tua prole istessa, una che nacque

cittadina di Roma, e fu nutrita

all'aura trionfal del Campidoglio,

scenda al nodo d'un re?

ARBACE

(Che bell'orgoglio!)

CATONE

Come cangia la sorte

si cangiano i costumi; in ogni tempo

tanto fasto non giova, e a te non lice

esaminar la volontà del padre.

Principe non temer, fra poco avrai

Marzia tua sposa. In queste braccia intanto

(Catone abbraccia Arbace)

del mio paterno amore

prendi il pegno primiero, e ti rammenta

ch'oggi Roma è tua patria; il tuo dovere,

or che romano sei,

è di salvarla, o di cader con lei.

Con sì bel nome in fronte

combatterai più forte.

Rispetterà la sorte

di Roma un figlio in te.

Libero vivi, e quando

te 'l neghi il fato ancora,

almen come si mora

apprenderai da me.

(parte)

Scena seconda

Marzia, Arbace.

ARBACE

Poveri affetti miei

se non sanno impetrar dal tuo bel core

pietà, se non amore.

MARZIA

M'ami Arbace?

ARBACE

Se t'amo! e così poco

si spiegano i miei sguardi,

che se il labro nol dice, ancor no 'l sai?

MARZIA

Ma qual prova finora

ebbi dell'amor tuo?

ARBACE

Nulla chiedesti.

MARZIA

E s'io chiedessi, o prence,

questa prova or da te?

ARBACE

Fuor che lasciarti

tutto farò.

MARZIA

Già sai

qual di eseguir necessità ti stringa

se mi sproni a parlar.

ARBACE

Parla: ne brami

sicurezza maggior? su la mia fede,

sul mio onor ti assicuro,

il giuro ai numi, a que' begli occhi il giuro.

Che mai chieder mi puoi? la vita? il soglio?

Imponi, eseguirò.

MARZIA

Tanto non voglio.

Bramo che in questo giorno

non si parli di nozze; a tua richiesta

il padre vi acconsenta,

non sappia ch'io l'imposi, e son contenta.

ARBACE

Perché voler ch'io stesso

la mia felicità tanto allontani?

MARZIA

Il merto di ubbidir perde chi chiede

la ragion del comando.

ARBACE

Ah so ben io

qual ne sia la cagion. Cesare ancora

è la tua fiamma. All'amor mio perdona

un libero parlar, so che l'amasti,

oggi in Utica ei viene, oggi ti spiace

che si parli di nozze, i miei sponsali

oggi ricusi al genitore in faccia,

e vuoi da me ch'io ti ubbidisca, e taccia?

MARZIA

Forse i sospetti tuoi

dileguar io potrei, ma tanto ancora

non deggio a te. Servi al mio cenno, e pensa

a quanto promettesti, a quanto imposi.

ARBACE

Ma poi quegli occhi amati

mi saranno pietosi, o pur sdegnati?

MARZIA

Non ti minaccio sdegno,

non ti prometto amor.

Dammi di fede un pegno,

fidati del mio cor,

vedrò se m'ami.

E di premiarti poi

resti la cura a me,

né domandar mercé

se pur la brami.

(parte)

Scena terza

Arbace.

Che giurai! che promisi! a qual comando

ubbidir mi conviene! e chi mai vide

più misero di me? la mia tiranna

quasi sugli occhi miei si vanta infida,

ed io l'armi le porgo, onde m'uccida.

Che legge spietata!

che sorte crudele!

d'un'alma piagata,

d'un core fedele,

servire, soffrire,

tacere, e penar.

Se poi l'infelice

domanda mercede

si sprezza, si dice

che troppo richiede,

che impari ad amar.

(parte)

Scena quarta

Parte interna delle mura di Utica con porta della città in prospetto chiusa da un ponte che poi si abbassa.
Catone, poi Cesare e Fulvio.

CATONE

Dunque Cesare venga. Io non intendo

qual cagion lo conduca! è inganno! è tema!

No, d'un romano in petto

non giunge a tanto ambizion d'impero,

che dia ricetto a così vil pensiero.

Cala il ponte e si vede venir Cesare con Fulvio.

CESARE

Con cento squadre, e cento

a mia difesa armate in campo aperto

non mi presento a te. Senz'armi, e solo

sicuro di tua fede

fra le mura nemiche io porto il piede.

Tanto Cesare onora

la virtù di Catone, emulo ancora.

CATONE

Mi conosci abbastanza, onde in fidarti

nulla più del dovere a me rendesti.

Di che temer potresti?

In Egitto non sei; qui delle genti

si serba ancor l'universal ragione,

né vi son Tolomei dove è Catone.

CESARE

È ver, noto mi sei; già il tuo gran nome

fin da' primi anni a venerare appresi.

In cento bocche intesi

della patria chiamarti

padre, e sostegno, e delle antiche leggi

rigido difensor. Fu poi la sorte

prodiga all'armi mie del suo favore.

Ma l'acquisto maggiore,

per cui contento ogn'altro acquisto io cedo,

è l'amicizia tua, questa ti chiedo.

FULVIO

E il Senato la chiede: a voi m'invia

nunzio del suo voler. È tempo ormai

che da' privati sdegni

la combattuta patria abbia riposo.

Scema d'abitatori

è già l'Italia afflitta; alle campagne

già mancano i cultori,

manca il ferro agli aratri, in uso d'armi

tutto il furor converte, e mentre Roma

con le sue mani il proprio sen divide,

gode l'Asia incostante, Africa ride.

CATONE

Chi vuol Catone amico

facilmente lo avrà: sia fido a Roma.

CESARE

Chi più fido di me? Spargo per lei

il sudor da gran tempo, e il sangue mio.

Son io quegli son io, che su gli alpestri

gioghi del Tauro, ov'è più al ciel vicino,

di Marte e di Quirino

fe' risuonar la prima volta il nome.

Il gelido brittanno

per me le ignote ancora

romane insegne a venerare apprese;

e dal clima remoto

se venni poi...

CATONE

Già tutto il resto è noto.

Di tue famose imprese

godiamo i frutti, e in ogni parte abbiamo

pegni dell'amor tuo. Dunque mi credi

mal accorto così, ch'io non ravvisi

velato di virtude il tuo disegno?

So, che il desio di regno,

che il tirannico genio, onde infelici

tanti hai reso fin qui...

FULVIO

Signor che dici?

Di ricomporre i disuniti affetti

non son queste le vie; di pace io venni,

non di risse ministro.

CATONE

E ben si parli.

(Udiam che dir potrà.)

FULVIO

(a Cesare)

(Tanta virtude

troppo acerbo lo rende.)

CESARE

(a Fulvio)

(Io l'ammiro però, se ben m'offende.)

Pende il mondo diviso

dal tuo, dal cenno mio, sol che la nostra

amicizia si stringa il tutto è in pace.

Se del sangue latino

qualche pietà pur senti, i sensi miei

placido ascolterai.

Scena quinta

Emilia e detti.

EMILIA

Che veggio o dèi!

Questo è dunque l'asilo,

ch'io sperai da Catone! un luogo istesso

la sventurata accoglie

vedova di Pompeo col suo nemico!

(a Catone)

Ove son le promesse?

ove la mia vendetta?

così sveni il tiranno?

così d'Emilia il difensor tu sei!

Fin di pace si parla in faccia a lei!

FULVIO

(In mezzo alle sventure

è bella ancor.)

CATONE

Tanto trasporto Emilia

perdono al tuo dolor. Quando l'oblio

delle private offese

util si rende al comun bene, è giusto.

EMILIA

Qual utile, qual fede

sperar si può dall'oppressor di Roma?

CESARE

A Cesare oppressor? chi l'ombra errante

colla funebre pompa

placò del gran Pompeo? forse ti tolsi

armi, navi, e compagni? a te non resi

e libertade, e vita?

EMILIA

Io non la chiesi.

Ma giacché vivo ancor, saprò valermi

contro te del tuo don; finché non vegga

la tua testa recisa e terre, e mari

scorrerò disperata; in ogni parte

lascerò le mie furie, e tanta guerra

contro ti desterò, che non rimanga

più nel mondo per te sicura sede.

Sai che già te 'l promisi, io serbo fede.

CATONE

Modera il tuo furor.

CESARE

Se tanto ancora

sei sdegnata con me, sei troppo ingiusta.

EMILIA

Ingiusta? e tu non sei

la cagion de' miei mali? il mio consorte

tua vittima non fu? forse presente

non ero allor, che dalla nave ei scese

sul picciolo del Nilo infido legno?

Io con quest'occhi, io vidi

splender l'infame acciaro

che il sen gli aperse. Il primo sangue io vidi

macchiar fuggendo al traditore il volto.

Fra i barbari omicidi

non mi gittai, che questo ancor mi tolse

l'onda frapposta e la pietade altrui.

Né v'era, il credo appena,

di tanto già seguace mondo, un solo

che potesse a Pompeo chiuder le ciglia.

Tanto invidian gli dei chi lor somiglia!

FULVIO

(Pietà mi desta.)

CESARE

Io non ho parte alcuna

di Tolomeo nell'empietade: assai

la vendetta, ch'io presi, è manifesta.

E sa il ciel, tu lo sai,

s'io piansi allor su l'onorata testa.

CATONE

Ma chi sa se piangesti

per gioia, o per dolor; la gioia ancora

ha le lagrime sue.

CESARE

Pompeo felice

invidio il tuo morir, se fu bastante

a farti meritar Catone amico.

EMILIA

Di sì nobile invidia

no, capace non sei tu, che potesti

contro la patria tua rivolger l'armi.

FULVIO

Signor, questo non parmi

tempo opportuno a favellar di pace.

Chiede l'affar più solitaria parte

e mente più serena.

CATONE

Al mio soggiorno

dunque in breve io vi attendo. E tu frattanto

pensa Emilia, che tutto

lasciar l'affanno in libertà non dei,

giacché ti fe' la sorte

figlia a Scipione, ed a Pompeo consorte.

Si sgomenti alle sue pene

il pensier di donna imbelle,

che vil sangue ha nelle vene,

che non vanta un nobil cor.

Se lo sdegno delle stelle

tollerar meglio non sai

arrossir troppo farai

e lo sposo, e il genitor.

(parte)

Scena sesta

Cesare, Emilia e Fulvio.

CESARE

Tu taci Emilia? in quel silenzio io spero

un principio di calma.

EMILIA

T'inganni. Allorch'io taccio,

medito le vendette.

FULVIO

E non ti plachi

d'un vincitor sì generoso a fronte?

EMILIA

Io placarmi? Anzi sempre in faccia a lui,

se fosse ancor di mille squadre cinto,

dirò che l'odio, e che lo voglio estinto.

CESARE

Nell'ardire, che il seno ti accende,

così bello lo sdegno si rende,

che in un punto mi desti nel petto

meraviglia, rispetto e pietà.

Tu m'insegni con quanta costanza

si contrasti alla sorte inumana,

e che sono ad un'alma romana

nomi ignoti timore e viltà.

(parte)

Scena settima

Emilia e Fulvio.

EMILIA

Quanto da te diverso

io ti riveggo o Fulvio; e chi ti rese

di Cesare seguace, a me nemico?

FULVIO

Allor ch'io servo a Roma

non son nemico a te. Troppo ho nell'alma

de' pregi tuoi la bella imago impressa.

E s'io men di rispetto

avessi al tuo dolor, direi che ancora

Emilia m'innamora;

che adesso ardo per lei qual arsi pria,

che la sventura mia

a Pompeo la donasse; e le direi,

ch'è bella anche nel duolo agli occhi miei.

EMILIA

Mal si accordano insieme

di Cesare l'amico,

e l'amante d'Emilia; o lui difendi,

o vendica il mio sposo; a questo prezzo

ti permetto che m'ami.

FULVIO

(Ah che mi chiede?

Si lusinghi.)

EMILIA

Che pensi?

FULVIO

Penso, che non dovresti

dubitar di mia fé.

EMILIA

Dunque sarai

ministro del mio sdegno?

FULVIO

Un tuo comando

prova ne faccia.

EMILIA

Io voglio

Cesare estinto. Or posso

di te fidarmi?

FULVIO

Ogn'altra man sarebbe

men fida della mia.

EMILIA

Questo per ora

da te mi basta. Inosservati altrove

i mezzi a vendicarmi

sceglier potremo.

FULVIO

Intanto

potrò spiegarti almeno

tutti gli affetti miei.

EMILIA

Non è ancor tempo

che tu parli d'amore, e ch'io t'ascolti.

Pria si adempia il disegno, e allor più lieta

forse ti ascolterò. Qual mai può darti

speranza un'infelice

cinta di bruno ammanto,

con l'odio in petto e su le ciglia il pianto?

FULVIO

Piangendo ancora

rinascer suole

la bella aurora

nunzia del sole,

e pur conduce

sereno il dì.

Tal fra le lagrime

fatta serena,

può da quest'anima

fugar la pena

a cara luce

che m'invaghì.

(parte)

Scena ottava

Emilia.

Se gli altrui folli amori ascolto, e soffro,

e s'io respiro ancor dopo il tuo fato

perdona o sposo amato.

Perdona: a vendicarmi

non mi restano altr'armi. A te gli affetti

tutti donai, per te li serbo, e quando

termini il viver mio, saranno ancora

al primo nodo avvinti,

s'è ver, ch'oltre la tomba aman gli estinti.

O nel sen di qualche stella,

o sul margine di Lete

se mi attendi anima bella,

non sdegnarti, anch'io verrò.

Sì verrò, ma voglio pria,

che preceda all'ombra mia

l'ombra rea di quel tiranno,

che a tuo danno il mondo armò.

(parte)

Scena nona

Fabbriche in parte rovinate vicino al soggiorno di Catone.
Cesare e Fulvio.

CESARE

Giunse dunque a tentarti

d'infedeltade Emilia? e tanto spera

dall'amor tuo?

FULVIO

Sì, ma per quanto io l'ami,

amo più la mia gloria.

Infido a te mi finsi

per sicurezza tua, così palesi

saranno i suoi disegni.

CESARE

A Fulvio amico

tutto fido me stesso. Or mentre io vado

il campo a riveder qui resta, e segui

il suo core a scoprir.

FULVIO

Tu parti!

CESARE

Io deggio

prevenir i tumulti

che la tardanza mia destar potrebbe.

FULVIO

E Catone?

CESARE

A lui vanne, e l'assicura

che pria che giunga a mezzo il corso il giorno

a lui farò ritorno.

FULVIO

Andrò, ma veggio

Marzia che viene.

CESARE

In libertà mi lascia

un momento con lei, finora invano

la ricercai. T'è noto...

FULVIO

Io so che l'ami,

so che t'adora anch'ella, e so per prova

qual piacer si ritrova

dopo lunga stagion nel dolce istante,

che rivede il suo bene un fido amante.

(parte)

Scena decima

Marzia e Cesare.

CESARE

Pur ti riveggo, o Marzia. Agli occhi miei

appena il credo, e temo

che per costume a figurarti avvezzo

mi lusinghi il pensiero; oh quante volte

fra l'armi, e le vicende in cui m'avvolse

l'incostante fortuna a te pensai.

E tu spargesti mai

un sospiro per me? rammenti ancora

la nostra fiamma? al par di tua bellezza

crebbe il tuo amore, o pur scemò? qual parte

hanno gli affetti miei

negli affetti di Marzia?

MARZIA

E tu chi sei?

CESARE

Chi sono! e qual richiesta! è scherzo! è sogno!

Così tu di pensiero,

o così di sembianza io mi cangiai!

Non mi ravvisi?

MARZIA

Io non ti vidi mai.

CESARE

Cesare non vedesti?

Cesare non ravvisi?

Quello che tanto amasti,

quello a cui tu giurasti

per volger d'anni, o per destin rubello

di non essergli infida?

MARZIA

E tu sei quello!

No, tu quello non sei, n'usurpi il nome.

Un Cesare adorai, no 'l nego, ed era

della patria il sostegno,

l'onor del Campidoglio,

il terror de' nemici,

la delizia di Roma,

del mondo intier dolce speranza, e mia.

Questo Cesare amai, questo mi piacque

pria che l'avesse il ciel da me diviso.

Questo Cesare torni e lo ravviso.

CESARE

Sempre l'istesso io sono, e se al tuo sguardo

più non sembro l'istesso, o pria l'amore,

o t'inganna or lo sdegno. All'armi, all'ire

mi spinse a mio dispetto

più che la scelta mia, l'invidia altrui.

Combattei per difesa. A te dovevo

conservar questa vita, e se pugnando

scorsi poi vincitor di regno in regno

sperai farmi così di te più degno.

MARZIA

Molto ti deggio inver, se ingiusta offesi

il tuo cor generoso a me perdona.

Io semplice finora

sempre credei che si facesse guerra

solamente a' nemici, e non spiegai

come pegni amorosi i tuoi furori.

Ma in avvenir, l'affetto

d'un grand'eroe, che viva innamorato

conoscerò così. Barbaro. Ingrato.

CESARE

Che far di più dovrei. Supplice io stesso

vengo a chiedervi pace.

Quando potrei... tu sai...

MARZIA

So che con l'armi

però la chiedi.

CESARE

E disarmato all'ira

de' nemici ho da espormi?

MARZIA

Eh di', che il solo

impaccio al tuo disegno è il padre mio.

Di', che lo brami estinto e che non soffri

nel mondo, che vincesti,

che sol Catone a soggiogar ti resti.

CESARE

Or m'ascolta, e perdona

un sincero parlar. Quanto me stesso

io t'amo, è ver, ma la beltà del volto

non fu che mi legò, Catone adoro

nel sen di Marzia; il tuo bel core ammiro

come parte del suo; qua più mi trasse

l'amicizia per lui che il nostro amore;

e se (lascia ch'io possa

dirti ancor più) se m'imponesse un nume

di perdere un di voi, morir d'affanno

nella scelta potrei

ma Catone, e non Marzia io salverei.

MARZIA

Ecco il Cesare mio. Comincio adesso

a ravvisarlo in te; così mi piaci,

così m'innamorasti. Ama Catone,

io non ne son gelosa, un tal rivale

se divide il tuo core,

più degno sei, ch'io ti conservi amore.

CESARE

Questa è troppa vittoria. Ah mal da tanta

generosa virtude io mi difendo.

Ti rassicura, io penso

al tuo riposo, e pria che cada il giorno

dall'opre mie vedrai

che son Cesare ancora, e che t'amai.

Chi un dolce amor condanna

vegga la mia nemica,

l'ascolti, e poi mi dica

s'è debolezza amor.

Quando da sì bel fonte

derivano gli affetti

vi son gli eroi soggetti,

amano i numi ancor.

(parte)

Scena undicesima

Marzia, poi Catone.

MARZIA

Mie perdute speranze

rinascer tutte entro il mio sen vi sento.

Chi sa. Gran parte ancora

resta di questo dì. Placato il padre

se all'amistà di Cesare si appiglia,

non m'avrà forse Arbace.

CATONE

Andiamo o figlia.

MARZIA

Dove?

CATONE

Al tempio, alle nozze

del principe numida.

MARZIA

(Oh dei!) Ma come

sollecito così?

CATONE

Non soffre indugio

la nostra sorte.

MARZIA

(Arbace infido.) All'ara

forse il prence non giunse.

CATONE

Un mio fedele

già corse ad affrettarlo.

(in atto di partire)

MARZIA

(Ah che tormento.)

Scena dodicesima

Arbace e detti.

ARBACE

(a Catone)

Deh t'arresta o signor.

MARZIA

(piano ad Arbace)

(Sarai contento.)

CATONE

Vieni o principe, andiamo

a compir l'imeneo; potea più pronto

donar quanto promisi?

ARBACE

A sì gran dono

è poco il sangue mio, ma se pur vuoi

che si renda più grato, all'altra aurora

differirlo ti piaccia, oggi si tratta

grave affar co' nemici, e il nuovo giorno

tutto al piacer può consacrarsi intero.

CATONE

No, già fumano l'are,

son raccolti i ministri, ed importuna

sarebbe ogni dimora.

ARBACE

(piano a Marzia)

Marzia che deggio far?

MARZIA

(piano ad Arbace)

Me 'l chiedi ancora?

ARBACE

Il più, signor, concedi

e mi contendi il meno.

CATONE

E tanto importa

a te l'indugio?

ARBACE

Oh dio... non sai... (Che pena!)

CATONE

(ad Arbace)

Ma qual freddezza è questa! io non l'intendo!

Fosse Marzia l'audace

che si oppone a' tuoi voti?

MARZIA

Io! parli Arbace.

ARBACE

No, son io che ti prego.

CATONE

(Ah qualche arcano

qui si nasconde. Ei chiede...

poi ricusa la figlia... il giorno istesso

che vien Cesare a noi tanto si cangia...

Sì lento... sì confuso... io temo...) Arbace

non ti sarebbe già tornato in mente

che nascesti africano?

ARBACE

Io da Catone

tutto sopporto, e pure...

CATONE

E pur assai diverso

io ti credea.

ARBACE

Vedrai...

CATONE

Vidi abbastanza;

e nulla ormai più da veder m'avanza.

(parte)

ARBACE

Brami di più crudele? ecco adempito

il tuo comando, ecco in sospetto il padre,

ed eccomi infelice. Altro vi resta

per appagarti?

MARZIA

Ad ubbidirmi Arbace

incominciasti appena, e in faccia mia

già ne fai sì gran pompa?

ARBACE

O tirannia!

Scena tredicesima

Emilia e detti.

EMILIA

In mezzo al mio dolore a parte anch'io

son de' vostri contenti illustri sposi.

Ecco acquista in Arbace

il suo vindice Roma, e cresceranno

generosi nemici al mio tiranno.

ARBACE

Riserba ad altro tempo

gli auguri Emilia, è ancor sospeso il nodo.

EMILIA

Si cangiò di pensiero

Catone, o Marzia?

ARBACE

Eh non ha Marzia un core

tanto crudele, ella per me sospira

tutta costanza, e fede,

da' sguardi suoi, dal suo parlar si vede.

EMILIA

Dunque il padre mancò.

ARBACE

Né pur.

EMILIA

Chi è mai

cagion di tanto indugio?

MARZIA

Arbace il chiede.

EMILIA

Tu prence?

ARBACE

Io sì.

EMILIA

Perché?

ARBACE

Perché desio

maggior prova d'amor. Perché ho diletto

di vederla penar.

EMILIA

E Marzia il soffre?

MARZIA

Che posso far? Di chi ben ama è questa

la dura legge.

EMILIA

Io non l'intendo, e parmi

il vostro amore inusitato e nuovo.

ARBACE

Anch'io poco l'intendo, e pur lo provo.

È in ogni core

diverso amore.

Chi pena, ed ama

senza speranza;

dell'incostanza

chi si compiace;

questo vuol guerra,

quello vuol pace,

v'è fin chi brama

la crudeltà.

Fra questi miseri

se vivo anch'io,

ah non deridere

l'affanno mio,

che forse merito

la tua pietà.

(parte)

Scena quattordicesima

Marzia ed Emilia.

EMILIA

Se manca Arbace alla promessa fede

è Cesare l'indegno

che l'ha sedotto.

MARZIA

I tuoi sospetti affrena.

È Cesare incapace

di cotanta viltà benché nemico.

EMILIA

Tu no 'l conosci, è un empio, ogni delitto

pur che giovi a regnar virtù gli sembra.

MARZIA

E pur sì fidi, e numerosi amici

adorano il suo nome.

EMILIA

È de' malvaggi

il numero maggior, gli unisce insieme

delle colpe il commercio, indi a vicenda

si soffrono tra loro, e i buoni anch'essi

si fan rei coll'esempio, o sono oppressi.

MARZIA

Queste massime Emilia

lasciam per ora, e favelliam fra noi.

Dimmi; non prese l'armi

lo sposo tuo per gelosia d'impero?

E a te (palesa il vero)

questa idea di regnar forse dispiacque?

S'era Cesare il vinto,

l'ingiusto era Pompeo. La sorte accusa.

È grande il colpo, il veggio anch'io, ma alfine

non è reo d'altro errore

che d'esser più felice il vincitore.

EMILIA

E ragioni così? che più diresti

Cesare amando? ah ch'io ne temo. E parmi

che il tuo parlar lo dica.

MARZIA

E puoi creder che l'ami una nemica?

EMILIA

Un certo non so che

veggo negli occhi tuoi;

tu vuoi che amor non sia,

sdegno però non è.

Se fosse amor, l'affetto

estingui o cela in petto.

L'amar così saria

troppo delitto in te.

(parte)

Scena quindicesima

Marzia

Ah troppo dissi, e quasi tutto Emilia

comprese l'amor mio. Ma chi può mai

sì ben dissimular gli affetti sui,

che gli asconda per sempre agli occhi altrui.

È follia se nascondete

fidi amanti il vostro foco.

A scoprir quel che tacete

un pallor basta improvviso,

un rossor che accenda il viso,

uno sguardo ed un sospir.

E se basta così poco

a scoprir quel che si tace,

perché perder la sua pace

con ascondere il martir.

(parte)

Atto secondo
Scena prima

Alloggiamenti militari sulle rive del fiume Bagrada con varie isole che comunicano fra loro per diversi ponti.
Catone con Séguito, poi Marzia, indi Arbace

CATONE

Romani, il vostro duce

se mai sperò da voi prove di fede,

oggi da voi le spera, oggi le chiede.

MARZIA

Nelle nuove difese

che la tua cura aggiunge io veggio, o padre,

segni di guerra e pur sperai vicina

la sospirata pace.

CATONE

In mezzo all'armi

non v'è cura che basti. Il solo aspetto

di Cesare seduce i miei più fidi.

ARBACE

Signor, già de' Numidi

giunser le schiere; eccoti un nuovo pegno

della mia fedeltà.

CATONE

Non basta Arbace

per togliermi i sospetti.

ARBACE

Oh dèi, tu credi...

CATONE

Sì, poca fede in te. Perché mi taci

chi a differir t'induca

il richiesto imeneo? perché ti cangi

quando Cesare arriva?

ARBACE

Ah Marzia, al padre

ricorda la mia fé, vedi a qual segno

giunge la mia sventura.

MARZIA

E qual soccorso

darti poss'io?

ARBACE

Tu mi consiglia almeno.

MARZIA

Consiglio a me si chiede!

Servi al dovere, e non mancar di fede.

ARBACE

(Che crudeltà!)

CATONE

(ad Arbace)

Già il suo consiglio udisti,

or che risolvi?

ARBACE

Ah se fui degno mai

dell'amor tuo, soffri l'indugio; io giuro

per quanto ho di più caro,

ch'è l'onor mio, ch'io ti sarò fedele.

Il domandarti alfine

che l'imeneo nel nuovo dì succeda

sì gran colpa non è.

CATONE

Via, si conceda.

Ma dentro a queste mura,

finché sposo di lei te non rimiro,

Cesare non ritorni.

MARZIA

(Oh dèi.)

ARBACE

(Respiro.)

MARZIA

(a Catone)

Ma questo a noi che giova?

CATONE

In simil guisa

d'entrambi io mi assicuro: impegna Arbace

con obbligo maggior la propria fede.

E Cesare, se il vede

più stretto a noi, non può di lui fidarsi.

MARZIA

E dovrà dilungarsi

per sì lieve cagione affar sì grande?

ARBACE

Marzia, sia con tua pace,

t'opponi a torto. Al suo riposo, e al mio

saggiamente ei provide.

MARZIA

E tu sì franco

soffri, che a tuo riguardo

un rimedio si scelga, anche dannoso

forse alla pace altrui? né ti sovviene

a chi manchi, se vanno

le speranze di tanti in abbandono?

ARBACE

Servo al dovere, e mancator non sono.

CATONE

Marzia t'accheta. Al nuovo giorno o prence

seguan le nozze, io te 'l consento; intanto

ad impedir di Cesare il ritorno

mi porto in questo punto.

MARZIA

(Dèi che farò!)

Scena seconda

Fulvio e detti.

FULVIO

Signor, Cesare è giunto.

MARZIA

(Torno a sperar.)

CATONE

Dov'è?

FULVIO

D'Utica appena

entrò le mura.

ARBACE

(Io son di nuovo in pena.)

CATONE

Vanne Fulvio, al suo campo

digli che rieda; in questo dì non voglio

trattar di pace.

FULVIO

E perché mai?

CATONE

Non rendo

ragione altrui dell'opre mie.

FULVIO

Ma questo

in ogni altro, che in te, mancar saria

alla pubblica fede.

CATONE

Mancò Cesare prima. Al suo ritorno

l'ora prefissa è scorsa.

FULVIO

E tanto esatto

i momenti misuri?

CATONE

Altre cagioni

vi sono ancora.

FULVIO

E qual cagion? due volte

Cesare in un sol giorno a te se n' viene

e due volte è deluso.

Qual disprezzo è mai questo? al fin dal volgo

non si distingue Cesare sì poco

che sia lecito altrui prenderlo a gioco.

CATONE

Fulvio ammiro il tuo zelo, in vero è grande.

Ma un buon roman si accenderebbe meno

a favor d'un tiranno.

FULVIO

Un buon romano

difende il giusto; un buon roman si adopra

per la pubblica pace; e voi dovreste

mostrarvi a me più grati. A voi la pace

più che ad altri bisogna.

CATONE

Ove son io

pria della pace, e dell'istessa vita

si cerca libertà.

FULVIO

Chi a voi la toglie?

CATONE

Non più. Da queste soglie

Cesare parta. Io farò noto a lui

quando giovi ascoltarlo.

FULVIO

In van lo speri.

Sì gran torto non soffro.

CATONE

E che farai?

FULVIO

Il mio dover.

CATONE

Ma tu chi sei?

FULVIO

Son io

il legato di Roma.

CATONE

E ben, di Roma

parta il legato.

FULVIO

Sì, ma leggi pria

che contien questo foglio, e chi l'invia.

(Fulvio dà a Catone un foglio)

ARBACE

(Marzia perché sì mesta?)

MARZIA

(Eh non scherzar, che da sperar mi resta.)

(Catone apre il foglio e legge)

CATONE

«Il Senato a Catone. È nostra mente

render la pace al mondo. Ognun di noi,

i consoli, i tribuni, il popol tutto,

Cesare istesso il dittator la vuole.

Servi al pubblico voto, e se ti opponi

a così giusta brama,

suo nemico la patria oggi ti chiama.»

FULVIO

(Che dirà!)

CATONE

Perché tanto

celarmi il foglio?

FULVIO

Era rispetto.

MARZIA

(Arbace

perché mesto così?)

ARBACE

(Lasciami in pace.)

CATONE

(rileggendo da sé)

«È nostra mente... Il dittator la vuole...

Servi al pubblico voto...

Suo nemico la patria...» E così scrive

Roma a Catone?

FULVIO

Appunto.

CATONE

Io di pensiero

dovrò dunque cangiarmi?

FULVIO

Un tal comando

improvviso ti giunge.

CATONE

È ver. Tu vanne

e a Cesare...

FULVIO

Dirò, che qui l'attendi,

che ormai più non soggiorni.

CATONE

No, gli dirai che parta, e più non torni.

FULVIO

Ma come!

MARZIA

(O ciel!)

FULVIO

Così...

CATONE

Così mi cangio,

così servo a un tal cenno.

FULVIO

E il foglio...

CATONE

È un foglio infame

che concepì, che scrisse

non la ragion, ma la viltade altrui.

FULVIO

E il Senato...

CATONE

Il Senato

non è più quel di pria, di schiavi è fatto

un vilissimo gregge.

FULVIO

E Roma...

CATONE

E Roma

non sta fra quelle mura, ella è per tutto

dove ancor non è spento

di gloria e libertà l'amor natio.

Son Roma i fidi miei, Roma son io.

Va', ritorna al tuo tiranno,

servi pur al tuo sovrano

ma non dir, che sei romano

fin che vivi in servitù.

Se al tuo cor non reca affanno

d'un vil giogo ancor lo scorno,

vergognar faratti un giorno

qualche resto di virtù.

(parte)

Scena terza

Marzia, Arbace e Fulvio.

FULVIO

A tanto eccesso arriva

l'orgoglio di Catone?

MARZIA

Ah Fulvio, e ancora

non conosci il suo zelo? Ei crede...

FULVIO

Ei creda

pur ciò che vuol, conoscerà fra poco

se di romano il nome

degnamente conservo,

e se a Cesare sono amico o servo.

(parte)

ARBACE

Marzia, posso una volta

sperar pietà?

MARZIA

Dagli occhi miei t'invola;

non aggiungermi affanni

colla presenza tua.

ARBACE

Dunque il servirti

è demerito in me. Così geloso

eseguisco e nascondo un tuo comando.

E tu...

MARZIA

Ma fino a quando

la noia ho da soffrir di questi tuoi

rimproveri importuni? Io ti disciolgo

d'ogni promessa, in libertà ti pongo

di far quanto a te piace,

di' ciò che vuoi, pur che mi lasci in pace.

ARBACE

E acconsenti ch'io possa

libero favellar?

MARZIA

Tutto acconsento,

pur che le tue querele

più non abbia a soffrir.

ARBACE

Marzia crudele.

MARZIA

Chi a tollerar ti sforza

questa mia crudeltà? Di chi ti lagni?

Perché non cerchi altrove

chi pietosa t'accolga? Io te 'l consiglio.

Vanne, il tuo merto è grande e mille in seno

amabili sembianze Africa aduna.

Contenderanno a gara

l'acquisto del tuo cor, di me ti scorda,

ti vendica così.

ARBACE

Giusto saria.

Ma chi tutto può far quel che desia?

So, che pietà non hai

e pur ti deggio amar.

Dove apprendesti mai

l'arte d'innamorar

quando m'offendi.

Se compatir non sai,

se amor non vive in te,

perché crudel, perché

così m'accendi?

(parte)

Scena quarta

Marzia, poi Emilia, indi Cesare.

MARZIA

E qual sorte è la mia! di pena in pena,

di timore in timor passo, e non provo

un momento di pace.

EMILIA

Alfin partito

è Cesare da noi. So già che invano

in difesa di lui

Marzia, e Fulvio sudò, ma giovò poco

e di Fulvio, e di Marzia

a Cesare il favor. Come sofferse

quell'eroe sì gran torto?

che disse? che farà? tu lo saprai,

tu che sei tanto alla sua gloria amica.

MARZIA

(vedendo venire Cesare)

Ecco Cesare istesso, egli te 'l dica.

EMILIA

Che veggo!

CESARE

A tanto eccesso

giunse Catone? e qual dover, qual legge

può render mai la sua ferocia doma?

È il Senato un vil gregge?

È Cesare un tiranno? ei solo è Roma!

EMILIA

E disse il vero.

CESARE

Ah questo è troppo. Ei vuole

che sian l'armi, e la sorte

giudici fra di noi? saranno: ei brama

che al mio campo mi renda?

Io vo, di' che m'aspetti e si difenda.

(in atto di partire)

MARZIA

Deh ti placa, il tuo sdegno in parte è giusto,

il veggo anch'io, ma il padre

a ragion dubitò, de' suoi sospetti

m'è nota la cagion, tutto saprai.

EMILIA

(Numi che ascolto!)

Scena quinta

Fulvio e detti.

FULVIO

Ormai

consolati signor, la tua fortuna

degna è d'invidia; ad ascoltarti alfine

scende Catone. Io di favor sì grande

la novella ti reco.

EMILIA

(Ancor costui

mi lusinga e m'inganna.)

CESARE

E così presto

si cangiò di pensiero?

FULVIO

Anzi il suo pregio

è l'animo ostinato.

Ma il popolo adunato,

i compagni, gli amici, Utica intera

desiosa di pace a forza ha svelto

il consenso da lui; da' preghi astretto,

non persuaso, ei con sdegnosi accenti

aspramente assentì, quasi da lui

tu dipendessi, e la comun speranza.

CESARE

Che fiero cor! che indomita costanza!

EMILIA

(E tanto ho da soffrir!)

MARZIA

(a Cesare)

Signor tu pensi?

Una privata offesa ah non seduca

il tuo gran cor, vanne a Catone, e insieme

fatti amici, serbate

tanto sangue latino, al mondo intero

del turbato riposo

sei debitor: tu non rispondi? almeno

guardami, io son che prego.

CESARE

Ah Marzia...

MARZIA

Io dunque

a muoverti a pietà non son bastante?

EMILIA

(Più dubitar non posso, è Marzia amante.)

FULVIO

Eh che non è più tempo

che si parli di pace, a vendicarci

andiam coll'armi, il rimaner che giova?

CESARE

No, facciam del suo cor l'ultima prova.

FULVIO

Come!

MARZIA

(Respiro.)

EMILIA

Or vanta

vile che sei quel tuo gran cor. Ritorna

supplice a chi t'offende, e fingi a noi

ch'è rispetto il timor.

CESARE

Chi può gli oltraggi

vendicar con un cenno, e si raffrena

vile non è. Marzia, di nuovo al padre

vuo' chieder pace, e soffrirò fintanto

ch'io perda di placarlo ogni speranza.

Ma se tanto s'avanza

l'orgoglio in lui, che non si pieghi, allora

non so dirti a qual segno

giunger potrebbe un trattenuto sdegno.

Soffre talor del vento

i primi insulti il mare,

né a cento legni, e cento

che van per l'onde chiare

intorbida il sentier.

Ma poi se il vento abbonda

il mar s'innalza, e freme,

e colle navi affonda

tutta la ricca speme

dell'avido nocchier.

(parte)

Scena sesta

Marzia, Emilia e Fulvio

EMILIA

Lode agli dèi. La fuggitiva speme

a Marzia in sen già ritornar si vede.

FULVIO

Ne fa sicura fede

la gioia a noi, che le traspare in volto.

MARZIA

No 'l nego Emilia. È stolto

chi non sente piacer, quando placato

l'altrui genio guerriero,

può sperar la sua pace il mondo intero.

EMILIA

Nobil pensier, se i pubblici riposi

di tutti i voti tuoi sono gli oggetti.

Ma spesso avvien, che questi

siano illustri pretesti,

ond'altri asconda i suoi privati affetti.

MARZIA

Credi ciò, che a te piace. Io spero intanto,

e alla speranza mia

l'alma si fida, e i suoi timori oblia.

EMILIA

Or va', di' che non ami, assai ti accusa

l'esser credula tanto. È degli amanti

questo il costume, io non m'inganno, e pure

la tua lusinga è vana,

e sei da quel che speri assai lontana.

MARZIA

In che ti offende

se l'alma spera,

se amor l'accende,

se odiar non sa?

Perché spietata

pur mi vuoi togliere

questa sognata

felicità?

Tu dell'amore

lascia al cor mio

come al tuo core

lascio ancor io

tutta dell'odio

la libertà.

(parte)

Scena settima

Emilia e Fulvio.

FULVIO

Tu vedi o bella Emilia

che mia colpa non è s'oggi di pace

si ritorna a parlar.

EMILIA

(Fingiamo.) Assai

Fulvio conosco, e quanto oprasti intesi.

So però con qual zelo

porgesti il foglio, e come

a favor del tiranno

ragionasti a Catone. Io di tua fede

non sospetto perciò. L'arte ravviso

che per giovarmi usasti. Era il tuo fine

cred'io d'aggiunger foco al loro sdegno.

Non è così?

FULVIO

Puoi dubitarne?

EMILIA

(Indegno!)

FULVIO

Ora che pensi?

EMILIA

A vendicarmi.

FULVIO

E come?

EMILIA

Meditai, ma non scelsi.

FULVIO

Al braccio mio

tu promettesti, il sai, l'onor del colpo.

EMILIA

E a chi fidar poss'io

meglio la mia vendetta?

FULVIO

Io ti assicuro

che mancar non saprò.

EMILIA

Vedo, che senti

delle sventure mie tutto l'affanno.

FULVIO

(Salvo un eroe così.)

EMILIA

(Così l'inganno.)

Per te spero, e per te solo

mi lusingo e mi consolo.

La tua fé, l'amore io vedo.

(Ma non credo a un traditor.)

D'appagar lo sdegno mio

il desio ti leggo in viso.

(Ma ravviso infido il cor.)

(parte)

Scena ottava

Fulvio.

Oh dèi tutta sé stessa

a me confida Emilia, ed io l'inganno.

Ah perdona mio bene

questa frode innocente. Al tuo nemico

io troppo deggio; è in te virtù lo sdegno,

sarebbe colpa in me. Per mia sventura,

se appago il tuo desio,

l'amicizia tradisco, e l'onor mio.

Nascesti alle pene

mio povero core.

Amar ti conviene

chi tutta rigore

per farti contento

ti vuole infedel.

Di' pur che la sorte

è troppo severa.

Ma soffri, ma spera,

ma fino alla morte

in ogni tormento

ti serba fedel.

(parte)

Scena nona

Camera con sedie.
Catone e Marzia.

CATONE

Si vuole ad onta mia

che Cesare s'ascolti?

L'ascolterò! ma in faccia

agli uomini, ed ai numi io mi protesto

che da tutti costretto

mi riduco a soffrirlo, e con mio affanno

debole io son per non parer tiranno.

MARZIA

Oh di quante speranze

questo giorno è cagion. Da due sì grandi

arbitri della terra

incerto il mondo, e curïoso pende

e da voi pace, o guerra,

o servitude, o libertade attende.

CATONE

Inutil cura.

MARZIA

(guardando dentro la scena)

Or viene

Cesare a te.

CATONE

Lasciami seco.

MARZIA

(Oh dèi

per pietà secondate i voti miei.)

(parte)

Scena decima

Cesare e detto.

CATONE

Cesare, a me son troppo

prezïosi i momenti, e qui non voglio

perdergli in ascoltarti,

o stringi tutto in poche note, o parti.

(siede)

CESARE

(siede)

T'appagherò. (Come m'accoglie!) Il primo

de' miei desiri è il renderti sicuro

che il tuo cor generoso,

che la costanza tua...

CATONE

Cangia favella

se pur vuoi che t'ascolti; io so che questa

artificiosa lode è in te fallace,

e vera ancor da' labri tuoi mi spiace.

CESARE

(Sempr'è l'istesso!) Ad ogni costo io voglio

pace con te, tu scegli i patti, io sono

ad accettargli accinto,

come faria col vincitore il vinto.

(Or che dirà!)

CATONE

Tanto offerisci?

CESARE

E tanto

adempirò, che dubitar non posso

d'una ingiusta richiesta.

CATONE

Giustissima sarà. Lascia dell'armi

l'usurpato comando; il grado eccelso

di dittator deponi; e come reo

rendi in carcere angusto

alla patria ragion de' tuo' misfatti,

questi, se pace vuoi, saranno i patti.

CESARE

Ed io dovrei...

CATONE

Di rimanere oppresso

non dubitar, che allora

sarò tuo difensore.

CESARE

(E soffro ancora!)

Tu sol non basti, io so quanti nemici

con gli eventi felici

m'irritò la mia sorte, onde potrei

i giorni miei sacrificare invano.

CATONE

Ami tanto la vita, e sei romano?

In più felice etade agli avi nostri

non fu cara così. Curzio rammenta,

Decio rimira a mille squadre a fronte,

vedi Scevola all'ara, Orazio al ponte,

e di Cremera all'acque

di sangue, e di sudor bagnati, e tinti

trecento Fabi in un sol giorno estinti.

CESARE

Se allor giovò di questi,

nuocerebbe alla patria or la mia morte.

CATONE

Per qual ragione?

CESARE

È necessario a Roma

che un sol comandi.

CATONE

È necessario a lei

ch'egualmente ciascun comandi, e serva.

CESARE

E la pubblica cura

tu credi più sicura in mano a tanti

discordi negli affetti, e ne' pareri?

Meglio il voler d'un solo

regola sempre altrui. Solo fra' numi

Giove il tutto dal ciel governa, e muove.

CATONE

Dov'è costui, che rassomigli a Giove?

Io non lo veggo, e se vi fosse ancora

diverrebbe tiranno in un momento.

CESARE

Chi non ne soffre un sol, ne soffre cento.

CATONE

Così parla un nemico

della patria, e del giusto. Intesi assai,

basti così.

(s'alza)

CESARE

Ferma Catone.

CATONE

È vano

quanto puoi dirmi.

CESARE

Un sol momento aspetta,

altre offerte io farò.

CATONE

Parla e t'affretta.

(torna a sedere)

CESARE

(Quanto sopporto!) Il combattuto acquisto

dell'impero del mondo, il tardo frutto

de' miei sudori, e de' perigli miei,

se meco in pace sei,

dividerò con te.

CATONE

Sì, perché poi

diviso ancor fra noi

di tante colpe tue fosse il rossore.

E di viltà Catone

temerario così tentando vai?

Posso ascoltar di più!

CESARE

(Son stanco ormai.)

Troppo cieco ti rende

l'odio per me, meglio rifletti, io molto

finor t'offersi, e voglio

offrirti più. Perché fra noi sicura

rimanga l'amistà, darò di sposo

la destra a Marzia.

CATONE

Alla mia figlia?

CESARE

A lei.

CATONE

Ah prima degli dèi

piombi sopra di me tutto lo sdegno,

che il sangue d'un indegno

infami il sangue mio, che a me congiunto

io soffra un traditore, un che di Roma

ha quasi già nel suo furor sepolta

l'antica libertà...

CESARE

Taci una volta.

(s'alzano)

CESARE

Hai cimentato assai

la tolleranza mia. Che più degg'io

soffrir da te? Per tuo riguardo, il corso

trattengo a' miei trionfi; io stesso vengo

dell'onor tuo geloso a chieder pace;

de' miei sudati acquisti

ti voglio a parte; offro a tua figlia in dono

questa man vincitrice; a te cortese

per cento offese e cento

rendo segni d'amor, né sei contento?

Che vorresti? che speri?

che pretendi da me? se d'esser credi

argine alla fortuna

di Cesare tu solo, invan lo speri.

Han principio dal ciel tutti gl'imperi.

CATONE

Favorevoli agli empi

sempre non son gli dèi.

CESARE

Vedrem fra poco

colle nostr'armi altrove

chi favorisca il ciel.

(in atto di partire)

Scena undicesima

Marzia e detti.

MARZIA

Cesare e dove?

CESARE

Al campo.

MARZIA

Oh dio t'arresta.

Questa è la pace?

(a Catone)

È questa

l'amistà sospirata?

(a Cesare)

CESARE

Il padre accusa.

Egli vuol guerra.

MARZIA

Ah genitor.

CATONE

T'accheta.

Di costui non parlar.

MARZIA

Cesare...

CESARE

Ho troppo

tollerato finora.

MARZIA

(a Catone)

I preghi d'una figlia...

CATONE

Oggi son vani.

MARZIA

(a Cesare)

D'una romana il pianto...

CESARE

Oggi non giova.

MARZIA

Ma qualcuno a pietade almen si muova.

CESARE

Per soverchia pietà quasi con lui

vile mi resi. Addio...

(in atto di partire)

MARZIA

Fermati.

CATONE

Eh lascia

che s'involi al mio sguardo.

MARZIA

Ah no, placate

ormai l'ire ostinate. Assai di pianto

costano i vostri sdegni

alle spose latine. Assai di sangue

costano gli odi vostri all'infelice

popolo di Quirino. Ah non si veda

su l'amico trafitto

più incrudelir l'amico. Ah non trionfi

del germano il germano. Ah più non cada

al figlio che l'uccise il padre accanto.

Basti alfin tanto sangue e tanto pianto.

CATONE

Non basta a lui.

CESARE

(a Catone)

Non basta a me! se vuoi

v'è tempo ancor: pongo in oblio le offese,

le promesse rinovo,

l'ire depongo, e la tua scelta attendo.

Chiedimi guerra, o pace;

soddisfatto sarai.

CATONE

Guerra, guerra mi piace.

CESARE

E guerra avrai.

Se in campo armato

vuoi cimentarmi,

vieni, che il fato

fra l'ire, e l'armi

la gran contesa

deciderà.

(a Marzia)

Delle tue lagrime,

del tuo dolore

accusa il barbaro

tuo genitore.

Il cor di Cesare

colpa non ha.

(parte)

Scena dodicesima

Catone, Marzia, indi Emilia.

MARZIA

Ah signor che facesti? ecco in periglio

la tua, la nostra vita.

CATONE

Il viver mio

non sia tua cura, a te pensai; di padre

sento gli affetti.

(vedendo venire Emilia)

Emilia,

non v'è più pace, e fra l'ardor dell'armi

mal sicure voi siete, onde alle navi

portate il piè. Sai che il german di Marzia

di quelle è duce, e in ogni evento avrete

pronto lo scampo almen.

EMILIA

Qual via sicura

d'uscir da queste mura

cinte d'assedio?

CATONE

In solitaria parte

d'Iside al fonte appresso

a me noto è l'ingresso

di sotterranea via. Ne cela il varco

de' folti dumi, e de' pendenti rami

l'invecchiata licenza. All'acque un tempo

servì di strada, or dall'età cangiata

offre asciutto il camino

dall'offesa cittade al mar vicino.

EMILIA

(Può giovarmi il saperlo.)

MARZIA

Ed a chi fidi

la speme o padre? è mal sicura, il sai,

la fé di Arbace, a ricusarmi ei giunse.

CATONE

Ma nel cimento estremo

ricusarti non può; di tanto eccesso

è incapace, il vedrai.

MARZIA

Farà l'istesso.

Scena tredicesima

Arbace e detti

ARBACE

Signor, so che a momenti

pugnar si deve, imponi

che far degg'io. Senz'aspettar l'aurora

ogn'ingiusto sospetto a render vano

vengo sposo di Marzia, ecco la mano.

(Mi vendico così.)

CATONE

No 'l dissi o figlia.

MARZIA

Temo Arbace, ed ammiro

l'incostante tuo cor.

ARBACE

D'ogni riguardo

disciolto io sono, e la ragion tu sai.

MARZIA

(Ah mi scopre.)

ARBACE

A Catone

deggio un pegno di fede in tal periglio.

CATONE

(a Marzia)

Che tardi?

EMILIA

(Che farà!)

MARZIA

(Numi consiglio.)

EMILIA

Marzia ti rasserena.

MARZIA

Emilia taci.

ARBACE

(a Marzia)

Or mia sarai.

MARZIA

(Che pena!)

CATONE

Più non s'aspetti, a lei

porgi Arbace la destra.

ARBACE

Eccola; in dono

il cor, la vita, il soglio

così presento a te.

MARZIA

Va', non ti voglio.

ARBACE

Come!

EMILIA

(Che ardir!)

CATONE

(a Marzia)

Perché?

MARZIA

Finger non giova,

tutto dirò. Mai non mi piacque Arbace,

mai no 'l soffersi, egli può dirlo; ei chiese

il differir le nozze

per cenno mio, sperai che alfin più saggio

l'autorità d'un padre

impegnar non volesse a far soggetti

i miei liberi affetti.

Ma già che sazio ancora

non è di tormentarmi, e vuol ridurmi

a un estremo periglio,

a un estremo rimedio anch'io m'appiglio.

CATONE

(ad Emilia e ad Arbace)

Son fuor di me. Donde tant'odio? e donde

tanta audacia in costei?

EMILIA

Forse altro foco

l'accenderà.

ARBACE

Così non fosse.

CATONE

E quale

de' contumaci amori

sarà l'oggetto?

ARBACE

Oh dèi.

EMILIA

Chi sa.

CATONE

Parlate.

ARBACE

Il rispetto...

EMILIA

Il decoro...

MARZIA

Tacete, io lo dirò. Cesare adoro.

CATONE

Cesare!

MARZIA

Sì, perdona

amato genitor, di lui m'accesi

pria che fosse nemico; io non potei

sciogliermi più. Qual è quel cor capace

d'amare, e disamar quando gli piace?

CATONE

Che giungo ad ascoltar.

MARZIA

Placati e pensa

che le colpe d'amor...

CATONE

Togliti indegna,

togliti agli occhi miei.

MARZIA

Padre...

CATONE

Che padre.

D'una perfida figlia,

ch'ogni rispetto oblia, che in abbandono

mette il proprio dover, padre non sono.

MARZIA

Ma che feci? agl'altari

forse i numi involai? forse distrussi

con sacrilega fiamma il tempio a Giove?

Amo alfine un eroe di cui superba

sopra i secoli tutti

va la presente etade, il cui valore

gli astri, la terra, il mar, gli uomini, i numi

favoriscono a gara, onde se l'amo

o che rea non son io,

o il fallo universale approva il mio.

CATONE

(in atto di ferir Marzia)

Scellerata, il tuo sangue...

ARBACE

Ah no, t'arresta.

EMILIA

(a Catone)

Che fai?

ARBACE

Mia sposa è questa.

CATONE

Ah prence, ah ingrata.

Amar un mio nemico!

Vantarlo in faccia mia! Stelle spietate

a quale affanno i giorni mie' serbate.

(a Marzia)

Dovea svenarti allora

che apristi al dì le ciglia.

(ad Emilia e ad Arbace)

Dite, vedeste ancora

un padre, ed una figlia

perfida al par di lei,

misero al par di me?

L'ira soffrir saprei

d'ogni destin tiranno.

A questo solo affanno

costante il cor non è.

(parte)

Scena quattordicesima

Marzia, Emilia e Arbace.

MARZIA

Sarete paghi alfin.

(ad Arbace)

Volesti al padre

vedermi in odio? Eccomi in odio.

(ad Emilia)

Avesti

desio di guerra? Eccoci in guerra. Or dite,

che bramate di più?

ARBACE

M'accusi a torto.

Tu mi togliesti, il sai,

la legge di tacer.

EMILIA

Io non t'offendo

se vendette desio.

MARZIA

Ma uniti intanto

contro me congiurate.

Ditelo che vi feci, anime ingrate.

So, che godendo vai

del duol che mi tormenta.

(ad Arbace)

Ma lieto non sarai,

(ad Emilia)

ma non sarai contenta,

voi penerete ancor.

Nelle sventure estreme

noi piangeremo insieme.

(ad Emilia)

Tu non avrai vendetta,

(ad Arbace)

tu non sperare amor.

(parte)

Scena quindicesima

Emilia e Arbace.

EMILIA

Udisti Arbace? il credo appena. A tanto

giunge dunque in costei

un temerario amor? ne vanta il foco,

te ricusa, me insulta, e il padre offende.

ARBACE

Di colei, che mi accende

ah non parlar così.

EMILIA

Non hai rossore

di tanta debolezza? A tale oltraggio

resisti ancor?

ARBACE

Che posso far. È ingrata,

è ingiusta, io lo conosco, e pur l'adoro.

E sempre più si avanza

colla sua crudeltà la mia costanza.

EMILIA

Se sciogliere non vuoi

dalle catene il cor,

di chi lagnar ti puoi,

sei folle nell'amor,

non sei costante.

Ti piace il suo rigor,

non cerchi libertà,

l'istessa infedeltà

ti rende amante.

(parte)

Scena sedicesima

Arbace.

L'ingiustizia, il disprezzo,

la tirannia, la crudeltà, lo sdegno

dell'ingrato mio ben senza lagnarmi

tollerar io saprei. Tutte son pene

soffribili ad un cor. Ma su le labra

della nemica mia sentire il nome

del felice rival, saper che l'ama,

udir che i pregi ella ne dica, e tanto

mostri per lui di ardire,

questo questo è penar, questo è morire.

Che sia la gelosia

un gelo in mezzo al foco,

è ver, ma questo è poco.

È il più crudel tormento

d'un cor, che s'innamora,

e questo è poco ancora.

Io nel mio cor lo sento,

ma non lo so spiegar.

Se non portasse amore

affanno sì tiranno

qual è quel rozzo core

che non vorrebbe amar.

(parte)

Atto terzo
Scena prima

Cortile.
Cesare e Fulvio.

CESARE

Tutto amico ho tentato, alcun rimorso

più non mi resta. In van finsi finora

ragioni alla dimora

sperando pur, che della figlia al pianto,

d'Utica a' preghi, e de' perigli a fronte

si piegasse Catone; or so ch'ei volle

invece di placarsi

Marzia svenar perché gli chiese pace,

perché disse d'amarmi. Andiamo, ormai

giusto è il mio sdegno, ho tollerato assai.

(in atto di partire)

FULVIO

Ferma, tu corri a morte.

CESARE

Perché?

FULVIO

Già su le porte

d'Utica v'è chi nell'uscir ti deve

privar di vita.

CESARE

E chi pensò la trama?

FULVIO

Emilia, ella me 'l disse, ella confida

nell'amor mio, tu 'l sai.

CESARE

Coll'armi in pugno

ci apriremo la via. Vieni.

FULVIO

Raffrena

quest'ardor generoso, altro riparo

offre la sorte.

CESARE

E quale?

FULVIO

Un che fra l'armi

milita di Catone infino al campo

per incognita strada

ti condurrà.

CESARE

Chi è questi?

FULVIO

Floro si appella, uno è di quei che scelse

Emilia a trucidarti. Ei vien pietoso

a palesar la frode,

e ad aprirti lo scampo.

CESARE

Ov'è?

FULVIO

Ti attende

d'Iside al fonte. Egli m'è noto, a lui

fidati pur. Intanto al campo io riedo;

e per l'esterno ingresso

di quel camino istesso a te svelato,

co' più scelti de' tuoi

tornerò poi per tua difesa armato.

CESARE

E fidarci così?

FULVIO

Vivi sicuro.

Avran di te, che sei

la più grand'opra lor, cura gli dei.

La fronda che circonda

a' vincitori il crine

soggetta alle ruine

del folgore non è.

Compagna dalla cuna

apprese la fortuna

a militar con te.

(parte)

Scena seconda

Cesare, poi Marzia.

CESARE

Quanti aspetti la sorte

cangia in un giorno!

MARZIA

Ah Cesare che fai.

Come in Utica ancor?

CESARE

L'insidie altrui

mi son d'inciampo.

MARZIA

Per pietà, se m'ami,

come parte del mio

difendi il viver tuo, Cesare addio.

(in atto di partire)

CESARE

Fermati, dove fuggi?

MARZIA

Al germano, alle navi. Il padre irato

vuol la mia morte.

(guardando intorno)

(Oh dio...

giungesse mai.) Non m'arrestar, la fuga

sol può salvarmi.

CESARE

Abbandonata e sola

arrischiarti così? Ne' tuoi perigli

seguirti io deggio.

MARZIA

No, s'è ver, che m'ami

me non seguir, pensa a te sol, non dei

meco venire, addio... ma senti, in campo

com'è tuo stil, se vincitor sarai

oggi del padre mio

risparmia il sangue, io te ne prego, addio.

(come sopra)

CESARE

T'arresta anche un momento.

MARZIA

È la dimora

perigliosa per noi, potrebbe... io temo...

(guardando intorno)

Deh lasciami partir.

CESARE

Così t'involi?

MARZIA

Crudel, da me che brami? è dunque poco

quant'ho sofferto? ancor tu vuoi ch'io senta

tutto il dolor d'una partenza amara?

Lo sento sì, non dubitarne; il pregio

d'esser forte m'hai tolto. In van sperai

lasciarti a ciglio asciutto. Ancora il vanto

del mio pianto volesti, ecco il mio pianto.

CESARE

Ahimè l'alma vacilla!

MARZIA

Chi sa se più ci rivedremo, e quando.

Chi sa, che il fato rio

non divida per sempre i nostri affetti.

CESARE

E nell'ultimo addio tanto ti affretti?

MARZIA

Confusa, smarrita

spiegarti vorrei

che fosti... che sei...

Intendimi oh dio!

Parlar non poss'io,

mi sento morir.

Fra l'armi se mai

di me ti rammenti

io voglio... tu sai...

Che pena! gli accenti

confonde il martir.

(parte)

Scena terza

Cesare, poi Arbace.

CESARE

Qual insoliti moti

al partir di costei prova il mio core!

Dunque al desio d'onore

qualche parte usurpar de' miei pensieri

potrà l'amor?

ARBACE

(nell'uscir si ferma)

(M'inganno

o pur Cesare è questi?)

CESARE

Ah l'esser grato,

aver pietà d'una infelice, alfine

debolezza non è.

(in atto di partire)

ARBACE

Fermati, e dimmi

quale ardir, qual disegno

t'arresta ancor fra noi?

CESARE

(Questi chi fia!)

ARBACE

Parla!

CESARE

Del mio soggiorno

qual cura hai tu?

ARBACE

Più che non pensi.

CESARE

Ammiro

l'audacia tua, ma non so poi se ai detti

corrisponda il valor.

ARBACE

Se l'assalirti

dove ho tante difese, e tu sei solo

non paresse viltade, or ne faresti

prova a tuo danno.

CESARE

E come mai con questi

generosi riguardi Utica unisce

insidie, e tradimenti!

ARBACE

Ignote a noi

furon sempre quest'armi.

CESARE

E pur si tenta

nell'uscir ch'io farò da queste mura

di vilmente assalirmi.

ARBACE

E qual saria

sì malvagio fra noi?

CESARE

No 'l so, ti basti

saper che v'è.

ARBACE

Se temi

della fé di Catone, o della mia

t'inganni, io ti assicuro

che alle tue tende or ora

illeso tornerai, ma in quelle poi

men sicuro sarai forse da noi.

CESARE

Ma chi sei tu, che meco

tanta virtù dimostri, e tanto sdegno?

ARBACE

Né mi conosci?

CESARE

No.

ARBACE

Son tuo rivale

nell'armi e nell'amor.

CESARE

Dunque tu sei

il principe numida

di Marzia amante, e al genitor sì caro?

ARBACE

Sì quello io sono.

CESARE

Ah se pur l'ami Arbace

la segui, la raggiungi, ella si invola

del padre all'ira intimorita e sola.

ARBACE

Dove corre?

CESARE

Al germano.

ARBACE

Per qual cammin?

CESARE

Chi sa. Quindi pur dianzi

passò fuggendo.

ARBACE

A rintracciarla or vado.

Ma no, prima al tuo campo

deggio aprirti la strada. Andiam.

CESARE

Per ora

il periglio di lei

è più grave del mio, vanne.

ARBACE

Ma teco

manco al dover se qui ti lascio.

CESARE

Eh pensa

Marzia a salvare, io nulla temo, è vana

una insidia palese.

ARBACE

Ammiro il tuo gran cor. Tu del mio bene

al soccorso m'affretti, il tuo non curi,

e colei che t'adora

con generoso eccesso

rival confidi al tuo rivale istesso.

Combattuta da tante vicende

si confonde quest'alma nel sen.

Il mio bene mi sprezza e m'accende,

tu m'involi e mi rendi il mio ben.

(parte)

Scena quarta

Cesare.

Del rivale all'aita

or che Marzia abbandono, ed or che il fato

mi divide da lei, non so qual pena

incognita finor m'agita il petto.

Taci importuno affetto.

No, fra le cure mie luogo non hai,

se a più nobil desio servir non sai.

Quell'amor che poco accende

alimenta un cor gentile,

come l'erbe il nuovo aprile,

come i fiori il primo albor.

Se tiranno poi si rende

la ragion ne sente oltraggio,

come l'erba al caldo raggio,

come al gelo esposto il fior.

(parte)

Scena quinta

Acquedotti antichi ridotti ad uso di strada sotterranea, che conducono dalla città alla marina con porta chiusa da un lato del prospetto.
Marzia.

Pur veggo alfine un raggio

d'incerta luce infra l'orror di queste

dubbiose vie; ma non ritrovo il varco

(guardando attorno)

che al mar conduce. Orma non v'è che possa

additarne il sentier. Mi trema in petto

per tema il cor. L'ombre, il silenzio, il grave

fra questi umidi sassi aere ristretto

peggior de' rischi miei rendon l'aspetto.

Ah se d'uscir la via

rinvenir non sapessi... eccola. Alquanto

(guardando s'avvede della porta)

l'alma respira. Al lido

si affretti il piè. Ma s'io non erro, il passo

chiuso mi sembra. Oh dei

purtroppo è ver. Chi l'impedì? si tenti.

(torna alla porta)

Cedesse almeno. Ah che m'affanno invano.

Misera che farò? per l'orme istesse

tornar conviene. Alla mia fuga il cielo

altra strada aprirà. Numi, qual sento

di varie voci e di frequenti passi

suono indistinto? ove n'andrò? si avanza

il mormorio. Potessi

quel riparo atterrar. Né pur si scuote.

(si appressa di nuovo e sforza la porta)

Dove fuggir? forza è celarsi; e quando

i timori, e gli affanni

avran fine una volta, astri tiranni.

(si nasconde)

Scena sesta

Emilia, con spada nuda e gente armata, e detta in disparte.

EMILIA

È questo amici il luogo ove dovremo

la vittima svenar. Fra pochi istanti

Cesare giungerà; chiusa è l'uscita

per mio comando, onde non v'è per lui

via di fuggir. Voi fra que' sassi occulti

attendete il mio cenno.

(la gente di Emilia si ritira)

MARZIA

(Ahimè che sento?)

EMILIA

Quanto tarda il momento

sospirato da me. Vorrei... ma parmi

ch'altri si appressi. È questo

certamente il tiranno. Aita o dei,

se vendicata or sono

ogni oltraggio sofferto io vi perdono.

(si nasconde)

MARZIA

(O ciel dove mi trovo? Almen potessi

impedir ch'ei non giunga.)

Scena settima

Cesare, e dette in disparte.

CESARE

Il calle angusto

(guardando la scena)

qui si dilata, ai noti segni, il varco

non lungi esser dovrà! Floro. M'ascolti?

(voltandosi indietro)

Floro. No 'l veggio più. Fin qui condurmi,

poi dileguarsi! io fui

troppo incauto in fidarmi. Eh non è questo

il primo ardir felice. Io di mia sorte

feci in rischio maggior più certa prova.

EMILIA

Ma questa volta il suo favor non giova.

(esce)

MARZIA

(O sorte!)

CESARE

Emilia armata!

EMILIA

È giunto il tempo

delle vendette mie.

CESARE

Fulvio ha potuto

ingannarmi così!

EMILIA

No, dell'inganno

tutta la gloria è mia. Della sua fede

giurata a te contro di te mi valsi.

Perché impedisse il tuo ritorno al campo,

a Fulvio io figurai

d'Utica su le porte i tuoi perigli.

Per condurti ove sei, Floro io mandai

con simulato zelo a palesarti

questa incognita strada. Or dal mio sdegno

se puoi, t'invola.

CESARE

Un femminil pensiero

quanto giunge a tentar!

EMILIA

Forse volevi

che insensati gli dei sempre i tuoi falli

soffrissero così? Che sempre il mondo

pianger dovesse in servitù dell'empio

suo barbaro oppressor? Che l'ombra grande

del tradito Pompeo

eternamente invendicata errasse?

Folle: contro i malvagi

quando più gli assicura,

allor le sue vendette il ciel matura.

CESARE

Alfin che chiedi?

EMILIA

Il sangue tuo.

CESARE

Sì lieve

non è l'impresa.

EMILIA

Or lo vedremo.

MARZIA

(Oh dio.)

EMILIA

Olà costui svenate.

(esce la gente di Emilia)

CESARE

Prima voi caderete.

(cava la spada)

MARZIA

Empi fermate.

CESARE

(Marzia!)

EMILIA

(Che veggio!)

MARZIA

E di tradir non sente

vergogna Emilia!

EMILIA

E di fuggir con lui

non ha Marzia rossore?

CESARE

(O strani eventi!)

MARZIA

Io con Cesare! Menti.

L'ira del padre ad evitar m'insegna

giusto timor.

Scena ottava

Catone con spada nuda, e detti.

CATONE

(verso Marzia)

Pur ti ritrovo indegna.

MARZIA

Misera.

CESARE

Non temer.

(si pone avanti a Marzia)

CATONE

(vedendo Cesare)

Che miro!

EMILIA

(vedendo Catone)

O stelle.

CATONE

(a Cesare)

Tu in Utica, o superbo?

(a Marzia)

Tu seco, o scellerata?

Voi qui senza mio cenno?

(alla gente)

Emilia armata?

Che si vuol? Che si tenta?

CESARE

La morte mia, ma con viltà.

EMILIA

(a Catone)

Tu vedi

ch'oggi è dovuto all'onor tuo quel sangue

non men che all'odio mio.

MARZIA

Ah questo è troppo. È Cesare innocente,

innocente son io.

CATONE

Taci. Comprendo

i vostri rei disegni.

(alla gente)

Olà dal fianco

di lui, l'empia si svelga.

CESARE

(si pone in difesa)

A me la vita

prima toglier conviene.

CATONE

Temerario.

EMILIA

(a Catone)

Eh s'uccida.

MARZIA

Padre pietà.

CATONE

(a Cesare)

Deponi il brando.

CESARE

Il brando

io non cedo così.

(s'ode di dentro rumore)

EMILIA

Qual improvviso

strepito ascolto!

CATONE

E di quai grida intorno

risuonan queste mura!

MARZIA

Che fia!

CESARE

Non paventar.

(cresce il rumore)

EMILIA

Troppo il tumulto

signor si avanza.

MARZIA

Ai replicati colpi

crollano i sassi.

CATONE

Insidia è questa. Ah prima

ch'altro ne avvenga, all'onor mio si serva.

(alla gente)

L'empia figlia uccidete,

disarmate il tiranno, io vi precedo.

Scena nona

Fulvio con gente armata, che gettati a terra i ripari, entra, e detti.

FULVIO

Venite amici.

MARZIA E EMILIA

O ciel!

CATONE

Numi che vedo!

FULVIO

Cesare, all'armi nostre

Utica aprì le porte, or puoi sicuro

goder della vittoria.

CATONE

Ah siam traditi.

CESARE

(a Fulvio)

Corri amico e raffrena

la militar licenza, io vincer voglio

non trionfare.

EMILIA

Inutil ferro.

(getta la spada)

MARZIA

Oh dèi.

FULVIO

Parte di voi rimanga

di Cesare in difesa. Emilia addio.

EMILIA

Va' indegno.

FULVIO

A Roma io servo, e al dover mio.

(parte Fulvio, e restano alcune guardie con Cesare)

CESARE

Catone, io vincitor...

CATONE

Taci, se chiedi

ch'io ceda il ferro, eccolo, un tuo comando

udir non voglio.

(getta la spada)

CESARE

Ah no, torni al tuo fianco,

torni l'illustre acciar.

CATONE

Sarebbe un peso

vergognoso per me quando è tuo dono.

MARZIA

Caro padre...

CATONE

T'accheta.

Il mio rossor tu sei.

MARZIA

Si plachi almeno

il cor d'Emilia.

EMILIA

Il chiedi invano.

CESARE

(a Catone)

Amico

pace pace una volta.

CATONE

In van la speri.

MARZIA

(ad Emilia)

Ma tu che vuoi?

EMILIA

Viver fra gli odi, e l'ire.

CESARE

(a Catone)

Ma tu che brami?

CATONE

In libertà morire.

MARZIA

(a Catone)

Deh in vita ti serba.

CESARE

(ad Emilia)

Deh sgombra l'affanno.

CATONE

(a Marzia)

Ingrata, superba.

EMILIA

(a Cesare)

Indegno, tiranno.

CESARE

(a Catone)

Ma t'offro la pace.

CATONE

Il dono mi spiace.

MARZIA

(ad Emilia)

Ma l'odio raffrena.

EMILIA

Vendetta sol voglio.

CESARE

Che duolo!

MARZIA

Che pena!

EMILIA

Che fasto!

CATONE

Che orgoglio!

TUTTI

Più strane vicende

la sorte non ha.

MARZIA

(da sé)

M'oltraggia, m'offende

il padre sdegnato.

CESARE

(verso Catone)

Non cangia pensiero

quel core ostinato.

EMILIA

(da sé)

Vendetta non spero.

CATONE

(da sé)

La figlia è ribelle.

TUTTI

Che voglian le stelle

quest'alma non sa.

(partono)

Scena decima

Luogo magnifico nel soggiorno di Catone.
Arbace con spada nuda, e alcuni Seguaci, poi Fulvio dal fondo parimenti con spada nuda, e seguito di Cesariani.

ARBACE

Dove mai l'idol mio,

dove mai si celò? m'affretto invano,

né pur qui lo ritrovo. Oh dèi già tutta

di nemiche falangi Utica è piena.

Compagni, amici, ah per pietà si cerchi,

si difenda il mio ben. Ma già s'avanza

(vedendo venir Fulvio)

Fulvio con l'armi. Ardir miei fidi, andiamo

contro lo stuolo audace

a vendicarci almen.

FULVIO

Fermati Arbace.

Il dittator non vuole

che si pugni con voi. Di sua vittoria

altro frutto non chiede

che la vostra amistà, la vostra fede.

ARBACE

Che fede, che amistà? tutto è perduto,

altra speme non resta

che terminar la vita,

ma con l'acciaro in man.

Scena undicesima

Emilia, e detti.

EMILIA

(ad Arbace)

Principe aita.

ARBACE

Che fu?

EMILIA

Muore Catone.

FULVIO

E chi l'uccide?

EMILIA

Si ferì di sua mano.

ARBACE

E niuno accorse

il colpo a trattener?

EMILIA

La figlia, ed io

tardi giungemmo; il breve acciar di pugno

lasciò rapirsi, allor però che immerso

l'ebbe due volte in seno.

ARBACE

Ah pria che muora

si procuri arrestar l'alma onorata.

(in atto di partire)

FULVIO

(Lo sappia il dittator.)

(parte Fulvio)

Scena dodicesima

Catone ferito, Marzia, e detti

CATONE

(a Marzia)

Lasciami ingrata.

MARZIA

Arbace, Emilia.

ARBACE

Oh dio.

Che facesti o signore?

CATONE

Al mondo, a voi

ad evitar la servitude insegno.

EMILIA

Alla pietosa cura

cedi de' tuoi.

ARBACE

Pensa ove lasci, e come

una misera figlia.

CATONE

Ah l'empio nome

tacete a me, sol questa indegna oscura

la gloria mia.

MARZIA

(a Catone)

Che crudeltà! deh ascolta

i preghi miei.

CATONE

Taci.

MARZIA

Perdono o padre,

(s'inginocchia)

caro padre pietà. Questa che bagna

di lagrime il tuo piede è pur tua figlia.

Ah volgi a me le ciglia,

vedi almen la mia pena,

guardami una sol volta, e poi mi svena.

ARBACE

(a Catone)

Placati alfine.

CATONE

(a Marzia)

Or senti.

Se vuoi che l'ombra mia vada placata

al suo fatal soggiorno, eterna fede

giura ad Arbace, e giura

all'oppressore indegno

della patria, e del mondo eterno sdegno.

MARZIA

(Morir mi sento.)

CATONE

E pensi ancor? Conosco

l'animo avverso. Ah da costei lontano

lasciatemi morir.

MARZIA

(s'alza)

No padre, ascolta,

tutto farò. Vuoi che ad Arbace io serbi

eterna fé? la serberò. Nemica

di Cesare mi vuoi? dell'odio mio

contro lui ti assicuro.

CATONE

Giuralo.

MARZIA

Oh dio su questa man lo giuro.

(prende la mano di Catone e la bacia)

ARBACE

Mi fa pietà.

EMILIA

(Che cangiamento!)

CATONE

Or vieni

(Catone abbraccia, e tiene Marzia per mano)

fra queste braccia, e prendi

gli ultimi amplessi miei, figlia infelice.

Son padre alfine, e nel momento estremo

cede ai moti del sangue

la mia fortezza. Ah non credea lasciarti

in Africa così.

MARZIA

Mi scoppia il core.

ARBACE

Oh dèi!

CATONE

Marzia, il vigore

sento mancar.

EMILIA

Vacilla il piè.

(Catone siede)

CATONE

Qual gelo

mi scorre per le vene.

(Catone sviene)

MARZIA

Soccorso Arbace, il genitor già sviene.

(si vedono venir Cesare, e Fulvio dal fondo)

ARBACE

Non ti avvilir. La tenerezza opprime

gli spirti suoi.

MARZIA

Consiglio Emilia.

EMILIA

Arriva

Cesare a noi.

MARZIA

Misera me!

ARBACE

Che giorno

è questo mai!

Scena tredicesima

Cesare, poi Fulvio con numeroso Séguito, e detti

CESARE

Vive Catone?

ARBACE

Ancora

lo serba il ciel.

CESARE

Per mantenerlo in vita

tutto si adopri, anche il mio sangue istesso.

MARZIA

Parti Cesare parti,

non accrescermi affanni.

CATONE

Ah figlia.

ARBACE

Al labro

tornan gli accenti.

CESARE

Amico vivi, e serba

(Cesare si appressa a Catone e lo sostiene)

alla patria un eroe.

CATONE

Figlia ritorna

(Catone prende per mano Cesare credendolo Marzia)

a questo sen. Stelle ove son! chi sei?

CESARE

Stai di Cesare in braccio.

CATONE

Ah indegno. E quando

andrai lungi da me?

(tenta di alzarsi, e ricade)

CESARE

Placati.

CATONE

Io voglio...

Manca il vigor ma l'ira mia richiami

gli spirti al cor.

(s'alza da sedere)

MARZIA

Reggiti o padre.

CESARE

E vuoi

morir così nemico?

CATONE

Anima rea

io moro sì, ma della morte mia

poco godrai. La libertade oppressa

il suo vindice avrà: palpita ancora

la grand'alma di Bruto in qualche petto.

Chi sa...

ARBACE

Tu manchi.

EMILIA

Oh dio.

CATONE

Chi sa, lontano

forse il colpo non è, per pace altrui

l'affretti il cielo, e quella man che meno

credi infedel, quella ti squarci il seno.

FULVIO

(L'insulta anche morendo.)

CATONE

Ecco... al mio ciglio...

già langue... il dì.

CESARE

Roma chi perdi!

CATONE

Altrove...

portatemi... a morir.

MARZIA

Vieni.

EMILIA E ARBACE

Che affanno!

CATONE

No... non vedrai... tiranno...

nella... morte... vicina...

spirar... con me... la libertà... latina.

(Catone sostenuto da Marzia, e da Arbace entra morendo)

CESARE

Ah se costar mi deve

i giorni di Catone il serto, il trono,

ripigliatevi o numi il vostro dono.

(getta il lauro)

Fine del libretto.

Generazione pagina: 02/07/2017
Pagina: ridotto, rid
Versione H: 3.00.40 (W)

Locandina Atto primo Scena prima Scena seconda Scena terza Scena quarta Scena quinta Scena sesta Scena settima Scena ottava Scena nona Scena decima Scena undicesima Scena dodicesima Scena tredicesima Scena quattordicesima Scena quindicesima Atto secondo Scena prima Scena seconda Scena terza Scena quarta Scena quinta Scena sesta Scena settima Scena ottava Scena nona Scena decima Scena undicesima Scena dodicesima Scena tredicesima Scena quattordicesima Scena quindicesima Scena sedicesima Atto terzo Scena prima Scena seconda Scena terza Scena quarta Scena quinta Scena sesta Scena settima Scena ottava Scena nona Scena decima Scena undicesima Scena dodicesima Scena tredicesima