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L'Aretusa

L'ARETUSA

Favola in musica.

Versione sintetica a cura di www.librettidopera.it.

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Libretto di Ottaviano CORSINI.
Musica di Filippo VITALI.

Prima esecuzione: 8 febbraio 1620, Roma.


Personaggi:

DIANA fa il prologo

soprano

ALFEO fiume

contralto

ARETUSA ninfa

soprano

FLORA ninfa

soprano

FILENO pastore, padre di Aretusa

contralto

DORINO fratello di Aretusa

contralto

SILVIO pastore

sconosciuto

CARINO pastore

contralto

AMINTA pastore

contralto


Coro di Pastori.



Illustrissimo...

...e reverendissimo signor patron colend.

Udì v. s. illustrissima questo passato Carnovale (in casa di monsignor Corsini) la favola d'Aretusa, ma non conobbe me per autore di quella, che per la umile e bassa fortuna non ebbi ardire pararmele innanzi. Ma avendo io all'ora conosciuto dalle sue cortesi maniere, e compreso da benignissimi ragionamenti da lei con altri principi sopra detta favola tenuti, che ella ne prese diletto, ho pensato esser buon mezzo per dare a v. s. illustriss. notizia di me, il metterla alla stampa sotto la sua magnanima protezione, acciò che il venirgliela a presentare aprisse a me la strada di baciarle con ogni riverenza la veste, e a' suoi eccellenti e rari cantori desse comodità di poter nell'ore meno impedite, rinnovare alcuna volta nel petto di v. s. illustriss. parte di quel piacere che all'ora provò. Né credo di dover essere tacciato di troppo ardire, essendo dovuta quest'opera a lei sola, sì perché la sua maggior bellezza consiste in esser stata onorata dalla presenza di lei, sì anche perché non ad altro fine si mosse monsignor Corsini a farla recitare, che per distrarre (per breve spazio di tempo) l'animo di v. s. illustr. dalle continue cure de' più importanti negozi della cristianità, con onesta ricreazione in quei giorni che da tutti si sogliono in passatempi spendere e consumare; onde spero, che v. s. illustr. userà in perdonarmi l'innata sua benignità e bontà, e gradirà il mio devotissimo affetto, mentre quello dà e offerisce che più può, e mentre più vorrebbe potere per più offerire, insieme con l'osservantissima mia servitù; e per fine profondamente inchinandola, prego Dio benedetto per la conservazione di v. s. illustr. Di Roma a dì 30 di Maggio 1620.

Di v. s. illustr. e rever.ma

umiliss. divotiss. e fideliss. servitore

Filippo Vitali

Al benigno lettore

Eccoti alla stampa (cortese lettore) la favola d'Aretusa, la quale, benché fatta recitare in musica da mons. Corsini in casa sua solamente per dare all'animo dell'ill. e rev. sig. cardinal Borghese ne' giorni carnovaleschi qualche breve e onesto alleggerimento dal continuo peso de' negozi pubblici di tutta la cristianità, fu poi, permettendolo s. s. ill.ma, fino a nove volte per soddisfazione della corte rappresentata: onde sono andato sovente meco medesimo rivolgendo come esser potesse, ch'ella non che venire a noia, ma più sempre piacesse, in tanto che ogni volta maggior popolo concorresse per vederla, e molti ancora più d'una e più di due volte si compiacettero di tornarvi. Volentieri crederei esser questo avvenuto per l'esquisitezza della poesia, s'io non sapessi certo che chi l'ha composta (1) mai non ebbe familiarità con le muse di Parnaso, alle quali ne anco in questa occasione avrebbe dato molestia, se egli non fosse stato maggiormente da me molestato in guisa che per togliersi dagli orecchi così fatta seccaggine, gli fosse forza metter mano in una pasta non mai prima da lui maneggiata, e con questo con tanta fretta per la strettezza del tempo, che quando bene egli fosse stato perito e esperto poeta, e avesse per suo diletto e per sua elezione questo pensiero nella mente concepito, non perciò avrebbe potuto partorir cosa che tanto piacesse, come questa è piaciuta. Vorrei ancor poter con verità dire esser questo proceduto dall'eccellenza della musica, ma se giro la mente alla debolezza del mio ingegno, conosco manifesto non si convenire a lui questo vanto, massime in Roma, dove per esser città abbondantissima di perfettissimi maestri in questa professione, ogni giorno si sentono opere di stupore, senza che anch'io sono stato dalla fretta troppo sospinto e premuto; il che potrai agevolmente comprendere, lettore, dal sapere che si cominciarono a metter insieme le parole a' 26 di dicembre 1619, e fu poi per la prima volta, alla presenza di nove cardinali, recitata l'ottavo giorno di febbraio 1620, di sorte che in 44 giorni fu principiata e finita la favola, trovata la musica, distribuite e imparate le parti, esercitati e provati i recitanti, e finalmente, rappresentata. E, si vuol dunque quasi che per forza conchiudere non doversi questa lode ad altro che al proporzionato e leggiadro apparato della scena e degli abiti, alla graziosa e decente maniera degli istrioni, alla novità dello stile recitativo in musica.

Era nella scena figurata l'amenità delle selve e de' campi dell'Arcadia, la quale da Pompeo Caccini con diligenza dipinta, e opportunamente per di dentro illuminata, al cader della tenda pienamente soddisfaceva a gl'occhi degli spettatori, la qual sodisfazione era mantenuta dalla vista degli abiti pastorali molto rilucenti per le loro dipinture, e per l'argento delle tocche delle quali erano fatti, e ravvivata nel fine con la venuta di Diana dal cielo sopra una nuvola molto artificiosamente condotta. Gl'istrioni quali siano stati sarà facile immaginare, se considererai che in niuna parte del mondo più che in Roma è maggior comodità d'avere eminentissimi cantori. Essi davano alle parole ed al concetto coi gesti vivissimo spirito; tutti i lor movimenti erano graziosi, necessari e naturali, e avresti nei loro volti conosciuto ch'essi sentivano veramente nel cuore quelle passioni che con la bocca spiegavano. Pompeo Caccini, di sopra nominato, figliuol di quel Giulio Romano inventor (che ben lo posso dire) delle grazie nel canto e della vaghezza nelle musiche a aria, ancorché vestisse la persona d'un freddo fiume, si mostrò nondimeno così caldo dalle fiamme d'amore vers'Aretusa, che accese in ciascuno pietà dei suoi affanni. Gregorio Lazerini, eunuco ai servizi dell'eccellentissimo sig. Francesco Borghese. Generale di santa chiesa, con quella sua veramente angelica voce mentre finto Aretusa rappresentò il zelo della sua castità, e mentre in forma di Diana dimostrò la celeste benignità, ebbe chiaro e notabil applauso da tutto il teatro. Malagevol era in Francesco Rotondi giudicare se fusse in lui, mentre recitava la parte di Carino, maggiore la sicurezza del canto, la franchezza del modo, o veramente la grazia. Mario Savioni, allievo del sig. Vincenzo Ugolini, maestro di cappella di S. Luigi de' Franzesi, fanciulletto in età di 12 anni, in persona di Dorino, fratello d'Aretusa, fece conoscere con l'affettuoso cantare e con l'attitudine dei gesti quanto buon maestro egli avesse avuto e quanto fossero in lui gli anni del senno avanzati. Flora così bene gli onesti femminili costumi d'una ninfa poneva con delicata e franca voce innanzi agli occhi, che avresti detto esser veramente donzella e non già Guidobaldo Bonetti, eunuco a' servizi del sig. marchese Gio. Battista Mattei. D'Aminta vorrei tacere, perché quanto bene egli raccontasse il caso d'Aretusa solo il può intendere chi lo sentì: espresse Lorenzo Sanci de' Banchetti in quel personaggio più d'una volta a viva forza le lagrime degli spettatori con tanto garbo, che largamente confermò l'opinione che s'aveva di lui, che fosse eccellente cantore. Francesco Ranani nella parte di Fileno, padre d'Aretusa, pianse nei suoi dolori, e fece per compassione piangere chi 'l sentiva, e nelle sue allegrezze negli spettatori ancora trasfondeva piacevol contento così bene che reggeva e moderava la sua voce, e coi gesti opportunamente l'aiutava. Gli altri pastori del Coro non déi credere che fossero a questi inferiori.

Tutti insieme adunque, accompagnati secondo il bisogno dell'armonia di due cimbali, di due tiorbe, di due violini, di un liuto e d'una viola da gamba, facevano così bel sentire, che a niuna altra cosa che a loro si può attribuire il tanto diletto che ciascuno da questa favola ha pigliato. Non ha dubbio ancora che tutte le cose nuove grandemente piacciono all'animo degli uomini, i quali desiderosi per natura di sempre imparare, par loro in quella non più udita imitazione di conseguirlo. Questa maniera dunque di cantare con ragione si può dir nuova, poiché nacque in Firenze non ha molti anni dal nobil pensiero del sig. Ottavio Rinuccini, il quale essendo dalle muse unicamente amato e dotato di particolar talento nell'esprimere gli affetti, avrebbe voluto che il canto più tosto accrescesse forza alle sue poesie che gliela togliesse, e discorrendo col sig. Iacopo Corsi bo. me., mecenate di tutte le virtù e intendentissimo di musica, come fosse da fare che la musica non solamente non impedisse l'intender le parole, ma giovasse ad esprimer maggiormente e più vivamente il senso e il concetto loro, chiamati a sé il sig. Iacopo Peri e il sig. Giulio Caccini eccellentissimi maestri di canto e di contrapunto, tanto insieme divisarono, che credettero averne trovato il modo. Né s'ingannarono: perché recitata in questo nuovo stile la favola di Dafne, poesia del detto sig. Ottavio, in Firenze in casa del sig Iacopo Corsi, alla presenza degl'illustrissimi sig. cardinal dal Monte e Montaldo e de' serenissimi granduca e granduchessa di Toscana, piacque per sì fatto modo a tutti che gli lasciò attoniti di stupore. Questo parto poi crebbe notabilmente in bellezza nell'Euridice, opera degl'istessi artefici e nell'Arianna, del sig. Claudio Monteverde oggi maestro di cappella di S. Marco di Venezia, il quale ricevendol, anch'egli concorse in abbellirlo e adornarlo dei suoi ricchissimi e peregrini pensieri. Ed ora ch'egli è pervenuto in questa città, che ha prodotto i Soriani, i Giovannelli, i Teofi, padri, si può dire, del contrapunto e della musica, e infiniti altri mirabili ingegni e compositori, si dée sperare che sarà da loro a sublime perfezione condotto. Dovendosi dunque, comme ho detto, tutta la lode alla novità dello stile, all'apparato della scena e all'eccellenza dei cantori, e non ad altro, malvolentieri mi son lasciato consigliare di darla alla luce; ma m'è convenuto in fine soggiacere alle domande di chi non l'ha potuto vedere, e de' recitanti istessi, de' quali come soggetto dove hanno esercitata la loro virtù desiderava ciascuno di averla. So certo, lettore, che se io potessi stampare la grazia che i sopradetti autori le davano, non occorrerebbe che io preoccupassi con iscuse le tue orecchie, ma poi che questo non è permesso, riguarda più all'intenzion mia, che all'eccellenza dell'opera, che tu rimarrai appagato ed io con obbligo alla tua discrezione. Dio ti guardi.

Filippo Vitali

(1) L'autore delle parole fu mons. Ottavio Corsini

Prologo
Scena unica

Diana.

Sacrati eroi, che l'onorata chioma

d'ostro, e più di virtù l'alma cingete,

e con opere eccels'ognor rendete

più chiaro il Tebro e più superba Roma.

Donne reali, onde l'idea sovente

di celeste beltà natura ha tolto,

che Vener ne begl'occhi e nel bel volto

sembrate, e me nella pudica mente,

io, gran figlia di Giove e di Latona,

io, che spiro onestà nel vostro petto,

so che mirar vi fia nobil diletto

come s'ha contro Amor guerra e corona.

La vergin Aretusa oggi vedrassi

divenir per pietà liquido nume,

fuggendo per l'innamorato fiume

sotterr'ancor con disusati passi.

Il ciel, mortali, è di virtù mercede

ed è rara virtù vincer'Amore,

e chi vincer lo vuol, per tempo il core

al ciel rivolga ed alla fuga il piede.

Atto primo
Scena prima

Alfeo.

Ben sei possent'Amore

nel cielo e nella terra:

ogni belva più fera

dalla tua forza è vinta.

Ogni nume celeste a te si rende.

Amor dell'auree stelle

il regnator sovrano

più volte a te soggiacque

né valse al gran tiranno

del tenebroso Averno

contr'i tuoi colpi di fierezza armarsi.

In qual parte non sono,

Amor, dei tuoi trionfi

alti vestigi impressi?

Benché fanciullo ignudo,

mirabil cosa oprasti

in ogni età del mondo, in ogni loco;

ma questo è del tuo foco

il miracol maggiore:

che possa in mezz'all'acque arder un core.

Ahi, che pur tropp'è vero,

et io ne fo la prova,

misero Alfeo, che giorn'e nott'avvampo

per la bell'Aretusa,

né trovo all'ardor mio fra l'onde scampo.

Or io, deposto l'urna

e lasciat'al governo

dell'acque mie le fid'umide figlie,

me n' vengo a queste selve

ove la ninfa mia,

il sol degl'occhi miei, spesso ritorna.

Avrò forse ventura

di ritrovarla sola

e di coglier coi preghi o con la forza

delle sue labbra l'odorate rose,

desiate conforto alle mie pene.

Favorite, vi prego,

l'amoroso pensiero, amate selve;

così fra vostre piante

ingiurioso ferro mai non fieda,

così non venga mai Borea orgoglioso

a far de' vostri onori indegna preda.

Scena seconda

Aretusa, Flora.

ARETUSA E FLORA

Vaga figlia di Latona,

che sei'n cielo più d'ogni stella

chiara e bella,

di splendor porti corona.

Tu, qualor fra noi discendi,

liete rendi

nostre dolci alme contrade

di tuo lum'e tua beltade.

ARETUSA

Mentre tu nei campi nostri

fra le ninfe amica stai,

l'ira mai

non temiam di feri mostri.

Anzi andiam arditi al varco,

teso l'arco,

ov'apporti più spavento

fera belva al nostr'armento.

FLORA

Nostri studi e nostri onori,

bella dea, quando ti piaccia,

son la caccia;

né ci cal d'estivi ardori,

e del fredd'orrido verno

facciam scherno,

purché dain'o fier cignale

fort'atterri il nostro strale.

ARETUSA E FLORA

D'esser tue sol ci vantiamo

consecriamt'i nostri spirti

per seguirti

mentr'ancor vive spiriamo;

pria che mai cangiar tal sorte,

cruda morte

con la falc'empia e spedita

tronch'il fil di nostra vita.

FLORA

Saett'il dardo mio cignal od orso,

carissim'Aretusa,

o mi chiami fuggendo

veloce cervo al corso,

ché sol quest'è mia gioia,

ogn'altra affann'e noia,

questi diletti stimo assai più degni

che ricca posseder cittadi e regni.

ARETUSA

Albergh'altri nel seno

desio d'argento e d'oro,

stimi dolce tesoro

altri di due begl'occhi il ciel sereno,

ch'io sempre il cor avrò di gioia pieno

mentre nei boschi io creda

di poter saettando

nobil gloria acquistar e nobil preda.

FLORA

A te diede la cura

nostro drappel fiorito

di guidarn'alla caccia;

così fosse nel ciel mio prego udito

com'io diletta amica,

bramo di ricca preda

felice tua fatica.

ARETUSA

Non fa cauto timore

le timidette belve

asconder delle selve

in sì profondo orrore,

né fa degli aspri monti

o delle cupe valli

luogo insegnar sì fiero e dirupato,

né s' chiuso o celato,

ove non s'apra il varco

a questa man, a questo piè la brama

d'adornar il mio stral di nuova fama.

Spero che mille schiere

di snelli capriol veder farotti

e con tua gran piacere

altrettante seguir veloci fere.

FLORA

Megl'è dunque ch'al fonte

ratte n'andiam, ch'omai

delle fide compagne

ivi n'aspetterà l'amico stuolo

ARETUSA

Mira che non ancora

dell'antico Titon l'amata sposa

le vie del cielo indora,

anzi ciascun riposa,

ch'abbiam per tempo assai

le piume abbandonate.

FLORA

Ma chi brama acquistar famosa loda

rompa del sonno i lacci

e vincitor lo scacci.

Egli sopra i miei lumi

nella passata notte

non ha sparso giammai

col verde ramo suo l'onde di Lete.

ARETUSA

A me la desiata quiete

rapì volando dall'eburnea porta

soavissimo sogno.

FLORA

Sono i sogni talor verace scorta

di futuri contenti,

perché le nostre menti,

ove degli altri sensi

sta l'adoprar da forte sonno oppresso,

scorgon il ver nelle nud'ombre impresso.

Ma di che t'insognasti?

ARETUSA

Vinta dal gran calor

e lassa di seguir cervo fugace,

pareami star ignuda in mezz'all'acque;

quivi desio mi nacque

di gareggiar notando

coi timidetti pesci:

ma mentre con la man l'onda sospingo,

d'irreparabil forza

sento tirarmi al fondo.

E già nei chiari umor tutta m'ascondo,

quando per sua pietate

la nostra amata dèa,

cui calse di mia vita,

a me si mostra e con sua man m'aita.

Io piango sbigottita

temendo ancor la morte,

dolente di mia sorte,

ella mi dice allora:

«Perché di morte più non tema il gelo,

vienne, Aretusa mia, meco nel cielo.»

Io per l'aer con essa allor n'andai

e piena di piacer mi risvegliai.

FLORA

L'amor, car'Aretusa,

che della bella dèa ti sta nel core,

e 'l chiaro fresco umore

del fonte ove del sol fuggiam la sferza,

mentre col sonno scherza

nella più quieta notte

l'immagine del giorno,

fanno nel tuo pensier dolce ritorno.

Ma senti omai i pastori

da' mattutini albori

chiamati alle fatiche.

Scena terza

Carino, Flora, Aretusa.

CARINO

(canta dentro)

Ecco l'alba ne viene

sul bel carro dorato,

pastori, al prato

pastori, al prato.

Ella del ciel serene

le vie sparge di fiori,

su su, pastori

su su, pastori.

Fugge innanzi ogni stella

della notte con l'ore

fugg'ogni orrore,

fugg'ogni orrore.

Vedi, deh, come è bella,

empie il sen di viole:

eccon' il sole

eccon' il sole.

ARETUSA

Pastor, s'egli pur lice,

deh, dimmi in sul mattino

ove ne vai felice

provocando col canto ogni augellino?

CARINO

Il dì, ninfa, n'invita

menar le pecorelle

su quest'alta pendice

riccamente vestita

di fresch'erbette e belle.

Ma, voi, ché più tardate

che già comincia al fonte dell'alloro

venir cantando delle ninfe il coro?

FLORA

Or su dunque, Aretusa,

ratto moviamo il piede,

ché vien men'ogni scusa

e di Febo si vede

omai la bella face.

ARETUSA

Io vengo, e tu, pastor, rimanti in pace.

CARINO

Deh, compagni, correte,

che già di raggi adorno

risplende il giorno,

risplende il giorno.

Deh, pur come solete,

ove l'erba verdeggi

menate i greggi

menate i greggi.

CORO

Noi venghiamo al caro invito

per menar i nostri armenti

dove possino contenti

pascolar prato fiorito.

CARINO

Questi son nostri diletti,

sì giocondi a tutte l'ore,

che mai tali alto signore

non trovò ne' regi tetti.

DORINO E SILVIO

Qui non splende argento od oro,

né si veste altera seta,

innocente vita e queta

sol si stima bel tesoro.

Qui non cela un finto riso

d'odio occulto aspro veneno,

ma quant'è racchiuso in seno

legger puoi scritto nel viso.

CORO

(a sei)

Qui non teme che l'estingua

pastorel candido e puro,

mentre ei gode più securo,

col mentir perfida lingua

AMINTA

Dell'invidia il fero dente

qui non morde i nostri cori,

che non s'alza unqu'agl'onori

arte vil d'indegna gente.

PASTORE DEL CORO

Spenga pur la sete mia

d'acqua fresca un rivo chiaro,

e vie più d'ambrosia caro

puro latte il cibo fia.

CORO

Purché mai di rio pensiero

tempestosa altra procella

calma turbi così bella

del mio sen puro e sincero.

Atto secondo
Scena prima

Fileno solo.

Deh qual nuova tristezza

qual noioso pensier il cor m'ingombra!

Cosa non è ch'io miri,

onde ratta non voli

trista cagion di pianto agl'occhi miei.

I fior, che lieti fanno

rider i prati ameni

e le bell'aure intorno

rendon più ricche di soavi odori,

traggon dagli occhi miei pietosi umori.

Il grato mormorio

de' limpidi cristalli,

ch'addolcendo ogni pena

i più dolenti spirti

richiama alla quiete,

di dolorose cure

sveglia nel petto mio fere punture.

S'io vado al bel tesoro

de' miei più cari armenti

per mitigar l'affanno,

non so come né donde,

ma sol, misero, sento

correr nell'alma mia nuovo tormento.

Figlia degl'occhi miei, pupilla amata,

figlia, parte di me più dolce e cara,

non so qual nuov'amor, nuova pietade,

s'accenda nel mio seno,

di seguir l'orme tue,

di non lasciarti sola.

Non so qual mio destino

con timoroso piede,

mi mena a ricercarti;

forse per entro il core,

presago d'alcun mal, meco favella.

Ma la compagna sua, Florida bella,

veggio sola venire:

ella mi saprà dire

ove volger io debba

per tosto ritrovarlo il debil fianco.

Scena seconda

Flora Fileno.

FLORA

Per ritrovarti invano,

carissima Aretusa,

io cerc'ogni sentiero,

ed oramai dispero

di prima rivederti

ch'all'imbrunir del cielo.

FILENO

Se dio de' tuoi desiri

paga ti faccia e lieta,

Flora gentil, deh, dimmi

ov'Aretusa mia fermi le piante.

FLORA

Allo spuntar dell'alba,

con mille veltri e mille acuti dardi,

con l'altre ninfe insieme

nella selva n'entrammo.

Mentre quivi ciascuna,

prega dei boschi il nume

che la man e lo stral regg'al ferire,

ed ecco a noi venire

saltando un capriolo,

che, visto da tua figlia,

sì veloce al fuggir

si diè pe 'l bosco,

ed ella a seguir lui così leggeri,

ch'apparir è men ratto in ciel baleno.

Moss'il piè per seguirla:

ma la selva è sì folta

che smarrito ho la traccia;

onde gelosa sono

che senza me ne vada.

FILENO

Togli, deh, togli, o dio,

gli sfortunati auguri.

Or, se ti piace meco

tornar nel bosco,

cercheremo ogni speco

andrem spiando ogni orma.

Scena terza

Aminta, Carino, Fileno, Flora.

AMINTA E CARINO

(cantano dentro)

Di beltà superbo pregio

chieggia a dio nel suo pregare

chi vuol l'alma incatenare

di famoso illustre fregio:

non ha cor tanta durezza

che no 'l rompa la bellezza.

FILENO

Ma qual voce sonora

risuona in questa parte?

Fermian, Flora, le piante

ché, mosso a' nostri preghi,

forse Giove n'apprest'alcun conforto.

AMINTA E CARINO

Non sa poi gli aspri dolori

che n'apport'a noi mortali,

non sa poi gli acerbi mali

con che ancide il seno e i cori:

è beltà velen perverso,

che n'attosca l'universo.

Sallo Grecia e 'l re troiano

che dell'alma sua cittade

per la troppo gran beltade

vide andar le mura al piano.

È tesor che chi 'l possiede

vicin sempre il suo mal vede.

Ecco Dafne che s'affanna

per fuggir, e lauro è fatta

e Siringa ne va ratta

nel palude a farsi canna;

sento ancor d'Inaco a' liti

della figlia i bei muggiti.

(qui escono fuori)

Dunque ognun con puro affetto

porga sol preghiere a dio

che saprà prudente e pio

di contento empiers'il petto:

questi sieno i voti miei

d'onorar solo gli dèi.

FILENO

Ohimè, Giove, ti prego,

non sia, deh, mai non sia

la beltà d'Aretusa infaust'esempio,

ma tu, dolce Carin, dove ne vai?

CARINO

In questo poggio ombroso

a pascolar l'erbette

il gregge abbiam lasciato

e venivamo al prato.

FILENO

Pastor, s'agl'occhi vostri

d'Aretusa mia figlia

avvien ch'il bel sembiante oggi si mostri,

deh, cortesi le dite

(così le vostre voglie

favorisca dal ciel l'eterno dio)

che pront'a consolar l'affanno mio

pietos'accorr'alle paterne soglie.

E noi, Flora, seguiamne

questo più angusto calle

che forse la vedrem giù nella valle.

Scena quarta

Carino, Aminta, Aretusa.

CARINO

Parvemi, Aminta mio,

che 'l nostro buon Fileno

abbia nascosa in seno

doglia crudel che lo tormenta e punge;

ma di qua vien non lunge

la candid'Aretusa.

ARETUSA

Carin, in questo prato

forse veduto avresti

volando trapassar ferit'un cervo?

CARINO

Ninfa, già non vid'io fera selvaggia

con fuggitivo piede

di questa bella ed odorata piaggia

segnar il verde smalto,

temendo di tua destra il duro assalto:

dunque, deh, fren'il corso e volg'i passi

ver'il nativo tetto

ch'il tuo padre diletto

tenero di tuo ben più dell'usato,

con insolito affetto

ti cerca errando;

ed or a noi impose

che le cure gelose

ti aprissimo del suo timido petto,

se le piante leggiadre

ponevi a sorte in questo prato erboso.

ARETUSA

Ecco che pronta io vengo. Ah, caro padre!

Dell'antico tuo sen l'alto riposo

non turbi mai per me pensier noioso.

Scena quinta

Alfeo, Aretusa, Aminta, Carino.

ALFEO

Felicissimo incontro!

Oh fortunato giorno!

A che di ferr'armata

carchi la bianca mano,

bellissima Aretusa,

se negl'occhi tu porti

acutissimi strali

onde ferisci i cori?

Ben sallo questo sen che langue e more!

Lascia, lascia le fere:

più degna preda alle tue braccia è presta.

ARETUSA

Nel petto mio sol questa

cura pudica alberga,

di saettar o capriolo o cerva;

altra preda non voglio o vesto altr'armi.

ALFEO

Ninfa, s'a' miei desiri

volgi benigna il core,

dell'acque mie farotti alta regina,

dell'amato tuo padre

farò fecondi i campi,

avrai per servo un dio.

Le naiade vezzose

verranno a schiera a schiera

con preziosi doni

per arricchirt'il grembo,

né men ti verrà mai di gioia un nembo.

ARETUSA

Umil agl'alti dèi

reverente m'inchino,

né poss'il mio pensiero

lungi da terra alzare.

Son di Diana ancella,

né penso d'esser bella,

ma della fede mia

serbo costant'il pegno.

Ma tempo è di partir, lasciami andare.

ALFEO

Dunque sarai sì sorda

che le preghiere mie non voglia udire?

Sarai dunque sì cruda

che della pena mia pietà non senta?

Sarai dunque sì fera

che sanar tu non curi

la piaga che mi fest'in mezz'all'alma?

Deh, vieni, amata ninfa,

corrim'in queste braccia,

che già non t'ha sì cara

l'alma dèa della caccia,

com'io t'avrò, ben mio;

né romperai la fede,

ch'ove è forza maggiore,

colpa non è d'un core.

ARETUSA

A te, Diana amica,

chieggo securo scampo;

deh, fammi nel fuggire

veloce sì, come saetta o lampo.

ALFEO

Crudel, tu fuggi? Aspetta, anima mia!

CARINO

Seguela Alfeo correndo, ohimè, che fia?

Deh, lor va' dietro, Aminta,

e se puoi, senza offesa

del nostro fiume, ohimè, porgile aita.

AMINTA

Carin, io vado, addio.

CARINO

A ritrovar anch'io

l'infelice Fileno

moverò il passo, d'amarezza pieno.

CORO

Chi tue forze non intende,

miri, Amor, gli effetti tuoi,

e vedrà quel che far puoi

in mill'opre tue stupende:

poi dirà che fra gli dèi

tu 'l maggior di tutti sei.

Questo ciel di lumi acceso,

con quant'è dentro a lui chiuso,

in abissi atri confuso

era informe inutil peso

tu benigno e tu fecondo

ne traesti in luce il mondo.

Prima fu tua nobil prole

la grand'alma universale,

onde prend'aura vitale

la corporea immensa mole.

Producesti i giri eterni:

e le stelle e gli elementi,

e con lor tutti i viventi

che sol tu reggi e governi:

dando all'uomo, ad amar nato,

ch'arda insiem e sia beato.

Né sol nutri in uman petto

somma gioia ardendo, Amore,

ma gli dèi non puon' maggiore

ch'il tuo fuoco aver diletto:

onde in terra e'n ciel non s'ode

altra pari alla tua lode.

Atto terzo
Scena prima

Dorino, Silvio.

DORINO

Dove, dove mi volgo?

Chi mi t'insegua omai, dolce sorella?

Da questa parte in quella

io pur giro e m'avvolgo

né ritrovo però l'ombre bramate.

Chi di voi per pietate,

care piante beate,

mi mostr'il ben ch'io cerco e ch'io desiro?

Invan piango e sospiro,

invan da queste sponde

sol al mio lagrimar Eco risponde.

Com'ardirò, deh, come

rimirar il tuo volto, o padre mio.

Se sol io vengo? Oh dio,

padre, deh, che dirai

allor che mi vedrai

solo venir senza il tuo caro pegno?

E pur misero e solo a te ne vegno.

SILVIO

Com'esser può che le bellezze frali

d'una ninfa terrena

empian d'amara pena

il sen degl'immortali?

Come può d'una ninfa il vago lume

accender mai d'amor fiamma in un fiume?

Ma quel non è Dorino,

che fissato nel suolo,

piange carco di duolo?

DORINO

Ah, caro Silvio amato,

or qual mi varrà scusa

che solo e scompagnato

vengo senz'Aretusa?

SILVIO

Appena il piè portato

fuor della soglia avesti,

ch'il nostro Carin giunse

e d'Aretusa bella

recò trista novella

ch'il cor d'ogni pastor trafisse e punse.

DORINO

Ohimè, che tua favella

il sen m'ha trapassato!

SILVIO

Disse ch'innamorato

di sua beltà divina

Alfeo, tutt'infiammato,

per la selva vicina

lei ch'innanzi fuggia

con dolce supplicar ratto seguia.

DORINO

Pieghiamo, amico, le ginocchia a terra,

voltiamo a Delia i preghi.

Ch'alla sua ninfa oggi pietà non nieghi

nell'impudica guerra,

ché chi ricorre al ciel giammai non erra.

DORINO E SILVIO

O dea, che tutt'avvampi

d'onesti e bei desiri,

dagli stellati campi

odi i nostri sospiri.

Nume benigno e santo,

odi pur dei tuoi servi il flebil canto.

Tu che del cieco arciero

con invitto valore

disprezzi l'arco altiero,

spegni d'Alfeo l'ardore

e con fido soccorso

d'Aretusa veloce impenna il corso.

SILVIO

Alziamci ormai, Dorino,

che qua ne vien l'addolorato vecchio,

di bontà nell'Arcadia unico specchio.

Scena seconda

Fileno, Flora, Carino, e Coro.

FILENO

Giov'immortal, che dagl'eterni chiostri

con immutabil legge

reggi, giusto signor, la terra e 'l cielo,

se mai con puro zelo

i tuoi nobili altari,

devoto e riverente,

sparsi d'incenso e mirra,

deh, per pietà, ti prego

sia lungi da mia figlia

ogn'illecita forza,

ogn'impudico oltraggio.

FLORA

Consiglio è d'uomo saggio

ne' perigliosi incontri,

Fileno amico, l'invocar gli dèi.

Ma d'Aretusa mai

non entri nel tuo petto

tema indegna o sospetto.

FILENO

Ah, d'immortale amante

le lusingh'e l'amor chi fia che sprezzi?

CARINO

Chi ne' casti pensieri fida e costante,

d'Alfeo sdegnando i vezzi

per veloce fuggir voltò le piante.

Quai preghi o quai scongiuri

l'innamorato fiume

tralasciò lusingando?

Non è di verdi foglie

sì ricca questa selva,

quanto fu di promesse

il suo dolce pregare.

Io 'l vidi lagrimare

et udii sospirando dir parole

da intenerir ogni più duro sasso.

Ma d'Aretusa tua

l'ammirabil virtute

stette più salda assai

a' preghi et a' lamenti

ch'antica quercia al tempestar de' venti.

FILENO

Ma se sdegnato intanto

cangerà in ira il pianto,

farà debil contrasto

al fero minacciar donzella inerme.

FLORA

Ma in generoso germe

di così illustri padri,

ov'il pregar non vale

varran men le minacce.

FILENO

Sì, forse, ov'allo sdegno

non fia la forza eguale.

FLORA

Conrtro sì vil disegno

scudo ne fia Diana.

Ella possent'e pia,

ogn'ingiuria da lei terrà lontana.

CARINO

Veggio di qua venire

con tardo passo e lento

il nostro caro Aminta:

saprem da lui, Fileno,

della tua figlia il nuovo caso a pieno.

Scena terza

Aminta, Fileno, Flora, Carino, e Coro.

AMINTA

O sfortunato amante!

Sventurata fanciulla!

Vostr'infelice sorte

a lagrimar m'invita.

FLORA

Pastor, tu piangi? E ti si legge in volto

il dolor che nel sen celi sepolto.

Scopri, deh, scopri a noi

la pietosa cagion de' sospir tuoi.

AMINTA

Ah, potess'io tacere

ah, foss'io cieco stato:

purtroppo saperai, Flora, gentile,

dell'amata Aretusa il duro fato.

FILENO

Fors'è mia figlia morta?

Chi mi consola, ahimè, chi mi conforta?

Ohimè, pastor amico,

il tuo parlar e il tuo tacer m'ancide.

AMINTA

L'alma da me divide

il vederti, Fileno, e 'l cor s'agghiaccia.

Parlerò? Tacerò? Tutto pavento.

CARINO

Aminta, omai ti piaccia

o darci morte o trarci di tormento.

AMINTA

Per la selva frondosa,

dell'odiato amante

l'amoroso pregar fuggia veloce

la candida Aretusa;

seguiala Alfeo correndo,

e con pietosa voce

ad arrestare il corso

umil la supplicava;

ella chiedea soccorso

fissando in ciel le luci

di Laton'alla figlia,

e già tutta anelante

impallidia nel volto,

il sangue al cor raccolto.

Sentia venirsi meno,

quando disciolse il freno

al pianto et ai sospiri,

sospir ch'alta pietate

acces'avrian in freddo marmo algente.

Cadean a mille a mille

sulle guance rosate

le lagrime sì belle,

ch'avrian di feritate

spogliato della Libia ogni serpente.

Giunse frattanto Alfeo,

e, pien d'ardente amore,

per far dolce catena

al candidetto collo

già già stendea le braccia.

Stringer pens'Aretusa,

ma un'atra nube abbraccia.

Dell'alta novitate,

colm'il sen di stupore,

mentre non sa che farsi,

ed ecco dileguarsi

la nube che il suo ben gli aveva conteso.

Né però d'Aretusa

ved'egli il bel sembiante

ma sol nel verde suolo

vide, misero, invece

di quei begl'occhi e dell'amata fronte,

scaturir gorgogliando un vivo fonte.

Percosso allor da non previsto duolo,

fermossi alquanto immobile e tremante,

poi dal grave letargo infin resorto,

con parlar fioco e morto,

che non disse o non fece?

Piangendo amaramente

dal profondo del cor trasse un sospiro

sì caldo e sì cocente,

che d'ogni aspro martiro

fatto infelice ostello

ben parve in seno aver un Mongibello.

Poscia da' mesti suoi dolenti lumi,

quasi nuove urne sue, versò due fiumi,

sciolse la lingua in dolorosi accenti:

«E questi (disse), Amor, sono i contenti

ch'allor mi promettesti

che nel freddo mio petto

diedi alle fiamme tue fido ricetto?

Del grand'impero tuo son dunque questi

i diletti e le gioie?

Di mai più goder pace

nel viver che m'avanza,

tuffar in gelide acque ogni speranza?

E tu, ninfa gentile,

dolce cagion delle mie amare pene,

le vaghe piagge amiche,

le folte selve amene,

e le campagne apriche

mai più non rivedrai?

Per me dunque sarai

priva di questa luce?

Io sarò stato duce,

troppo importuno amante,

alla tua dura sorte; ah cielo! Ah dio!

Fulminate il castigo all'error mio.»

Quindi prostrato in terra,

più volte alle bell'acque

diede ben cento baci,

e con voci mestissime soggiunse:

«Chiare fresch'e dolci acque,

poscia ch'al mio fallire

non veggio egual martire,

gradit'almen cortesi

acque che tant'offesi,

questo mio cor ch'in pianto si distrugge

per voi seguir e da me parte e fugge.

Misero, ben vorrei

poter dagl'occhi miei,

vittima a tant'offesa

fra le lagrime mie l'alma versare;

vorrei ch'il duol, ch'a sospirar mi mena,

con nuovo danno e pena

movesse nel mio sen fiamma vorace,

che con dura contesa

delle bell'acque sue limpid'e care

il letto mio rendesse arido e secco;

e perché senza te viver mi spiace,

queste membra posare

vorrei fra mille pene in grembo a morte.

Ma la mia cruda sorte

il vieta, ahi lasso, ond'io

quel che il ciel mi concede,

quel che non puote contraddir fortuna,

in pegno di mia fede

donerotti pentito

con freddi baci intanto

largo tributo di perpetuo pianto.»

E tornando a baciar quei bei cristalli,

io sbigottito e muto

uscendo d'un cespuglio

ove m'ero acquattato

mossi per ritrovarvi in questo lato.

CORO

Oh duro colpo di fortuna irata!

FLORA

Oh infelice Aretusa,

che di sua pura fede

ha sì cruda mercede!

CARINO

Oh sfortunato Alfeo,

cui fia mai sempre il seno

senza la bell'amata

punto d'aspro veneno!

AMINTA

Ma più d'ogni altro poi,

misero afflitto padre,

sventurato Fileno!

Ma deh! Mirate l'infelice amante

che mesto verso noi muove le piante.

Scena quarta

Alfeo e gli altri in scena.

ALFEO

Piangete, vecchi infelici,

estinguete l'ardore

che nell'afflitto core

troppo, troppo cocente, ohimè, s'accese,

poscia, che tant'offese

la ninfa mia, che mosse il piè fugace

per torre a sé la vita, a me la pace!

Oh lieti giorni miei!

Oh dì felici, oh già tranquilla vita,

vostra quiete è gita:

Amor crudele e la mia ninfa insieme,

cui tanto il desir mio dolse e dispiacque,

incatenata la consuma e preme,

quegli nel foco suo, questa nell'acque.

Ah sconsolato amante! Ah potess'io

chiudervi, occhi dolenti,

per mai più non aprirvi,

occhi, sola cagion del fallir mio.

Ma, per maggior mio male,

forse nacqui immortale!

E tu, ninfa gentil, deh, mi perdona

se, come del tuo volto, i raggi amai,

delle bell'acque ancora

la divina chiarezza m'innamora.

Et or, misero, io vado

ove quest'occhi miei

versando fra sospiri e fra singulti

pietosissim'umore,

vincano in mesta e dolorosa gara

della ricca urna mia l'antico onore.

Ma potrai forse, Alfeo,

sostener di tua colpa

la dura rimembranza?

Avrai forse speranza,

mentre sei reo di morte

della più bella ninfa

che mai vedess'il sole,

avrai, dico, speranza

giacer nella tua reggia

all'ozio, agl'agi in grembo,

lunge da questa vista

che sì miser'e trista a te pur piace?

Ah non fia ver, non fia ch'io non riveggia

delle mie colp'il deplorabil parto,

ond'in maniere disusate e nuove

di tardo sì, ma vero pentimento,

pianga sempre il mio cor nuovo tormento:

ché quanto il fallir mio fu duro e grave,

tant'è car'il castigo e il duol soave.

Dunque, bell'acque, ad impetrar perdono,

colmo di pene amare,

seguirovvi a' sospir in abbandono

per ampia terra e per immenso mare.

Scena quinta

Fileno, e gli altri.

FILENO

Io non ti scuso, Alfeo, né men t'incolpo,

che l'un non poss'e l'altr', ohimè, non voglio:

che son, qual esser soglio,

verso gli eterni dèi

di fé, di riverenza,

ma ben fra noi d'ogni miseria, esempio,

perdut'ho 'l caro pegno,

di queste stanche membra

fidissimo sostegno.

E vivo e spiro?

O cara figlia mia, chi mi t'asconde?

Rispondete al mio pianto, amiche sponde.

CORO

Rispondete al mio pianto, amiche sponde!

FILENO

Misero, io già sperai

da te, cara mia figlia,

goder i dolci scherzi

de' pargoletti e teneri nipoti.

Ma tu, morendo, amaramente vuoti

l'infelice mia vita,

e con dolenti guai

la flagelli e la sferzi.

E chi potrà giammai

queste piaghe sanar così profonde?

Rispondet'al mio pianto, amiche sponde!

CORO

Rispondete al mio pianto, amiche sponde!

FLORA

Non disperar, Fileno,

ch'a noi tutta ridente

per far nostri sospiri oggi felici

veggio dal ciel venir Cinzia possente.

Scena sesta

Diana, Fileno, e gli altri.

DIANA

Frenate il pianto, amici,

rasserenate il volto:

d'Aretusa la sorte

non turbi il vostro sen poco né molto,

ché d'alma, agli alti dèi così gradita,

trionfar mai non puote

l'inesorabil morte.

Di sua virtù battendo elle le piume

felicemente è gita

ad arricchir del ciel l'eterna corte

onde risplende a voi celeste nume.

FILENO

Dunque Aretusa mia,

qual novella fenice

della sua morte immortal vita elice?

DIANA

Cotai premi riporta

dall'alta monarchia

chi, seguendo la scorta

di pudico pensiero,

calpesta di virtute il bel sentiero.

Ella nei chiari suoi puri liquori

mostra di quai candori

mentre visse fra voi

ricchi fosser mai sempre i pensieri suoi.

Et or per conservare

caste ed intatte ancor le sue bell'onde

nella terra s'asconde:

quinci passando occultamente il mare

nuova risorge alle trinacrie sponde;

e per l'ardente zelo

di sua virginitate

con l'eterna beltate

sempre risplenderà viva nel cielo.

FILENO

Vergine, fra gli dèi lucente diva,

la tua somma pietate

queste caduche membra e sconsolate

benigna oggi ravviva.

CORO

No, no, non più sospiri,

lungi, lungi da noi pene e martiri.

PASTORE DEL CORO

Trionfi oggi, pastori,

ne' nostri cori

il diletto e 'l contento.

Ciascun festeggi e goda:

altro non s'oda

che gioioso contento.

CORO

Pianto, sospiri e duolo

fuggono a volo

ove Cinzia risplende,

e si fugge ogni noia

che d'alta gioia

ogni cor liete rende.

FLORA

La figlia di Latona

non abbandona

chi corre a sua virtute,

ma, pront'alle preghiere,

dall'alte sfere

reca dolce salute.

CORO

Viva dunque, pastori,

ne' nostri cori

il diletto e 'l contento;

ciascun festeggi e goda:

altro non s'oda

che gioiosa concento.

FILENO

Del ricco gregge mio caro e diletto

la più candid'agnella

tutta sparsa di fiori

e di soavi odori,

vergine pura e bella,

divoto all'altar tuo sacro e prometto.

No, no, non più sospiri,

lungi, lungi da noi pene e martiri.

CORO

No, no, non più sospiri,

lungi, lungi da noi pene e martiri.

DIANA

Alma diletta a dio candida e pura,

incontro a' sensi rei costante e forte,

sola et inerme ancor goda secura

e lieta aspiri a più beata sorte,

ch'il ciel la custodisc'e l'assicura

contr'ira di fortuna e stral di morte,

e cangia in lunghe gioie i brevi mali:

apprendete pietà quinci, o mortali.

Madrigale a 5.

FILENO, FLORA, AMINTA, CARINO E CORO

O dèa d'amor nemica,

ch'avesti cuna in Delo

e spesso cangi con le selve 'l cielo,

a te l'alma pudica,

a te sacriamo il canto,

ch'or volgi in allegrezza il nostro pianto.

Tu, casta insieme e bella,

tu ne difendi il core

dalle forze di Venere e d'Amore.

Tu, di Febo sorella,

della casta Aretusa

fa' che non taccia mai l'attica musa.

Segue il ballo.

Fine del libretto.

Generazione pagina: 14/01/2016
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Locandina Prologo Scena unica Atto primo Scena prima Scena seconda Scena terza Atto secondo Scena prima Scena seconda Scena terza Scena quarta Scena quinta Atto terzo Scena prima Scena seconda Scena terza Scena quarta Scena quinta Scena sesta