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La Calisto

LA CALISTO

Dramma per musica.

Versione sintetica a cura di www.librettidopera.it.

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Libretto di Giovanni FAUSTINI.
Musica di Francesco CAVALLI.

Prima esecuzione: 28 novembre 1651, Venezia.


Interlocutori:

Prologo

LA NATURA

contralto

L'ETERNITÀ

soprano

IL DESTINO

soprano

Favola

GIOVE

basso

MERCURIO

tenore

CALISTO figliuola di Licaone re di Pelasgia vergine di Diana

soprano

ENDIMIONE pastore innamorato di Diana, cioè della luna

contralto

DIANA innamorata di Endimione

soprano

LINFEA seguace di Diana

soprano

IL SATIRINO

soprano

PANE dio de' pastori

contralto

SILVANO dio delle selve

basso

GIUNONE

soprano

LE FURIE (soprani)

altro


Coro di Menti celesti. Coro di Ninfe arciere di Diana.

Si rappresenta la favola ne' contorni di Pelasgia, regione del Peloponneso, che fu poscia detta Arcadia da Arcade figliuolo di Giove, e di Calisto.

All'illustrissimo

All'illustriss. sig. Marc'Antonio Corraro suo patron colendissimo.

Giovanni Faustini.

Queste due principesse gemelle, illustrissimo mio signore, generate, e partorite quest'anno sotto gl'auspici della sua protezione, non potranno, se non vivere felicissime, a' guisa di quei nati, che prosperati da un fato parziale, trovano nelle loro geniture Giove nella casa primiera. È aforismo astronomico di Sconero, e di Ringelbergio, che nella casa antedetta questa giovevole Intelligenza rende il genito grande, e de' fratelli maggiore; perciò sperano Calisto, ed Eritrea divenire più illustri de' loro reali germani, custodite da mente sì nobile treplicatamente conspicua, per nascita, per forma, e per spirito. Si confida più Calisto di restare eternata sotto la direzione di v. s. illustrissima che dall'onnipotenza del suo Giove, ed Eritrea più si promette dal suo favore, che dalla custodia degl'assiri dèi tutelari. Io, padre di queste reine, pubblicando le comuni obbligazioni, e facendo di loro depositorie le nostre memorie, più non potendo, bacio a v. s. illustrissima le mani.

Delucidazione della favola

Noto è l'ardire magnanimo di Fetonte, e come mal sapendo reggere i paterni destrieri, divenne per la salvezza del mondo ardente segno del fulmine. Giove intento alla confermazione delle cose prodotte, vedute intatte le sfere dalle fiamme solari, scende con il nipote Mercurio in terra, l'uno deposto il folgore, e l'altro con la verga i tallari, per ristorarla de torti ricevuti. Il primo suolo, che calca è il Pelasgio, frequentato da Diana per la copia delle fonti, per il numero delle selve ripiene di fiere, ma più per il suo bello Endimione amato da lei con affetti segreti. Era il decoro dello stuolo delle vergini faretrate, seguaci della dèa cacciatrice, Calisto, figliuola del re Licaone, di quel Licaone, che ridendosi de miracoli di Giove, quando altra volta sceso dall'Olimpo, sconosciuto andava peregrinando il mondo per notare la scelleraggine umana, provocandosi contro l'ira di quella maestà, con orribili conviti, vide tutta foco la reggia, ed egli, atterrito nella fuga, trasformarsi in un lupo. Questa, fanciulla tenera, e semplice, abbandonati i lussi reali, e datasi alle selve, votò la verginità a Cinzia; quasi che 'l fato la spingesse ne' boschi, fatti nidi del padre transmigrato per innalzarla alle stelle.

Lettore.

Alcune scene innestate nella favola per dilettare fuori della sua tessitura, le leggerai nel fine del dramma.

Prologo
Scena unica

L'antro de L'eternità.
La natura, L'eternità, Il destino.

LA NATURA

Alme pure, e volanti,

che dal giro, che forma il serpe eterno

annodando i principi, uscir dovete,

scese, giuste sedete,

fatte aurighe, al governo

de corpi misti, e post'il freno al senso,

i spazi della vita

correte illustri, acciò virtù sul dorso

qui vi ritorni, terminato il corso.

L'ETERNITÀ

Chi qua sale

immortale

vive vita

infinita,

divinizza la Natura.

Ma sassosa

faticosa

è la via,

che qui invia,

è la strada alpestra, e dura.

LA NATURA E L'ETERNITÀ

Il colle d'Alcide

conduce quassù

eccelsa virtù

a quest'alta cima

i spirti sublima.

IL DESTINO

Gran madre, ottima duce, antica augusta

produttrice ferace

di ciò, che dentro gl'elementi ha vita;

perché resti scolpita

nell'antro adamantino

tua nobile fattura

quivi ascende il Destino.

LA NATURA

Immutabil garzone

più vecchio di Saturno e più di me,

entra, che 'l varco non si vieta a te.

IL DESTINO

Diva, che eterni, e divi

con stellati caratteri nel foglio

del sempiterno i nomi noti, e scrivi;

dal serpertino tuo sferico foglio

eternizza Calisto. Al firmamento,

nova forma s'accresca, ed ornamento.

L'ETERNITÀ

Chi la chiama alle sfere?

Qual merto l'immortala?

IL DESTINO

Il mio volere.

Non si chiede ragione

di ciò, che 'l fato termina, e dispone,

sono i decreti miei

arcani anco agli dèi.

L'ETERNITÀ, LA NATURA E IL DESTINO

Calisto alle stelle.

Di rai scintillanti

i vaghi sembianti

s'adornino eterni.

Ai poli superni

s'accreschin fiammelle.

Calisto alle stelle.

Atto primo
Scena prima

Selva arida.
Giove, Mercurio.

GIOVE

Del foco fulminato,

non stempraro le fiamme

delle sfere i zaffiri; ogn'orbe è intero.

Ben l'infimo emisfero

serba caldi vapori, ancora ardente,

già la terra languente

con mille bocche, e mille,

chiede, febbricitante, alti soccorsi,

abbandonati i corsi

nell'urne lor s'hanno racchiusi i fiumi.

Esalazioni, e fumi

mandano al cielo inariditi i prati,

e sfioriti, e schiomati

vivono a pena i boschi. Or tocca a noi

ch'avem del mondo, e provvidenza, e cura

ristorar gl'egri, e risarcir natura.

MERCURIO

Tu padre, e tu signore

delle cose composte, ed increate,

tu monarca del tutto,

all'arido, al distrutto.

Dalle cime beate

dell'Olimpo sublime

tornar le pompe prime,

e le sembianze belle

potevi pur senza lasciar le stelle.

Tem'io, che qui disceso,

invece d'apportare al mal ristoro

non uccidi il penante, e in modi novi

non distruggi, e rinnovi

la progenie de' sassi depravata.

Più che mai scellerata

l'umanità, tra vizi abominandi,

il folgore disprezza, e tu ch'il mandi.

GIOVE

Pria si renda il decoro alla gran madre,

che poscia con le squadre

de' ribelli, e nocenti

di Licaon rinnoverò gl'esempi.

Ma Mercurio, chi viene?

Qual ninfa arciera in queste parti arriva?

Oh, che luci serene,

più luminose non le vidi mai:

il caduto Fetonte,

e i saettati rai

ricoverò negl'occhi, e sulla fronte.

MERCURIO

Del re è cangiato in lupo,

di Licaone appunto.

Ch'ulula per le selve il suo misfatto

è costei prole illustre, e d'arco armata

segue la faretrata

Cinzia severa, e anch'ella,

rigida quanto bella,

non men del casto, e riverito nume,

della face amorosa aborre il lume.

GIOVE

Semplici giovanette

votarsi all'infecondia, e per le selve

disumanarsi in compagnia di belve.

Scena seconda

Calisto, Giove, Mercurio.

CALISTO

Piante ombrose

dove sono i vostri onori?

Vaghi fiori

dalla fiamma inceneriti,

colli, e liti

di smeraldi già coperti

or deserti

del bel verde, io vi sospiro:

dove giro,

calda, il piede, e sitibonda,

trovo l'onda

rifuggita entro la fonte,

nella fronte

bagnar posso, ho 'l labbro ardente.

Inclemente:

si chi tuona arde la terra?

Non più Giove, ah non più guerra.

MERCURIO

Dell'offese del foco

la bella ti fa reo.

GIOVE

Cillenio, ahi che poteo

un raggio di quel bello

la mia divinità render trafitta.

Caramente rubello

al suo fattor, quel viso,

se potessi morir, m'avrebbe ucciso.

MERCURIO

Scendesti per sanare,

e fisico imperito

l'egra t'inferma: nel smorzar a pieno

il colpevole ardor, t'accendi il seno

con fiamme di Cocito.

CALISTO

Da questa scaturigine profusa

son l'acque anco perdute.

Refrigerio, e salute

alle viscere mie chi porgerà?

M'arde fiero calor,

e per me stilla di salubre umor

il torrente, la fonte, il rio non ha.

GIOVE

Scenderanno da cieli

per ricrearti, o bella

le menti eterne, e quasi serve a gara

t'arrecheran l'ambrosia, a dèi sì cara.

Vedi della sorgente

in copia scaturir fredd'i cristalli.

Della tua dolce bocca amorosetta,

vaga mia languidetta,

nell'onda uscita immergi i bei coralli.

CALISTO

Chi sei tu, che comandi

all'acque, o meraviglie alte, inudite,

e dai lor centri ad irrigar le mandi

le sponde incenerite?

GIOVE

Chi sa cose maggiori

far con un cenno. Gl'astri, e gl'elementi,

struggendo, rinnovar posso in momenti.

Giove son io, che sceso

dal ciel per medicar la terra, ch'arde,

dal foco de' tuoi rai mi trovo acceso.

MERCURIO

Arciera vezzosa

ricorri amorosa

di Giove nel sen.

L'Empireo seren

de' dolci tuoi baci

per premio darà.

Delizie veraci

tuo spirto godrà.

GIOVE E MERCURIO

Di Giove nel sen

arciera vezzosa

ricorri amorosa.

CALISTO

Dunque Giove immortale,

che protegger dovrebbe,

santo nell'opre, il virginal costume,

acceso a mortal lume,

di deflorar procura

i corpi casti, e render vani i voti

di puri cori, a Cinzia sua devoti?

Tu sei qualche lascivo, e la natura

sforzi con carmi maghi ad ubbidirti.

Girlandata di mirti

Venere mai non mi vedrà feconda.

Torna, torna quell'onda

nello speco natio,

che bever non vogl'io

de' miracoli tuoi

libidinoso mago.

Resta co' tuoi stupori. Addio mio vago.

Verginella io morir vo'.

Stanza, e nido

per Cupido

del mio petto mai farò.

Verginella io morir vo'.

Scocchi amor, scocchi se può

tutte l'armi

per piagarmi,

ch'alla fine il vincerò.

Verginella io morir vo'.

Scena terza

Giove, Mercurio.

GIOVE

Come scherne acerbetta

le lusinghe costei del dio sovrano,

e di ridurla amante

l'onnipotenza mia non è bastante,

che libero creai l'animo umano.

Tu Mercurio facondo,

che con detti melati

persuadi, ammorbidisci, or corri, or vola

dietro la fuggitiva

e rendendola priva

del casto orgoglio, il tuo signor consola.

MERCURIO

Altro, che parolette

vi vogliono a stemprare

di queste superbette

pertinace 'l rigor. Donna pregata

più si rende ostinata.

GIOVE

Dunque, che far degg'io

per dar ristoro all'amoroso affanno.

MERCURIO

Seguire il mio consiglio, usar l'inganno.

GIOVE

E come?

MERCURIO

Della figlia,

della silvestre dea prendi l'imago,

e sotto quel sembiante,

amatore ingegnoso,

godi l'amata ascoso

non fuggirà gl'amplessi

la rigida romita

della diva mentita.

GIOVE

Ben delle frodi sei

artefice sagace, inventor raro.

Potrà il rimedio tuo Mercurio caro,

felicitar gl'amori al re de' dèi.

MERCURIO

Non s'allontani dalla fonte il passo,

ch'ancora qui verrà questa ritrosa

la sete ardente ad ammorzare al sasso:

fa', ch'ogn'altr'onda, anco dimori ascosa.

GIOVE

Chiuso in forme mentite

Giuno non saprà già le mie dolcezze,

e se note le fian garrisca in lite,

che sì dolce contento

non lascerei per cento garre, e cento.

Scena quarta

Calisto.

Sien mortali, o divini

i lascivi partiro;

ed io, ch'indarno aggiro

sitibonda, anelante

il piè per il contorno

a ber qui l'acque scaturite: e or torno;

oh, come pochi sorsi

del dolce, e freddo umore,

m'estinse con l'ardore

quell'ingordo desio,

che volea diseccar l'onde d'un rio.

Di questo ghiaccio sciolto

fatto lavacro al volto,

e in lui le braccia immerse,

i bollori del sangue raffreddai.

Grazie alla fonte, ogni languor sanai.

Non è maggior piacere,

che seguendo le fere

fuggir dell'uomo i lusinghieri inviti:

tirannie de' mariti

son troppo gravi, e troppo è il giogo amaro

viver in libertade è il dolce, il caro.

Di fiori ricamato

morbido letto ho il prato,

m'è grato cibo il mel, bevanda il fiume.

Dalle canore piume

a formar melodie tra i boschi imparo.

Viver in libertade è il dolce, il caro.

Scena quinta

Giove trasformato in Diana, Mercurio, Calisto.

MERCURIO

Chi non ti crederebbe

agl'arnesi, alla forma al portamento,

la dèa del ciel d'argento.

GIOVE

(in Diana)

Ecco l'orgogliosetta

colta incauta ne' lacci.

MERCURIO

Rispettoso amator che non l'abbracci?

GIOVE

(in Diana)

O decoro

del mio coro,

verginella

più, che bella,

tanto lungi alla tua diva?

Di te priva

perdo il lieto

delle prede, e mai m'accheto.

CALISTO

O Febea

mia gran dèa,

dèa, che impera

alla sfera,

che circonda al foco il giro,

mi partiro

dal tuo lato

belve rée, nume adorato.

GIOVE

(in Diana)

Or l'amarezza

della dimora,

bella, ristora

con la dolcezza

de' baci tuoi.

CALISTO

Quanti ne vuoi

te ne darà,

te n' porgerà,

devoto il labbro,

che d'invocare

ha per costume

sempre il tuo nume.

GIOVE

(in Diana)

In ricovro più ombroso,

in loco più frondoso,

al mormorar, che fa l'umor cadente

di trovata sorgente

più limpida di questa, e più gelata,

a baciarsi le bocche

portiam, seguace amata.

CALISTO E GIOVE

A baciarsi andiam, sì, sì.

Sien del dì

liete al core

tutte l'ore,

col goderle in dolci paci.

Non s'indugi, a' baci, a' baci.

Scena sesta

Mercurio.

Va' pur, va' pur, va' seco,

ch'altro, che suon de' casti baci, e puri

pubblicherà per la foresta l'eco.

Va' pur, va' pur, va' seco.

Se non giovano,

se non trovano,

le preghiere, e i vostri pianti,

nelle ingrate

adorate

cortesia, sentite amanti,

ricorrete alla frode,

ch'ingannatore amante, è quel, che gode.

Le blandizie,

le delizie

di Cupido a ladro ingegno

più condite,

saporite,

son più grate, io ve l'insegno.

Ricorrete alla frode,

ch'ingannatore amante, è quel, che gode.

Scena settima

Foresta.
Endimione.

Improvvisi stupori;

nascono a gara i fiori,

germina il verde, e veste

per l'aride foreste

ogni pianta di fronde ombrose manto.

Il Ladon, l'Erimanto

sgorgando i chiusi umori,

di novo van precipitosi al mare:

io nelle doglie amare

refrigerio non sento,

e di secche speranze

il verdeggiar dispero;

divorator severo,

mentre, che gode il mondo i suoi ristori,

mi moltiplica il foco in sen gl'ardori.

Solo al correr de' fiumi

corre il mio pianto, e sempre

ho le fiamme nel cor, l'acque ne' lumi.

Ma lasso me, che miro?

Se n' viene il mio sospiro.

Serenati o core,

e quelle bellezze,

che spirano asprezze,

furtivo amatore,

contempla, e ristora

con qualche diletto

quel duol, che nel petto

ti cova la morte.

Divina mia sorte

al tuo bel sembiante

respira il penante.

Scena ottava

Diana, Linfea, Endimione.

DIANA

Pavide, sbigottite

dalle fiamme piovute

nelle caverne lor, seguaci arciere,

stanno ancora le fere;

onde senza speranza i passi nostri

traccian de' boschi i mostri.

LINFEA

Costrette dalla sete

verranno al rio corrente,

pria, che nell'occidente,

il luminoso tuo german tramonti.

Sui declivi de' monti,

sui sentieri della selva

attendiamole al varco:

scoccherem pria, ch'imbruni i strali, e l'arco.

DIANA

Ohimè, vedo il mio bene,

quel ben per cui beata io vivo in pene.

ENDIMIONE

Occhi non v'abbagliate

a quei raggi d'argento,

vi prego resistete,

ch'or mediche discrete

mi tolgon quelle luci ogni tormento.

DIANA

Pastorello gentile

errar per la foresta

fere veduto avresti?

ENDIMIONE

Colmo di casi mesti,

fisso ne' miei pensieri,

punto da interni morsi,

fatto cieco dal pianto,

belve, diva, non scorsi.

DIANA

Tu, che la gloria sei dell'Erimanto,

tu, che della mia sfera

i volubili moti

dotto investigatore osservi, e noti,

tu nel verde degl'anni,

nutrisci tanti affanni?

ENDIMIONE

Son martire felice,

e l'anima languendo

adora, e benedice

la cagion del suo male.

Sia la piaga immortale,

come nel petto mio nascer io sento

dalla doglia il contento.

DIANA

Agl'effetti, che narri

del soave dolore,

il tuo tiranno è Amore.

ENDIMIONE

Amor, né mi querelo

delle sue rigidezze, e del mio foco

l'origine divina ogn'ora invoco.

LINFEA

Da peste cos'impura

infetto questi il seno

sparisca in un baleno.

Di qua 'l piede allontana

servo d'affetto reo,

nemico di Diana.

DIANA

Come, come costei

interrompe importuna i piaceri miei.

Dura necessità,

rigorosa onestà

vuol, che rigida io sia

verso l'anima mia.

LINFEA

A partire anco tardi?

Ti scacceranno i dardi.

DIANA

Fuggi da casti oggetti

misero affascinato;

de' tuoi sospiri il fiato

non contamini, sozzo, i nostri petti.

Fuggi da casti oggetti.

ENDIMIONE

Parto, e porto partendo

tacito idolatrante, occulto vago,

fissa nel cor l'imago,

che delle mie fortune

l'orrido rasserena:

lieto nella mia pena

mi udran le piante, gli augelletti, i venti

a formar questi accenti

amante pellegrino

amerò benché fiero, il mio destino.

Scena nona

Diana, Linfea.

DIANA

Non è crudel ben mio,

chi da sé ti discaccia;

pari fiamma m'accende,

m'al mio destin contende

votata castità.

Va' pur mio foco, va'

che se tu adori il mio divin t'adoro,

e per te, nata eterna, ogn'or mi moro.

LINFEA

Come chiude nel petto

costui l'amaro, il dolce,

il tormento, il diletto,

e un strano misto fa d'allegria, e tristo.

Se ne viene Calisto.

Scena decima

Calisto, Diana, Linfea.

CALISTO

Piacere

maggiore

avere

non può

un core

s'in ciel

andasse

volasse,

di quel,

che l'alma mia gustò,

ma cosa sia, non so.

DIANA

Onde cotanto allegra

regia mia verginella?

Ardita nella selva

in aspra, e fiera belva

insanguinasti il dardo, o la quadrella?

CALISTO

Giubilo immenso, e caro

le dolci labbra tue

nel petto mi stillaro.

Fur pure, o dio, soavi

quei baci, che mi desti o dea cortese,

ma la mia bocca il guiderdon ti rese.

DIANA

E quando ti baciai?

CALISTO

Quando? Lucidi rai

or, or lasciaste meco

nel primo orror lo speco,

e in spazio così breve

le dolcezze scordate

delle beltà baciate?

LINFEA

Impazzita è costei.

DIANA

Che parli tu di speco,

di dolcezze godute,

di baci dati, e resi?

Vergine più scorretta io non intesi.

CALISTO

Ohimè forse ti schivi

diletta, amata dèa,

ch'oda, e sappi Linfea

i fruiti piacer, perch'anc'a lei

partecipar tu déi

della tua bocca i favi

sì grati, e sì soavi.

Ti prego non stancare

quei celesti rubini

altre labbra in baciare:

a me serba indefessi i vezzi, i baci.

DIANA

Taci lasciva, taci.

Qual, delirio osceno

l'ingegno ti confonde?

Come immodesta, donde

profanasti quel seno

con introdur in lui sì sozze brame!

Qual meretrice infame

può dei tuoi, disonesta,

formar detti peggiori?

Esci dalla foresta,

né più tra i casti, e virginal miei cori

ardisci conversar putta sfrenata:

dal senso lusinghier contaminata;

va' fuggi, e nel fuggir del piede alato

t'accompagni il rossor del tuo peccato.

Scena undicesima

Calisto, Linfea.

CALISTO

Piangete, sospirate

luci dolenti,

spirti innocenti:

allettatrici ingrate

le mie bellezze, ohimè,

mi son rubelle, ed io non so perché.

LINFEA

Calisto, qual pensiero

t'appanna il senno? Eh torna

della ragion smarrita in sul sentiero.

CALISTO

Nel vago seno accolta

abbracciata,

fui baciata

più d'una, e d'una volta.

Or la baciante, ohimè,

il bacio nega, ed io non so perché.

Scena dodicesima

Linfea.

Interprete mal buona

son di questa libidine,

che l'orme di cupidine

mi sono ancora ignote;

e se ben mi percote

lo stimolo d'amore

dolcemente talora,

l'inesperto mio core,

pure agl'impulsi suoi resisto ancora.

Mah, mah. Lo vorrei dire,

e temo di parlare. Eh chi mi sente?

Così non credo di voler morire.

L'uomo è una dolce cosa,

che sol diletto apporta,

che l'anima conforta;

così mi disse la nutrice annosa.

In legittimo letto

forse provar lo vo'.

Un certo sì mi chiama, e sgrida un no.

Mi sento intenerire

quand'ho per oggetto

qualche bel giovanetto;

dunque, che volontaria ho da languire?

Voglio, voglio il marito,

che m'abbracci a mio pro.

Al sì m'appiglio, e do ripudio al no.

Scena tredicesima

Il satirino, Linfea.

IL SATIRINO

Ninfa bella, che mormora

di marito il tuo genio?

S'il mio sembiante aggradati

in grembo, in braccio pigliami,

tutto, tutto mi t'offerò.

LINFEA

Sì ruvido consorte

ch'avessi in letto mai, tolga la sorte.

IL SATIRINO

Molle come lanugine,

e non pungenti setole

son questi peli teneri,

che da membri mi spuntano:

neppur anco m'adombrano

il mento lane morbide,

ma sulle guance candide

i ligustri mi ridono,

e sopra lor s'innestano

rose vive, e germogliano.

Questa mia bocca gravida

di favi soavissimi,

ti porgerà del nettare.

LINFEA

Selvaggetto lascivo

ti vedo quel, che sei,

senza, che t'abbellisci, e ti descrivi,

certo di capra nato esser tu déi,

ama dunque le capre, e con lor vivi.

IL SATIRINO

Io son, io son d'origine

quasi divina, e nobile,

ben tu villana, e rustica

nata esser déi tra gl'asini,

o da parenti simili.

So perché mi ripudia

l'ingorda tua libidine,

perché garzone semplice

mal buono agl'esercizi

di Cupido, e di Venere,

ancor crescente, e picciola

porto la coda tenera.

LINFEA

Nelle mandrie ad amar va'

aspetto ferino.

Fanciullo caprino.

Che Narciso,

che bel viso,

vuol goder la mia beltà,

nelle mandre ad amar va'.

Scena quattordicesima

Il satirino.

Son pur superbe, e rigide

queste ninfe di Trivia

nel conversar con gl'uomini;

e sebben, che le bramano,

le carezze disprezzano

più de cervi selvatiche,

o come state fosser

prodotte dalle selici.

Sforzate esser vorrebbero,

per discolpar il fomite

della lor lussuria

con la sofferta ingiuria.

S'avessi braccia indomite,

e nerborute, a un acero

vorrei legar l'Ipprocrita,

e rotto, e franco, e macero

con un ramo di sorbolo

l'orgoglio suo barbarico,

e trista farla, e flebile,

ovver snervata, e debile,

negl'assalti instancabile,

render la sua lascivia.

Le saria questo un gran dispetto amabile.

Scena quindicesima

Pane, Silvano, Il satirino.

PANE

Numi selvatici,

custodi, e genii

di boschi mutoli,

sassose orcadi,

umide naiadi,

rozze amadriadi,

disperse, e lacere

le chiome all'aria,

in volti squallidi,

sopra il cadavere

del dio di Menalo

cantate flebili,

la mesta nenia:

amor, ch'è un aspide

con il suo tossico

ha morto il misero.

SILVANO

Risuscita

sconsolato, e scaccia il torbido.

La tua diva ha 'l petto morbido,

nella fé serpe pestifera

al tuo bene salutifera

la speranza ancor suscita.

IL SATIRINO E SILVANO

Risuscita

sconsolato, e scaccia il torbido.

PANE

Conforti deboli

sono i vostri, ch'implacabile,

e fiera vipera

a' miei prieghi è fatta Delia:

né rammentasi

del bel don di lane candide,

che la fe' scendere

dal suo giro argenteo, e lucido,

vezzosa, e fulgida

a baciarmi il labbro rigido,

io temo, e dubito,

che da gotte più piacevoli,

più vaghe, e morbide,

colga il mel delle delizie;

ed io, qui misero

tra singulti amari, e queruli

mi stempro l'anima.

SILVANO

S'esplori, s'investighi

di questa tua ruvida

l'amore, ch'immagini;

e il vago, che rubati

al core ogni giubilo,

in braccio alla perfida

squarciandolo uccidasi.

IL SATIRINO

Io per grotte ombrose, e gelide,

io per boschi ignoti, ed orridi,

io per monti ermi, ed altissimi

de' tuoi dubbi, accorto d'indole,

sarò spia, sempre instancabile.

PANE

Amore aitami,

soccorso chiedoti

e fa', ch'in braccio

torni al mio ghiaccio:

fallo deh pregoti.

SILVANO E IL SATIRINO

Pane consolati,

ch'in letto morbido

di fiori, il torbido

svanir vedremoti,

Pane coi fremiti

da' morte a' gemiti.

Escono sei Orsi dalla foresta, e compongono il ballo.

Atto secondo
Scena prima

Le cime del monte Liceo.
Endimione.

Erme, e solinghe cime,

ch'al cerchio m'accostate

delle luci adorate,

in voi di novo imprime,

contemplator segreto

Endimione l'orme.

Le variate forme

della stella d'argento

lusingando, e baciando,

di chiare notti tra i sereni orrori,

sulla terra, e sui sassi i suoi splendori.

Lucidissima face

di Tessaglia le note

non sturbino i tuoi giri, e la tua pace.

Dagl'atlantici monti

traboccando le rote,

Febo, del carro ardente, omai tramonti.

Il mio lume nascente

illuminando il cielo

più bello a me si mostri, e risplendente.

Astro mio vago, e caro

a' tuoi raggi di gelo,

nel petto amante a nutrir fiamme imparo.

Qual sopor repentino

a' dolce oblio m'invita

su quest'erta romita?

Sonno cortese, sonno

s'alle lusinghe tue pronto mi rendo.

Deh fa' tu, che dormendo

amorosi fantasmi

mi felicitin l'anima svegliata.

Baciatrice baciata

mandan in sen la diva mia crudele,

e stringendo i tuoi lacci, in dolci inganni

fa' che morto in tal guisa io viva gl'anni.

Scena seconda

Diana, Endimione.

DIANA

Candidi corridori,

cervi veloci, al vostro moto, al corso

sul vertice Liceo si ponga il morso.

Ascender qui ved'io

il pastorello mio,

e qui solinga in solitario loco

per arder al mio foco,

non per scoprirmi amante

mi son condotta. Oh Cinzia fortunata,

il gemino Levante,

del tuo sole, che cerchi, ecco che dorme.

Ammirabili forme,

ignota adoratrice

vi potrò pur, felice

vagheggiar, contemplarvi,

senza rossor baciarvi.

Ma che parli de' baci

o casta Delia? Ah taci.

Ohimè, che mi procura amareggiare

il soave pensiero? Io vo' baciare.

Oh aliti odorati,

spiran d'Arabia i fiati

queste labbra di rose,

e aure preziose

m'invia, più, che m'accosto

il cinnammomo, il costo.

ENDIMIONE

Bella quanto crudele

non fuggirai più no dal tuo fedele.

DIANA

Sogna, e mi stringe al petto;

deh mai non si svegliasse,

e il mio divin restasse

incatenato sempre al suo diletto.

ENDIMIONE

Viso eterno ti bacio, e godo, e sento

nel baciarti, mia dèa, dolce il tormento.

DIANA

Non posso distaccarmi,

temo ch'egli si desti.

ENDIMIONE

Che prodigi son questi?

DIANA

Ohimè, ch'ei s'è svegliato.

ENDIMIONE

Oh dio, che dormo ancora?

Del sonno supplicato

l'illusioni amabili anco abbraccio?

Tormentoso mio laccio

chi mi ti rende amorosetto, e pio?

Sacrilego son io

che le menti del cielo, e stringo e tocco,

ma di goder cotanta gloria parmi,

che prima di lasciarle io vo' dannarmi.

DIANA

Rallenta questi nodi

mio conforto.

ENDIMIONE

Mio che?

DIANA

Ardor, mio foco.

ENDIMIONE

Ohimè

m'uccide la dolcezza.

DIANA

Lasciami mia bellezza,

e già, che amor sagace

nel tuo seno mi pose

paleso la mia face,

ti confesso la piaga.

ENDIMIONE

Ah diva Artemia, e vaga,

formano le tue fiamme

il rogo alla mia vita,

moro alla tua ferita.

DIANA

Vivi, vivi, a' nostri amori.

Rasserena

la tua pena

raddoppiando i nati ardori.

Vivi, vivi a' nostri amori.

ENDIMIONE

Moribondo, eccomi sano.

Tristo duolo

ratto a volo

da me fugge, e va lontano.

Moribondo eccomi sano.

DIANA

Partir devo. Addio rimanti.

ENDIMIONE

Tu mi lasci? Io riedo a' pianti

DIANA

Così chiede il mio decoro.

ENDIMIONE

Torna indietro, o mio martoro.

DIANA

Breve la lontananza

sarà, rasciuga gl'occhi o mia speranza.

ENDIMIONE

Quando più ti rivedrò?

DIANA

Presto, presto mio ben

lieto rimanti, io vo'.

ENDIMIONE

Teco l'anima vien.

DIANA

Mio sole.

ENDIMIONE

Cor mio.

DIANA E ENDIMIONE

Addio.

Scena terza

Endimione.

Dipartita crudele

sulle dolcezze mie diluvi il fele.

Appena, qual avaro

che sogna aver del re di Lidia l'oro,

palpato, mi svanisce ogni tesoro.

Ditemi un poco amanti,

qual è maggior tormentoso

la sua donna crudel non goder mai.

O perderla, goduta, in un momento?

Dite, ditelo omai.

Provarla sempre acerba è più dolore.

Siete, siete in errore.

Avvezzo al mal sofferto

non sente tanto fiere

della nemica, il cor, le rigidezze.

Ma chi d'antico duol passa al piacere,

e perde le dolcezze,

no 'l può vessar martir più crudo, e novo.

Io ve 'l so dir, ch'il provo.

Scena quarta

Il satirino.

Alfin la tanto rigida,

quella, che delle vergini

imperatrice, e satrapa

è come l'altre femmine

soggette al senso fragile;

e che sempre s'appigliano

al male, al peggio, al pessimo.

Pane, ch'è un dio sì nobile

costei ripudia, e gettasi

nelle braccia d'un rustico.

Se gl'occhi lo spettacolo

veduto non avessero

mai non avrei credutolo.

Voglio avvisar il languido,

ei vi porrà rimedio.

Chi crede a femmina

mai sempre instabile

nell'acque semina;

e prima svellere

potrà man tenera

antica rovere,

che mai commuovere

suo cor, che genera

fede mutabile.

Chi crede a femmina

mai sempre instabile

nell'acque semina.

Scena quinta

La pianura dell'Erimanto.
Giunone.

Dalle gelose mie cure incessanti

lacera, stimolata, a questo suolo

de' miei pomposi augelli io piombo il volo,

fatti del mio furor compagni erranti.

Stupri novelli a sussurrare intesi.

Abbandonata la celeste corte,

ignoto qui dimora il mio consorte,

chiuso in stranieri, e indecenti arnesi.

Sempre per ingannar fanciulle belle,

novo Proteo, si cangia in forme nove,

aspetto un dì, che questo mio gran Giove

mi conduca le drude in sulle stelle.

Scena sesta

Calisto, Giunone.

CALISTO

Sgorgate anco sgorgate

fontane dolorose,

luci mie lagrimose

quell'umor,

che dal cor

ascendendo a voi se 'n vien.

M'è sparito in un balen

il conforto,

restò morto

quel piacer, che già gustò

da dèa pia

l'alma mia,

sin, che vivo io piangerò.

GIUNONE

Che lagrime son queste

o bella faretrata?

CALISTO

Piango mia sorte ingrata.

GIUNONE

Le tue noie funesti

a me scopri, che posso,

moglie del gran motore,

sanarti ogni dolore.

CALISTO

Oh reina del cielo

scusa l'irriverente io non conobbi

la tua divinità nel terreo velo,

Cinzia, che seguo, e onoro

mi scaccia dal suo coro.

GIUNONE

La cagion?

CALISTO

Mi condusse

in antro dilettoso,

e mi baciò più fiate

come se stato fosse il vago, il sposo.

Le mie labbra baciate

le sue baciavo a gara,

stretta dalle sue braccia.

Or ella nega il bacio, e me discaccia.

GIUNONE

Tocca la terra appena,

temo d'aver trovata

dell'adultero mio la nova amata.

Altro, che baci, di',

v'intervenne, vi fu

tra la tua Delia, e te?

CALISTO

Un certo dolce che,

che dir non te 'l saprei.

GIUNONE

Non più, non più.

Le forme della figlia, uso alla frode,

prese il mio buon consorte

per appagar il perfido appetito,

grazioso marito.

CALISTO

Deh se mai non discenda

il tuo Giove del ciel per ingannare

le vergini innocenti,

raddolcite, e clementi

di Diana alterata

rendimi l'ire, e fa' ch'omai placata

giri ver me le luci sue serene.

Ecco appunto, che viene.

GIUNONE

Certa son dell'inganno,

in quelle forme è Giove.

A Mercurio il conosco,

al scaltro suo messaggio, al ladro accorto,

che fabbro del mio torto

ha per me sempre nella bocca il tosco.

Scena settima

Giove in Diana, Mercurio, Giunone, Calisto.

GIOVE

(in Diana)

Esprimerti non posso

il goduto piacere.

Tal lassù nelle sfere,

e nelle glorie mie

no 'l finisco, no 'l provo.

Io, che regalo, e meno

i cerchi erranti, e che sostengo il mondo,

con diletto giocondo,

ben che nell'operar sempre indefesso,

con le fatture mie ricreo me stesso.

MERCURIO

Tu non dovevi o facitor sovrano,

già, che sì ti diletti

de' generati aspetti

indipendente far l'arbitrio umano.

Se fosse a te soggetto

chi vive in libertade,

senza tante mutanze, e tanti inganni,

di sembianze, e di panni,

godresti ogni beltade.

GIUNONE

Oh consiglio prudente,

esser non può costui più miscredente.

CALISTO

Alta regina, io voglio

pria, che per me la tua bontà s'impieghi

in suppliche, ed in preghi

provar s'è la mia diva anco di scoglio.

GIUNONE

Troverai placidetta,

va' pur, la tua diletta.

GIOVE

(in Diana)

Calisto anima mia?

GIUNONE

O sferze, o gelosia.

CALISTO

Mio conforto, mia vita!

GIOVE

(in Diana)

Mia dolcezza infinita!

CALISTO

Mio ristoro.

GIOVE

(in Diana)

Mio martoro.

CALISTO

Mio sospiro.

GIOVE

(in Diana)

Mio respiro.

CALISTO

Mio desio.

GIOVE

(in Diana)

Onde vieni?

CALISTO

A te ben mio.

MERCURIO

Di dolci parolette

lasciva melodia.

GIUNONE

O sferze, o gelosia.

GIOVE

(in Diana)

Dove dall'urna sua

scaturisce il Ladone i suoi cristalli

vanne, vanne mia cara,

e di novo prepara

la bocca a guerreggiar co' miei coralli,

io tosto là verrò.

CALISTO

Rapida me ne vo.

Ma chi è costui, che ti risiede appresso?

GIOVE

(in Diana)

Del mio buon padre il messo.

CALISTO

Volea, poch'è, facondo

farmi preda di Giove,

ma resa sorda a lusinghieri inviti

furo lasciati ambo da me scherniti.

Eccelsa imperatrice,

la cagion non le chiesi

del procelloso nembo, e del tranquillo,

li sdegni ha la mia dèa placidi resi;

tutta fasto, in contento il cor distillo.

GIUNONE

Vo', che tu cangi presto

quel tuo lieto in funesto.

Scena ottava

Giove in Diana, Mercurio, Giunone.

GIOVE

(in Diana)

Trar da quelle vaghezze

bramo Cillenio mio dolcezze nove.

MERCURIO

Giunon, Giunone, o Giove.

GIUNONE

Mercurio? Ove lasciasti,

teco quaggiù disceso

a consolar la terra, il mio marito?

MERCURIO

Il ristoro adempito

dell'egra madre accesa,

ritorno dell'Olimpo agl'alti nidi.

GIUNONE

Di là vengo, né 'l vidi.

Forse, ch'ei t'ha ingannato,

e deviando da già presi voli,

tra le selve celato,

amator fraudolente

deve, deve ingannar ninfa innocente.

GIOVE

(in Diana)

Qualche notizia ha certo

della mia dolce sorte

la gelosa consorte.

MERCURIO

Sempre maligno, e gelido sospetto

ti tiranneggia il petto.

GIUNONE

Porge poca credenza

l'esperienza mia

al dio della bugia.

Ma voi celeste, o vergine matrona,

che fate qui con ladri, e con mezzani?

Accoppiamenti strani,

l'onestade vid'io con la lascivia.

E che volete trivia

che si dica di voi? Che lingua dotta,

con retorica rea v'abbia corrotta?

Lo discacci di qua

la vostra castità.

GIOVE

(in Diana)

Non può macchia, o sozzura

render nera mia fama, e farla impura.

Senza oscurarmi l'onorato grido

poss'io conversar l'ore

con Venere, e d'amore.

GIUNONE

E baciar le donzelle.

MERCURIO

È scoperta la frode,

e della frode il fabbro.

GIOVE

(in Diana)

Non è negato il bacio a casto labbro,

bocca pura, e pudica

può baciar senza biasmo,

la verginella amica.

GIUNONE

Sì, ma negl'antri lecito non gl'è

condur le semplicette, e farle poi

un certo dolce che,

come fatto gustar gl'avete voi.

MERCURIO

Lo diss'io.

GIOVE

(in Diana)

Giuno, Giuno ove trascorre

la lingua disonesta?

Esprimi più modesta

concetti degni dell'udito mio,

o la selva abbandona,

ove la selva abbandona.

GIUNONE

Non v'alterate no,

triforme lascivetta

i vostri vezzi io so;

e crederei, che Giove

sotto quelle sembianze,

scordato il firmamento,

errasse per le selve a lussi intento.

Ma fatto continente

più non segue, od apprezza

la caduca bellezza;

e poi d'averlo visto afferma, attesta

quel suo buon messaggero,

volar al trono del sublime impero.

Orsù voglio lasciarvi,

né importunarvi più. Dentro li spechi

nettare più soave amor v'arrechi.

Scena nona

Giove in Diana, Mercurio.

GIOVE

(in Diana)

Chi condusse costei

dal cielo a investigare i gusti miei?

MERCURIO

La gelosia, che vede

con cento lumi, e cento

ch'agile come il vento

penetra il chiuso, e il tutto osserva, e crede.

GIOVE

(in Diana)

Ululi, frema, e strida,

qual belva inferocita,

a gl'amorosi torti

la moglie ingelosita,

non farà mai, che lasci i miei conforti.

MERCURIO E GIOVE

È spedito

quel marito,

che regolar le voglie

si lascia dalla moglie.

Con quello, che piace

si smorzi la face

del nostro appetito.

E poscia il rigore

accheti il rumore.

È spedito

quel marito,

che regolar le voglie

si lascia dalla moglie.

Scena decima

Endimione, Giove in Diana, Mercurio.

ENDIMIONE

Cor mio, che vuoi tu?

Che speri, che brami,

che chiedi di più?

Più lieto di te,

ch'il cielo baciasti

in terra non è.

S'amor m'impiagò,

fu d'oro lo strale,

ch'al sen mi scoccò.

GIOVE

(in Diana)

Mercurio, che disfoga

in amorosi carmi il chiuso ardore?

MERCURIO

Delle pelasge selve

l'ornamento, l'onore.

Pastor, che non di belve

vago, o di pascolar gregge, ed armenti,

con lodevoli studi

vuol che l'ingegno sudi

in specolar del ciel gl'astri lucenti.

ENDIMIONE

O splendida mia dèa,

felicità dell'alma,

mia fortuna, mia calma.

Dal mio Liceo felice,

ove, mercede tua, lasciai la pena

ti trovo, sceso appena?

Il core amor ringrazia, e benedice.

Ma chi è colui, ch'è teco?

Ohimè fiero tormento

nato da gelosia nel petto io sento.

GIOVE

(in Diana)

Cinzia fa poi la casta,

e pur anch'ella ha di segreti amanti.

MERCURIO

Questi falsi sembianti,

con gl'arnesi mentiti

signor deponi, che di vaghe invece

troverai di mariti.

Scena undicesima

Il satirino, Pane, Silvano, Giove in Diana, Endimione, Mercurio.

IL SATIRINO

Se tu no 'l credi, vedila

di novo unita all'emulo,

quell'agreste, ch'accennoti

il drudo è di Trigemina.

PANE

Scellerato, dai vincoli

stretto di questi muscoli

non fuggirai le Eumenide

del doglioso rammarico,

ch'in sen per te mi pullula.

ENDIMIONE

Lasciami, chi t'offese?

Ch'ingiuria t'ho fatt'io

o semicapro dio?

GIOVE

(in Diana)

Qual furia agita Pane?

PANE

Ecco il tuo vago o perfida,

incatenato, e fattomi

prigion da fato prospero

sugl'occhi tuoi, ch'aborrono

la figurata, e mistica

mia mostruosa immagine.

Quei livori, che vedonsi

nelle tue guance candide

sono pur le memorie

de' baci soavissimi,

ch'i labbri tuoi mi dierono.

Or perché sprezzi, e fuggimi

incostante, e contraria?

Ahi, che nota è l'origine

dell'amor tuo volubile.

Costui ch'in pianto stillasi

è del mio mal la causa;

ma far di lui spettacolo

funesto e miserabile

voglio a quei rai, che, fulmini

fatti per me, m'uccidono.

MERCURIO

Da questi intrichi usciamo,

partiam, Giove partiamo.

GIOVE

(in Diana)

Satiro dispettoso

uccidi pur, carnefice, a tua voglia,

non avrai mai salute all'aspra doglia.

ENDIMIONE

Dove vai diva? Aita.

Parti? Perdo la vita.

Scena dodicesima

Pane, Silvano, Il satirino, Endimione.

PANE E SILVANO

Fermati o mobile.

A par del turbine,

così tu l'anima

lasci all'arbitrio

di cor, ch'infuria?

D'acerba ingiuria

feroci vendici

quel duol, ch'annidasi

nel petto lacero

si estirpi, e uccidasi,

con l'altrui strazio,

di vendetta il desio se n' resti sazio.

ENDIMIONE

Oh dio così abbandoni

sul margo del sepolcro il tuo fedele?

Oh dio così crudele

mi lasci agonizzante?

Mira almen la mia morte, amata amante.

PANE, SILVANO E IL SATIRINO

Miserabile,

che credevi a donna instabile?

Variabile

è la tua fede, e detestabile.

Miserabile,

che credevi a donna instabile?

ENDIMIONE

Amor, se non m'ascolta

la dispietata mia, qui drizza l'ali,

difendami i tuoi strali.

PANE, SILVANO E IL SATIRINO

Miserabile,

dunque speri in dio mutabile?

Egl'è inabile,

né ti sente, arcier vagabile.

Miserabile,

dunque speri in dio mutabile?

ENDIMIONE

Uccidetemi dunque

dalle speranze mie

povero derelitto;

tolga il martir la morte ad un afflitto.

PANE

Poiché morir desideri

vo', che tu formi gl'aliti

per eternarti il flebile

privo di libertà.

ENDIMIONE

O dèi, che crudeltà.

PANE, SILVANO E ENDIMIONE

Pazzi quei, ch'in Amor credono.

Son baleni che spariscono.

Le dolcezze e in fiel forniscono

suoi piaceri, o mai si vedono.

Pazzi quei, ch'in amor credono.

Scena tredicesima

Il satirino.

Pazzi quei, ch'in Amor credono?

Son pazzi tutti gl'uomini.

Pazzo è il mondo, che l'illecito

suo gioir segue sollecito,

né v'è cor, che non lo nomini.

Pazzi sono tutti gl'uomini.

Pazzi, quei ch'in amor credono?

Pazze son tutte le femmine,

che con piante ancora tenere

lo ricevono con Venere

nelle luci, o stelle gemine.

Pazze son tutte le femmine.

Scena quattordicesima

Linfea, Il satirino.

LINFEA

D'aver un consorte

io son risoluta

voglio esser goduta.

Non vo' isterilire

sul vago fiorire

degl'anni ridenti:

i dolci contenti,

che l'uomo sa dare

anch'io vo' provare.

D'aver un consorte

io son risoluta

voglio esser goduta.

IL SATIRINO

Ad impazzir principia

la sprezzatrice rigida.

Vo' castigar l'ingiuria

con vendetta di zucchero.

LINFEA

Amor ti prego,

che vago, e gradito

mi trovi un marito.

Non vo' più tra selve

seguire belve

nemica a me stessa.

Il core confessa,

che più non può stare

anch'egli ad amare.

D'aver un consorte

io son risoluta

voglio esser goduta.

IL SATIRINO

Uscite amici satiri,

questa fera prendetemi.

LINFEA

Compagne soccorretemi.

Alle voci del Satirino, escono dalla foresta due Satiri, ed a quelle di Linfea, quattro Ninfe armate di dardi, quali con attitudini di voler ferire le semibestie, e questi di schernirsi da ferri minacciosi, figurano un ballo, il cui fine è la ritirata de' Satiri.

Scene inserite nella favola dopo la scena quarta dell'atto secondo

Un Bifolco d'Ermione.

BIFOLCO

Al lupo, dalli, dalli al lupo, al lupo:

un'agna ci rubò

il ladrone vorace,

sugl'occhi l'involò

del can custode, audace,

pria che s'imboschi, e vada al nido cupo

se li tolga la preda; al lupo, al lupo.

Ma non v'è, l'ho smarrito:

uscì dalla pianura. Ei ristorato

sarà dal furto grato,

ed io qui stanco resto, e in un schernito.

Io così non la voglio

io così non la sento.

Vo' attendere all'armento

né aver di gregge cura, a Pan lo giuro.

Vo' con Endimione

intendermi al sicuro.

Oh quest'è un grand'imbroglio,

io così non la voglio.

Ma, dal corso lasso,

tolto in mano chi serba il mio ristoro,

m'affido sovra il sasso.

Dolcissimo Lieo

bevendoti ogni spirto in me ricreo.

Chi beve

riceve

nel core, nel petto

soave diletto.

Oh vino

rubino

da Bacco stillato,

per te spiro il fiato.

Quel piè,

che spremé

licore sì eletto

sia pur benedetto.

Ah poverino me.

Più non getta il bottaccio, ohimè, ohimè

goccia goccia sì, sì:

gustoso libamento. Ei si smarrì.

Voto è rimasto il vaso,

s'il palato ti perde

prezioso amor mio, ti gode il naso:

nell'odorar le tue reliquie, io sento

delle perdite tue dolce il tormento.

Ma qual pigrizia è questa?

S'entri nella foresta,

si torni alle capanne. Oh, oh oh, oh,

forza nel piè non ho.

Ma che, ma che, ma che?

Non mi vacilla il piè.

Ho pur la cesta scema,

è la terra che trema.

Di più, di più, di più,

il sol dal carro suo cade all'ingiù.

Stravaganze novelle

cadono con il sole anco le stelle.

Linfea, il Bifolco.

LINFEA

Soave pensier

principio d'amor,

comincia il mio cor

quel dolce a sentir,

ch'arreca il gioir.

Con voi, vaghe piante,

vo' vivere amante.

BIFOLCO

Ve', ve', ve', ve', ve', ve';

di Pan la luna accesa

in terra, in terra è scesa.

LINFEA

Ecco d'Endimione, ecco il Bifolco:

voglio con lui scherzare.

Addio vago pastore

vo cercando amatore,

mi vorresti tu amare?

BIFOLCO

Amare non vo',

amor cosa sia

ancora non so.

Quest'urna mi dà,

mi versa, mi piove

dolcezze, che Giove

in cielo non ha.

Amare non vo',

amor cosa sia

ancora non so.

LINFEA

Se vuoi sentir diletto

ricevilo nel petto.

BIFOLCO

Ch'egli m'entri nel seno?

Taci sorella cara,

ho inteso a dir, ch'egli è una cosa amara.

Vo', che per questa canna

solo mi vada a rallegrare il core

del mio Bacco il licore,

la purpurina, e distillata manna.

Ma che dimoro teco umida luna?

Ci separi e divida un colle alpino,

tu sei dell'acqua amica, ed io del vino.

Bottaccio, che vuoto,

ti sento d'umor,

deposito il cor

in te, che mi spiri

graditi sospiri:

tra i balsami tuoi,

starasene ei teco

infin, che di greco

ricolmo verrai.

Ah lento, che fai?

A empirti me n' vo.

Ma terra, ma, ma

raffrena i tuoi moti;

ancora ti scuoti?

Il piede cadrà.

Ma terra, ma, ma.

LINFEA

Pane l'aiti. Quasi

nell'entrar della selva il capo franse;

al tugurio lontano

certo costui non giunge, ed ebbro, e sano,

né porta alle sue paglie i membri interi.

Torno a voi, torno a voi dolci pensieri.

Se bene nel sen

non chiudo l'arcier,

ch'è fiamma, è calor,

pensando al su' ardor

principio a goder

con voi, vaghe piante,

vo' vivere amante.

Atto terzo
Scena prima

Le fonti del Ladone.
Calisto.

Restino imbalsamate

nelle memorie mie

le delizie provate.

Fonti limpide, e pure

al vostro gorgoglio

la mia divina, ed io,

coppia diletta, e cara

ci baceremo a gara,

e formeremo melodie soavi,

qui dove con più voci Eco risponde,

unito il suon de' baci, al suon dell'onde.

T'aspetto, e tu non vieni

pigro, e lento

mio contento;

m'intorbidi i sereni;

anima, ben, speranza,

moro nella tardanza.

T'attendo, e tu non giungi.

Luminosa

neghittosa,

con spine il cor me pungi.

Deh vieni, e mi ristora,

moro nella dimora.

Scena seconda

Giunone, le Furie, Calisto.

GIUNONE

Dalle sponde tartaree a questa luce

gelosia vi conduce,

non men furia di voi, triste sorelle.

L'acherentee facelle,

gl'aspidi preparate, il mio dolore

vo' medicar col tosco, e col rigore.

LE FURIE

Imponi, disponi, de' nostri veleni,

impera severa al foco, alla face,

tormento non lento al tuo contumace

porremo, daremo infino che s'abbia

spiantata, smorzata l'accesa tua rabbia.

CALISTO

Mi si fa gelo il sangue.

Qual orridezza miro?

Non la possono gl'occhi, ohimè, soffrire;

tutta terrore altrove il piede io giro.

GIUNONE

Putta sfacciata, e rea, credi fuggire

degl'adulteri tuoi sozzi e nefandi

i castighi sovrani, e memorandi?

(Calisto in orsa)

Ora nelle mie piume

ti conduca il tuo Giove,

e in libidini nove

dalle tue sordidezze

tragga le sue dolcezze.

A fremiti indistinti,

che formerà quella tua bocca oscena

i sospiri accompagni, e rese impure

le labbra sue, che generaro il mondo

baci della sua fera il volto immondo.

Errerai per le selve, e per i monti

fatta d'orsi compagna, e sempre teco

per boschi, e per caverne

sarà lo sdegno mio rapido, e cieco.

Ecco germane inferne

chi tormentar dovete;

ve la consegno, andate,

e per colli, e foreste ella agitate.

LE FURIE

A mille faville del nostro Acheronte,

ardenti, ferventi la fera accendete,

ogn'angue nel sangue ammorzi la sete:

s'offenda, l'orrenda, ch'offese Giunone,

sdegnosa, gelosa, la dèa ciò n'impone.

Scena terza

Giunone.

Racconsolata, e paga

torna all'Etra Giunone:

alla punita vaga

del tuo sleal tonante, hai sciolto il gelo,

non ti sarà più tormentoso il cielo.

In guisa tal si devono punire

del letto marital l'offese amare:

e così castigare,

se potessero, ancora

dovrebbero le donne i lor mariti,

che sazi d'elle, ognora

ravvivano nel sen novi appetiti.

Mogli mie sconsolate

noi sempre siam l'offese, e abbiamo il torto.

Lasciate dal conforto

morian spesso di sete in mezzo al fiume.

La notte nelle piume,

stanchi ne' gusti loro i rei mariti,

stan sempre sonnacchiosi, o risentiti.

Perché noi non gridiamo

ci dan de' baci insulsi, e senza mele,

e le nostre querele

sprezzano, quasi di serventi, o schiave.

Sarà il giogo soave,

quando sapremo oprare audaci, e scaltre,

ch'il nostro dolce non trapassi ad altre.

Scena quarta

Mercurio, le Furie, Giove, Calisto.

MERCURIO

Perfide, ancora osate

di tormentar le contentezze a Giove?

Scendete a' vostri abissi, e ripiombate

sien da voi flagellati

i colpevoli mostri, i rei dannati.

GIOVE

Bella mia sospirata,

semplicetta ingannata

dagl'affetti amorosi

di quel supremo dio, che regge il mondo,

dall'intimo, e profondo

del latteo sen scaccia il terror, che fiero

l'anima ti sgomenta: entro del core

t'infonde le sue glorie il tuo motore.

CALISTO

O re dell'universo

ricreata mi sento

al tuo divino accento.

Degl'aspidi nocenti

più le rabbie non provo,

delle facelle ardenti

mi s'ha l'incendio estinto; io mi rinnovo

formo voci, e parole

riumanata, e miro

nella prima figura il cielo, il sole.

GIOVE

Te mineran poch'anni

di serpi loro in globi i presti corsi

che su quei, che tu miri eterei scanni

vestita di zaffiri,

di stelle indiademata,

con la prole comune,

ad onta di Giunon divinizzata,

accrescerai piropi al firmamento,

ed al dolce concento

di celebre armonia

l'ambrosia beverai; resa infinita,

e del mio sempiterno eterna vita.

CALISTO

Eccomi ancella tua.

Disponi a tuo piacere,

monarca delle sfere,

di colei, che creasti,

che con frode felice, o mio gran fato

accorla ti degnasti

nel tuo seno beato.

GIOVE

Regolar del Destino

anco Giove non puote i gran decreti:

sotto il manto ferino

convien, che tu ritorni,

per i patrii contorni

in orsa errando, infin, che si consumi

l'influsso reo, che registrato vive

negl'eterni volumi.

Sempre però invisibile custode

t'assisterà Mercurio, e sempre avrai

teco, gelosi, i miei pensieri, e rai.

Ma pria, ch'il velo irsuto

ti ricopra le membra, o mia dolcezza,

l'immortale bellezza

dell'Empireo, in cui devi

fasta diva, albergar, mostrar ti voglio.

Il futuro cordoglio

di tuoi selvaggi errori

preziosi licori

raddolciranno, onde tu lieta poi,

piena d'alto ristoro

in forma vil non sentirai martoro.

CALISTO

Tanto caduca, e frale

creata umanitade

non merta ottimo nume:

pure di tua bontade

d'innalzar l'opre sue sempre è costume.

GIOVE

Al cielo s'ascenda.

MERCURIO

Al cielo si vada.

GIOVE E MERCURIO

È questa la strada,

che rende immortale.

GIOVE

Mio foco fatale,

son Giove, e tormento.

CALISTO

Beata mi sento

a questa salita.

GIOVE

Per te mia tradita.

CALISTO

Mercé del mio dio.

CALISTO E GIOVE

O dolce amor mio.

MERCURIO

A questi ardori

scocchi, baleni,

doppi splendori

l'arcier di Delo.

CALISTO, GIOVE E MERCURIO

Al cielo, al cielo.

Scena quinta

Endimione, Silvano, Pane.

ENDIMIONE

Che non l'ami volete?

Non posso, no.

Io morir vo.

Uccidete, uccidete.

SILVANO

Più, che sciocco, esser puoi libero

col negare amore, e l'idolo.

Che di te cura non prendono,

e morir prima desideri,

che formar questo ripudio?

PANE

Porta il vento, come polvere

giuramenti, e non si possono

scior così d'amore i vincoli.

Dunque a un sì, dovrossi credere,

di quel reo che vive in carcere?

ENDIMIONE

S'appunto, traditrice

degli affetti del core,

vi rispondesse la mia bocca un sì

di rinnegar la dèa, che mi ferì,

non li credete. Il fulgido suo volto,

s'amano l'ombre, anco amerò sepolto.

Che non l'ami bramate?

Non posso, no.

Pria morir vo'.

Svenatemi, svenate.

PANE E SILVANO

Legato agl'aceri

costui si maceri;

e Delia misera

qui venga poscia

a far l'esequie

alla sua requie.

Scena sesta

Diana, Endimione, Pane, Silvano.

DIANA

Numi vili, e plebei

nelle griotte apprendeste

dalle fere compagne, ad esser rei.

ENDIMIONE

Me felice. Qui arriva

la mia lucida diva.

DIANA

Lasciate gl'innocenti,

se i miei dardi pungenti

irritar non volete. Il piè caprino

v'inselvi, o vi ritragga agl'antri cupi,

sconosciuti dal sol, tra gl'orsi, e i lupi.

PANE

O cruda trivia

perché al mio gemere

tuo core impietrasi?

Perché al mio piangere

tuo petto indurasi?

Perché volubile

sdegni quel nobile

del mondo, simbolo,

che lusinghevole

baciasti un secolo?

SILVANO E PANE

Torna piacevole

bella trigemina,

e gioie semina

nel sen d'un languido,

a cui ti fecero

doni pieghevole

torna piacevole.

DIANA

Mentite semibelve,

e calunnie sfacciate

tessete, fabbricate.

Non amò Cinzia, e s'ama

ama indole acuta, e la virtude

di nobile pastor, che stende i voli

dell'intelletto suo di là da poli.

Ma partite vi dico o dèi villani,

e sfogate de' cori

con pari forme i disonesti ardori.

SILVANO

Pane, l'ore si gettono

a trar il mel dagl'aspidi.

Partiamo, e col suo astronomo

quest'orgogliosa lascisi,

e per vendetta gridasi

della mordace ingiuria.

Cinzia la casta dèa, tutta è lussuria.

PANE

Sì sì Silvan, si pubblichi

di costei la libidine

da un contrario cupidine.

SILVANO E PANE

Rapiti dalla furia

Cinzia la casta dèa tutta è lussuria.

Scena settima

Diana, Endimione.

DIANA

Ti segua questo dardo

coppia sozza, e difforme;

io calcherei quell'orme

saettatrice fiera,

vendicatrice arciera,

ma non vo' lasciar solo

tra questi orror selvaggi

chi mi dà luce a' raggi.

ENDIMIONE

Vivo per te pietosa,

spiro per te clemente,

gioia mia luminosa,

pena mia risplendente.

Pria, che te rinnegare

morir, morir volea

martirizzato, o dèa.

DIANA

Tanto dunque tu m'ami?

Chi me l'attesterà?

ENDIMIONE

Il cor, che teco sta;

con l'alma congiurato

nel tuo petto volò.

Io vivo effeminato, e cor non ho.

DIANA

Incatenare io voglio

occhi miei chiari, e belli,

questi vostri ribelli:

temo, ch'a voi tornati

vadano in altro seno

per essere adorati.

ENDIMIONE

Sarà la prigionia

dell'anima, del core

felice o cor mio caro, anima mia

scusa mio dolce amore

se liberi gl'affetti

con troppo arditi detti

la lingua innamorata esprime, e spiega:

l'umiltà del mio stato, e l'espressiva

innalza, e affida la tua grazia, o diva.

DIANA

Se son qual tu mi chiami,

perché meco complisci, o mio vezzozo?

Lusinghiero amoroso

contentezza maggiore

la deitade mia provar non puole,

quanto sentir le dolci tue parole

chiamarmi anima, e core.

Ma vo', che tu abbandoni

questi boschi pelasgi, e questi monti

per fuggire i rigori

de' numi delle selve, e de' pastori.

Gelosa del tuo bene

condur ti voglio sulle ionie arene.

Là del Latimio eccelso

segretarie le cime

de' nostri ardor faremo:

tu modesto, ed io casta

lassù ci baceremo.

ENDIMIONE

Il bacio, il bacio basta

ad amatore onesto;

il bacio sol desio, non chiedo il resto.

Son del senso signore

né il foco vil m'incenerisce il core.

DIANA E ENDIMIONE

Dolcissimi baci

un nettare siete,

che sempre le faci

d'amor accrescete.

Il bacio che muore

al bacio dà vita,

la gioia è infinita.

Ch'indugi, e dimore?

Il labbro

ch'è fabbro

di tanta dolcezza

se n' vada a baciare,

mio ben, mia bellezza.

Scena ottava

L'empireo.
Coro di Menti celesti, Calisto, Giove, Mercurio.

CORO DI MENTI CELESTI

Le stelle più belle

sfavillino,

e brillino.

L'alto motore

novo splendore

a ciel prepara.

A Giove cara

quassù goderai

vestita di rai.

Le stelle più belle

sfavillino,

e brillino.

CALISTO

È l'anima incapace

di tante glorie, e nelle glorie immersa,

terrena pellegrina,

della patria divina

la notizia già persa

chiusa nella materia, in parte acquista.

Oh splendore, oh bellezza, oh pompa, oh vista.

GIOVE

Questi alberghi stellati

siano tuoi nidi, e morta anco la morte,

disciolta la compagine del mondo,

estinto il sol, che biondo

la terra indora, e che gl'arreca il giorno;

in quest'alto soggiorno

fatto di pure, e incorruttibil tempre,

meco bella vivrai gl'anni di sempre.

CALISTO

Anima senti

qual stanza rara

a te prepara

premio d'amor,

il tuo motor?

Allegrezza, ho pieno il petto

di diletto,

né puoi tu

nel cor mio capire or più.

CORO

Il ciel rida

a' contenti

della fida

al gran dio degl'elementi.

Dive menti

ancor noi la melodia

raddoppiamo, e l'armonia.

GIOVE

Arciera mia, discendi,

e nella doppia carcere terrena

raddolcita la pena

d'esser quassù rapita in breve attendi.

Vanne Mercurio seco,

e difensore, ignoto al lume umano,

per l'erta, e per il piano

seguirai l'orsa bella

destinata già stella.

MERCURIO

D'obbedirti mai stanco,

gl'assisterò, dio tutelare, al fianco.

CALISTO

Mio tonante.

GIOVE

Vaga amante.

CALISTO

Lieta.

GIOVE

Mesto.

CALISTO

Parto.

GIOVE

Resto.

MERCURIO

Presto il fato v'unirà.

CALISTO

Vado o Giove.

GIOVE

O bella va'.

CORO

Va', va' beata

da questo polo,

ch'in breve a volo,

tutta adornata

d'eterni rai,

ritornerai.

Dopo la scena terza dell'atto terzo

Il Bifolco nelle fonti del Ladone.

Gira, volta, cammina

mi son condotto alfine alla cantina:

io non formava

io non formava passo,

che non nascesse un sasso:

sterpi, tronchi, incontrai, che camminavano,

farfalle, che m'orbavano,

zanzaroni giganti

a torme, ed a masnade.

Oh maledette strade.

Ma fuori di periglio

non vo' pensarvi più.

A bevere s'attendi. A ber, su, su.

Di qual esser vuoi pieno

caro vuoto mio vaso?

Del biondo, o del vermiglio?

Io voglio il tuo consiglio;

il nero con tua pace

a me più aggrada, e piace.

Ma vo' mutar bevanda

questa volta a capriccio.

Ohimè tutto m'arriccio,

spirto, fiato non ho.

Versa la botte il vin, chi la sbucò?

Qual Licurgo maligno

spande d'Osiri per disprezzo il sangue?

A tue ferite o doglio il meschin langue.

Bottaccio empito sei.

Vi lascio in cura il resto amici dèi.

Dolce vita

saporita

del mio cor

buon licor

che vuoi tu, che vuoi lasciarmi?

Vieni vieni a rifiorarmi

entra, entra: ti ricevo.

Fiasco mio gorgoglia, io bevo.

Qual insipido è questo?

Io sono assassinato,

son morto avvelenato.

Ah meschinaccio me

acqua, acqua quest'è.

Da tosco tale infetto

da me bottaccio reo lontan va', va'.

Acqua nel ventre mio non entrerà.

Per un bicchier divino

tutto il mare darei

de' ricchi Nabatei.

Vo' bevendo morir nella cantina,

e farmi seppellire entro una tina.

Ma chi beve, non more;

l'anima è il sangue, e 'l vino

forma il sangue più fino.

Dunque chi beve più, viver più deve:

al vino, al vin; che vive più, chi beve.

Fine del libretto.

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Locandina Prologo Scena unica Atto primo Scena prima Scena seconda Scena terza Scena quarta Scena quinta Scena sesta Scena settima Scena ottava Scena nona Scena decima Scena undicesima Scena dodicesima Scena tredicesima Scena quattordicesima Scena quindicesima Atto secondo Scena prima Scena seconda Scena terza Scena quarta Scena quinta Scena sesta Scena settima Scena ottava Scena nona Scena decima Scena undicesima Scena dodicesima Scena tredicesima Scena quattordicesima Scene inserite nella favola dopo la scena quarta dell'atto secondo Atto terzo Scena prima Scena seconda Scena terza Scena quarta Scena quinta Scena sesta Scena settima Scena ottava Dopo la scena terza dell'atto terzo